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Ecco come Russia e Cina si preparano alle guerre del futuro. Report Isw


Nei loro progetti di revisione dell’ordine internazionale, tanto la Russi quanto la Cina assegnano un ruolo fondamentale all’utilizzo del proprio strumento militare, il cui impiego viene considerato come necessario per il raggiungimento dei propri obietti

Nei loro progetti di revisione dell’ordine internazionale, tanto la Russi quanto la Cina assegnano un ruolo fondamentale all’utilizzo del proprio strumento militare, il cui impiego viene considerato come necessario per il raggiungimento dei propri obiettivi. Proprio per questo entrambi i Paesi portano avanti progetti di modernizzazione delle proprie forze armate con l’intento di farle trovare pronte alle sfide belliche del futuro. I diversi approcci seguiti in questo senso da Mosca e da Pechino sono stati oggetto di uno studio dell’Institute for the Study of War, che ha da poco pubblicato un report al riguardo.

L’esercito russo e quello cinese provengono da due storie differenti, hanno differenti punti di forza e di debolezza, così come differenti priorità. Entrambi però vedono nel raggiungimento della dominance all’interno del processo di decision-making la chiave dei conflitti futuri, dominance che può essere raggiunta attraverso una combinazione di potenziamento del proprio apparato decisionale e di deterioramento di quello avversario.

L’approccio russo di Mosca si incentra sul concetto di “superiorità gestionale”, caratterizzato da una maggiore velocità e da una maggiore qualità nel proprio processo decisionale, al fine di costringere l’avversario a compiere scelte come “reazioni” alle azioni delle proprie forze armate, limitandone quindi la libertà d’azione. Dal più alto livello di grand strategy al più immediato e semplice movimento tattico sul campo di battaglia. In contrapposizione con la dottrina occidentale: mentre gli Stati Uniti e la Nato in generale tendono a concepire separatamente le operazioni cinetiche e quelle di informative, in Russia le due dimensioni sono profondamente intrecciate (secondo i dettami dell’hybrid warfare).

Tuttavia, l’esperienza in Ucraina ha dimostrato come le carenze delle forze armate russe nelle dimensioni dell’addestramento, del personale e della leadership non permettano al Cremlino di raggiungere la strategic dominance desiderata. Mosca non è stata in grado di sfruttare la preziosa esperienza siriana (dove le sue truppe si sono cimentate in operazioni di combattimento reale) per avviare un processo di aggiustamento della propria struttura militare, facendo sì che permanessero al suo interno problematiche preesistenti capaci di inficiare futuri trasformazioni dello strumento militare russo.

Per Pechino, la situazione è diversa. Il percorso di modernizzazione militare cinese è di più largo respiro rispetto a quello russo, e si articola intorno a tre principali direttrici: ideologia, addestramento e nuove tecnologie. Puntando su queste tre dimensioni, l’Esercito popolare di liberazione intende raggiungere una superiorità “sistemica” rispetto all’avversario americano, ancora troppo ancorato alla logica dei domain. Grazie all’indottrinamento dei soldati garantito dalla presenza dei commissari politici e ai processi di informatization e di intelligentization (nel primo caso integrazione di sistemi informatici nelle strutture e nei sistemi d’arma, dell’Intelligenza artificiale nel secondo), entro il 2049 la leadership cinese mira a ottenere la parità, o addirittura la superiorità, rispetto all’avversario americano.

Al contrario della Russia, la Cina non si impegna in un’operazione militare dal 1979, e questa carenza di esperienza diretta pesa sull’apparato bellico di Pechino, poiché non permette di mettere alla prova in una situazione reale gli sviluppi teorici conseguiti. Per sopperire a questa carenza, l’Esercito popolare di liberazione ricorre in modo sempre più estensivo a simulazioni videoludiche, che però non possono assolutamente sostituire la complessità di un vero campo di battaglia.

Cosa devono dunque fare gli Stati Uniti per rimanere la potenza militare egemone? Secondo gli esperti dell’Isw, è fondamentale puntare sulle proprie peculiarità rispetto agli avversari. Peculiarità che spaziano dall’aspetto del personale (né la Russia né la Cina dispongono di una classe di non-commisioned officer, intercapedine fondamentale nel sistema di command and control) a quello economico (il relativo controllo sulla supply chain mondiale rispetto ai due Paesi avversari). Puntare su queste leve potrebbe rivelarsi la mossa giusta per mantenere la superiorità rispetto agli avversari nelle guerre die decenni a venire.


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Crosetto in Libano, la presenza italiana è un fattore di pacificazione


Lavorare affinché il domani sia meglio dell’oggi, impegnandosi affinché il conflitto, che nessuno vuole, non si estenda ulteriormente. È questo il cuore del messaggio lanciato dal ministro della Difesa, Guido Crosetto, nel corso della sua visita al contin

Lavorare affinché il domani sia meglio dell’oggi, impegnandosi affinché il conflitto, che nessuno vuole, non si estenda ulteriormente. È questo il cuore del messaggio lanciato dal ministro della Difesa, Guido Crosetto, nel corso della sua visita al contingente italiano in Libano, parte della missione Unifil delle Nazioni Unite. Attualmente, i militari italiani dell’operazione Leonte XXXIV, strutturati sulla base della brigata meccanizzata Granatieri di Sardegna, sono presenti nella base militare di Shama, nel sud del Libano, parte dello sforzo Onu per assicurare la stabilità del volatile confine con Israele. La complessità dello scenario è stata dimostrata dal missile, deviato, che ha colpito senza nessuna conseguenza il quartier generale della missione Unifil a Naqoura, undici chilometri più a sud rispetto alla base italiana.

Nessuno vuole un’escalation

Come ricordato dallo stesso ministro, la sua visita in Libano segue quelle in Arabia Saudita e in Qatar, oltre ai viaggi del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in Egitto e in Israele (dov’è stato anche il ministro degli Esteri, Antonio Tajani), “perché l’Italia sta cercando di giocare un ruolo per evitare un’escalation, per non tornare a una guerra tra Islam e Occidente, tra mondo arabo e occidentale. Non lo vogliamo noi, non lo vogliono i Paesi arabi, non lo vuole nessuno”. Per il ministro, infatti, lo scopo e il lavoro dell’impegno italiano nella regione è quello di “buttare acqua sul fuoco”, contrastando chi invece vorrebbe infiammare il Medio Oriente “cancellando dalle cartine geografiche Israele e la civiltà occidentale”. Il ministro, però, ha sottolineato come questo tentativo sia avversato tanto dai Paesi occidentali, quanto dagli stessi Paesi arabi. “È una situazione difficile, e tutti stiamo lavorando perché si trovi una soluzione, la meno pesante e più accettabile possibile, distinguendo il destino del popolo palestinese da quello dei terroristi di Hamas”. Su un punto, ha infatti precisato Crosetto, “ci troviamo tutti d’accordo, un conto e Hamas, che è un’organizzazione terroristica che come unico scopo la distruzione di Israele, un altro è il destino del popolo palestinese, che è tutt’altra cosa”.

Il ruolo di Unifil

Il conflitto a Israele, tuttavia, se da un lato ha costretto il contingente Unifil a misure di sicurezza più stringenti, non ha ridotto l’impegno e il lavoro dei Caschi blu presenti. Del resto, come annota lo stesso Crosetto “le scaramucce tra Hamas e Israele non sono mai terminate, in questo momento si sono intensificate e i nostri militari devono proteggersi. Tuttavia, il loro ruolo e semmai ancora più importante, dal momento che “fanno vedere che tutto il mondo crede nella Pace di questa parte di globo”. La missione Unifil, infatti “non è Nato, non è bilaterale, ma Onu. Ci sono 49 nazioni che hanno i loro militari qui e il cui scopo e preservare la pace” del Libano e tra il Paese e il suo vicino meridionale. Diventa, ha proseguito il ministro “ancora più fondamentale e importante preservare questa presenza”. In questo momento, però, è anche importante ricordare come i militari presenti sono lì in veste di “portatori di pace, sicurezza e dialogo” con “regole di ingaggio diverse rispetto a quelle dei contingenti in Afghanistan” e non sono “pronti per combattere, come successo per altre zone in altri tempi”.

L’importanza della presenza italiana

In tutto questo scenario, il nostro Paese può giocare un ruolo importante, grazie soprattutto al suo impegno per missioni come Unifil e alla sua costante presenza nella regione. Come sottolineato da Crosetto “l’Italia riesce ad avere un dialogo anche con alcune parti del mondo tra le più difficili” grazie al “rispetto di cui godono le istituzioni italiane, frutto non delle persone che le interpretano pro tempore, ma delle migliaia di soldati che con il loro atteggiamento e il loro modo di supportare le popolazioni hanno fatto guadagnare stima al loro Paese, oltre che a loro stessi”.


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#NotiziePerLaScuola

È disponibile il nuovo numero della newsletter del Ministero dell’Istruzione e del Merito.

🔶Il MIM alla quarantesima assemblea ANCI a Genova. Dal 24 al 26 ottobre con uno spazio informativo e pubblicazioni aggiornate.



📣 Dal 24 al 26 ottobre, presso la Fiera di Genova, è in programma la 40ª edizione dell’Assemblea nazionale dell’ANCI, l’Associazione Nazionale Comuni Italiani.
“Tre colori sul cuore”, è il titolo dell’iniziativa di quest’anno.


LIVE. GAZA/ISRAELE. Giorno 17. Si intensificano i bombardamenti sulla Striscia. Evacuate aree israeliane al confine con il Libano


Secondo il Ministero della Sanità palestinese, i bombardamenti delle ultime 24 ore hanno ucciso più di 400 persone nella Striscia di Gaza. Israele ha comunicato di aver colpito 320 obiettivi, per eliminare possibili minacce durante l'invasione di terra L

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della redazione –

Pagine Esteri, 23 ottobre 2023. Secondo il Ministero della Sanità palestinese, i bombardamenti israeliani delle ultime 24 ore hanno ucciso più di 400 persone nella Striscia di Gaza. Durante la notte appena trascorsa gli attacchi aerei sono stati particolarmente numerosi, soprattutto sul campo profughi di Jabalia dove, secondo la protezione civile di Gaza, sono state uccise 30 persone. Jabalia è il più grande degli otto campi profughi della Striscia di Gaza. Il bilancio totale delle vittime nella Striscia è salito, secondo il Ministero della Salute, a 4.651.

Le autorità israeliane hanno comunicato di aver colpito, nelle ultime 24 ore, 320 obiettivi militari a Gaza, per eliminare le possibili minacce che i soldati potrebbero trovare durante l’invasione di terra, che si sta annunciando come imminente ormai da giorni.

La situazione degli ospedali è sempre più disperata. I medici di diverse strutture hanno fatto sapere di non avere i mezzi per affrontare l’enorme numero di feriti, tra i quali moltissimi bambini, che riportano ferite gravi e ustioni permanenti. Nel nord della Striscia l’ospedale indonesiano ha comunicato che non potranno più essere effettuati interventi chirurgici se non arriverà presto del carburante. Israele continua ad ordinare l’evacuazione delle strutture ospedaliere.

Nella notte l’esercito israeliano ha fatto irruzione nel campo profughi di Jalazone, vicino Ramallah, uccidendo due palestinesi. Le incursioni israeliane sono avvenute in diversi luoghi della Cisgiordania occupata, portando all’arresto di decine di palestinesi a Betlemme, Ramallah, Jenin, Nablus e in altre zone.

Secondo le autorità palestinesi dall’attacco di Hamas dello scorso 7 ottobre, che ha causato la morte di più di 1.400 israeliani, sono stati arrestati in Cisgiordania circa 1.200 palestinesi.

È terminata ieri l’evacuazione di 14 aree israeliane vicine al confine con il Libano, dove continua lo scambio a fuoco tra esercito ed Hezbollah.

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In Cina e Asia – Avviate indagini sulla Foxconn: possibile impatto su Taiwan e Usa


In Cina e Asia – Avviate indagini sulla Foxconn: possibile impatto su Taiwan e Usa 9930821
I titoli di oggi:

-Cina, indagini sulla Foxconn: possibile impatto su Taiwan e Usa
-Collisioni tra navi filippine e cinesi nel Mar cinese meridionale
-Summit Usa-Ue, la Cina tra i temi più discussi del vertice
-Pechino studia le sanzioni Usa contro la Russia negli scenari sull'invasione di Taiwan
-Nato, la relazione Cina-Russia è un "rischio per la sicurezza dell'Artico"
-La Cina estende le restrizioni all'esportazione di grafite
-Sicurezza alimentare, la Cina apre alla coltivazione di nuove varietà OGM di mais e soia
-Indonesia, Prabowo sceglie il figlio di Widodo come candidato alla vicepresidenza
-Corea del Sud, a un anno dalla strage di Itaewon ancora dubbi sui festeggiamenti di Halloween 2023

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N. 191/2023 LE TRE NEWS DI OGGI: Questa settimana, il governo dello Yukon ha pubblicato nuove norme che aumentano i poteri del RCMP. Prima dell’entrata in vigore della legge sulle persone scomparse, la polizia non poteva obbligare qualcuno o un’organizzazione a rilasciare informazioni personali su una persona scomparsa. Ora la legge consente esattamente questo. “Credo...


Alla moschea di Taipei, solidarietà con il popolo palestinese


Alla moschea di Taipei, solidarietà con il popolo palestinese 9929588
L'iniziativa dal basso. Il governo di Taiwan schierato con decisione con Tel Aviv. Gli organizzatori: "Hamas non rappresenta tutti i musulmani, né tutti i palestinesi". Il racconto da Taipei

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Quanto impegno e quanto costo comporta un’istanza di Mastodon?


