Paola Mastrocola e Luca Ricolfi – Il danno scolastico
Le deportazioni di massa dei rifugiati afghani dal Pakistan
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di Valeria Cagnazzo
Pagine Esteri, Anabah, 21 novembre 2023 – Al confine tra il Pakistan e l’Afghanistan, le montagne continuano il racconto della terra in cielo. In questa stagione, le vette si uniscono al colore azzurro con un gesto leggero, che ne fa sbiadire i contorni rocciosi e le confonde con il celeste come in un cinguettio, come se nei millenni di sorveglianza alla frontiera la catena dell’Hindu Kush si fosse convertita alla lingua degli uccelli. Il ghiaccio in questa stagione colora le cime come la punta di un pastello sbriciolata da un temperino.
Le montagne dell’Hindu Kush si rincorrono per oltre 800 chilometri dalle regioni centro-occidentali dell’Afghanistan a quelle nord-orientali del Pakistan. Le più alte superano i 7.000 metri di altitudine – l’Himalaya non è troppo distante, con i suoi scalatori, le sue vertigini, gli scheletri seppelliti lungo i suoi crinali. Ottemperando per millenni al suo lavoro di reggere il cielo come un vestito, l’Hindu Kush ha di volta in volta svelato agli uomini riserve di lapislazzuli azzurri come i suoi ghiacci nella valle di Kowkchech, o di smeraldi nella valle del Panjshir, questo pozzo di luce dove mi trovo e dove sventolano le bandiere di Emergency dal 1999, o, ancora, ha fatto riaffiorare dalle sue radici i gioielli di Alessandro Magno, il re viaggiatore ossessionato dal superamento delle frontiere. La storia ha attraversato questi massicci con valichi e passi che permettessero in ogni direzione il movimento degli uomini, il contatto tra le culture, lo scambio delle merci, delle stoffe, delle spezie, delle lingue. Più che il tempo, è stata la guerra, come sempre, a logorarne tanti: durante l’occupazione militare del Paese a partire dal 2001, gli Stati Uniti sfruttarono molti di questi passi nella montagna per muovere i loro mezzi militari corazzati, rendendone molti, ancora oggi, inagibili.
Oltre che della natura montuosa, il confine tra Afghanistan e Pakistan è opera soprattutto del disegno degli uomini. Si chiama “linea Durand” la frontiera che per 2.640 km separa i due Paesi. Definita a tavolino alla fine dell’’800, aveva lo scopo di delimitare i territori della Corona Britannica in India da tutto quello che si trovava subito a nord, vale a dire un impero russo in espansione verso sud e verso gli sbocchi sul mare. Per frenarlo, quindi, l’allora emiro afghano fu convinto dagli ambasciatori britannici a ratificare questa frontiera. Si divisero ufficialmente, così, i due stati, con una barriera che, inutile dirlo, spaccava in due intere comunità pashtun.
In queste settimane, è lungo questa frontiera che si sta giocando la vita di quasi due milioni di profughi afghani.
Alla vigilia dell’inverno, due mesi fa, le autorità pakistane hanno, infatti, annunciato il nuovo piano di estradizione dal Paese degli immigrati illegali, in prima battuta dei rifugiati afghani senza documento di soggiorno, con un invito a lasciare il Pakistan entro il primo novembre. A partire da quella data, il Ministro degli Interni ha promesso che il governo avrebbe messo in campo tutti i mezzi per deportare i clandestini afghani rimasti. E, di fatto, è con estrema rapidità che la macchina dell’estradizione forzata si è messa in moto e, tra il 15 settembre e l’11 novembre, 327.000 profughi afghani sono già rientrati nel loro Paese d’origine, molti costretti anche sotto la minaccia dell’arresto, mentre un altro milione e settecentomila di loro rischia di affrontare lo stesso destino.
Per decenni, il Pakistan ha ospitato rifugiati dall’Afghanistan, in fuga dalla guerra, dalle persecuzioni o dalla miseria del loro Paese. Due ondate di migrazioni, in particolare, hanno segnato la diaspora afghana oltre il confine: la prima, nel 1979, ai tempi dell’occupazione sovietica del Paese. La seconda, che coinvolse almeno 800.000 persone, solo due anni fa, quando nell’agosto 2021 i talebani tornarono al potere, a seguito dell’uscita dal Paese delle forze internazionali che avevano occupato l’Afghanistan per oltre vent’anni e che adesso lo lasciavano in maniera caotica, con sagome di disperati aggrappati ai carrelli dei loro aerei di ritorno.
In tutto, il Pakistan sarebbe casa oggi per almeno 3.7 milioni di rifugiati afghani secondo le Nazioni Unite. Una popolazione che le autorità tengono a dividere in due sottogruppi: gli immigrati legali, ovvero i circa 1,3 milioni di rifugiati afghani regolarmente registrati, a cui si aggiungono altri 840.000 afghani in possesso di un altro tipo di documento che ne riconosca l’asilo, temporaneo o meno; e quelli, invece, illegali, che hanno attraversato la frontiera clandestinamente, percorrendo uno dei tanti passi che la traforano per il passaggio di treni merce e bestiame. Questi ultimi, nel giro di pochissimo tempo, sono finiti in cima alle agende del governo di Anwaar-ul-Haq Kakar con una sola risoluzione: la deportazione.
Non basta l’inverno imminente a fermare il piano di creare un improvviso popolo di due milioni di profughi rimpallati da un versante all’altro della frontiera. Profughi nel loro Paese. Per quanto anche questa definizione, per la grande maggioranza di questa massa di persone oggetto della discordia tra Aghanistan e Pakistan, sia inesatta: dal 1979 ad oggi, sono trascorsi 44 anni. Vale a dire una vita. Molti dei rifugiati che il governo pakistano vuole adesso rigettare indietro con un colpo di scopa sono nati in Pakistan, lì sono cresciuti, lì hanno frequentato la scuola, e magari ci si sono innamorati e vi hanno messo su una famiglia e una casa. Buona parte di loro non ha più nessun legame in Afghanistan, meno che mai con il nuovo-vecchio Paese amministrato dal governo de facto dei talebani.
Né l’Afghanistan sarebbe pronto a ricevere questa ondata di persone. La crisi umanitaria, per quanto lontana dai riflettori mediatici, continua a tenere quasi la totalità della popolazione, oltre 24 milioni di abitanti, sotto la soglia di povertà, e a rendere dipendente almeno la metà dall’assistenza internazionale, il cui intervento nel Paese, però, si è drasticamente ridotto dopo il ritorno dei talebani. I quali rigettano la politica pakistana di deportazione dei rifugiati, e annunciano, intanto, l’allestimento dei primi campi profughi transitori per fornire cibo e aiuto temporaneo ai deportati afghani.
Le tensioni tra i due Paesi si inaspriscono di giorno in giorno, ma il Pakistan non accetta intimidazioni e sembra sordo anche alle denunce della comunità internazionale: per il governo pakistano, i rifugiati afghani senza documento sono “un problema di sicurezza” da risolvere con urgenza. Secondo il Ministro degli Interni pakistano Sarfraz Bugti, dei 24 attentati suicidi avvenuti in Pakistan nell’ultimo anno, almeno 14 sarebbero riconducibili a residenti di nazionalità afghana. “Sono attacchi contro di noi da parte dell’Afghanistan e gli afghani sono coinvolti in questi attacchi. Ne abbiamo le prove”, avrebbe aggiunto. Accuse che l’autoproclamatosi Emirato Islamico dell’Afghanistan ha rigettato, dichiarando che l’Afghanistan non può essere colpevolizzato del “fallimento della sicurezza” di altri Paesi nella regione.
Quasi due milioni di persone sono diventate il pericolo da epurare per sbarazzarsi dallo spettro della violenza terroristica nel Paese. Al costo di incrinare definitivamente i rapporti politici ed economici con l’Afghanistan, ma con il beneficio di investire le deportazioni nella propaganda politica per le elezioni annunciate per il mese di febbraio 2024.
Da Ginevra, il 15 novembre scorso l’Alto Commissario per i Diritti Umani Volker Turk si è detto “allarmato” dai report che riferiscono gli abusi, i maltrattamenti, le detenzioni arbitrarie, la distruzione delle proprietà e delle estorsioni che stanno caratterizzando l’ondata di deportazioni condotte dal Pakistan contro i profughi afghani. L’obiettivo è, secondo molte testimonianze, quello di rendere la vita dei profughi afghani impossibile, così da costringerli con la forza a lasciare tutto affrontando il viaggio verso l’ignoto. Raid notturni, sequestro di gioielli e beni di prima necessità, fino alla chiusura di attività commerciali e all’arresto di rifugiati per ore o per giorni. Ferma è arrivata la condanna anche da parte della ONG Amnesty International, che ha chiamato il Pakistan a “fermare le deportazioni”.
“C’è un senso di paura nella comunità afghana, viviamo costantemente in ansia, sigilliamo le porte appena sentiamo le auto della polizia avvicinarsi”, ha raccontato Junaid in un report di Amnesty International.
“Migliaia di rifugiati afghani stanno venendo usati come pedine politiche”, ha denunciato Livia Saccardi, che per la ONG è Regional Director per l’Asia Meridionale, “per essere riportati nell’Afghanistan a guida talebana dove la loro vita e la loro integrità fisica potrebbe essere in pericolo, nel pieno di un crollo dei diritti umani e di una catastrofe umanitaria in corso. Nessuno dovrebbe essere sottoposto a deportazioni forzate di massa, e il Pakistan dovrebbe ricordare bene i suoi obblighi secondo il diritto internazionale, incluso il principio di non-respingimento”.