Il Fediverso è un'alternativa aperta, gratuita e non commerciale alle piattaforme convenzionali. Ma i server devono essere pagati, i post moderati e la tecnologia deve essere mantenuta in funzione. Quanto costa effettivamente e quanto tempo dedicano gli o

Riportiamo l’articolo di Markus Reuter, pubblicato il 15 ottobre 2023 su Netzpolitik Il Fediverso è un’alternativa aperta, gratuita e non commerciale alle piattaforme convenzionali. Ma i server devono essere pagati, i post moderati e la tecnologia deve essere mantenuta in funzione. Quanto costa effettivamente e quanto tempo dedicano gli operatori alle loro istanze Mastodon? Da quando Elon Musk ha...

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Il Fediverso è un’alternativa aperta, gratuita e non commerciale alle piattaforme convenzionali. Ma i server devono essere pagati, i post moderati e la tecnologia deve essere mantenuta in funzione. Quanto costa effettivamente e quanto tempo dedicano gli operatori alle loro istanze Mastodon?

informapirata.it/2023/10/22/qu…






Three stories that all relate to governance, in their own different ways. Mbin is a new fork of Kbin, due to governance issues at Kbin. A research paper on that gives some structure to how different Mastodon servers organise their rules.


Sudan. Guerra civile sei mesi dopo, avanzano i miliziani delle RSF


Le RSF, accusate di atrocità sui civili, starebbero tentando di spostarsi a sud, verso lo stato di Gezira, e la scorsa settimana hanno preso il controllo di Ailafoun L'articolo Sudan. Guerra civile sei mesi dopo, avanzano i miliziani delle RSF proviene d

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della redazione

Pagine Esteri, 22 ottobre 2023 – Le Forze di supporto rapido (RSF), la milizia paramilitare che combatte l’esercito regolare sudanese dallo scorso 15 aprile, negli ultimi sei mesi sono avanzate e hanno consolidato la loro presenza a Khartoum, riferiscono fonti locali.

Le RSF starebbero tentando di spostarsi verso sud, verso lo stato di Gezira, un’area agricola chiave, e la scorsa settimana hanno preso il controllo di Ailafoun, una delle principali città su una delle rotte per Madani. Testimoni hanno parlato di saccheggi e violenze compiute dai miliziani. Le RSF hanno inoltre lanciato attacchi contro Nyala ed El Obeid, a ovest della capitale. L’esercito afferma che i suoi soldati, e in particolare le unità delle forze speciali, stanno combattendo l’avanzata. All’interno di Khartoum, i miliziani ha lanciato attacchi contro diverse basi dell’esercito, tra cui il quartier generale e la base del corpo corazzato.

Secondo fonti locali le RSF hanno avviato un’altra avanzata contro una base militare a sud di Khartoum, nella zona di Jebel Awlia, uccidendo 45 persone questo mese, ha detto un gruppo di avvocati che non ha incolpato nessuna delle parti.

Mesi dopo che i mediatori hanno sospeso i negoziati, non sembra esserci all’orizzonte una fine della guerra civile che ha sfollato più di 5,75 milioni di persone, ucciso migliaia di civili e devastato le principali città. Pagine Esteri

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Budget della Difesa, cosa succede in Europa? L’analisi di Braghini


Con la pubblicazione da parte del Governo della relazione annuale al Parlamento, nel Documento programmatico pluriennale 2023 – 2025 viene fornita una dettagliata e aggiornata analisi circa dottrina e postura della Difesa nazionale e informazioni e previs

Con la pubblicazione da parte del Governo della relazione annuale al Parlamento, nel Documento programmatico pluriennale 2023 – 2025 viene fornita una dettagliata e aggiornata analisi circa dottrina e postura della Difesa nazionale e informazioni e previsioni sulle “risorse ricomprese nel ministero della Difesa e di quelle iscritte in altri dicasteri impiegate per lo sviluppo di programmi di interesse del ministero Difesa” in un arco sessennale. Il Dpp fa riferimento alla legge di bilancio 2023, in attesa delle decisioni del Parlamento e delle prossime leggi finanziarie circa l’approvazione degli stanziamenti previsionali.
Viene confermato l’impegno del Governo a promuovere e sostenere il settore della Difesa, inquadrato in una visione di lungo termine, e in linea con gli impegni assunti in sede Nato partecipando insieme con gli altri Paesi europei al trend di incremento degli investimenti per la difesa. Al riguardo, considerando in unico blocco i Paesi Ue, Regno Unito, Norvegia e Turchia, si evidenziano maggiori investimenti per gli equipaggiamenti di circa 28 miliardi di euro tra il 2022 e il 2023, raggiungendo il livello di cento miliardi.

Ragioni, necessità e accelerazioni comuni. L’impegno nazionale
Le nuove e crescenti tensioni che caratterizzano l’attuale quadro securitario hanno e stanno comportando l’esigenza da parte dei Paesi di adeguare le capacità di deterrenza per fronteggiare le minacce. La tendenza all’incremento degli investimenti per la difesa si era già avviata anche in Europa, dove il calo strutturale delle spese o sottocapitalizzazione in molti anni ha creato un divario capacitivo con le conseguenti debolezze e vulnerabilità nazionali. Ma l’accelerazione degli eventi conflittuali ad alta intensità e di tensioni geopolitiche con un cambio di paradigma per la sicurezza europea ha fatto emergere l’urgenza di colmare le carenze comuni, compensandole con nuovi investimenti. Oggi l’aumento in corso e prospettico degli investimenti per la difesa è consolidato e diffuso nella maggior parte dei Paesi Nato, più ampio negli Usa, in Cina e Russia.
Anche in Italia negli anni recenti si è registrata una più sentita consapevolezza sul ruolo e l’importanza della sicurezza, con l’assegnazione da parte del Parlamento di risorse per la difesa in progressivo incremento.
Il nuovo Documento di programmatico pluriennale evidenzia una progressione degli investimenti del ministero della Difesa e del ministero delle Imprese e Made in Italy, integrati dai fondi del ministero dell’Economia e finanze, che è stata avviata nel 2021.
Oggi gli investimenti si situano a un livello di tutto rispetto intorno a otto milioni, con previsioni incrementali che saranno oggetto di dibattito nelle prossime leggi di bilancio.
Si denotano altresì, rispetto al precedente Dpp 2022 – 2024, previsioni più consistenti per il prossimo triennio. Questo aspetto programmatico è rilevante in particolare oggi con l’avvio o prossimo avvio di importanti collaborazioni europee e internazionali che caratterizzeranno la domanda e l’offerta del comparto difesa nei prossimi decenni. L’Italia potrà così essere in grado di tutelare e rafforzare i propri presidi tecnologici, e svolgere un ruolo e rango credibili come partner sostenuto dal Governo e da risorse finanziarie adeguate, certe e stabili nel lungo periodo.
Merita anche notare il riferimento circa gli aspetti tecnico-finanziari in relazione all’andamento delle disponibilità finanziarie. Negli ultimi anni l’andamento ha registrato variazioni in parte dovute a rifinanziamenti, effetti delle precedenti leggi di bilancio, adeguamenti contabili e riprogrammazioni, che mostrano la complessità dell’attuale quadro normativo aggiornato con nuove misure nel corso degli anni.
Per l’esercizio, c’è una certa progressione partendo da un livello inferiore rispetto alla media Nato, rimanendo peraltro insufficiente per sopperire alle necessità operative.

Un quadro incerto per tutti
Tuttavia, le previsioni dei Paesi europei, inclusa l’Italia, non potevano considerare il succedersi di emergenze e di fattori critici emersi, quali gli effetti dell’impennata dell’inflazione e l’urgenza di accelerare le acquisizioni di equipaggiamenti per adeguare le capacità di deterrenza e mantenere sufficienti riserve. A complicare l’equazione e l’incertezza, che peraltro sono comuni nella Ue, si aggiungono la necessità di trovare un equilibro tra sostenibilità delle risorse pubbliche, vincoli di bilancio europei, le emergenze nell’energia, transizione ecologica, sicurezza degli approvvigionamenti, immigrazione, competizione economica e tecnologica tra Usa, Cina e Ue.
È quindi necessario che la politica nazionale di sicurezza e difesa sia confermata tra le priorità del Governo e del Parlamento, possa usufruire di risorse adeguate in termini reali proseguendo la tendenza incrementale già avviata, consenta di partecipare alla crescita delle spese difesa verso l’obiettivo Nato del 2% del Pil.

Le spese in altri Paesi europei
Oggi l’impegno confermato dal Governo per gli investimenti nella difesa ha consentito di raggiungere una dimensione di tutto rispetto, mentre in alcuni Paesi della Nato ambizioni, minacce, capacità finanziarie e fiscali sono su livelli più elevati, anche per la vicinanza con il confine orientale della Nato e la percezione della minaccia russa. Alcuni esempi in Europa possono dare l’idea dell’impegno all’aumento delle capacità di difesa, dove le esigenze capacitive e tecnologiche sono comparabili e condivise tra i Paesi Nato.

Le spese di Londra, fuori dai vincoli Ue
Nel Regno Unito, potenza nucleare svincolata dai legami europei, la spesa per la difesa si caratterizza per un andamento non costante con variazioni annue, cambiamenti di programmi, fondi supplementari, discesa percentuale del Pil, che rimane in ogni caso superiore alla media. Per il 2022-2023 il MoD Annual report and accounts di marzo 2023 riporta nel corrente anno un budget difesa di 52,8 miliardi di sterline in crescita annua nominale di sei miliardi. Gli investimenti ammontano a 18,3 miliardi, ripartiti 8,5 per procurement, 7,7 supporto e 2,2 in ricerca e sviluppo. È il risultato della Spending review 2020 che ha stanziato 16,5 miliardi addizionali nel periodo 2020-2024. Più recentemente il Primo ministro ha annunciato un aggiornamento dell’Integrated review del 2021 prevedendo un “ramp up a fronte delle sfide in un mondo crescentemente volatile e complicato”. Con il 2023 l’Integrated review refresh e lo Spring budget hanno confermato cinque miliardi addizionali per il prossimo biennio, e ulteriori due all’anno nel quinquennio, per un totale di undici miliardi.

Le ambizioni di Parigi
La Francia, potenza nucleare con velleità di leadership europea, è dotata del più ampio e strutturato dispositivo finanziario e industriale per la difesa nel Vecchio continente. Le disponibilità delle Leggi pluriennali militari (Lpm) sono fortemente incrementate, passando da 295 a 413 miliardi di euro nel quinquennio 2024-2030, giustificate dalla “diversificazione dei rischi e delle minacce in un’era di rinnovata competizione tra potenze”. Significativo è l’impegno per gli investimenti nucleari e convenzionali (da 172 a 268 miliardi), che nel 2023 si situa tra 23 e 27 miliardi. Molto elevata la spesa in ricerca e sviluppo con sei miliardi di cui uno per l’innovazione. Il Governo, nel cui ambito il Presidente ha poteri decisionali di ultima istanza, ha sempre rispettato la traiettoria di aumento della spesa per la difesa. Oggi il rischio di una procedura di infrazione per deficit eccessivo non intacca la decisa volontà del Governo a sostenere la difesa. Vale sempre il richiamo a De Gaulle “la défense est la première raison d’être de l’Etat”. La priorità data alla Difesa, quale strumento di una dinamica politica estera perseguita da tutti i Governi, è figlia di una cultura e di un pensiero strategico e sofisticato che è unico in Europa.

Il cambio di rotta di Berlino
In Germania, dopo anni di disinvestimenti nella difesa dove la stessa è sottorappresentata rispetto alla forza economica del Paese, con conseguenti criticità e inefficienze nel dispositivo di difesa nazionale, a sorpresa Scholz nel febbraio 2022, tre giorni dopo l’invasione dell’Ucraina, ha annunciato un cambio radicale di passo per la postura e il modello economico del Paese, la Zeitenwelde. L’approccio di “sicurezza integrata” include una riforma complessiva dell’economia tra Ucraina, diversificazione energetica, stop al gas russo, dove la difesa ha il profilo maggiore. È previsto un Sondervermogen, un fondo speciale debito fino a cento miliardi per nuovi equipaggiamenti della Bundeswehr. Si passa dall’inerzia alla trasformazione, che non appare ancora come il frutto di una cultura strategica bensì di una riflessione su come utilizzare i fondi disponibili. Il Fondo contribuisce al bilancio difesa con 8,5 miliardi (2023), 19,2 con una forte crescita di sistemi non europei (2024) e terminerà nel 2026, conseguendo il target del 2% del Pil; nel 2027, anno elettorale, si porrà la questione del suo mantenimento. Nel complesso, il budget difesa sale da 28 miliardi nel 2023 a 71 nel 2024; il procurement 2022-2024 rispettivamente 9,8 – 16 – 22 miliardi, il supporto 4,6 – 4,9 – 6,4 miliardi. E il Paese è in recessione.


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#laFLEalMassimo – Episodio 104: Hamas Israele e l’ipocrisia dei sostenitori occidentali


Per oltre un anno e mezzo aprendo questa rubrica ho ritenuto doveroso ricordare gli orrori del conflitto che ancora perdura a causa della follia espansionista di Putin. Purtroppo, oggi mi trovo a parlare di altri orrori, di altre vittime innocenti di una

Per oltre un anno e mezzo aprendo questa rubrica ho ritenuto doveroso ricordare gli orrori del conflitto che ancora perdura a causa della follia espansionista di Putin. Purtroppo, oggi mi trovo a parlare di altri orrori, di altre vittime innocenti di una diversa follia genocida, quella di Hamas.