Per agevolare le operazioni, il governo pakistano ha costruito 49 centri di detenzione, che preferisce definire “di transito”, con la possibilità di realizzarne di nuovi. Non esiste, tuttavia, un ordinamento legale che regolamenti la gestione dei centri. In almeno di sette di questi, sempre Amnesty ha potuto documentare la totale assenza del rispetto dei diritti umani come il diritto a un avvocato o di comunicare con i familiari, che spesso assistono alla scomparsa di un loro caro senza riceverne più notizie.
Una volta superato il confine, le prime vittime della deportazione sarebbero, poi, senza dubbio le donne e le bambine, strappate da un giorno all’altro alla possibilità di ricevere un’educazione e di avere un lavoro e una vita pubblica.
“Il Pakistan deve assicurare la protezione per gli individui che potrebbero affrontare persecuzioni, torture, maltrattamenti o altri irrimediabili rischi in Afghanistan”, ha dichiarato l’Alto Commissario Turk. “Questo include le donne e le bambine, gli ufficiali e il personale di sicurezza del precedente governo, le minoranze etniche e religione, gli attivisti per i diritti umani e della società civile e gli operatori mediatici”.
“Questi nuovi sviluppi sono un cambio di passo della lunga tradizione pakistana di accogliere, generosamente, rifugiati afghani in vasti numeri”, ha aggiunto Turk. Già tra il 2015 e il 2016, tuttavia, quando le relazioni politiche col governo afghano iniziavano a deteriorarsi, ai profughi afghani in Pakistan era spettato un destino molto simile, con raid e maltrattamenti denunciati da Human Rights Watch e minacce di deportazioni di massa, in molti casi andate a termine. Né i richiami dell’Onu o di Amnesty intimidiscono adesso il governo pakistano, che nella persona del Ministro dell’Informazione Jan Achakzai promette che “tutti i profughi afghani saranno deportati entro la fine di gennaio”.
Il Pakistan non è il solo, del resto, a volersi liberare degli immigrati afghani proprio nel cuore della stagione più fredda. Anche dall’Iran, più in sordina, nella sola scorsa settimana sarebbero stati rimpatriati circa 20.000 rifugiati.
In Afghanistan, intanto, un sole tardivo ancora riscalda, fino al tramonto, e le vette si imbiancano lentamente, una alla volta, come un presagio di futuro dal cielo. Ma il clima secco già spacca le mani e le labbra, e la notte il gelo arriva improvviso sul petto, come una coperta bagnata. La frontiera afghana si prepara incredula a venire attraversata migliaia di volte per consegnare all’inverno più cupo e al freddo più disperato i suoi antichi figli senza più una casa.
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In Cina e Asia – Crisi Medio Oriente, Pechino lavora con i player regionali
I titoli di oggi: Crisi Medio Oriente, Pechino lavora con i player regionali Xi chiede a Macron più investimenti in Cina Mar cinese meridionale, le Filippine propongono un codice di condotta senza la Cina Il nuovo leader argentino Milei minaccia di rivedere le relazioni con la Cina Insurrezione in Myanmar: stranieri e cooperanti trasferiti in territorio protetto Guerra Israele-Hamas: ...
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Golden power su Safran. Perché la cosa riguarda anche i caccia europei
Il governo italiano ha esercitato il suo diritto di Golden power per bloccare l’acquisizione da un miliardo e ottocento milioni da parte di Safran, società francese specializzata nella costruzione di motori a reazione, dell’italiana Microtecnica, filiale della controllata di Raytheon Technologies (Rtx), Collins Aerospace. La motivazione dietro la decisione del governo riguarda la preoccupazione che l’operazione possa influire sulla fornitura di componenti-chiave per il programma Eurofighter, nel quale Roma collabora con Londra, Berlino e Madrid (mentre Parigi preferì perseguire il proprio programma nazionale Rafale). Secondo quanto riportato dal Financial Times, sulla base del documento del governo italiano, la motivazione alla base dell’impiego del Golden power, di cui Roma si sarebbe consultata anche con Berlino, sarebbe che Safran non avrebbe dato “la necessaria priorità alle linee di produzione industriale di interesse per la difesa nazionale”, esprimendo la preoccupazione che l’accordo potesse portare all’interruzione delle forniture di parti di ricambio e servizi per i programmi di caccia Eurofighter e Tornado, necessari per garantire i requisiti operativi della Nato. Di conseguenza, l’Italia ha concluso che l’accordo “rappresenta una minaccia eccezionale agli interessi essenziali della difesa e della sicurezza nazionale”.
Lo stop a Safran
Il blocco da parte di Roma di un’acquisizione da parte di una società di un Paese alleato europeo o della Nato è un fatto relativamente raro. Nonostante la dichiarazione dell’amministratore delegato di Safran, Olivier Andriès, secondo il quale le resistenze verso la sua società sarebbero infondate, dato che il gruppo è già fornitore dell’Eurofighter e di altri programmi italiani, la decisione del governo segnala l’attenzione riposta per il settore della Difesa e per il destino delle sue aziende. Se finora la maggior parte degli interventi in questo senso hanno rappresentato il blocco di acquisizioni da parte di aziende cinesi verso realtà italiane in settori strategici, Difesa in primis (ma anche energia e comunicazioni).
Il dossier dei caccia
Il tema, tuttavia, tocca un ambito molto particolare, dove in Europa si muovono da tempo diverse direttrici di tensione che coinvolgono Parigi, Berlino e Roma, quello dei caccia. Il caso di Safran, infatti, verte sul programma congiunto che Italia, Germania, Regno Unito e Spagna hanno portato avanti per la realizzazione di un caccia di quarta generazione. Oggi sta prendendo forma una situazione simile, con l’Italia impegnata ancora una volta con la Gran Bretagna (e il Giappone) per la realizzazione del caccia di sesta generazione Global combat air programme (Gcap), mentre Francia e Germania sono impegnate nel progetto parallelo del Fcas. Tuttavia, mentre il Gcap è ormai decollato (si attende a dicembre il vertice tra ministri dei Paesi partner che vedrà la nascita del consorzio responsabile della sua realizzazione), il programma franco-tedesco è paralizzato da una serie di attriti che coinvolgono Eliseo e Cancellierato.
Berlino verso il Gcap?
La condivisione con Berlino della decisione italiana sul Safran, tra l’altro, rimanda all’ipotesi, più volte avanzata (anche se sempre smentita) di un potenziale allontanamento tedesco dal programma Fcas per una possibile adesione al Gcap. Nel corso dell’ultimo anno, infatti, si sono susseguiti attriti e incomprensioni tra Germania e Francia su tutti i programmi d’armamento condivisi, da quello aereo del caccia a quello terrestre del carro armato Main ground combat system (Mgcs). Oltre alle voci degli esperti (una fra tutte, quella del capo di Stato maggiore dell’Aeronautica militare, generale Luca Goretti, che ha sempre auspicato una convergenza dei due programmi aerei europei) sull’impossibilità per l’Europa di mantenere due progetti paralleli così ambiziosi in un campo avanzato come la sesta generazione di caccia, anche i ritardi del Fcas, messi a paragone con lo slancio del Gcap, potrebbe rappresentare un valido incentivo per Berlino per decidere definitivamente di abbandonare la difficile cooperazione con Parigi, preferendole la più ampia collaborazione con gli altri partner europei.
FPF Offers Input on Massachusetts Student Data Privacy Proposal
On October 30, FPF provided testimony before a hearing of the Massachusetts Joint Committee on Education regarding H.532/S.280, an Act Relative to Student and Educator Data Privacy.
Read our written testimony in full.
Our testimony focused on highlighting relevant FPF resources for policymakers (including a case study on student privacy in Utah, our state student privacy laws tracker, and a series of student data privacy ethics training scenarios), and sharing our thoughts on both things we believe the bill does well, as well as recommendations for changes and improvements.
FPF’s Director of Youth & Education Privacy, David Sallay, discussed his previous experience as chief privacy officer for the Utah State Board of Education and applauded policymakers for calling for the creation of a similar role in H.523/S.280. During the hearing, he also highlighted how the role could help address several of the other bills that were discussed, including providing support to rural schools and to Massachusetts’ educator-to-career data center. By designating privacy-focused personnel and requiring training, Massachusetts has an opportunity to improve structure, transparency, and consistency for schools, districts, and parents.
FPF’s testimony also included several recommendations and improvements, including expanding the bill’s student data privacy training requirements beyond educators, as procurement, IT, and other administrative staff often also have access to covered data. One component of the bill that will likely prove to be controversial is the broad private right of action included in the enforcement provisions. We expect this to be the subject of continued discussion and debate in the legislature. Citing his experience in Utah, David noted that granting the chief privacy officer role the authority to investigate alleged violations of student privacy laws, could help streamline and simplify enforcement.
Read our written testimony and watch the hearing.
Ma quale “attentato alla Costituzione”: i sindacati non hanno letto von Hayek
Affari&Finanza – La Repubblica
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Guerra sottomarina: gli USA stanno perdendo la superiorità sulla Cina
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di Redazione
Pagine Esteri, 20 novembre 2023 – Secondo il quotidiano economico statunitense “Wall Street Journal”, Washington sta perdendo la supremazia nella guerra sottomarina, che ha mantenuto per decenni, a causa dei rapidi progressi di Pechino sul fronte delle tecnologie di propulsione e rilevamento.
In un articolo il quotidiano ricorda che all’inizio di quest’anno la Cina ha varato un sottomarino d’attacco con sistema di propulsione a idrogetto. Si tratta del primo utilizzo di tale sistema di propulsione avanzato, che anche gli Stati Uniti stanno introducendo. Alcuni mesi prima del varo, foto satellitari del cantiere per sottomarini a propulsione navale di Huludao aveva mostrato sezioni di un sottomarino di dimensioni senza precedenti in Cina. Pechino – scrive il “Wall Street Journal” – sta rapidamente colmando il divario con gli Stati Uniti in termini di rumorosità dei sistemi propulsivi e capacità di rilevamento sottomarino, che sino ad oggi rendevano i sottomarini d’attacco statunitensi assai superiori a quelli cinesi.
La Cina può inoltre far leva sulla sua capacità manifatturiera per produrre sottomarini a un ritmo superiore a quello degli Stati Uniti, come già sta accadendo per diverse categorie di navi da guerra, inclusi i cacciatorpediniere lanciamissili.
Nel 2021 è stato completato nei cantieri navali di Huludao un secondo complesso per l’assemblaggio, consentendo così al cantiere di lavorare contemporaneamente alla fabbricazione di due sottomarini.
Nel frattempo, il Pacifico sta diventando un teatro sempre più pericoloso per i sottomarini statunitensi: Pechino ha quasi completato la realizzazione di una serie di reti di sensori subacquei nota come “Grande muraglia sottomarina”, destinata a monitorare il Mar Cinese Meridionale e altre regioni chiave al largo delle coste cinesi.
L’Esercito Popolare di Liberazione cinese si sta dotando di ulteriori capacità di contrasto nei confronti dei sommergibili, con l’acquisizione di un maggior numero di aerei ed elicotteri per il pattugliamento marittimo in grado di interagire con le sonoboe collocate in mare.
Il “Wall Street Journal” ricorda che ad agosto le forze armate cinesi hanno effettuato una vasta esercitazione di lotta antisommergibile nel Mar Cinese Meridionale protrattasi per più di 40 ore, col coinvolgimento di decine di aerei da pattugliamento marittimo e lotta antisommergibile Y-8. Secondo il quotidiano statunitense, che nota anche la rapida espansione della flotta cinese di superficie, «l’era di dominio incontrastato degli Stati Uniti nei mari attorno alla Cina sta giungendo al termine». – Pagine Esteri
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GAZA. 12 uccisi nell’ospedale indonesiano, morti e feriti a Jabaliya
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della redazione
Pagine Esteri, 20 novembre 2023 – Almeno 12 palestinesi sono stati uccisi e decine feriti nelle ultime ore da spari contro l’ospedale Indonesiano circondato dai carri armati israeliani. Lo denunciano fonti della struttura sanitaria situata nel nord della Striscia di Gaza. Non ci sono stati commenti sino ad ora da parte dell’esercito israeliano sui colpi contro l’ospedale dove si trovano ancora 700 pazienti insieme al personale medico.
L’agenzia di stampa palestinese WAFA riferisce che la struttura nella città di Beit Lahia è stata colpita da colpi di artiglieria e che ci sono stati sforzi frenetici per evacuare i civili in pericolo. Il personale ospedaliero ha negato la presenza di militanti armati nei locali. Come tutte le altre strutture sanitarie nella metà settentrionale di Gaza, l’ospedale indonesiano ha in gran parte cessato le attività, ma continua a ospitare pazienti, personale e residenti sfollati.
L’Indonesia ha condannato “l’attacco di Israele all’ospedale” istituito con suoi finanziamenti, aggoiungendo che lo Stato ebraico ha violato le leggi umanitarie internazionali. Israele sostiene che le sue forze a Gaza attaccano “infrastrutture terroristiche” e ha ordinato l’evacuazione totale del nord, dove però rimangono ancora migliaia di civili, molti dei quali si rifugiano negli ospedali.
Israele non cessa la sua offensiva di terra.
Violenti scontri a fuoco tra militanti armati di Hamas e forze israeliane sono in corso anche nel campo profughi di Jabalia, nel nord di Gaza, in cui vivono 100.000 rifugiati palestinesi. Israele lo considera “un’importante roccaforte militante”. I ripetuti bombardamenti israeliani di Jabalia hanno ucciso molte decine di civili nelle ultime settimane. Video mostrano attacchi aerei e truppe che vanno casa per casa.
Intanto cibo, carburante, medicine e acqua potabile stanno finendo in tutta Gaza sotto l’assedio israeliano che dura da sei settimane. Nel sud, dove si stanno rifugiando centinaia di migliaia di sfollati dal nord, almeno 14 palestinesi sono stati uccisi in due attacchi israeliani contro case a Rafah, secondo le autorità sanitarie di Gaza.
Oggi un gruppo di 28 neonati prematuri evacuati dallo Shifa, il più grande ospedale di Gaza, sono stati portati in Egitto per cure urgenti. Altri neonati sono morti dopo che le loro incubatrici erano state messe fuori uso a causa del collasso dei servizi medici durante l’assalto militare israeliano a Gaza City.
Le forze israeliane hanno sequestrato lo Shifa la settimana scorsa per cercare “una rete di tunnel di Hamas” sotto l’ospedale. Centinaia di pazienti, personale medico e sfollati lo hanno lasciato nel fine settimana. I medici hanno denunciato di essere stati espulsi dalle truppe. Secondo Israele le partenze sono state volontarie. Pagine esteri
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Rigenerata, un racconto sulla libertà e il piacere di andare in bicicletta
Come conclusione ideale di Libriamoci 2023, giornate di lettura a voce alta, vi presento qui in formato audio e in formato testo “Rigenerata” un racconto che parla della libertà e del piacere di andare in bicicletta.
Il racconto si può ascoltare da qui: funkwhale.it/library/tracks/12…
Un grosso grazie va a Cristina Castigliola (cristinacastigliola.it/index.p…), la bravissima attrice e speaker che ci ha regalato il suo tempo e la sua voce.
Il testo è tratto dalla raccolta Fatte di storie curata da Clara Marcolin e realizzata nell'ambito del progetto LibLab presso la biblioteca di Cormano (MI).
Il progetto LibLab, sviluppato tra il febbraio 2018 e il marzo 2019, ha coinvolto cinque biblioteche del CSBNO in un viaggio alla scoperta del Design Thinking e della progettazione partecipata, per rendere gli utenti protagonisti ed ideatori di servizi innovativi.
I testi sono stati scritti e condivisi attraverso la lettura ad alta voce da un gruppo di utenti italiane e straniere della biblioteca di Cormano.
Il testo del racconto si può scaricare da qui: dgxy.link/Rigenerata
L'autrice del testo ha deciso di rimanere anonima firmandosi con lo pseudonimo di Chitta.
Buona lettura e buon ascolto 😀
#bici #bicicletta #cicliste #lettura #podcast #fediverso #funkwhale
@Rivoluzione mobilità urbana🚶🚲🚋 @macfranc @il_biciclista 🚲 :antifa: 🌈 @Marcos M.
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È disponibile il nuovo numero della newsletter del Ministero dell’Istruzione e del Merito.
🔶 Il MIM al JOB&Orienta 2023.
Ministero dell'Istruzione
#NotiziePerLaScuola È disponibile il nuovo numero della newsletter del Ministero dell’Istruzione e del Merito. 🔶 Il MIM al JOB&Orienta 2023.Telegram
Scuola di Liberalismo 2023 – Messina: lezione del prof. Lorenzo Infantino sul tema “Conoscenza e processo sociale”
Settimo appuntamento dell’edizione 2023 della Scuola di Liberalismo di Messina, promossa dalla Fondazione Luigi Einaudi ed organizzata in collaborazione con l’Università degli Studi di Messina e la Fondazione Bonino-Pulejo. Il corso, giunto alla sua tredicesima edizione, si articolerà in 15 lezioni, che si svolgeranno sia in presenza che in modalità telematica, dedicate alle opere degli autori più rappresentativi del pensiero liberale.
La settima lezione si svolgerà lunedì 20 novembre, dalle ore 17 alle ore 18.30, in diretta streaming sulla piattaforma ZOOM.
La lezione sarà tenuta dal prof. Lorenzo Infantino (Ordinario di Metodologia delle Scienze Sociali presso l’Università LUISS Guido Carli di Roma, nonché Presidente della Fondazione von Hayek – Italia), che relazionerà sull’opera “Conoscenza e processo sociale” di Friedrich August von Hayek.
La partecipazione all’incontro è valida ai fini del riconoscimento di 0,25 CFU per gli studenti dell’Università di Messina.
Come da delibera del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Messina e della Commissione “Accreditamento per la formazione” di AIGA, è previsto il riconoscimento di n. 12 crediti formativi ordinari in favore degli avvocati iscritti all’Ordine degli Avvocati di Messina per la partecipazione all’intero corso.
Per ulteriori informazioni riguardanti la Scuola di Liberalismo di Messina, è possibile contattare lo staff organizzativo all’indirizzo mail SDLMESSINA@GMAIL.COM
Pippo Rao Direttore Generale della Scuola di Liberalismo di Messina
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Scuola di Liberalismo 2023 – Messina: lezione del prof. Lorenzo Infantino sul tema “
Settimo appuntamento dell’edizione 2023 della Scuola di Liberalismo di Messina, promossa dalla Fondazione Luigi Einaudi ed organizzata in collaborazione con l’Università degli Studi di Messina e la Fondazione Bonino-Pulejo. Il corso, giunto alla sua tredicesima edizione, si articolerà in 15 lezioni, che si svolgeranno sia in presenza che in modalità telematica, dedicate alle opere degli autori più rappresentativi del pensiero liberale.