A tal proposito, l’ipocrisia di una parte dell’occidente e l’ottuso fanatismo ideologico di quelli che con la loro attività di disinformazione e mistificazione comunicativa, si rendono complici di veri e propri crimini contro l’umanità, ha superato le vette raggiunte per la guerra in Ucraina.

Non è questa la sede per parlare del complesso rapporto tra israeliani e palestinesi, di come si è evoluto nella storia e di come si sono realizzate la condizione per il terribile attacco terrorista al quale abbiamo assistito due settimane fa.

Tuttavia, ogni individuo dotato di una coscienza ha il dovere morale di condannare i crimini efferati e l’infame aggressione ai danni di innocenti compiuta da Hamas. Anche la sola menzione di possibili ragioni alla base di queste azioni, così come il confronto con altre lutti e sofferenze patite dal popolo palestinese, costituisce un inaccettabile principio di giustificazione. Si tratta del punto di partenza ideologico da cui comincia la strada che porta ai campi di concentramento e allo sterminio di massa.

Non ci può essere dialogo con chi si rende colpevole di massacri e crimini efferati, la barbarie va condannata senza appello dalle popolazioni civili e va contrastata sul campo con tutti i mezzi necessari a tutelare l’incolumità della popolazione civile.

Ci saranno lunge e complesse trattative diplomatiche quando finalmente i combattimenti saranno cessati e possiamo come esseri umani solo augurarci che questo avvenga prima possibile e con il minor numero di vittime innocenti. Ma prima di discutere con chi si presenterà come interlocutore credibile, è necessario combattere sul campo tanto l’invasore russo quanto il terrorista di Hamas. Chi alimenta ambiguità su questo profilo si rende complice dei massacri che siamo putroppo costretti ad osservare tutti i giorni.

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Ho ricevuto da Francesca Bettini dell'associazione Gazzella Onlus un nuovo file audio inviato stamattina dalla cooperante italiana Giuditta Brattini. All'inizi


Francia: due sindacalisti della CGT arrestati per un comunicato sulla Palestina


In Francia due sindacalisti dellla CGT sono stati arrestati dopo la pubblicazione di un comunicato di solidarietà con il popolo palestinese L'articolo Francia: due sindacalisti della CGT arrestati per un comunicato sulla Palestina proviene da Pagine Este

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di Redazione

Pagine Esteri, 21 ottobre 2023 – Sta arrivando a livelli parossistici il livello di repressione in Europa contro le manifestazioni di solidarietà nei confronti del popolo palestinese.
All’alba di venerdì gli agenti della polizia francese si sono presentati a casa di due sindacalisti della Confédération générale du travail (CGT), la principale organizzazione sindacale francese, e li hanno arrestati perché accusati di “apologia del terrorismo” e “incitamento all’odio”.
Da Valenciennes il segretario generale della CGT del Nord, Jean-Paul Delescaut, e un dipendente del sindacato che lavora come amministratore della federazione territoriale, sono stati condotti nel commissariato centrale di Lille.

L’ordine di arresto è scattato dopo la diffusione, da parte della sezione locale del sindacato, di un comunicato nel quale la CGT regionale esprimeva «tutto il proprio sostegno al popolo palestinese in lotta contro lo stato coloniale d’Israele», considerato che «gli orrori dell’occupazione illegale si sono accumulati» e che «i nostri valori internazionalisti di fratellanza tra i popoli e di lotta anticoloniale ci portano a non rimanere neutrali».

Tanto è bastato al prefetto – che nei giorni scorsi ha già vietato tre manifestazioni di solidarietà con il popolo palestinese, compresa quella convocata dal sindacato – per ordinare l’arresto dei due militanti sindacali.
La CGT si è subito mobilitata chiedendo l’immediato rilascio dei due militanti e ha indetto una manifestazione davanti alla stazione di polizia dove erano reclusi. L’organizzazione sindacale ha denunciato che l’operazione di polizia ha utilizzato mezzi del tutto sproporzionati – una dozzina di agenti armati e in alcuni casi incappucciati, accompagnati da diverse camionette – per condurre degli arresti del tutto ingiustificati che violano la libertà di espressione.

Dura anche la reazione del leader di France Insoumise – la principale organizzazione di sinistra francese – Jean-Luc Mélenchon.

I due militanti sindacali sono stati rilasciati dopo alcune ore di detenzione ma su di loro pendono ora delle denunce penali. – Pagine Esteri

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LIVE. GAZA/ISRAELE. Giorno 15. Liberati due ostaggi, aperto il valico di Rafah per gli aiuti umanitari


I primi venti camion carichi di aiuti umanitari dall'Egitto hanno fatto ingresso, pochi minuti dopo le 9 italiane. L'articolo LIVE. GAZA/ISRAELE. Giorno 15. Liberati due ostaggi, aperto il valico di Rafah per gli aiuti umanitari proviene da Pagine Esteri

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della redazione

Pagine Esteri, 21 ottobre 2023I primi venti camion carichi di aiuti umanitari dall’Egitto hanno fatto ingresso, pochi minuti dopo le 9 italiane, nella Striscia di Gaza attraverso il valico di Rafah. Il transito sarebbe stato richiuso poco dopo il passaggio degli autocarri. Lo riferiscono i media egiziani. A quanto si apprende, i camion sono entrati per un chilometro fino ad una “area sicura” dove il loro carico è stato trasferito su autocarri palestinesi e da lì, dopo i controlli effettuati dal personale delle Nazioni Unite, portato ai centri di distribuzione della Mezzaluna Rossa palestinese per soddisfare le richieste più urgenti.

Al momento non è noto se al valico siano in corso le procedure per consentire l’uscita da Gaza di alcune centinaia di cittadini stranieri, in prevalenza americani.

Israele ha continuato nella notte a bombardare tutta Gaza. I media palestinesi hanno riferito che aerei israeliani hanno colpito sei case nel nord di Gaza uccidendo almeno 19 persone e ferendone dozzine. Gli attacchi aerei di ritorsione di Israele – per l’attacco di Hamas del 7 ottobre (1400 israeliani morti) – hanno ucciso sino ad oggi almeno 4.137 palestinesi, metà dei quali minori secondo fonti locali. Stamattina sono stati lanciati razzi da Gaza verso la città portuale israeliana di Ashdod e altre località del sud del paese.

Il primo ministro Netanyahu ha “promesso” di “combattere fino alla vittoria” in seguito al rilascio ieri dei primi due ostaggi da parte di Hamas (che avrebbe altri 201 ostaggi, in maggioranza israeliani). “Due dei nostri rapiti sono a casa. Non rinunceremo allo sforzo di restituire tutte le persone rapite e scomparse. Allo stesso tempo, continueremo a lottare fino alla vittoria”, ha detto Netanyahu in una dichiarazione rilasciata ieri sera tardi. Israele ha ammassato carri armati e truppe a ridosso di Gaza per un’invasione di terra pianificata con l’obiettivo di annientare Hamas, dopo diverse guerre inconcludenti risalenti alla sua presa del potere a Gaza nel 2007. Pagine Esteri

[1/9] Judith Tai Raanan e sua figlia Natalie Shoshana Raanan, cittadine statunitensi prese in ostaggio dai militanti palestinesi di Hamas, camminano tenendo per mano il generale di brigata. (In pensione) Gal Hirsch, coordinatore israeliano per i prigionieri e i dispersi, dopo che furono rilasciati dai militanti, in… Acquisire i diritti di licenza Per saperne di più

Ha aggiunto che la fase successiva sarà più lunga, ma mira a raggiungere “una situazione di sicurezza completamente diversa” senza alcuna minaccia per Israele da parte di Gaza. “Non è un giorno, non è una settimana e sfortunatamente non è un mese”, ha detto.

BOMBARDAMENTO PESANTE


Il Patriarcato ortodosso di Gerusalemme, la principale denominazione cristiana palestinese, ha affermato che le forze israeliane hanno colpito la chiesa di San Porfirio a Gaza City , dove avevano cercato rifugio centinaia di cristiani e musulmani.

L’esercito israeliano ha detto che parte della chiesa è stata danneggiata in un attacco contro un vicino centro di comando militante.

Israele ha già detto a tutti i civili di evacuare la metà settentrionale della Striscia di Gaza, che comprende Gaza City. Molte persone devono ancora andarsene dicendo che temono di perdere tutto e di non avere un posto sicuro dove andare, visto che anche le aree meridionali sono sotto attacco.

Alla domanda se Israele avesse finora seguito le leggi di guerra nella sua risposta, il segretario di Stato americano Antony Blinken ha ribadito venerdì che Israele ha il diritto di difendersi e di assicurarsi che Hamas, sostenuto dall’Iran, non sia in grado di lanciare nuovamente attacchi.

“È importante che le operazioni siano condotte in conformità con il diritto internazionale, il diritto umanitario e il diritto di guerra”, ha affermato.

L’Ufficio per gli affari umanitari delle Nazioni Unite ha affermato che più di 140.000 case – quasi un terzo di tutte le case di Gaza – sono state danneggiate, di cui quasi 13.000 completamente distrutte.

L’attenzione internazionale si è concentrata sull’arrivo degli aiuti a Gaza attraverso l’unico punto di accesso non controllato da Israele, il valico di Rafah verso l’Egitto.

Biden, che ha visitato Israele mercoledì, ha affermato di ritenere che i camion che trasportano aiuti arriveranno nelle prossime 24-48 ore.

Venerdì il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha visitato il checkpoint dalla parte egiziana e ha chiesto che un numero significativo di camion entri a Gaza ogni giorno e che i controlli – su cui Israele insiste per impedire che gli aiuti raggiungano Hamas – siano rapidi e pragmatici.

Finora i leader occidentali hanno per lo più offerto sostegno alla campagna israeliana contro Hamas, sebbene vi sia un crescente disagio per la difficile situazione dei civili a Gaza.

Molti stati musulmani, tuttavia, hanno chiesto un cessate il fuoco immediato e venerdì nelle città di tutto il mondo islamico si sono svolte proteste per chiedere la fine dei bombardamenti.

Nella Cisgiordania occupata, dove la violenza è aumentata da quando Israele ha iniziato a bombardare Gaza, le truppe israeliane hanno ucciso un adolescente palestinese durante gli scontri vicino alla città di Gerico.

Dallo scoppio della guerra tra Israele e Hamas, anche le zone di confine tra il sud del Libano e il nord di Israele sono state teatro di scontri costanti, ma finora limitati, tra l’esercito israeliano e i combattenti del gruppo islamico sciita libanese Hezbollah.

L’esercito israeliano ha detto sabato che un soldato è stato ucciso da un attacco missilistico al confine libanese, in una dichiarazione che non ha fornito dettagli sull’ora esatta o sul luogo.

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La Fiera del libro di Francoforte cancella la premiazione della scrittrice palestinese: “più spazio a voci israeliane”


Adania Shibli avrebbe dovuto ricevere il premio LiBeraturpreis il prossimo venerdì. Gli organizzatori: "Stiamo cercando un format adatto per la cerimonia" L'articolo La Fiera del libro di Francoforte cancella la premiazione della scrittrice palestinese:

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di Eliana Riva

Era stato assegnato alla scrittrice palestinese Adania Shibli, per il suo libro “Un dettaglio minore“, il prestigioso premio letterario LiBeraturpreis, riservato ad autori e autrici del Medio Oriente, dell’Africa e dell’Asia. L’agenzia letteraria Litprom, aveva deciso di consegnarle il premio il 20 ottobre, durante la prestigiosissima Fiera del libro di Francoforte, che ogni anno organizza insieme ad altri attori. La giuria ha scelto proprio lei perché, “crea un’opera d’arte composta formalmente e linguisticamente in modo rigoroso che racconta il potere dei confini e ciò che i conflitti violenti causano alle e con le persone. Con grande attenzione, dirige lo sguardo verso i piccoli dettagli, le banalità che ci permettono di intravedere le vecchie ferite e cicatrici che si trovano dietro la superficie“.

Ieri l’agenzia ha fatto sapere che il premio non le verrà più consegnato. La motivazione? “La guerra in Israele”. Il direttore della Fiera di Francoforte, Juergen Boos, ha precisato di voler “rendere le voci ebraiche e israeliane particolarmente visibili alla fiera del libro”. Venerdì, oltre alle 1.300 vittime israeliane fino a quel momento accertate, erano stati già 1.900 i palestinesi uccisi nella Striscia di Gaza, tra i quali 614 bambini. Un bilancio purtroppo destinato nei giorni successivi a salire fino a raggiungere, oggi, domenica 15, tra le 1.400-1.500 vittime israeliane e 2.228 morti palestinesi a Gaza.

Dopo le proteste degli editori arabi e delle associazioni che li rappresentano, che hanno comunicato che non parteciperanno alla Fiera del libro di Francoforte, l’agenzia Litprom ha fatto un passo indietro, specificando che la cerimonia di assegnazione si farà ma in seguito, quando riusciranno “a trovare un format e un’impostazione adatti per l’evento”. Questo può vuol dire, come altre volte è accaduto, che la presentazione del libro non sarà consentita con la presenza della sola autrice ma che proveranno a imporle, pena la cancellazione definitiva della cerimonia, una presenza israeliana, cosa che trasformerebbe l’evento letterario in una sorta di dibattito politico, facendone perdere il significato. Dalle dichiarazioni del direttore Juergen Boos non pare che questa singolare “par condicio culturale” valga anche per gli eventi che, in misura consistente, ospiteranno autori israeliani.