La settima lezione si svolgerà lunedì 20 novembre, dalle ore 17 alle ore 18.30, in diretta streaming sulla piattaforma ZOOM.
La lezione sarà tenuta dal prof. Lorenzo Infantino (Ordinario di Metodologia delle Scienze Sociali presso l’Università LUISS Guido Carli di Roma, nonché Presidente della Fondazione von Hayek – Italia), che relazionerà sull’opera “Conoscenza e processo sociale” di Friedrich August von Hayek.
La partecipazione all’incontro è valida ai fini del riconoscimento di 0,25 CFU per gli studenti dell’Università di Messina.
Come da delibera del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Messina e della Commissione “Accreditamento per la formazione” di AIGA, è previsto il riconoscimento di n. 12 crediti formativi ordinari in favore degli avvocati iscritti all’Ordine degli Avvocati di Messina per la partecipazione all’intero corso.
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Pippo Rao Direttore Generale della Scuola di Liberalismo di Messina
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Cosa cambia con i nuovi velivoli da combattimento senza pilota. L’analisi di Marrone e Calcagno
L’uso dei velivoli senza pilota nelle operazioni militarista subendo una profonda trasformazione. Il conflitto in Ucraina è stato caratterizzato fin dai primi mesi di guerra da un uso massiccio di droni da parte di entrambi gli schieramenti: da apparecchi commerciali e acquistabili a poche centinaia di euro come i DJI Mavic 3 fino a droni armati militari ad ala fissa come il TB-2 Bayraktar turco. Tuttavia, un conflitto tra avversari grossomodo di pari livello in termini di numeri e capacità come quello in Ucraina sta dimostrando quanto i droni tradizionali siano vulnerabili a sistemi di difesa aera avanzati come i SAMP/T italofrancesio gli S-300 e S-400 russi. Se questi sistemi, conosciuti anche come uncrewedaerial systems (Uas), restano del tutto rilevanti in conflitti asimmetrici, risulta necessario lo sviluppo e impiego di sistemi molto più sofisticati e pensati specificamente per operazioni in spazi aerei contesi. Anche per questo motivo in vari Paesi sono in atto programmi volti allo sviluppo dei cosiddetti uncrewed combat aeril systems (Ucas).
Gli Ucas si distinguono in modo sostanziale dai tradizionali Uas in quanto più adatti alla guerra ad alta intensità con avversari quasi alla pari, essendo capaci di trasportare armamenti sofisticati raggiungendo velocità superiori e mantenendo al tempo stesso caratteristiche di bassa osservabilità. Grazie anche a tecnologie legate all’intelligenza artificiale gli Ucas sono perciò destinati ad agire più autonomamente di fronte a minacce aeree e sistemi terrestri di difesa aerea, spesso a fianco di velivoli di quarta, quinta e sesta generazione. Di conseguenza, pur avendo alcuni aspetti in comune con gli odierni droni armati, gli Ucas differiscono sostanzialmente da questi in termini di prestazioni, utilizzo operativo, e costi.
Diversi Paesi nel mondo stanno puntando a dotarsi di questa capacità, di cui si discuterà il 21 novembre nel webinar Iai “Velivoli da combattimento senza pilota, intelligenza artificiale e futuro della difesa”. Gli Usa vantano la gamma più ampia di programmi in questo ambito, con l’obiettivo iniziale di estendere il ‘braccio’ dei velivoli pilotati rendendo gli Ucas dei moltiplicatori di forze. È tuttavia probabile che nel medio e lungo termine questa capacità (negli Usa come altrove) venga vista sempre di più come uno strumento impiegabile anche indipendentemente dagli aerei pilotati. La Us Air Force sta investendo nel programma Collaborative Combat Aircraft (CCA) per mettere in servizio almeno 1.000 Ucas che agiranno in concerto con aerei da combattimento muniti di pilota nel ruolo di loyalwingmen, o adjuncts. La Us Navy invece ha come priorità quella della messa in servizio dell’MQ-25A Stingray, in principio specializzato nel rifornimento in volo per gli aerei da combattimento lanciati dalle portaerei, in seguito con armamenti a bordo.
Nonostante gli sviluppi in Cina in questo settore siano generalmente avvolti nella segretezza, Pechino vanta un programma Ucas abbastanza avanzato. Il Gonji-11 (GJ-11), evoluzione del dimostratore Sharp Sword, che decollò per il suo volo inaugurale nel 2013, sembra essere progettato per operare nel ruolo di supporto aereo e bombardamento tattico. Vari modelli sono stati inoltre presentati dalle industrie cinesi, facendo intendere l’esistenza di altri concetti (se non addirittura programmi) legati allo sviluppo di Ucas sia indipendenti da piattaforme pilotate, come il CH-7, che adjunct, come il Dark Sword.
La Russia ha concentrato i propri sforzi in questo campo nello sviluppo del Su-70 ‘Okhnotnik-B’, un Ucas pesante specializzato in missioni di bombardamento. Secondo le autorità russe il Su-70 dovrebbe operare all’interno di formazioni miste insieme ai velivoli da combattimento a bassa osservabilità Sukhoi Su-57, anche se ci sono vari dubbi sulla validità di questo accoppiamento visto il gap di velocità massima dell’Ucas rispetto al ben più veloce Su-57. La facoltà da parte di un pilota di poter pilotare il proprio velivolo e contemporaneamente controllare uno o più Ucas richiede un alto livello di automazione all’interno dell’abitacolo di modo da minimizzare il più possibile il carico di lavoro. L’industria di Mosca non ha però le capacità necessarie per adattare il Su-70a questo ruolo anche a causa delle sanzioni imposte sul Paese dopo l’invasione dell’Ucraina nel 2022.
L’Europa invece si trova oggi indietro rispetto ai progressi fatti da altri Paesi, ed è urgente riflettere su come recuperare terreno.
Ministero dell'Istruzione
#NoiSiamoLeScuole questa settimana racconta del plesso scolastico “Giovanni Modugno” dell’IC “Modugno-Rutigliano-Rogadeo” di Bitonto, in provincia di Bari, che sarà demolito e ricostruito grazie alla linea di investimento dedicata dal #PNRR alla cost…Telegram
In Cina e Asia – Gaza, delegazione di paesi islamici a Pechino per fermare il conflitto
-Gaza, delegazione di paesi a maggioranza musulmana a Pechino per fermare il conflitto
-L'Apec chiude con la promessa di riformare l'Omc
-Cina, indagini a tappeto negli ospedali dopo lo scandalo del traffico di bambini
-Canada, uno dei "Due Michael" arrestati in Cina sostiene di essere stato usato per spiare la Corea del Nord
-L'Australia accusa la marina cinese di condotta "pericolosa e non professionale"
-Cina, mandato di cattura per i vertici di un'organizzazione di truffe telefoniche
-L'India ospita il Sud globale e organizza un G20 virtuale con Putin
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ARGENTINA. Javier Milei vince e porta il Paese a destra, ma non avrà vita facile
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di Massimo D’Angelo
Pagine Esteri, 20 novembre 2023 – Alla fine, l’ultraliberista antisistema Javier Milei ha vinto, confermando i pronostici iniziali e spostando l’Argentina decisamente a destra in un continente sudamericano in cui la sinistra ha riconquistato molto terreno negli ultimi anni. Con oltre il 55 percento dei voti, Milei sarà il nuovo presidente della Repubblica Argentina.
Le elezioni sono state definite le più incerte dal ritorno della democrazia in Argentina, quarant’anni fa, nel 1983.
Durante il primo turno, contrariamente ai pronostici e ai sondaggi, il partito progressista, giustizialista e peronista è arrivato primo, con l’attuale Ministro dell’Economia Sergio Massa che aveva ottenuto il 36,7% dei voti, mentre Milei – favorito da tutti – si era fermato al 30% dei voti.
I risultati del primo turno avevano dunque ribaltato a sorpresa i pronostici, dimostrando quanto fosse ancora vivo e potente l’apparato peronista nel paese. Contro ogni aspettativa, Massa era riuscito a dimostrare una buona capacità di raggiungere le sacche più povere del paese, le periferie e, soprattutto, di non essere l’uomo di Cristina Kirchner, già ex presidente e vicepresidente in carica della Repubblica Argentina. Kirchner, attualmente in attesa di giudizio da parte della Corte di Cassazione, dopo essere stata condannata a sei anni per corruzione dal tribunale di primo grado, è considerata da molti da tempo l’esponente politica più potente del partito. I suoi scontri con l’uscente presidente Fernandez, selezionato da lei stessa in passato, hanno portato alla scelta di un candidato di compromesso come Sergio Massa. Tuttavia, durante la campagna elettorale la ex presidente non ha speso una parola per il candidato del suo partito.
Dall’altro canto, Milei è riuscito a riconfermare l’appoggio del suo elettorato ottenuto durante il primo turno, oltre a conquistare il supporto dell’elettorato della coalizione di centrodestra, che era arrivata terza al primo turno. A poche ore dalle aperture delle urne, l’ex presidente della coalizione conservatrice Mauricio Macri ha dichiarato su X di votare a Milei, invitando l’elettorato di centrodestra a sconfiggere il candidato peronista Sergio Massa. L’Argentina rimane un paese fortemente polarizzato, e l’odio per il peronismo, potente macchina politica che domina il paese da decenni, si è catalizzato premiando il candidato ultraliberista Milei.
Milei si è presentato come il tipico candidato populista di estrema destra. La sua vicepresidente è un’alleata del partito spagnolo di estrema destra Vox. Si è dichiarato favorevole all’abolizione della banca centrale, alla totale dollarizzazione del Paese (nonostante le critiche sostenendo che il paese non disponga di sufficienti riserve di dollari) e a politiche controverse come la legalizzazione della vendita di organi umani. È inoltre contrario all’aborto, da poco legalizzato nel paese. Gli analisti individuano nel suo carisma anticonvenzionale e nella sua promessa di totale cambiamento la ragione del suo successo presso l’elettorato in difficoltà sociale ed economica.
Due i problemi imminenti per il nuovo presidente della repubblica: innanzitutto, occorrerà vedere cosa accadrà a partire da martedì, sui mercati finanziari. Secondo alcuni economisti, se Milei avesse vinto e dovesse insistere sulla dollarizzazione, l’aspettativa di svalutazione sarà così grande che il dollaro non avrà un tetto nel breve termine, a un punto tale da non poter prevedere cosa accadrà. In secondo luogo, Milei sarà costretto a trovare un compromesso politico. Entrerà in carica con soli 39 deputati su un totale di 257, mentre la maggioranza assoluta e il quorum richiedono 129 deputati. Milei avrebbe bisogno di altri 90 deputati per ottenere la maggioranza della camera bassa, una soglia molto alta. Il centrodestra potrebbe aggiungere i suoi 41 deputati, ma la somma ancora non sarebbe sufficiente, e all’amministrazione Milei mancherebbero quindi 49 per il quorum. Guillermo Francos, il principale consigliere politico di Milei, si è già espresso con parole molto conciliatorie: “La politica è dialogo, e lo è ancora di più quando al governo mancano le maggioranze parlamentari”. Al Senato, il rapporto di forza sarà peggiore per Milei perché lì il peronismo avrà la sua propria maggioranza autonoma.
Nonostante le proposte politiche provocatorie di Milei, il nuovo presidente si dovrà confrontare con un paese fortemente polarizzato, una maggioranza assente in parlamento e una situazione finanziaria disastrosa, per la quale sarà necessario aiuto esterno. I rischi sono molti, e perseguire una politica incendiaria potrebbe non favorirlo. Bisognerà capire quali saranno le sue prossime mosse politiche. Chissà che non si avveri il pronostico del suo oppositore Massa, il quale aveva dichiarato in campagna elettorale che se non fosse diventato presidente a questa tornata elettorale, lo sarebbe diventato entro un anno. Pagine Esteri
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La Germania si arma: “dobbiamo prepararci alla guerra”
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di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 20 novembre 2023 – Nei giorni scorsi il tribunale di Firenze ha riconosciuto la Germania colpevole di “crimini di guerra” e “crimini contro l’umanità” e ha condannato Berlino a risarcire i familiari di alcune vittime italiane delle forze di occupazione tedesche per crimini compiuti durante la Seconda Guerra Mondiale.
La giudice Susanna Zanda ha deciso un indennizzo di 50.000 euro a favore di Mirella Lotti, 88 anni, per l’assassinio del padre Giuliano Lotti, trucidato insieme ad altre 11 persone nella strage di Pratale compiuta il 23 luglio 1944. La giudice ha inoltre fissato un risarcimento di 25.000 euro, rivalutato con gli interessi a partire dal 1945, per Sergio e Katia Poneti, nipoti di Egidio Gimignani, che fu torturato e ucciso dai nazisti a Tavarnelle val di Pesa il 20 giugno 1944.
“La spina dorsale della sicurezza europea”
A distanza di 80 anni Berlino paga ancora le conseguenze del suo tradizionale militarismo, eppure il governo della Germania – che pure sta facendo i conti con la crisi economica più grave degli ultimi decenni – sta intraprendendo in queste settimane ulteriori passi verso la trasformazione delle sue forze armate in un esercito potente e pronto alla battaglia.
È un obiettivo che, tra stop and go, la Germania persegue da alcuni anni. Subito dopo l’invasione russa dell’Ucraina, nel marzo del 2022, il governo tedesco decise di destinare 100 miliardi di euro al rimodernamento delle sue forze armate, descritte da più parti come una “scatola vuota”.
Ma evidentemente lo stanziamento record di un anno e mezzo fa non è stato ritenuto sufficiente da Berlino che vuole fare di più e più in fretta.
«Oggi nessuno può seriamente dubitare della necessità (…) di una Bundeswehr potente» ha chiarito il 10 novembre il cancelliere tedesco Olaf Scholz partecipando ad una conferenza. La teoria del dirigente socialdemocratico è che «il nostro ordine di pace» sarebbe in pericolo; l’invasione russa dell’Ucraina obbligherebbe la Germania a trasformare il suo esercito in una forza combattente «potente e ben finanziata».
“Dobbiamo abituarci alla guerra in Europa”
«Dobbiamo riabituarci all’idea che in Europa possa esserci il pericolo di una guerra» ha dichiarato durante un’intervista rilasciata all’emittente tv “Zdf” il ministro della Difesa tedesco, Boris Pistorius. «Solo una Bundeswehr forte può impedire che accada il peggio» ha aggiunto chiarendo poi: «Abbiamo bisogno di una Bundeswehr che possa difendersi e fare la guerra per difendere la nostra sicurezza e la nostra libertà. Con la Zeitenwende (com’è stato ribattezzato il “grande cambiamento”, ndr) la Germania diventa un Paese adulto in termini di politica di sicurezza».
La nuova dottrina militare tedesca – che sostituisce quella varata nel 2011 – è riassunta in un documento di 19 pagine intitolato “Linee guida per la politica della difesa” redatto da Pistorius e dal capo di Stato maggiore dell’esercito, generale Carsten Breuer, nel quale si afferma: «La guerra è tornata in Europa. La Germania e i suoi alleati devono ancora una volta fare i conti con una minaccia militare. L’ordine internazionale è sotto attacco in Europa e nel mondo. Viviamo a un punto di svolta».
«Come Stato e come società abbiamo trascurato per decenni la Bundeswehr» recita il testo, dimenticando che furono le potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale a imporre a Berlino – così come al Giappone– una Costituzione pacifista per impedire al paese di riarmarsi e di diventare nuovamente una minaccia per la pace.
Il nemico è la Russia (e la Cina)
Il documento strategico indica esplicitamente il nemico – «La Federazione Russa rimarrà la più grande minaccia alla pace e alla sicurezza nell’area euro-atlantica» – ma cita anche la lontana Cina, accusata di «rivendicare in modo sempre più aggressivo la supremazia regionale».
Sembrano passati secoli da quando Berlino considerava Mosca un partner strategico non solo per l’approvvigionamento degli idrocarburi ma anche per la costruzione di un ordine internazionale euro-asiatico stabile.
Ora la nuova dottrina punta alla riduzione delle missioni all’estero – che Berlino aveva intrapreso con entusiasmo negli anni scorsi, alla ricerca di un ruolo e di una proiezione militare internazionale inediti dopo la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale – per concentrarsi sul potenziamento delle proprie forze armate. Per sostenere l’esercito, il governo composto da socialdemocratici, verdi e liberali promette di rafforzare l’industria militare e di accelerare gli appalti militari. «L’azione centrale è il superamento della lentezza organizzativa e burocratica che da anni rallenta le truppe» ha spiegato il cancelliere. Per Pistorius e Breuer occorre rafforzare sia la cooperazione nel settore degli armamenti sia le esportazioni di materiale bellico, puntando in particolare sull’area dell’Indo-Pacifico così da «contenere le ambizioni politiche della Cina (…) che contraddice sempre più i valori e gli interessi» della Germania.
Evoluzione della spesa militare in Germania
Aumenta la spesa militare
Per dotarsi di un esercito “pronto alla guerra” la Germania ha deciso di aumentare la propria spesa militare portandola al 2% del Pil, come richiesto esplicitamente dal Patto Atlantico. «Garantiremo questo 2% a lungo termine, per tutti gli anni ’20 e ’30», ha promesso Scholz.
Come altri paesi della Nato – eclatante è il caso della Polonia – o del sistema di alleanze incentrato su Washington – come nel caso del Giappone– il comparto militare sta risucchiando sempre più risorse, sottratte ovviamente alla spesa sociale, al contrasto del cambiamento climatico, alla lotta contro le diseguaglianze.
Il 20 ottobre il ministero della Difesa tedesco ha informato che il prossimo anno saranno messi a disposizione del comparto già 71 miliardi tra bilancio ordinario e fondo speciale. In un’intervista al quotidiano “Handelsblatt”, Pistorius si è vantato del fatto che il suo dicastero è l’unico ad aver ricevuto un «incremento significativo» di risorse nel bilancio del 2024. Per soddisfare l’obiettivo del 2%, però, le spese per il comparto militare dovranno aumentare dai 50 miliardi attuali a 75 l’anno, perché il “fondo speciale” di 100 miliardi istituito lo scorso anno si esaurirà entro il 2027.
A ottobre la commissione Bilancio del Bundestag ha approvato l’acquisto del sistema di difesa aerea “Arrow 3” prodotto da Israele e dalla statunitense Boeing, per un costo di circa 4 miliardi, e di 4 droni sottomarini.