La scrittrice palestinese Adania Shibli aveva già ricevuto due nomination per il National Book Award, nel 2020, e per l’International Booker Prize nel 2021. Il suo romanzo, Un dettaglio minore, tradotto dall’arabo al tedesco nel 2020 ed edito in Italia da La nave di Teseo, parte dal racconto della storia vera di una giovane beduina palestinese violentata e uccisa dai soldati israeliani nel 1949.

Di seguito l’articolo scritto per Pagine Esteri dopo la pubblicazione della traduzione italiana.


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È dei particolari che raramente si parla quando si affronta la condizione dei palestinesi in Israele, nei Territori Occupati e a Gaza.

Eppure, i dettagli sono essenziali per capire cosa significhi vivere sotto occupazione, farsi un’idea chiara del livello di fallimento dei negoziati di pace, per leggere intero il quadro ideato e pianificato dall’occupante.

Solo i particolari possono mostrare a noi, lontani, quello che è più difficile da capire: come avviene che la straordinarietà si converta in quotidianità, come accade che il modo di vivere e persino quello di pensare siano trasformati, piegati giorno dopo giorno alla consuetudine della sopraffazione, delle ingiustizie e della violenza.

Adania Shibli con “Un dettaglio minore”, finalista al National Book Awards 2020, ci mostra questi particolari, portandoci a spasso tra il passato e il presente, tra i luoghi che esistevano e non ci sono più, cancellati persino i nomi e chiuse da cubi di cemento le strade di ingresso. Tutto comincia da una storia del 1949 nel Negev, quando alcuni soldati israeliani si trasferiscono tra le dune del deserto ossessionati dalla missione di scovare e uccidere gli arabi rimasti nella zona sud-occidentale. Giornate e chilometri passati a girare in tondo e a perlustrare il nulla, fino a quando qualcosa trovano. Qualcuno, anzi. I beduini del deserto. Tutti uccisi tranne una ragazza. La storia terribile di questa ragazza e la sua tragica fine si legheranno all’esistenza di una giovane donna di Ramallah che tenterà molti anni dopo di scoprire la verità su ciò che accadde 25 anni prima che lei nascesse. In una Palestina cambiata, ingabbiata dai checkpoint, divisa in zone e in abitanti di serie A, B, C, con diversi diritti, diverse possibilità e diversi documenti, la donna di Ramallah inizia un viaggio pericoloso, vincendo l’abitudinarietà e le sue paure, con una macchina a noleggio, una carta d’identità prestata da una collega e due cartine geografiche: Israele oggi, la Palestina ieri.

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L’attenzione ossessiva ai dettagli è ciò che la spinge a muoversi, l’incapacità di definire i contorni, i limiti tra una cosa e l’altra, forse per sfuggire alla realtà globale e al dramma collettivo che la circonda, fatti, appunto, di limiti e limitazioni da rispettare rigorosamente per prevenire conseguenze spiacevoli. Ma lei non riesce bene a muoversi tra quei limiti, non controlla le sue emozioni, le sue ansie e preferisce chiudersi in una solitudine consuetudinaria, che la rassicura e non le crea difficoltà. Un giorno, ad esempio, riesce miracolosamente a raggiungere l’ufficio nonostante la zona fosse stata posta sotto coprifuoco dall’esercito israeliano: malgrado l’ansia e la paura la avvolgano, ha imparato che è fondamentale dimostrarsi calma e decisa e che è necessario, a volte, scavalcare muri e barriere. In ufficio un collega entra nella sua stanza e spalanca la finestra. È per evitare che i vetri esplodano: l’esercito ha avvertito che colpiranno e distruggeranno un edificio lì vicino, perché vi si sono barricati tre ragazzi. L’edificio esplode, il boato è spaventoso, i ragazzi muoiono, le pareti dell’ufficio tremano e una nuvola di polvere invade la sua stanza. L’unico dettaglio su cui riesce a soffermarsi è quella polvere e con calma e pazienza ripulisce tutto prima di rimettersi semplicemente a lavorare.

Il viaggio verso l’accampamento dei coloni nel Negev la porta su una strada conosciuta, che non percorre però da anni. Il tempo sufficiente per non riuscire più a riconoscere quei luoghi, cambiati, trasformati con la forza degli espropri e delle colonie, paesaggi stravolti, storie cancellate. La cartina palestinese riporta i nomi dei villaggi che esistevano prima del 1948, anno della Catastrofe palestinese, della nascita dello Stato ebraico. Tanti nomi. Conosce persone originarie di alcuni di quei villaggi tra Yafa e Askalan, di altri villaggi invece non sa nulla e mai nulla potrà sapere. Sulla cartina israeliana a inghiottirli tutti c’è una vastissima zona verde prima e un mare giallo e vuoto dopo, nient’altro. Di palestinese non è rimasto nulla. Né i nomi sui cartelli stradali né i cartelloni pubblicitari. Neanche i terreni sono più palestinesi. Gli insediamenti sono israeliani.

Al Museo di Storia dell’Esercito israeliano è possibile vedere le divise e le armi usate nel 1948 e seguire la storia cinematografica israeliana degli anni ’30-’40 che incoraggiava l’immigrazione ebraica. In una pellicola un gruppo di coloni costruisce strutture su una distesa prima desertica, ne nasce un insediamento e per festeggiarlo le persone si prendono per mano e ballano in cerchio. La donna di Ramallah riavvolge il nastro all’indietro e poi lo manda avanti: costruisce l’insediamento e poi lo smantella, lo ricostruisce e lo ri-smantella ancora, ancora e ancora.

Ormai vicino Gaza, sente da lontano il suono dei bombardamenti ma è un suono diverso da quello a cui è abituata, senza la polvere, senza il fragore: solo ciò che non sente e vede le fa comprendere quanto sia lontana da quello che le è familiare, da casa. Guarda da lontano Rafah, Gaza e tenta di riempirsene gli occhi, per spiegarlo a quei colleghi che da anni aspettano l’autorizzazione per poter rientrare.

I limiti da non superare, i confini stabiliti, il militare, il civile, l’accampamento, il campo fatto di lamiere e un pacchetto di gomme da masticare porteranno la donna di Ramallah a scoprire sul destino della ragazza beduina più di quanto avesse voluto.

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Allarme nel Caucaso: l’Azerbaigian sta per invadere l’Armenia?


Si moltiplicano gli allarmi su una imminente invasione dell'Armenia da parte dell'Azerbaigian. Ma nessun paese si muove per difendere Erevan e impedire la saldatura tra Baku e Ankara L'articolo Allarme nel Caucaso: l’Azerbaigian sta per invadere l’Armeni

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di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 20 ottobre 2023La riconquista da parte dell’Azerbaigian del Nagorno-Karabakh, enclave armena che dopo 30 anni ha cessato di essere una repubblica di fatto indipendente da Baku lo scorso 20 settembre, non sembra aver riportato la calma nella regione, anzi.

Dagli USA voci di una imminente invasione
Secondo il quotidiano “Politico”, a inizio ottobre il segretario di Stato americano Antony Blinken avrebbe avvisato un piccolo gruppo di parlamentari sulla possibilità che l’Azerbaigian proceda presto ad un’invasione dell’Armenia. L’amministrazione Biden ha smentito, ma poi il portavoce del Dipartimento di Stato, Matthew Miller, ha avvisato Baku sulle «gravi conseguenze» derivanti la violazione dell’integrità territoriale armena.
Di nuovo, rispetto all’allarme lanciato da Blinken, c’è ora che il regime di Ilham Aliyev potrebbe approfittare della crisi mediorientale per portare a termine, impunito, un obiettivo strategico di Baku: l’occupazione del sud dell’Armenia.
In numerose occasioni lo stesso dittatore azero ha definito la provincia meridionale armena di Syunik come “Zangezur occidentale”, reclamandone la sovranità. Lo stesso ha fatto a proposito della capitale armena Erevan, definita in realtà «una città storicamente azera».

Aliyev issa la bandiera azera sull’Artsakh
Dopo che le sue truppe hanno sbaragliato le difese della Repubblica di Artsakh in appena 24 ore, decretando la fine della plurisecolare presenza armena nella regione e la precipitosa fuga di più di 100 mila abitanti terrorizzati dalla possibile pulizie etnica, il 15 ottobre il leader azero si è recato a Stepanakert, l’ex capitale del Nagorno-Karabakh ridotta ormai a città fantasma. Nella ribattezzata Khankendi, Aliyev ha issato la bandiera azera e calpestato quella armena, radioso per la vittoria che, ha spiegato, ha esaudito un desiderio coltivato per 20 anni, cioè da quando sostituì il padre Heydar alla guida del regime.

Una “grande Turchia” dal Mediterraneo alla Cina
Ora Baku sembrerebbe voler approfittare del contesto internazionale e dell’estrema debolezza dell’Armenia per invaderla, occupandone i territori meridionali; otterrebbe così la continuità territoriale con il Nakhchivan, provincia azera che sorge ad ovest del territorio armeno, per raggiungere il quale da decenni i convogli in partenza da Baku devono attraversare il nord dell’Iran, paese con il quale l’Azerbaigian ha rapporti non proprio idilliaci.
L’Iraninfatti, che pure si è tenuta fuori dal conflitto azero-armeno, teme assai la possibile continuità territoriale che proietterebbe l’influenza economica, politica e militare turca fino all’Asia centrale costellata di ex repubbliche sovietiche turcofone e fino al cosiddetto “Turkestan orientale”, cioè la regione cinese dello Xinjiang abitata dagli Uiguri musulmani, bypassando completamente Russia e Iran.
Inoltre Teheran rimprovera ad Aliyev la sua alleanza con Israele e la concessione a Tel Aviv di alcune basi, in territorio azero, dalle quali gli israeliani spiano l’Iran. Da tempo Israele fornisce quasi il 70% delle armi acquistate dall’Azerbaigian, che in cambio fornisce a Tel Aviv il 40% degli idrocarburi importati. Nel frattempo Baku caldeggia un avvicinamento ulteriore tra la Turchia – il principale sponsor dell’espansionismo azerbaigiano – e Israele, che però proprio in questi giorni il massacro dei palestinesi di Gaza da parte di Tsahal mette a dura prova.
Per tentare di dissuadere Aliyev dall’aggredire Erevan, Teheran negli ultimi mesi ha tentato di intavolare con Baku una trattativa per la normalizzazione quantomeno delle relazioni commerciali, promettendo una via più rapida per le merci e gli idrocarburi azeri nel loro transito verso ovest attraverso il territorio iraniano. Aliyev non sembra tirarsi indietro.

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Ilham Aliyev e Recep Tayyip Erdogan

Continue minacce all’Armenia
Però al tempo stesso il regime azero continua a mandare messaggi aggressivi all’Armenia, accusata di ostacolare la continuità territoriale con il Nakhchivan e di continuare ad occupare 8 villaggi azeri, che si trovano in 5 piccole exclave azerbaigiane in territorio armeno.
In realtà l’Azerbaigian occupa 215 chilometri quadrati di territori strappati alla Repubblica di Armenia, per la maggior parte nell’aggressione militare condotta contro Erevan nel settembre 2022, quando si impossessò di alture strategiche che consentirebbero alle truppe di Baku di bersagliare obiettivi armeni anche a grande distanza.
Mentre a Baku, sostengono alcuni analisti che monitorano i cieli, continuano ad arrivare cargo israeliani carichi di armi di ultima generazione, le truppe armene dispongono di difese obsolete. Difficilmente la promessa di Macron di inviare armi a Erevan – ammesso che si concretizzi – cambierà di molto i rapporti di forza.

Erevan e Mosca sempre più distanti
Mosca, da parte sua, ha da tempo mollato l’Armenia, avamposto cristiano nel Caucaso islamico ormai abbandonata al suo destino in virtù di vari fattori. Da una parte la volontà di punire il governo di Nikol Pashinyan, filoccidentale e ulteriormente avvicinatosi a Washington e Bruxelles dopo che nel 2020 la Russia si era ben guardata dal bloccare l’aggressione militare azera che condusse alla perdita, da parte dell’Artsakh, della maggior parte dei territori conquistati negli anni ’90. Ora ci si è messa anche l’adesione alla Corte Penale Internazionale – che Pashinyan afferma di voler utilizzare per denunciare i crimini di guerra azeri – ad allontanare i due paesi. All’ultima riunione della CSI (la Confederazione degli Stati Indipendenti guidata da Mosca) Pashinyan non si è fatto vedere. Per tutta risposta la Russia blocca da settimane le merci armene dirette all’interno della Federazione e accampa scuse per non consegnare a Erevan armi che gli armeni hanno già pagato, per quanto a prezzo di favore, in quanto entrambi i paesi aderiscono al Trattato per la Sicurezza Collettiva dal quale però Pashinyan si è ormai di fatto ritirato visto l’immobilismo dell’alleanza militare nei confronti dell’aggressività azera.

L’alleanza tra Russia e Azerbaigian
Dissidi politici a parte, inoltre, Mosca non vuole inimicarsi la Turchia, con la quale negli ultimi anni ha intavolato una altalenante ma utile relazione che accentua la già consistente distanza tra Erdogan e l’Alleanza Atlantica. Per non parlare poi degli interessi economici e commerciali della Russia in Azerbaigian in un momento delicato come quello venutosi a creare dopo l’invasione dell’Ucraina. Pochi giorni prima che le truppe di Mosca violassero i confini di Kiev, Russia e Azerbaigian hanno firmato un importante trattato politico-militareallargato poi al fronte energetico: l’Azerbaigian acquista già ingenti quantità di gas russo – potendo così destinare all’esportazione quello estratto in patria – e presto farà lo stesso con il petrolio, consentendo a Mosca di aggirare l’embargo sugli idrocarburi decretato da UE e USA.