Entro il 2025 il governo tedesco si è dato l’obiettivo di formare una divisione armata e addestrata al combattimento da mettere a disposizione della Nato. Berlino dovrebbe poi inviare in Lituania una brigata di 4000 uomini, come promesso all’Alleanza Atlantica, ma il suo allestimento è in forte ritardo ed ha rivelato i “gravi problemi strutturali” delle forze armate che Scholz e Pistorius di sono impegnati a superare il prima possibile.
Nel governo Scholz si discute inoltre del ristabilimento di una certa forma di leva obbligatoria – abolita solo nel 2011 – per avere a disposizione un numero più alto di cittadini da mobilitare in caso di crisi bellica.
La competizione con Parigi
Berlino aspira esplicitamente a diventare “la spina dorsale” della difesa europea, mirando ad affiancare gli Stati Uniti all’interno della Nato ed entrando in competizione sul piano militare con Parigi, mentre per decenni si è accontentata di lasciare alla Francia la preminenza militare concentrandosi sullo sviluppo economico.
Recentemente il governo Scholz ha annunciato il raddoppio degli aiuti militari all’Ucraina (che pure è responsabile del sabotaggio del gasdotto Nord Stream) portandoli da 4 a 8 miliardi di euro. Dal 24 gennaio 2022, il governo tedesco ha impegnato 17 miliardi in aiuti militari a Kiev; si tratta di una cifra rilevante, che svetta rispetto ai 7 miliardi stanziati dal Regno Uniti e ai soli 500 milioni della Francia, potendo competere con i 42 degli Stati Uniti. Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.
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ARGENTINA. Javer Milei vince e porta il Paese a destra, ma non avrà vita facile
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di Massimo D’Angelo
Pagine Esteri, 20 novembre 2023 – Alla fine, l’ultraliberista antisistema Javier Milei ha vinto, confermando i pronostici iniziali e spostando l’Argentina decisamente a destra in un continente sudamericano in cui la sinistra ha riconquistato molto terreno negli ultimi anni. Con oltre il 55 percento dei voti, Milei sarà il nuovo presidente della Repubblica Argentina.
Le elezioni sono state definite le più incerte dal ritorno della democrazia in Argentina, quarant’anni fa, nel 1983.
Durante il primo turno, contrariamente ai pronostici e ai sondaggi, il partito progressista, giustizialista e peronista è arrivato primo, con l’attuale Ministro dell’Economia Sergio Massa che aveva ottenuto il 36,7% dei voti, mentre Milei – favorito da tutti – si era fermato al 30% dei voti.
I risultati del primo turno avevano dunque ribaltato a sorpresa i pronostici, dimostrando quanto fosse ancora vivo e potente l’apparato peronista nel paese. Contro ogni aspettativa, Massa era riuscito a dimostrare una buona capacità di raggiungere le sacche più povere del paese, le periferie e, soprattutto, di non essere l’uomo di Cristina Kirchner, già ex presidente e vicepresidente in carica della Repubblica Argentina. Kirchner, attualmente in attesa di giudizio da parte della Corte di Cassazione, dopo essere stata condannata a sei anni per corruzione dal tribunale di primo grado, è considerata da molti da tempo l’esponente politica più potente del partito. I suoi scontri con l’uscente presidente Fernandez, selezionato da lei stessa in passato, hanno portato alla scelta di un candidato di compromesso come Sergio Massa. Tuttavia, durante la campagna elettorale la ex presidente non ha speso una parola per il candidato del suo partito.
Dall’altro canto, Milei è riuscito a riconfermare l’appoggio del suo elettorato ottenuto durante il primo turno, oltre a conquistare il supporto dell’elettorato della coalizione di centrodestra, che era arrivata terza al primo turno. A poche ore dalle aperture delle urne, l’ex presidente della coalizione conservatrice Mauricio Macri ha dichiarato su X di votare a Milei, invitando l’elettorato di centrodestra a sconfiggere il candidato peronista Sergio Massa. L’Argentina rimane un paese fortemente polarizzato, e l’odio per il peronismo, potente macchina politica che domina il paese da decenni, si è catalizzato premiando il candidato ultraliberista Milei.
Milei si è presentato come il tipico candidato populista di estrema destra. La sua vicepresidente è un’alleata del partito spagnolo di estrema destra Vox. Si è dichiarato favorevole all’abolizione della banca centrale, alla totale dollarizzazione del Paese (nonostante le critiche sostenendo che il paese non disponga di sufficienti riserve di dollari) e a politiche controverse come la legalizzazione della vendita di organi umani. È inoltre contrario all’aborto, da poco legalizzato nel paese. Gli analisti individuano nel suo carisma anticonvenzionale e nella sua promessa di totale cambiamento la ragione del suo successo presso l’elettorato in difficoltà sociale ed economica.
Due i problemi imminenti per il nuovo presidente della repubblica: innanzitutto, occorrerà vedere cosa accadrà a partire da martedì, sui mercati finanziari. Secondo alcuni economisti, se Milei avesse vinto e dovesse insistere sulla dollarizzazione, l’aspettativa di svalutazione sarà così grande che il dollaro non avrà un tetto nel breve termine, a un punto tale da non poter prevedere cosa accadrà. In secondo luogo, Milei sarà costretto a trovare un compromesso politico. Entrerà in carica con soli 39 deputati su un totale di 257, mentre la maggioranza assoluta e il quorum richiedono 129 deputati. Milei avrebbe bisogno di altri 90 deputati per ottenere la maggioranza della camera bassa, una soglia molto alta. Il centrodestra potrebbe aggiungere i suoi 41 deputati, ma la somma ancora non sarebbe sufficiente, e all’amministrazione Milei mancherebbero quindi 49 per il quorum. Guillermo Francos, il principale consigliere politico di Milei, si è già espresso con parole molto conciliatorie: “La politica è dialogo, e lo è ancora di più quando al governo mancano le maggioranze parlamentari”. Al Senato, il rapporto di forza sarà peggiore per Milei perché lì il peronismo avrà la sua propria maggioranza autonoma.
Nonostante le proposte politiche provocatorie di Milei, il nuovo presidente si dovrà confrontare con un paese fortemente polarizzato, una maggioranza assente in parlamento e una situazione finanziaria disastrosa, per la quale sarà necessario aiuto esterno. I rischi sono molti, e perseguire una politica incendiaria potrebbe non favorirlo. Bisognerà capire quali saranno le sue prossime mosse politiche. Chissà che non si avveri il pronostico del suo oppositore Massa, il quale aveva dichiarato in campagna elettorale che se non fosse diventato presidente a questa tornata elettorale, lo sarebbe diventato entro un anno. Pagine Esteri
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La Cina e la crisi a Gaza: tra derive "antisemite” e ambizioni globali
Dall’attacco del 7 ottobre la Cina ha cercato di proporsi come un interlocutore super partes tra Palestina e Israele, vantando buoni rapporti un po’ in tutto il Medio Oriente. Oltre il linguaggio felpato della diplomazia, occorre però notare l’esistenza di impercettibili chiaroscuri. Il dibattito online e sui media statali si rivela molto utile per cogliere le sfumature della postura cinese
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AGGIORNAMENTI. GAZA. L’Oms: evacuati 32 neonati dallo Shifa ormai “zona della morte”
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AGGIORNAMENTI 19 NOVEMBRE
ORE 16.30
Fonti giornalistiche di Gaza affermano che sono almeno 15 gli uccisi dai nuovi massicci raid aerei israeliani sui sobborghi a est e a nord est di Gaza city, in particolare a Jabaliya e Zeitun, dove l’esercito dello Stato ebraico ha lanciato un”altra offensiva nelle ultime 24 ore. Queste vittime vanno ad aggiungersi alle decine di morti e feriti nei bombardamenti di ieri sulla scuola dell’agenzia Unrwa (Onu) “Al Fakhoura” e sulla città di Khan Yunis. Il commissario generale dell’Unrwa, Philippe Lazzarini ha denunciato che sono circa 200 i civili rimasti uccisi sino ad oggi nelle scuole e nei centri della sua agenzia dove avevano cercato rifugio dai bombardamenti aerei.
ORE 14
L’Organizzazione Mondiale della Sanità e le Nazioni Unite hanno evacuato 32 neonati prematuri dall’ospedale Al-Shifa. Quattro bambini sono morti nei giorni scorsi a causa della mancanza di corrente per le incubatrici. Nell’ospedale restano 25 membri del personale medico e 291 pazienti, due dei quali in terapia intensiva senza ventilazione e 22 sottoposti a dialisi.
Negli ultimi due o tre giorni si sono verificati diversi decessi a causa dell’interruzione forzata dell’assistenza medica.
Ieri un team dell’OMS ha visitato l’ospedale per valutare la situazione e lo ha descritto come una “zona della morte”. Ha potuto però trascorrere solo un’ora all’interno dello Shifa a causa delle restrizioni imposte dall’esercito israeliano che da giorni occupa l’ospedale. Ha riferito tra le altre cose che i corridoi dell’ospedale sono pieni di rifiuti con il rischio di infezioni.
—————————————————————————————————————————-
AGGIORNAMENTI 18 NOVEMBRE
ORE 21.30
Il ministero della sanità a Gaza ha aggiornato a 64 il numero dei palestinesi uccisi nell’attacco aereo su Khan Yunis.
Philippe Lazzarini, capo dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA) ha dichiarato di aver ricevuto immagini e filmati “terribili” di decine di palestinesi uccisi e feriti nell’attacco israeliano alla scuola Al Fakhoura nel nord di Gaza. “Questi attacchi non possono diventare un luogo comune, devono finire. Un cessate il fuoco umanitario non può più aspettare”, ha affermato Lazzarini.
Hamas comunica di aver perduto contatto con i suoi uomini responsabili per la sorveglianza degli ostaggi israeliani e stranieri.
Il premier israeliano Netanyahu ha ribadito che le pressioni internazionali non fermeranno Israele e che l’offensiva a Gaza andrà avanti. Ha anche sminuito le notizie che vorrebbero imminente uno scambio tra ostaggi e prigionieri politici palestinesi.
Ore 13.20
Israele bombarda la scuola ONU Fakhoora, nel nord di Gaza, utilizzata come rifugio da centinaia di persone. Le immagini mostrano un grande numero di vittime tra cui molti bambini.
pagineesteri.it/wp-content/upl…
Ore 12.30
L’ospedale al-Shifa di Gaza è stato quasi completamente evacuato dopo l’ordine che medici e pazienti dichiarano di aver ricevuto dai militari israeliani. L’esercito ha poi negato di aver imposto l’evacuazione ma al momento controlla completamente l’ospedale quasi deserto. All’interno solo qualche medico, i pazienti più gravi, tra i quali i neonati prematuri sopravvissuti e i loro familiari.
Pazienti e sfollati che vi avevano trovato rifugio si stanno spostando a piedi verso sud, secondo le indicazioni che ritengono gli siano state date da Israele. Tuttavia, al Jazeera ha fatto sapere che testimoni oculari hanno dichiarato di aver trovato, lungo la strada principale, indicata come via di evacuazione sicura da Israele, i checkpoint dell’esercito che permetterebbe solamente alle donne di passare e tratterrebbe al nord tutti gli uomini.
della redazione
(foto di archivio, commons.wikimedia)
Pagine Esteri, 18 novembre 2023 – La tv al Jazeera riporta che l’esercito israeliano ha intimato a staff medico, pazienti e sfollati nell’al Shifa di Gaza city di evacuare l’ospedale entro un’ora. L’agenzia di stampa palestinese Wafa aggiunge che 26 persone sono state uccise durante la notte in un attacco israeliano a edifici di Khan Younis nel sud di Gaza. In Cisgiordania cinque palestinesi sono stati uccisi la scorsa notte in un attacco di droni israeliani nel campo profughi di Balata, contro una edificio usato dalle Brigate dei Martiri di Al Aqsa (Fatah).
Queste notizie giungono mentre lancia Israele lancia un nuovo avvertimento ai palestinesi della città meridionale di Khan Younis affinché si allontanino subito verso Ovest, indicando così l’intenzione di attaccare nel sud dopo aver già occupato il nord. Una mossa del genere potrebbe costringere centinaia di migliaia di palestinesi fuggiti a sud dall’assalto israeliano a Gaza City a fuggire nuovamente, insieme ai residenti di Khan Younis, una città di oltre 400.000 abitanti, peggiorando una terribile crisi umanitaria.
Un portavoce militare ha detto che le truppe israeliane dovranno avanzare su Khan Yunis “per cacciare i combattenti di Hamas dai tunnel sotterranei e dai bunker”.
Israele ha bombardato gran parte di Gaza city riducendola in macerie e ordinato lo sfollamento dell’intera metà settentrionale di Gaza lasciando senza casa circa due terzi dei 2,3 milioni di palestinesi della Striscia. Uno sfollamento che potrebbe diventare permanente.
Ieri le autorità sanitarie di Gaza hanno aumentato il bilancio dei palestinesi uccisi a oltre 12.000, 5.000 dei quali bambini. Le Nazioni Unite ritengono credibili queste cifre, anche se ora vengono aggiornate raramente a causa della difficoltà di raccogliere informazioni. Pagine Esteri
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AGGIORNAMENTI. GAZA. L’Oms: evacuati 32 neonati dallo Shifa ormai “zona della morte”
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AGGIORNAMENTI 19 NOVEMBRE
ORE 14
L’Organizzazione Mondiale della Sanità e le Nazioni Unite hanno evacuato 32 neonati prematuri dall’ospedale Al-Shifa. Quattro bambini sono morti nei giorni scorsi a causa della mancanza di corrente per le incubatrici. Nell’ospedale restano 25 membri del personale medico e 291 pazienti, due dei quali in terapia intensiva senza ventilazione e 22 sottoposti a dialisi.
Negli ultimi due o tre giorni si sono verificati diversi decessi a causa dell’interruzione forzata dell’assistenza medica.
Ieri un team dell’OMS ha visitato l’ospedale per valutare la situazione e lo ha descritto come una “zona della morte”. Ha potuto però trascorrere solo un’ora all’interno dello Shifa a causa delle restrizioni imposte dall’esercito israeliano che da giorni occupa l’ospedale. Ha riferito tra le altre cose che i corridoi dell’ospedale sono pieni di rifiuti con il rischio di infezioni.
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AGGIORNAMENTI 18 NOVEMBRE
ORE 21.30
Il ministero della sanità a Gaza ha aggiornato a 64 il numero dei palestinesi uccisi nell’attacco aereo su Khan Yunis.
Philippe Lazzarini, capo dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA) ha dichiarato di aver ricevuto immagini e filmati “terribili” di decine di palestinesi uccisi e feriti nell’attacco israeliano alla scuola Al Fakhoura nel nord di Gaza. “Questi attacchi non possono diventare un luogo comune, devono finire. Un cessate il fuoco umanitario non può più aspettare”, ha affermato Lazzarini.
Hamas comunica di aver perduto contatto con i suoi uomini responsabili per la sorveglianza degli ostaggi israeliani e stranieri.
Il premier israeliano Netanyahu ha ribadito che le pressioni internazionali non fermeranno Israele e che l’offensiva a Gaza andrà avanti. Ha anche sminuito le notizie che vorrebbero imminente uno scambio tra ostaggi e prigionieri politici palestinesi.
Ore 13.20
Israele bombarda la scuola ONU Fakhoora, nel nord di Gaza, utilizzata come rifugio da centinaia di persone. Le immagini mostrano un grande numero di vittime tra cui molti bambini.
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Ore 12.30
L’ospedale al-Shifa di Gaza è stato quasi completamente evacuato dopo l’ordine che medici e pazienti dichiarano di aver ricevuto dai militari israeliani. L’esercito ha poi negato di aver imposto l’evacuazione ma al momento controlla completamente l’ospedale quasi deserto. All’interno solo qualche medico, i pazienti più gravi, tra i quali i neonati prematuri sopravvissuti e i loro familiari.
Pazienti e sfollati che vi avevano trovato rifugio si stanno spostando a piedi verso sud, secondo le indicazioni che ritengono gli siano state date da Israele. Tuttavia, al Jazeera ha fatto sapere che testimoni oculari hanno dichiarato di aver trovato, lungo la strada principale, indicata come via di evacuazione sicura da Israele, i checkpoint dell’esercito che permetterebbe solamente alle donne di passare e tratterrebbe al nord tutti gli uomini.
della redazione
(foto di archivio, commons.wikimedia)
Pagine Esteri, 18 novembre 2023 – La tv al Jazeera riporta che l’esercito israeliano ha intimato a staff medico, pazienti e sfollati nell’al Shifa di Gaza city di evacuare l’ospedale entro un’ora. L’agenzia di stampa palestinese Wafa aggiunge che 26 persone sono state uccise durante la notte in un attacco israeliano a edifici di Khan Younis nel sud di Gaza. In Cisgiordania cinque palestinesi sono stati uccisi la scorsa notte in un attacco di droni israeliani nel campo profughi di Balata, contro una edificio usato dalle Brigate dei Martiri di Al Aqsa (Fatah).
Queste notizie giungono mentre lancia Israele lancia un nuovo avvertimento ai palestinesi della città meridionale di Khan Younis affinché si allontanino subito verso Ovest, indicando così l’intenzione di attaccare nel sud dopo aver già occupato il nord. Una mossa del genere potrebbe costringere centinaia di migliaia di palestinesi fuggiti a sud dall’assalto israeliano a Gaza City a fuggire nuovamente, insieme ai residenti di Khan Younis, una città di oltre 400.000 abitanti, peggiorando una terribile crisi umanitaria.
Un portavoce militare ha detto che le truppe israeliane dovranno avanzare su Khan Yunis “per cacciare i combattenti di Hamas dai tunnel sotterranei e dai bunker”.
Israele ha bombardato gran parte di Gaza city riducendola in macerie e ordinato lo sfollamento dell’intera metà settentrionale di Gaza lasciando senza casa circa due terzi dei 2,3 milioni di palestinesi della Striscia. Uno sfollamento che potrebbe diventare permanente.
Ieri le autorità sanitarie di Gaza hanno aumentato il bilancio dei palestinesi uccisi a oltre 12.000, 5.000 dei quali bambini. Le Nazioni Unite ritengono credibili queste cifre, anche se ora vengono aggiornate raramente a causa della difficoltà di raccogliere informazioni. Pagine Esteri
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L'articolo AGGIORNAMENTI. GAZA. L’Oms: evacuati 32 neonati dallo Shifa ormai “zona della morte” proviene da Pagine Esteri.
Speranza costruttiva
La pazienza, dice un detto vero, è la virtù dei forti. Perché il forte può aspettare, non è impaziente. Anche noi possiamo aspettare il Regno che viene e vivere nell’oggi, perché conosciamo la verità del Regno di Dio arrivato in Gesù Cristo e che ritornerà nella sua gloria. Nonostante tutto quindi siamo forti, pur nella nostra debolezza di esseri umani.