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Profughi armeni in fuga dal Nagorno-Karabakh

L’Armenia rischia il tracollo
Se davvero Aliyev decidesse di infliggere a Erevan un ulteriore colpo invadendo il paese e occupandone le regioni meridionali, l’Armenia potrebbe opporre davvero una flebile resistenza, non potendo contare né su ingenti risorse economiche utili a riempire gli arsenali né su alleati internazionali di peso disponibili a mettersi di traverso.
Nelle ultime settimane sia l’amministrazione Biden sia il governo francese sia i dirigenti delle istituzioni europee hanno aumentato la pressione su Baku affinché desista dai bellicosi propositi. Washington, ad esempio, ha sospeso il rinnovo della deroga che le consente di eludere il Freedom Support Act, provvedimento che impedirebbe di fornire aiuti militari all’Azerbaigian aggirato sistematicamente dal 2002.
Ma la finestra apertasi dopo la sconfitta dell’Artsakh e l’esplosione delle crisi in Ucraina e Palestina, potrebbe rappresentare un’occasione davvero troppo ghiotta per convincere Erdogan e Aliyev a rinunciare ad una vittoria che cambierebbe in maniera netta gli equilibri politici, economici e militari di tutto il Caucaso.
Sarebbe una catastrofe per l’Armenia che potrebbe addirittura collassare come paese. Ma anche per Putin, che pure negli ultimi anni non ha voluto e potuto intervenire per bloccare le pretese dell’alleato azero, si tratterebbe di un colpo significativo alla sua influenza nel Caucaso, dove l’egemonia di Turchia e Azerbaigian diventerebbe difficile da contrastare.

Per ora i vari attori internazionali fanno qualche timido passo: Parigi ha annunciato che aprirà presto un ufficio dell’addetto militare a Erevan e un consolato a Syunik, unendosi così a Iran e Russia. Ma nessun paese, da oriente a occidente, ha finora imposto sanzioni a Baku, anche se il parlamento europeo ha approvato nei giorni scorsi una risoluzione in tal senso.
Intanto le truppe azere, il 23 e 24 ottobre, hanno in programma esercitazioni congiunte con alcuni reparti dell’esercito turco in Nakhchivan e nel Nagorno-Karabakh. – Pagine Esteri

9894195* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.

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REPORTAGE. A Khan Younis, i civili palestinesi lottano per superare una crisi “insopportabile”


Le condizioni nella città meridionale stanno peggiorando, mentre lo spazio per i gazawi in fuga dal nord diminuisce e gli attacchi aerei persistono. Ma la gente del posto sta aiutando come può. L'articolo REPORTAGE. A Khan Younis, i civili palestinesi lo

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Di Ruwaida Kamal Amer* – +972

(foto Xinhua)

(traduzione di Federica Riccardi)

Gli effetti devastanti della guerra di Gaza su Khan Younis aumentano di giorno in giorno. Le persone care lasciano questa vita e migliaia di persone fuggono verso sud, aggravando la già terribile crisi umanitaria. I civili chiedono a gran voce di essere salvati da questa catastrofe – ma qualcuno ci sente?

Centinaia di migliaia di gazawi sono fuggiti verso sud da venerdì, quando l’esercito israeliano ha ordinato ai cittadini del nord di Gaza di evacuare. Centinaia di persone si sono rifugiate nelle scuole dell’UNRWA, altre nell’ospedale medico Nasser e altre ancora nelle case di amici e parenti. In pochi giorni, la popolazione di Khan Younis – la città più grande nella parte meridionale della Striscia – è aumentata drasticamente.

Khalid Al-Bura’y, un padre 35enne di Gaza City, è stato costretto a trasferire la sua famiglia più volte nell’ultima settimana e mezza. “Quando è iniziata la guerra, ci siamo rifugiati nella scuola dell’UNRWA [a Gaza City]”, ha detto. “Ma in seguito le scuole non erano più sicure, poiché molte di esse erano state gravemente danneggiate [dagli attacchi aerei israeliani]. Allora le forze di occupazione ci hanno ordinato di fuggire verso sud, ed è per questo che mi sono trasferito con la mia famiglia e quella di mio fratello in una scuola dell’UNRWA nella zona ovest di Khan Younis”.

Al-Bura’y ha sottolineato che le condizioni della scuola sono insostenibili. “La vita qui è estremamente difficile. Non c’è acqua potabile. Non c’è corrente e le comunicazioni con il mondo esterno sono quasi interrotte. Non possiamo sopportare questa situazione. Abbiamo bambini che vogliono mangiare e qui non c’è nulla di ciò di cui abbiamo bisogno. Il clima sta diventando sempre più freddo e non ci sono abbastanza coperte. I miei figli si ammaleranno”.

I rifugi sovraffollati possono portare a devastanti effetti secondari sulla salute pubblica, con segnalazioni già effettuate sulla diffusione di malattie infettive, tra cui il vaiolo. “Prima della guerra contro Gaza, il vaiolo si era diffuso nelle scuole tra gli studenti”, ha detto Suad Muhsen, una madre di 37 anni. “All’epoca stavo attenta ai miei figli, ma quando è iniziata la guerra e ci siamo rifugiati nelle scuole, ho notato [un’eruzione cutanea da vaiolo] su alcuni bambini e ho avuto paura che i miei figli si infettassero. La situazione medica e umanitaria delle scuole dell’UNRWA è estremamente grave. A causa della carenza d’acqua, è difficile mantenere l’igiene. Stiamo soffrendo cercando di sopravvivere in ogni modo possibile”.

Altri non sono riusciti nemmeno a trovare un riparo. A Khan Younis ci sono a malapena abbastanza posti letto per accogliere l’afflusso di persone in fuga dal nord di Gaza, e alcuni sono costretti a dormire per strada.

Mohammed Abu-Arar, originario di Khuza’a, una città a est di Khan Younis, dorme per strada con i suoi vicini e la sua famiglia dall’inizio della guerra. “Non sappiamo nulla delle nostre case, se sono state distrutte o meno”, ha detto. “Dormire per strada è terribile, ma non abbiamo altra scelta. Le scuole dell’UNRWA erano già affollate e lo sono diventate ancora di più a causa delle persone in fuga dal nord di Gaza. Resteremo in strada fino alla fine della guerra”. Se saranno colpiti dagli attacchi aerei israeliani, ha detto Abu-Arar, condivideranno semplicemente lo stesso destino di coloro che sono stati uccisi in questa guerra. “Le nostre vite non sono più preziose di quelle di tutte le vittime”.

“Hanno mirato alla sua casa”

Tutti a Gaza hanno perso persone che conoscevano. Il mio insegnante di chimica dell’undicesimo anno, Mahmoud Al-Masry, se n’è andato. Era un insegnante adorabile, brillante e gentile, che ci guidava in questa materia difficile. Viveva a Khan Younis, dove un’intera generazione di studenti ha pianto per la sua morte.

Isra’a Al-Najjar, 31 anni, ha raccontato i suoi ricordi di Al-Masry. “Mentre guardavo il telegiornale di lunedì [16 ottobre] sera, ho visto la foto del mio insegnante e sono rimasta scioccata”, ha detto. “Ricordo il suo sorriso timido e la sua tranquillità durante le lezioni, le parole che usava per incoraggiarci. Non ho mai pensato per un momento che avremmo perso questo prezioso insegnante. La nostra mente non può sopportare tutte le perdite di questa dolorosa guerra. Tutti i miei amici hanno pianto per la morte del nostro insegnante. Come potevamo immaginare che non l’avremmo più rivisto per le strade di Khan Younis?”.

“Gli aerei da guerra della forza di occupazione hanno attaccato i civili in questo modo selvaggio”, ha continuato Al-Najjar. “Hanno mirato alla sua casa. Era con i suoi figli e nipoti”. L’attacco aereo ha ucciso più di una dozzina di persone. Questa famiglia non c’è più.

“Martedì mattina alle 7, il giorno dopo l’uccisione del mio insegnante, ho sentito un’enorme esplosione vicino a casa mia, nel quartiere di Al-Fukhari. Siamo usciti tutti in strada per cercare di trovare i vicini, temendo altri missili. Abbiamo visto che l’attacco aereo aveva colpito la casa del nostro vicino, Bassam Abu Aker”. Bassam, sua moglie, i suoi cinque figli e sua nipote sono stati uccisi. Suo figlio Odeh, 12 anni, è l’unico sopravvissuto.

“Vogliamo sfamare tutti quelli che sono fuggiti”

Nonostante il loro dolore e le continue violenze, i residenti di Khan Younis cercano di fornire aiuto a coloro che sono fuggiti dal nord di Gaza. Jameel Abu Asi, ad esempio, cucina 2.000 pasti ogni giorno e li distribuisce in tutta la città a coloro che sono arrivati dal nord.

“Questa iniziativa è stata lanciata dalla mia famiglia dopo che gli aerei da guerra israeliani hanno bombardato il nostro ristorante” nel 2014, ha spiegato Abu Asi. “Non potevamo riparare i danni e riaprire il ristorante, così abbiamo deciso di cucinare i pasti e distribuirli alle persone in fuga nelle scuole dell’UNRWA. I residenti di Khan Younis mi portano gli ingredienti e io cucino. Lavoriamo dalle prime ore del mattino fino a sera.

*Ruwaida Kamal Amer è una giornalista freelance di Khan Younis.

L’articolo originale può essere letto al link seguente:

972mag.com/khan-younis-humanit…

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N. 190/2023 LE TRE NEWS DI OGGI: Il Consiglio federale vuole dare un incentivo alla cartella clinica elettronica rivedendo completamente la legislazione in materia. I partiti politici e gli operatori sanitari si chiedono se non sia meglio affidare la gestione dei dati a un servizio centrale piuttosto che alle attuali otto società operative.Altri punti della...

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Allarme nel Caucaso: l’Azerbaigian sta per invadere l’Armenia?


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di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 20 ottobre 2023La riconquista da parte dell’Azerbaigian del Nagorno-Karabakh, enclave armena che dopo 30 anni ha cessato di essere una repubblica di fatto indipendente da Baku lo scorso 20 settembre, non sembra aver riportato la calma nella regione, anzi.

Dagli USA voci di una imminente invasione
Secondo il quotidiano “Politico”, a inizio ottobre il segretario di Stato americano Antony Blinken avrebbe avvisato un piccolo gruppo di parlamentari sulla possibilità che l’Azerbaigian proceda presto ad un’invasione dell’Armenia. L’amministrazione Biden ha smentito, ma poi il portavoce del Dipartimento di Stato, Matthew Miller, ha avvisato Baku sulle «gravi conseguenze» derivanti la violazione dell’integrità territoriale armena.
Di nuovo, rispetto all’allarme lanciato da Blinken, c’è ora che il regime di Ilham Aliyev potrebbe approfittare della crisi mediorientale per portare a termine, impunito, un obiettivo strategico di Baku: l’occupazione del sud dell’Armenia.
In numerose occasioni lo stesso dittatore azero ha definito la provincia meridionale armena di Syunik come “Zangezur occidentale”, reclamandone la sovranità. Lo stesso ha fatto a proposito della capitale armena Erevan, definita in realtà «una città storicamente azera».

Aliyev issa la bandiera azera sull’Artsakh
Dopo che le sue truppe hanno sbaragliato le difese della Repubblica di Artsakh in appena 24 ore, decretando la fine della plurisecolare presenza armena nella regione e la precipitosa fuga di più di 100 mila abitanti terrorizzati dalla possibile pulizie etnica, il 15 ottobre il leader azero si è recato a Stepanakert, l’ex capitale del Nagorno-Karabakh ridotta ormai a città fantasma. Nella ribattezzata Khankendi, Aliyev ha issato la bandiera azera e calpestato quella armena, radioso per la vittoria che, ha spiegato, ha esaudito un desiderio coltivato per 20 anni, cioè da quando sostituì il padre Heydar alla guida del regime.

Una “grande Turchia” dal Mediterraneo alla Cina
Ora Baku sembrerebbe voler approfittare del contesto internazionale e dell’estrema debolezza dell’Armenia per invaderla, occupandone i territori meridionali; otterrebbe così la continuità territoriale con il Nakhchivan, provincia azera che sorge ad ovest del territorio armeno, per raggiungere il quale da decenni i convogli in partenza da Baku devono attraversare il nord dell’Iran, paese con il quale l’Azerbaigian ha rapporti non proprio idilliaci.
L’Iraninfatti, che pure si è tenuta fuori dal conflitto azero-armeno, teme assai la possibile continuità territoriale che proietterebbe l’influenza economica, politica e militare turca fino all’Asia centrale costellata di ex repubbliche sovietiche turcofone e fino al cosiddetto “Turkestan orientale”, cioè la regione cinese dello Xinjiang abitata dagli Uiguri musulmani, bypassando completamente Russia e Iran.
Inoltre Teheran rimprovera ad Aliyev la sua alleanza con Israele e la concessione a Tel Aviv di alcune basi, in territorio azero, dalle quali gli israeliani spiano l’Iran. Da tempo Israele fornisce quasi il 70% delle armi acquistate dall’Azerbaigian, che in cambio fornisce a Tel Aviv il 40% degli idrocarburi importati. Nel frattempo Baku caldeggia un avvicinamento ulteriore tra la Turchia – il principale sponsor dell’espansionismo azerbaigiano – e Israele, che però proprio in questi giorni il massacro dei palestinesi di Gaza da parte di Tsahal mette a dura prova.
Per tentare di dissuadere Aliyev dall’aggredire Erevan, Teheran negli ultimi mesi ha tentato di intavolare con Baku una trattativa per la normalizzazione quantomeno delle relazioni commerciali, promettendo una via più rapida per le merci e gli idrocarburi azeri nel loro transito verso ovest attraverso il territorio iraniano. Aliyev non sembra tirarsi indietro.