Possiamo affrontare il futuro, dunque, con speranza sapendo che, anche se il Regno non lo instauriamo noi, già possiamo muoverci come suoi cittadini: costituendo la chiesa insieme, agendo nella società con responsabilità, intervenendo con amore del prossimo, specie quando è in difficoltà. Dalla predicazione su Romani 8:18-25
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Speranza costruttiva
La fede dona speranza nel ritorno del Signore e ci fa vedere l’intervento dello Spirito, in momenti particolari, ciò ci rafforza nella speranza cristiana. E ...YouTube
Taiwan Files – Salta l’annuncio del candidato d’opposizione
Sabato 18 novembre doveva essere il giorno dell'annuncio del candidato unitario dell'opposizione dialogante con Pechino per le presidenziali di gennaio. L'annuncio non è mai arrivato, perché il Taiwan People's Party di Ko Wen-je non ha accettato il "margine d'errore" dei sondaggi d'opinione inizialmente concordato con il Guomindang. C'è tempo fin a venerdì 24 per depositare le candidature, ma ricucire appare complicato. Il Dpp sorride e aspetta, senza accordo Lai Ching-te è strafavorito. Incognita sul terzo (quarto?) incomodo Gou Taiming. Appendice sul summit Biden-Xi visto da Taiwan. Puntata speciale della rassegna di Lorenzo Lamperti con notizie e analisi da Taipei (e dintorni)
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Biden e Xi
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Ben(e)detto del 18 novembre 2023
Il "grande gioco” di Guadalcanal
Dall'epica battaglia iniziata ottantuno anni fa ai giochi del Pacifico. La geografia non cambia: Guadalcanal (e quindi l'arcipelago delle Isole Salomone) resta una dei siti più strategici del Pacifico.
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GAZA. Israele ordina a 400mila palestinesi di Khan Yunis di fuggire verso Ovest
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della redazione
(foto di archivio, commons.wikimedia)
Pagine Esteri, 18 novembre 2023 – La tv al Jazeera riporta che l’esercito israeliano ha intimato a staff medico, pazienti e sfollati nell’al Shifa di Gaza city di evacuare l’ospedale entro un’ora. L’agenzia di stampa palestinese Wafa aggiunge che 26 persone sono state uccise durante la notte in un attacco israeliano a edifici di Khan Younis nel sud di Gaza. In Cisgiordania cinque palestinesi sono stati uccisi la scorsa notte in un attacco di droni israeliani nel campo profughi di Balata, contro una edificio usato dalle Brigate dei Martiri di Al Aqsa (Fatah).
Queste notizie giungono mentre lancia Israele lancia un nuovo avvertimento ai palestinesi della città meridionale di Khan Younis affinché si allontanino subito verso Ovest, indicando così l’intenzione di attaccare nel sud dopo aver già occupato il nord. Una mossa del genere potrebbe costringere centinaia di migliaia di palestinesi fuggiti a sud dall’assalto israeliano a Gaza City a fuggire nuovamente, insieme ai residenti di Khan Younis, una città di oltre 400.000 abitanti, peggiorando una terribile crisi umanitaria.
Un portavoce militare ha detto che le truppe israeliane dovranno avanzare su Khan Yunis “per cacciare i combattenti di Hamas dai tunnel sotterranei e dai bunker”.
Israele ha bombardato gran parte di Gaza city riducendola in macerie e ordinato lo sfollamento dell’intera metà settentrionale di Gaza lasciando senza casa circa due terzi dei 2,3 milioni di palestinesi della Striscia. Uno sfollamento che potrebbe diventare permanente.
Ieri le autorità sanitarie di Gaza hanno aumentato il bilancio dei palestinesi uccisi a oltre 12.000, 5.000 dei quali bambini. Le Nazioni Unite ritengono credibili queste cifre, anche se ora vengono aggiornate raramente a causa della difficoltà di raccogliere informazioni. Pagine Esteri
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La flotta cinese bullizza ancora. Sonar contro una nave australiana
Canberra ha espresso le “più serie preoccupazioni” a Pechino a seguito di “un’interazione poco sicura e poco professionale” tra una nave militare australiana con un cacciatorpediniere della Marina dell’Esercito di liberazione popolare (Pla-N).
L’episodio, su cui Formiche.net ha ricevuto una nota per la stampa qualche ora fa, è avvenuto il 14 novembre 2023, quando la “Hmas Toowoomba”, una fregata Classe Amzac, si trovava all’interno della Zona Economica Esclusiva del Giappone per una visita portuale programmata.
La Toowoomba era nella regione per condurre “operazioni a sostegno all’applicazione delle sanzioni delle Nazioni Unite (non viene definito quali, ndr). Si era fermata per condurre attività di immersione al fine di rimuovere le reti da pesca che si erano impigliate intorno alle sue eliche. In ogni momento, la Toowoomba ha comunicato la sua intenzione di condurre le operazioni di immersione sui normali canali marittimi e utilizzando segnali riconosciuti a livello internazionale. Mentre era ferma, un cacciatorpediniere della Pla-N che operava nelle vicinanze si è avvicinato. [A quel punto la Toowoomba] ha nuovamente avvisato il cacciatorpediniere [cinese] che erano in corso operazioni di immersione e ha chiesto alla nave di tenersi a distanza di sicurezza. Nonostante il riconoscimento delle comunicazioni, la nave cinese si è avvicinata. Poco dopo, è stata rilevata azionare il sonar montato sullo scafo in modo da mettere a rischio la sicurezza dei sommozzatori australiani che sono stati costretti a uscire dall’acqua”.
Il comunicato stampa del governo australiano bolla la decisione immotivata e deliberata cinese come “condotta non sicura e non professionale”, e aggiunge che “le valutazioni mediche fatte dopo l’uscita dall’acqua hanno rilevato che i sommozzatori [australiani] avevano riportato ferite minori, probabilmente a causa degli impulsi sonar del cacciatorpediniere cinese”.
La Cina non è nuova a certe attività di bullismo che mettono a rischio la sicurezza delle acque di una regione estesa, l’Indo Pacifico, dove le tensioni non mancano. Recentemente, i battelli militari e quelli della flottiglia ibrida dei pescherecci cinesi hanno in più di un’occasione avvicinato per disturbare le attività delle forze armate filippine. Per almeno tre volte ci sono stati attacchi fisici, una collisione e due usi di cannoni ad acqua. Manila è il principale degli obiettivi, perché Pechino l’ha recentemente persa. Con il cambio presidenziale dello scorso anno, le Filippine di Ferdinand Marcos Jr hanno velocemente implementato la cooperazione — anche militare — con gli Stati Uniti — e la Cina ha perso svariate aliquote dell’influenza rafforzata durante la presidenza di Rodrigo Duterte.
Se la vicenda filippina è la rivisitazione in chiave moderna di come l’America smuova gli equilibri regionali — e dunque alteri i piani cinesi — con l’Australia la questione è diversa. La Cina ha sempre mosso molta influenza nel Paese, sebbene Canberra, anglofona e occidentalizzata totalmente, sia storica alleata americana. Negli ultimi anni, per rappresaglia a decisioni australiane (anche dettate dagli Usa), la Cina aveva avviato pratiche di coercizione economica contro l’Australia, ma recentemente era sembrata possibile una distensione.
Anthony Albanese era stato in visita a Pechino, e non succedeva dal 2016 che un primo ministro australiano entrasse nella Città Proibita. I rapporti tra Canberra e Pechino si erano deteriorati terribilmente nel 2018, quando il governo australiano — su indicazione americana — tagliò fuori Huawei dal proprio 5G. In mezzo accuse sull’uso strategico degli expat cinesi per influenzare le dinamiche politiche australiane, l’appoggio a Washington per un’inchiesta sulle origini del Covid, una guerra commerciale, l’accordo Aukus (che permetterà all’Australia, grazie a Usa e Uk, di ottenere una dotazione di sommergibili nucleari e missili Tomahawk). La coercizione economica ha complicato l’export di prodotti agro-alimentari australiani, su cui Pechino ha imposto dazi pesanti), e considerando che la Cina è il primo partner commerciale dell’Australia non è stato semplice.
Albanese era a Pechino pochi giorni prima del vertice tra Joe Biden e Xi Jinping. In un quadro di volontà di comunicazione tra le due potenze, l’australiano commentava che adesso ci sono “segnali promettenti” per riavviare una “discussione costruttiva” con Pechino, e quello che faceva era anche frutto di un equilibrio delicato che certi Paesi hanno la necessità di tenere. D’altronde, l’Australia fa parte di coloro che in questo momento possono più facilmente intavolare relazioni con la Cina se le comunicazioni Washington-Pechino funzionano, mentre devono tenere una linea più severa in altre fasi.
Nei giorni ancora precedenti, Albanese era a Washington, e — come ricordava Guido Santevecchi, guru sulla Cina al Corriere della Sera — durante il loro incontro Biden aveva rievocato il vecchio principio enunciato da Ronald Reagan quando trattava con i sovietici: “Mostrare fiducia e verificare”. La vicenda della Toowoomba è già una prima verifica su quella fiducia concessa? Possibile che la notizia sia stata diffusa solo adesso per non alterare il clima del summit Biden-Xi, che c’è stato il 15 novembre. Ora la vicenda viene fatta circolare anche per calmare letture eccessivamente positive dell’incontro e questioni a cascata (come riflessi sulle politiche interne dei Paesi coinvolti)?