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Ilham Aliyev e Recep Tayyip Erdogan

Continue minacce all’Armenia
Però al tempo stesso il regime azero continua a mandare messaggi aggressivi all’Armenia, accusata di ostacolare la continuità territoriale con il Nakhchivan e di continuare ad occupare 8 villaggi azeri, che si trovano in 5 piccole exclave azerbaigiane in territorio armeno.
In realtà l’Azerbaigian occupa 215 chilometri quadrati di territori strappati alla Repubblica di Armenia, per la maggior parte nell’aggressione militare condotta contro Erevan nel settembre 2022, quando si impossessò di alture strategiche che consentirebbero alle truppe di Baku di bersagliare obiettivi armeni anche a grande distanza.
Mentre a Baku, sostengono alcuni analisti che monitorano i cieli, continuano ad arrivare cargo israeliani carichi di armi di ultima generazione, le truppe armene dispongono di difese obsolete. Difficilmente la promessa di Macron di inviare armi a Erevan – ammesso che si concretizzi – cambierà di molto i rapporti di forza.

Erevan e Mosca sempre più distanti
Mosca, da parte sua, ha da tempo mollato l’Armenia, avamposto cristiano nel Caucaso islamico ormai abbandonata al suo destino in virtù di vari fattori. Da una parte la volontà di punire il governo di Nikol Pashinyan, filoccidentale e ulteriormente avvicinatosi a Washington e Bruxelles dopo che nel 2020 la Russia si era ben guardata dal bloccare l’aggressione militare azera che condusse alla perdita, da parte dell’Artsakh, della maggior parte dei territori conquistati negli anni ’90. Ora ci si è messa anche l’adesione alla Corte Penale Internazionale – che Pashinyan afferma di voler utilizzare per denunciare i crimini di guerra azeri – ad allontanare i due paesi. All’ultima riunione della CSI (la Confederazione degli Stati Indipendenti guidata da Mosca) Pashinyan non si è fatto vedere. Per tutta risposta la Russia blocca da settimane le merci armene dirette all’interno della Federazione e accampa scuse per non consegnare a Erevan armi che gli armeni hanno già pagato, per quanto a prezzo di favore, in quanto entrambi i paesi aderiscono al Trattato per la Sicurezza Collettiva dal quale però Pashinyan si è ormai di fatto ritirato visto l’immobilismo dell’alleanza militare nei confronti dell’aggressività azera.

L’alleanza tra Russia e Azerbaigian
Dissidi politici a parte, inoltre, Mosca non vuole inimicarsi la Turchia, con la quale negli ultimi anni ha intavolato una altalenante ma utile relazione che accentua la già consistente distanza tra Erdogan e l’Alleanza Atlantica. Per non parlare poi degli interessi economici e commerciali della Russia in Azerbaigian in un momento delicato come quello venutosi a creare dopo l’invasione dell’Ucraina. Pochi giorni prima che le truppe di Mosca violassero i confini di Kiev, Russia e Azerbaigian hanno firmato un importante trattato politico-militareallargato poi al fronte energetico: l’Azerbaigian acquista già ingenti quantità di gas russo – potendo così destinare all’esportazione quello estratto in patria – e presto farà lo stesso con il petrolio, consentendo a Mosca di aggirare l’embargo sugli idrocarburi decretato da UE e USA.

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Profughi armeni in fuga dal Nagorno-Karabakh

L’Armenia rischia il tracollo
Se davvero Aliyev decidesse di infliggere a Erevan un ulteriore colpo invadendo il paese e occupandone le regioni meridionali, l’Armenia potrebbe opporre davvero una flebile resistenza, non potendo contare né su ingenti risorse economiche utili a riempire gli arsenali né su alleati internazionali di peso disponibili a mettersi di traverso.
Nelle ultime settimane sia l’amministrazione Biden sia il governo francese sia i dirigenti delle istituzioni europee hanno aumentato la pressione su Baku affinché desista dai bellicosi propositi. Washington, ad esempio, ha sospeso il rinnovo della deroga che le consente di eludere il Freedom Support Act, provvedimento che impedirebbe di fornire aiuti militari all’Azerbaigian aggirato sistematicamente dal 2002.
Ma la finestra apertasi dopo la sconfitta dell’Artsakh e l’esplosione delle crisi in Ucraina e Palestina, potrebbe rappresentare un’occasione davvero troppo ghiotta per convincere Erdogan e Aliyev a rinunciare ad una vittoria che cambierebbe in maniera netta gli equilibri politici, economici e militari di tutto il Caucaso.
Sarebbe una catastrofe per l’Armenia che potrebbe addirittura collassare come paese. Ma anche per Putin, che pure negli ultimi anni non ha voluto e potuto intervenire per bloccare le pretese dell’alleato azero, si tratterebbe di un colpo significativo alla sua influenza nel Caucaso, dove l’egemonia di Turchia e Azerbaigian diventerebbe difficile da contrastare.

Per ora i vari attori internazionali fanno qualche timido passo: Parigi ha annunciato che aprirà presto un ufficio dell’addetto militare a Erevan e un consolato a Syunik, unendosi così a Iran e Russia. Ma nessun paese, da oriente a occidente, ha finora imposto sanzioni a Baku, anche se il parlamento europeo ha approvato nei giorni scorsi una risoluzione in tal senso.
Intanto le truppe azere, il 23 e 24 ottobre, hanno in programma esercitazioni congiunte con alcuni reparti dell’esercito turco in Nakhchivan e nel Nagorno-Karabakh. – Pagine Esteri

9893939* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.

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Voto sul chatcontrol rinviato: enorme successo in difesa della privacy digitale della corrispondenza!

La votazione per il regolamento #CSAR aka #Chatcontrol è stata ancora una volta posticipata. Gli stati🇪🇺 non hanno trovato un accordo che consenta di avere la maggioranza. 🇮🇹 non pervenuta nel dibattito.

@Privacy Pride

(grazie a @Pietro Biase :fedora: per la segnalazione)

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Le contraddizioni dell’UE: è un gigante regolatorio ma un nano finanziario


Si discute e si discuterà sui vincoli europei al bilancio nazionale (il Patto di stabilità e crescita da rivedere), ma c’è un altro aspetto della finanza europea che è rilevante, quello del bilancio dell’Unione. Quest’ultimo è oggi alimentato dalle contri

Si discute e si discuterà sui vincoli europei al bilancio nazionale (il Patto di stabilità e crescita da rivedere), ma c’è un altro aspetto della finanza europea che è rilevante, quello del bilancio dell’Unione. Quest’ultimo è oggi alimentato dalle contribuzioni degli Stati membri in relazione alla loro ricchezza, da dazi doganali sulle importazioni dall’esterno dell’Unione, da una quota dell’Iva riscossa dagli Stati e da altre minori entrate. Esso riguarda 27 nazioni, ma è inferiore alla somma dei bilanci delle regioni italiane. Per rendersi conto delle proporzioni del problema, ricordo che l’Italia ha solo il 13 per cento della popolazione europea, ma ha un bilancio di dimensioni circa sei volte superiore a quello dell’Unione.

Queste non sono le uniche contraddizioni. L’Unione è un gigante regolatorio, ma un nano finanziario: disciplina quasi ogni aspetto della vita delle nazioni europee, fino alla qualità delle acque di balneazione, ma non ha una propria politica redistributiva. I mercati dei Paesi europei sono uniti; vi sono un’unione bancaria e un’unione monetaria; ma il bilancio europeo è di dimensioni molto modeste, rispetto allo sviluppo raggiunto dall’Europa in termini di territorio, popolazione e poteri.

L’euro è una moneta senza Stato, ma c’è da chiedersi se un potere pubblico sovranazionale, che tiene sotto controllo 27 Stati, possa sopravvivere senza un bilancio di dimensioni adeguate ai suoi obiettivi e ai suoi compiti crescenti. Il bilancio, governando entrate e spese, è l’unico strumento che consente una funzione redistributiva sia tra i cittadini, sia tra le regioni, sia tra le nazioni europee, come già fa, in parte, con le politiche di coesione che favoriscono le zone meno sviluppate, qual è il Sud dell’Italia. Per rendersi conto dell’importanza del bilancio per ogni potere pubblico, sia substatale (ad esempio, una regione), sia statale, sia sovrastatale, e per capire quanto sia rilevante l’allocazione delle risorse per ogni gestione pubblica, basta considerare il dibattito che accompagna l’analogo strumento in Italia.

Negli ultimi anni, qualche progresso è stato compiuto. In risposta alla pandemia, l’Unione si è dotata di strumenti finanziari, in particolare tramite l’indebitamento, per realizzare gli interventi per l’occupazione (Sure), per quelli diretti alle nuove generazioni (Next generation EU, un piano di investimenti erogati agli Stati membri), per l’acquisto dei vaccini, per gli aiuti militari all’Ucraina, per l’agenda verde e per quella digitale, tutti interventi che richiedono risorse, impongono una centralizzazione delle responsabilità di bilancio e una capacità finanziaria centrale.

Una Unione sempre più stretta non può quindi limitarsi a disporre vincoli ai bilanci statali, ma deve avere un proprio bilancio degno delle dimensioni dell’Unione Europea per offrire quei «beni pubblici europei» che gli Stati non possono produrre individualmente. Questo bilancio, al quale dovrebbero contribuire i cittadini europei, potrebbe rappresentare in futuro un ottimo scudo anche per i bilanci degli Stati, come quello italiano, che — a causa dell’alto debito pubblico — non sono sottoposti soltanto ai vincoli dell’Unione, ma debbono anche rispettare i vincoli che derivano dai mercati: più spese a livello europeo darebbero luogo a meno spese a livello nazionale, alleviando quindi la pressione sui bilanci degli Stati.

Gli articoli 313-324 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea regolano già oggi il bilancio, e ne disciplinano la procedura (che passa attraverso decisioni del Parlamento europeo e del Consiglio per l’approvazione), nonché la responsabilità della Commissione per l’esecuzione.

Per finanziare un bilancio di maggiori dimensioni, c’è bisogno di più entrate stabili. La recente proposta della Commissione di una base imponibile armonizzata per la tassazione delle imprese — denominata Befit — può essere l’occasione per dotare l’Unione europea di adeguate «risorse proprie» per finanziare le maggiori spese a livello centrale o come garanzia per l’emissione di debito comune (in quest’ultimo caso, tuttavia, una revisione del Trattato sembra inevitabile).

Il raccordo necessario tra bilancio europeo e vincoli europei ai bilanci nazionali dipenderà dalla prossima revisione del Patto di stabilità e di crescita e dalla sua applicazione perché sane regole finanziarie sono la condizione per devolvere più compiti e risorse all’Unione europea.

Dunque, vi sono tutte le premesse perché l’Unione possa trarre vigore da un bilancio proprio, di dimensioni corrispondenti al prodotto interno lordo dell’intera area europea, aumentando le proprie entrate, sia fiscali sia derivanti dall’indebitamento, e rafforzando così il proprio ruolo di grande intermediario finanziario, capace di svolgere una funzione di supporto della doppia transizione verde e digitale, investire nella difesa e nella sicurezza e condurre una politica redistributiva tra cittadini, regioni e Stati europei.

In attesa di decisioni più radicali della Commissione, del Consiglio e del Parlamento dopo le elezioni del prossimo giugno, la rapida approvazione della revisione a metà percorso del bilancio pluriennale dell’Unione, proposta dalla Commissione, sarebbe un primo passo nella buona direzione.

In un lucido saggio su «Un nuovo mutamento di struttura della sfera pubblica politica», appena pubblicato in traduzione italiana, a cura di Marina Calloni, dall’editore Raffaello Cortina, il grande filosofo tedesco Jürgen Habermas ha scritto che «le paure del declino sociale e il timore di non essere in grado di far fronte alla inesorabile complessità dei cambiamenti sociali accelerati», «consigliano agli Stati nazionali riuniti nell’Unione Europea la prospettiva di una maggiore integrazione, nel tentativo di recuperare quelle competenze perse a livello nazionale nel corso di questo sviluppo, creando nuove capacità di azione politica a livello transnazionale».

Corriere della Sera

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“Da amico a nemico”: Palestinesi in Israele sospesi dal lavoro a causa della guerra


Avvocati e organizzazioni per i diritti umani in Israele hanno ricevuto decine di denunce da parte di lavoratori e studenti che, da sabato scorso, sono stati bruscamente sospesi da scuole, università e luoghi di lavoro L'articolo “Da amico a nemico”: Pal

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di Ylenia Gostoli
Pubblicato su Al-Jazeera il 15 ottobre 2023

(Traduzione a cura di Federica Riccardi) –

Pagine Esteri, 17 ottobre 2023. Sabato 7 ottobre, Noura* si è recata al lavoro come al solito di buon mattino nell’ospedale in Israele dove lavora da più di due anni. L’operatrice sanitaria palestinese aveva dato una rapida occhiata al telegiornale, ma nella fretta di arrivare in tempo al lavoro non aveva compreso appieno la portata di quanto stava accadendo nel Paese: un attacco del gruppo armato palestinese Hamas al sud di Israele che avrebbe causato la morte di almeno 1.300 persone in Israele. In risposta, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha lanciato una campagna di bombardamenti mortali sulla Striscia di Gaza che ha ucciso più di 2.300 palestinesi e ha imposto un assedio totale all’enclave, bloccando le forniture di cibo, medicinali e carburante. Un’invasione di terra sembra imminente.

Ma sabato mattina Noura non era a conoscenza di nulla di tutto ciò. I gruppi armati palestinesi lanciano periodicamente razzi nel sud di Israele, che vengono per lo più intercettati dal sistema di difesa missilistica del Paese, noto come Iron Dome.

Così, quando una collega visibilmente scossa ha parlato a Noura dell’accaduto, lei ha risposto dicendole: “Non è la prima volta” – una risposta che ora riconosce essere stata priva di empatia.

Ma quando sono emersi ulteriori dettagli e la natura senza precedenti dell’attacco è diventata più chiara, Noura è stata convocata nell’ufficio del suo manager, le è stato detto di lasciare il lavoro e di non tornare fino a nuovo ordine, a causa di quella conversazione precedente con la sua collega.

“Mi sono sentita molto offesa, non potevo credere che mi stesse succedendo questo”, ha detto Noura, che è una degli 1,2 milioni di palestinesi cittadini di Israele – circa il 20% della popolazione del Paese.

“Mi sento discriminata“, ha continuato. “Giorno dopo giorno, non te ne accorgi più. Ma lo senti quando succede una cosa del genere. Sai che automaticamente ti trasformi da amico a nemico”.

Poco dopo, ha ricevuto una lettera dalla direzione dell’ospedale, che Al Jazeera ha esaminato, in cui veniva convocata per un’udienza per formalizzare la sua sospensione per aver violato il codice disciplinare dell’istituto, sostenendo l’attacco di Hamas.

Noura ha negato di aver mai pronunciato le parole di cui è stata accusata.

“La cosa che mi ha offeso di più è che quando mi hanno convocata per l’incontro avevano già deciso, la decisione era stata presa. Non hanno voluto ascoltare”, ha detto Noura a proposito dell’udienza, prevista a breve.

Ha parlato con Al Jazeera a condizione di anonimato perché, nonostante tutto, spera di poter essere ascoltata in modo equo e di mantenere il suo lavoro.

Decine di reclami

Noura non è sola. Avvocati e organizzazioni per i diritti umani in Israele hanno ricevuto decine di denunce da parte di lavoratori e studenti che, da sabato scorso, sono stati bruscamente sospesi da scuole, università e luoghi di lavoro a causa di post sui social media o, in alcuni casi, di conversazioni con i colleghi.

Le lettere inviate da alcuni istituti o uffici, esaminate da Al Jazeera, citavano i post scritti sui social media e il presunto sostegno al “terrorismo” come motivo della sospensione immediata “fino a quando la questione non sarà indagata”. In alcuni casi, i destinatari sono stati convocati a comparire davanti a una commissione disciplinare.

“Persone che hanno lavorato per tre, quattro, cinque anni si sono ritrovate a ricevere lettere in cui si diceva di non presentarsi al lavoro a causa di ciò che avevano pubblicato”, ha dichiarato ad Al Jazeera Hassan Jabareen, direttore di Adalah, del Legal Centre for Arab Minority Rights in Israel, da Haifa, città del nord del Paese.

In alcuni casi, “si dice che le udienze si terranno in una data successiva, ma non si [specifica] quando”, ha detto. “L’udienza dovrebbe tenersi prima di ottenere la decisione”.

Adalah è a conoscenza di almeno una dozzina di lavoratori sospesi da sabato scorso in circostanze simili, per lo più a causa di post sui social media. Ha inoltre ricevuto le denunce di circa 40 studenti palestinesi delle università e dei college israeliani che hanno ricevuto lettere di espulsione o sospensione dalle loro istituzioni.

Wehbe Badarni, direttore del sindacato dei lavoratori arabi nella città settentrionale di Nazareth, ha dichiarato ad Al Jazeera che il sindacato sta seguendo più di 35 denunce, tra cui studenti e lavoratori di ospedali, alberghi, stazioni di servizio, ristoranti e call center.

In una lettera visionata da Al Jazeera, un’azienda aveva convocato un dipendente per un’udienza telefonica per “esaminare la possibilità di terminare il rapporto di lavoro con l’azienda” a causa di “post che sostengono attività terroristiche e incitamento”.

“L’incitamento al terrorismo è un’accusa grave che deve essere provata in tribunale”, ha dichiarato Salam Irsheid, avvocato di Adalah. “A nostro avviso, ciò che sta accadendo in questo momento non è legale”.

Atmosfera di terrore
Un altro operatore sanitario con cui Al Jazeera ha parlato a Tel Aviv ha detto che sta facendo tutto il possibile per mantenere un basso profilo, per paura di punizioni. “Nessuno parla della situazione, ogni mattina mi trovo di fronte a facce scontrose e arrabbiate, considerando che sono l’unico palestinese che lavora lì”, ha detto ad Al Jazeera.

“Le notizie sono terribili, ma quando sono al lavoro cerco di far finta che tutto sia solo una notizia. Non posso davvero esprimere o parlare di ciò che sta accadendo”, ha detto. “Dall’ultima guerra [nel 2021] tutti tengono un profilo basso”.

Physicians for Human Rights Israel, un’organizzazione no-profit fondata più di tre decenni fa a Jaffa, ha gestito diversi casi di sospensione di operatori sanitari dal 2021, dopo l’ultima guerra tra Hamas e Israele, secondo la presidente del consiglio di amministrazione, la dottoressa Lina Qassem Hasan.

In un caso di alto profilo, Ahmad Mahajna, medico dell’ospedale Hadassah di Gerusalemme, è stato sospeso per aver offerto dolci a un adolescente palestinese che si trovava sotto la custodia della polizia nell’ospedale, dove veniva curato per ferite da arma da fuoco dopo un presunto attacco. “C’è un’atmosfera di terrore, la gente ha paura”, ha detto la dottoressa Qassem ad Al Jazeera.

Il 12 ottobre era prevista una visita bimestrale a Gaza con il suo gruppo per i diritti umani. La visita di medici e psicologi di questo mese è stata annullata dopo l’attacco di Hamas. Invece, si è trovata a curare i pazienti evacuati dalle loro case nel sud di Israele.

Una stazione radio locale l’ha intervistata durante la sua visita. “In questa intervista, ho detto che ciò che Hamas ha fatto è un crimine di guerra ai miei occhi, e che vedo anche che ciò che Israele fa a Gaza è un crimine di guerra”, ha detto.

“Due ore dopo l’intervista, ho ricevuto una telefonata dal mio datore di lavoro”, ha detto Qassem, che esercita anche la professione di medico in una clinica. Non le è stato chiesto di smettere di parlare con i media, ma “è stato come un avvertimento per me che devo stare attenta, sai, che [loro] seguono quello che [io] faccio “.

I cittadini palestinesi di Israele hanno storicamente affrontato discriminazioni sistemiche, tra cui la cronica mancanza di investimenti nelle loro comunità con – secondo Adalah – più di 50 leggi che sono pregiudizievoli nei loro confronti.

Eppure “il razzismo si è ulteriormente accelerato”, ha dichiarato l’avvocato Sawsan Zaher ad Al Jazeera. “Quello che stiamo vedendo ora è qualcosa che non abbiamo mai visto prima”.

“Il solo fatto di esprimere la propria opinione, anche se non si tratta necessariamente di incitamento ai sensi del codice penale… ora è sufficiente per l’accusa di esprimere sostegno non solo ad Hamas, ma al popolo palestinese in generale”, ha aggiunto.

Zaher ha detto che la gente ha sempre più “paura di parlare arabo” in pubblico.

Anche Noura è solita tenere la testa bassa.
“In ogni situazione in cui c’è un incidente o qualcosa che accade, cerchiamo di non parlarne affatto. Cerchiamo di dimenticarlo, di metterlo in secondo piano perché sappiamo che verremo giudicati se diremo una parola”, ha detto Noura.

“Questa volta è stato un mio errore rispondere”.

*Il nome è stato cambiato su richiesta della persona per evitare potenziali ritorsioni.

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Presentazione della Scuola di Liberalismo 2023 di Mesina – RTP Giornale


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Un punto


Per un punto Martin perse la cappa. È divenuto un modo di dire popolare, a intendere che per un dettaglio si può perdere molto. Martino perse il priorato (XVI secolo) per avere collocato male la punteggiatura, sovvertendo il significato della frase, sicch

Per un punto Martin perse la cappa. È divenuto un modo di dire popolare, a intendere che per un dettaglio si può perdere molto. Martino perse il priorato (XVI secolo) per avere collocato male la punteggiatura, sovvertendo il significato della frase, sicché la porta del convento anziché rimanere sempre aperta, non rifiutando l’ingresso a nessun onesto, sembrò dover restare chiusa, rifiutando l’ingresso specialmente agli onesti. Povero Martino. Ma poveri anche noi, perché un punto è lì a indicarci che stiamo perdendo fiumi di soldi e, con loro, anche la testa.

Il 16 ottobre scorso la Commissione europea ha raccolto i progetti di bilancio di ciascun Paese dell’Unione. Di quello italiano abbiamo scritto, mettendo in evidenza la fragilità di una riduzione minimale del peso del debito sul Prodotto interno lordo, a fronte di una previsione di crescita nel 2024 che appare assai ottimistica. Purtroppo il dibattito successivo non si è concentrato su quel decisivo aspetto, preferendo o l’illustrazione dei vari benefici – senza troppo badare né all’efficacia né alla sostenibilità – oppure gli aspetti politicisti, che mandano in sollucchero politici e commentatori che disdegnano il far di conto. Come ad esempio la bislacca storia degli emendamenti, che il governo intenderebbe interdire ai parlamentari della propria maggioranza (tanto non li può proibire, siamo certi che ne saranno presentati e se la risposta sarà un dissennato rifiuto del confronto parlamentare ciò potrebbe minare la maggioranza stessa). Tutta roba per dibattiti tanto alati quanto volatili.

Ma se si prendono i numeri presentati da ciascun Paese, pur con il beneficio d’inventario delle previsioni su sé stessi (come le nostre), un brivido corre lungo la schiena. Un punto percentuale dovrebbe inquietare e far suonare tutti gli allarmi. Invece nulla.

Colpisce il fatto che nel 2024 l’Italia dovrebbe essere, con la Finlandia, il Paese che cresce meno. Significativo, ma è anche vero che veniamo da tre anni in cui si è cresciuti più della media europea o comunque più di altri grandi Paesi, per non dire della Germania. Il guaio vero non è essere in coda alla crescita, che ci può pure stare, ma esserlo nel tempo in cui i soldi europei di Next Generation Eu, impiegati secondo il Pnrr – ovvero il Piano italiano d’investimenti (e riforme) – dovrebbero dare una spinta alla crescita. Ma questa roba pare abbia annoiato il pubblico e anche gli attori politici, come se “l’occasione irripetibile” sia divenuta “il fastidio trascurabile”. Il guaio aggiuntivo è che si è in fondo alla classifica con una previsione del +1,2%, che ben difficilmente raggiungeremo. E non si cominci a tirare in ballo le guerre, perché sono cose note e dette da prima.

Il punto di caduta è un altro: la Grecia spende nel 2023 il 3,3% della ricchezza prodotta per pagare il costo del debito, mentre conta di spenderne il 3,2% nel 2024; noi spendiamo quest’anno il 3,8% e contiamo di spenderne nel 2024 il 4,2%. Ma non basta, perché prevediamo di vedere crescere quel peso al 4,6% nel 2026. Si tratta di quasi 104 miliardi di euro spesi per la gioia d’essersi troppo indebitati. E non è vero che il costo cresce per le scelte operate dalla Banca centrale europea, che valgono per tutti e anche per la Grecia: cresce perché il debito non scende al ritmo previsto.

Lo spread è divenuto un totem mal interpretato. Se sale si dice che i mercati “bocciano il governo”, se scende che lo “promuovono”, e questa danza tribale la praticano gli uni e gli altri. Ma, appunto, sale e scende restando troppo alto. I 100 e più miliardi non scendono, ma salgono e basta. Quel punto di differenza con la Grecia è un buco nero scavato dall’irresponsabilità.

In un Paese assennato quello sarebbe il centro della preoccupazione, dell’attenzione e del dibattito, confrontando ricette diverse per rimediare. Qui gareggiano ricette diverse per fare più debito. Magari pensando che sia una specie di affermazione della sovranità, laddove ne è la tomba.

La Ragione

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Gli europarlamentari hanno discusso alcune condizioni di filtro che consentirebbero agli sviluppatori di Intelligenza artificiale (IA) di evitare di conformarsi al regime più severo previsto dalla legge dell’UE in materia. Ma questo compromesso politico si sta scontrando con notevoli problemi...


#NoiSiamoLeScuole questa settimana racconta di una scuola moderna, inclusiva, senza barriere architettoniche, attenta ai diversi stili di apprendimento e con laboratori tematici: sarà così l’Istituto comprensivo di Sant’Elpidio a Mare, in provincia d…


Un chip che funziona come un cervello. Così gli Usa si svincolano dall’Asia


Un nuovo modo di intendere i microprocessori, che fonde insieme memoria e capacità di processamento delle informazioni, imitando le sinapsi del cervello umano, potrebbe essere la risposta Usa nella competizione con la Cina nel campo dei microchip. Il prot

Un nuovo modo di intendere i microprocessori, che fonde insieme memoria e capacità di processamento delle informazioni, imitando le sinapsi del cervello umano, potrebbe essere la risposta Usa nella competizione con la Cina nel campo dei microchip. Il prototipo, chiamato NorthPole chip, presentato da Ibm apre la strada allo sviluppo di sistemi che non avranno bisogno di cloud o Internet per la loro “intelligenza”, potendo fare affidamento direttamente sulle proprie capacità di immagazzinare e processare le informazioni in maniera autonoma. Per la Difesa, questo significa poter dotare le proprie Forze armate di strumenti praticamente immune alle capacità degli avversari di agire nello spettro elettromagnetico. In pratica, si tratta di rendere l’equipaggiamento dei soldati (come, per esempio, i visori notturni) o i sistemi unmanned (droni e robot) del tutto inattaccabili da offensive cyber o di jamming.

Come un cervello

Imitando quanto avviene all’interno delle connessioni sinaptiche di un cervello umano, Ibm ha creato “una architettura di inferenza neurale che sfuma il confine [tra memoria e processamento] eliminando la memoria off-chip, intrecciando il calcolo con la memoria on-chip e apparendo esternamente come una memoria attiva”, hanno spiegato i ricercatori su Science. Questo elemento, oltre a rendere molto più sicuri i chip, consente al tempo stesso un grosso risparmio energetico. Rispetto alla capacità di calcolo di un cervello umano, un computer impiega quantità molto maggiori di energia, e questo è un grosso limite per le applicazioni dell’IA in moltissimi campi, uno fra tutti i trasporti o (nel caso militare) i droni. Inoltre, l’evoluzione tecnologica sta raggiungendo il limite massimo di quanti transistor (i dispositivi utilizzati per realizzare i circuiti elettronici) si possano montare su un unico chip. Il NorthPole di Ibm promette di risolvere entrambi i problemi, ottimizzando in un singolo dispositivo risparmio energetico, spazio ridotto e velocità di calcolo, permettendogli di lavorare a una maggiore efficienza anche rispetto a chip con un numero maggiore di nodi.

L’interesse del Pentagono

Questo tipo di chip è definito neuromorfico (cioè, “a forma di cervello”), e fa parte di un programma avviato nel 2008 dalla Darpa statunitense, il Synapse program, finanziato fino al 2014 con cinquanta milioni di dollari. Dal 2019, il Pentagono ha aumentato il suo investimento fino a novanta milioni. “Con l’avvento dell’intelligenza artificiale generativa – ha spiegato l’assistente segretario alla Difesa per le Tecnologie critiche, Maynard Holliday – il dipartimento ha riconosciuto la necessità di questo tipo di architetture, specialmente per quegli ambienti contestati dove i nostri segnali potrebbero essere disturbati. Continuare a essere in grado di processare informazioni diventa un vantaggio”.

Chip più intelligenti e capaci di essere indipendenti dalle reti possono aumentare le capacità di numerosi sistemi militari, dai droni, ai robot, all’equipaggiamento dei soldati, potenziando la loro capacità di interagire con i dati esterni. L’aumento delle informazioni che questi processori sarebbero in grado di processare, inoltre, potrebbe portare alla nascita di sensori capaci di registrare un numero maggiore di input, audio, video, infrarossi, sonar e così via, con un consumo molto ridotto di energia. Questi sistemi possono “distinguere le persone in una foto, classificare gli audio, il tutto senza l’aiuto di Internet”.

L’indipendenza dall’Asia

Il nuovo chip, inoltre, porta con sé un vantaggio strategico cruciale: riduce la dipendenza degli Stati Uniti dall’Asia per quanto riguarda il mercato dei microprocessori. Consentendo di fare di più con meno, il NorthPole consente alle Forze armate di avere un rifornimento di chip producibili a livello domestico. Una considerazione fondamentale, dal momento che una delle principali preoccupazioni degli strateghi di Washington è assicurare il rifornimento di chip in caso di invasione cinese di Taiwan. L’isola, infatti, è uno dei principali supplier mondiali di microprocessori avanzati. Un’eventuale interruzione della catena di rifornimento, dovuta a un’ipotetica invasione cinese, metterebbe a rischio persino la capacità Usa di reagire a difesa di Taipei.


formiche.net/2023/10/chip-cerv…




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Elezioni Argentina: Milei mette alla prova 40 anni di democrazia


Domenica 22 ottobre gli argentini voteranno per il presidente della Repubblica. Molti temono che i festeggiamenti per i successi democratici possano essere rovinati dalla vittoria del favorito Javier Milei. L'articolo Elezioni Argentina: Milei mette alla

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di Massimo D’Angelo –

Pagine Esteri, 20 ottobre 2023. Nel 2023 l’Argentina festeggia 40 anni ininterrotti di democrazia. È il periodo più lungo nella storia del Paese da quando è caduto l’ultimo regime militare, dopo la disastrosa guerra delle Falkland/Malvinas nel 1982. La democrazia ha resistito anche alla devastante crisi economica del 2001, che ha visto cinque Presidenti della Repubblica succedersi in soli 11 giorni. Sicuramente un ottimo motivo di cui essere orgogliosi. Tuttavia, domenica 22 ottobre le argentine e gli argentini si recheranno a votare per scegliere il nuovo – o la nuova – presidente della Repubblica, e molti temono che i festeggiamenti per i successi democratici possano essere rovinati dalla vittoria del favorito Javier Milei, almeno al primo turno.

Il sistema elettorale del Paese prevede che prima delle presidenziali si tengano le Primarie Aperte Simultanee Obbligatorie (PASO), attraverso le quali le coalizioni politiche scelgono la propria classe dirigente. Il 13 agosto 2023, gli argentini hanno votato alle primarie che hanno visto affermarsi l’attuale Ministro dell’Economia Sergio Massa per la coalizione peronista progressista; la securitaria Patrizia Bullrich, ex Ministra della Sicurezza nel governo di centro destra guidato da Mauricio Macri (2015-2019) e Javier Milei, outsider, economista libertario di estrema destra, alla guida di un partito populista personalistico, che si è imposto come la vera sorpresa di questo ciclo elettorale.

Le elezioni si celebreranno nel mezzo dell’ennesimo momento delicato per l’economia del Paese: a febbraio 2023 l’inflazione ha raggiunto il 102,5% e i prezzi di molti beni di consumo sono raddoppiati dal 2022. Inoltre, non appena il governo ha imposto un tetto ai prezzi dei principali generi alimentari per controllarne la crescita, le difficoltà economiche e la povertà sono esplose. Tra i vari problemi, c’è stata anche un’impennata del 20% dei prezzi della carne che ha contribuito alla crisi dell’importantissimo settore alimentare. Così a marzo, a causa delle continue pressioni economiche, il Fondo Monetario Internazionale ha approvato un salvataggio di 6 miliardi di dollari, come parte di un più ampio pacchetto da 44 miliardi. Questa situazione ha contribuito ad approfondire le divisioni nel Paese, in una delle nazioni già da tempo più polarizzate al mondo. Ma ciò che più ha sorpreso di questa tornata elettorale, è il fatto che nessuno dei principali leader politici abbia voluto candidarsi alla presidenza, forse proprio a causa della delicatissima situazione economico finanziaria.

I leader politici fuggono

Il primo a tirarsi fuori è stato l’attuale presidente Alberto Fernández, della coalizione peronista progressista. Fernández si è ritirato dopo i risultati fallimentari della propria politica economica, del calo dei consensi e dei conflitti all’interno della sua stessa coalizione. Altre sfide che hanno caratterizzato l’intera sua presidenza sono state l’aumento della povertà e l’impennata dell’inflazione. Inoltre, il mandato di Fernández è stato segnato dai profondi contrasti con la sua vicepresidente, già presidente (2007-2015) Cristina Fernández de Kirchner. Kirchner, da molti riconosciuta come la vera leader della coalizione, è stata condannata a sei anni di carcere per corruzione. Anche lei ha scelto di non candidarsi, evitando di essere coinvolta in quello che ha definito un “gioco perverso” e una “facciata democratica” che avrebbe potuto portare alla sua estromissione dalla vita pubblica per mano giudiziaria. Infine, l’ex presidente della coalizione conservatrice 2015-2019 Mauricio Macri, che in passato era riuscito a sconfiggere i peronisti, ha deciso di non correre, promettendo invece di lavorare per facilitare la creazione di una forte coalizione di centro destra. Il fatto che le maggiori figure politiche delle coalizioni storiche principali si siano fatte da parte ha senza dubbio aiutato figure politiche meno conosciute di emergere all’interno dell’agone politico, facilitate dalla difficilissima congiuntura politica che il paese sta attraversando.

Chi è Javier Milei?

Javier Milei è un economista di 53 anni che in passato ha anche lavorato per il World Economic Forum. Si è subito affermato come politico la cui visione libertaria di estrema destra si è fatta strada in modo significativo nel panorama politico argentino. Nel 2019, Milei ha fondato il suo partito, La Libertad Avanza. Superando ogni aspettativa, alle primarie di agosto 2023 si è assicurato il 30% dei voti, arrivando primo. Milei si è posizionato politicamente tra la coalizione di centro-destra guidata da Patricia Bullrich, che ha ottenuto il 28,27% dei voti, e il partito peronista di Sergio Massa, che ha ottenuto il 27,27%.

Milei si è detto favorevole all’abolizione della banca centrale, alla totale dollarizzazione del Paese (per quanto i critici sostengano che il paese non disponga di sufficienti riserve di dollari), e a politiche controverse come la legalizzazione della vendita di organi umani. Inoltre, è contrario all’aborto, da poco legalizzato nel paese. Gli analisti individuano nel suo carisma anticonvenzionale e nella sua promessa di totale cambiamento la ragione del suo successo presso l’elettorato in difficoltà sociale ed economica.

Nonostante la sua formazione universitaria e professionale degna della migliore classe dirigente, Milei si presenta come l’underdog della politica argentina. E condivide molti dei tratti tipici dei leader populisti di tutto il mondo, tra cui la fortissima retorica anti-establishment (spesso parla di ‘casta’). I suoi slogan recitano frasi del tipo: “abbiamo avuto 40 anni di fallimenti, non ditemi che questa volta sarà diverso”. Oppure che “il problema centrale è che la soluzione del problema è nelle mani dello stesso problema, cioè dei politici”.

I paragoni con Trump o con il più vicino Bolsonaro abbondano. Ma il confronto più azzeccato a Milei, in realtà, appare quello con l’attuale candidato repubblicano statunitense Ron De Santis, il quale ha studiato in prestigiose università americane e ha indirizzato la sua traiettoria politica utilizzando una fortissima narrativa anti-establishment, anti woke e contro il politicamente corretto. Infatti, come è spesso tipico, i populisti contemporanei provengono dalle classi sociali mainstream, ma ritengono fondamentale proiettare un’immagine distinta da quello che è il corrotto e avido establishment.

Sebastián Mazzuca della Johns Hopkins University concorda sul fatto che gli analisti dovrebbero evitare di saltare a conclusioni affrettate quando confrontano Javier Milei con altri leader regionali. Sebbene sia vero che Milei segue il percorso consolidato di molti leader populisti in tutto il mondo, ci sono delle differenze notevoli. Innanzitutto, Milei ha fondato il suo partito personale non appoggiandosi ad apparati già esistenti. Inoltre, a differenza ad esempio di Trump, Milei è un economista esperto. Tuttavia, sebbene capisca forse ‘troppo’ di economia, dovrebbe imparare rapidamente a tradurre questa conoscenza teorica in programmi politici pratici fattibili. Infine, e soprattutto, Mazzuca fa notare come la follia di Trump del 6 gennaio si sia scontrata con le solide istituzioni indipendenti statunitensi di lunga tradizione: burocrazie civili e militari, informatori di ogni genere e colore e, soprattutto, giustizia. L’Argentina, al contrario, è dominata da un debole Stato patrimoniale. Pertanto, la resistenza istituzionale all’irrazionalità trumpiana sarebbe meno robusta e ciò potrebbe portare a conseguenze allarmanti.

Quale scenario?

L’inaspettata ascesa di Milei alle primarie ha travolto il panorama politico argentino. Il risultato inatteso potrebbe influenzare in modo significativo le prossime elezioni presidenziali di ottobre. Tuttavia, molti analisti ritengono che l’esiguo margine tra le tre fazioni principali renda difficile prevedere un qualsiasi vincitore. Ciò che è probabile, è che se nessuno Milei non riuscisse a ottenere il 45% dei voti al primo turno, allora si passerebbe a un ballottaggio, nel quale le possibilità di coalizzarsi tutti contro l’outsider potrebbero risultare vincenti. Ciò che è certo, è che nel pieno delle difficoltà economiche e l’aumento dello scontro politico, l’elettorato argentino ha lanciato un avvertimento forte alle élites al potere. L’aspetto più evidente rimane il fallimento del modello a due coalizioni, ormai stanco, nel rivitalizzare il panorama politico argentino. Il peronismo rimane legato a Cristina Kirchner, mentre la coalizione di destra è priva di una leadership efficace dopo Macri. La decisione della leadership principale di non concorrere alla presidenza ha spianato la strada a Milei.

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Per J.M. Missionary Union, molte delle espulsioni sarebbero avvenute simultaneamente nelle città cinesi di Tumen, Hunchun, Changbai, Dandong e Nanping, nella serata del 9 ottobre. Secondo Human Rights Watch quelli accertati sarebbero un’ottantina: la maggior parte dei fuggiaschi sono donne e affrontano il “grave rischio di detenzione nei campi di lavoro, di tortura, volenze sessuali, sparizioni forzate ed esecuzioni.”

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