L’ingiustizia economica si sta radicando nel mondo arabo
Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint
di Nur Arafeh* – carnegie-mec.org
(traduzione di Federica Riccardi, foto di Adelita Mead)
Il malcontento socio-economico è aumentato in diversi paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Nel 2019 si è registrata un’ondata di proteste in paesi, tra cui Sudan, Iraq, Libano, Marocco, Giordania e Algeria, che non hanno vissuto le rivolte arabe del 2010-2011. Oltre a rivendicare cambiamenti nei loro sistemi politici, i manifestanti chiedevano una revisione completa dei sistemi economici, denunciando l’impennata dei prezzi, le disparità di ricchezza, l’appropriazione delle risorse e dei flussi di rendita da parte delle élite e l’assenza di giustizia economica.
Il Medio Oriente e il Nord Africa sono caratterizzati da una disuguaglianza economica eccezionalmente elevata rispetto ad altre regioni del mondo. La pandemia COVID-19, la guerra in Ucraina e le conseguenti crisi del debito, del cibo e dell’energia che hanno colpito la regione hanno ulteriormente esacerbato le disparità socioeconomiche. Ciò ha lasciato i segmenti più vulnerabili ed emarginati della popolazione a fronteggiare la scarsità di cibo, le fluttuazioni dei prezzi, l’aumento delle temperature dovuto ai cambiamenti climatici, la scarsità d’acqua, il degrado del territorio e la limitata spesa governativa per i servizi pubblici. La lotta alle disuguaglianze non è stata una priorità dei governi della regione. Tuttavia, dovrebbe esserlo, viste le implicazioni per la crescita economica, la coesione sociale e il potenziale indebolimento delle istituzioni rappresentative e il conseguente consolidamento dei regimi populisti.
LA REGIONE PIÙ DISEGUALE DEL MONDO
La regione del Medio Oriente e del Nord Africa è tra le più diseguali al mondo. Uno studio, che ha cercato di misurare l’entità e l’evoluzione della concentrazione del reddito nella regione tra il 1990 e il 2016, ha rilevato che circa il 64% del reddito totale è andato al 10% dei percettori di reddito, rispetto al 37% dell’Europa occidentale, al 47% degli Stati Uniti e al 55% del Brasile. Nel frattempo, il 50% della popolazione della regione ha ricevuto solo il 9% del reddito complessivo, rispetto al 18% in Europa.
Questi alti livelli di concentrazione del reddito derivano sia dalla disuguaglianza all’interno dei paesi che tra i paesi stessi, in particolare tra gli stati più ricchi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) e altri stati con popolazioni più numerose. Tuttavia, anche escludendo i paesi del CCG dall’analisi, i livelli di disuguaglianza rimangono molto elevati, con il 10% dei percettori di reddito che riceve più del 50% del reddito regionale totale per tutto il periodo 1990-2016. Il divario di reddito è evidente anche se si guarda al coefficiente Gini in Medio Oriente e Nord Africa, che misura il grado di disuguaglianza economica nei paesi. Tra il 2015 e il 2020, il coefficiente Gini è rimasto nell’intervallo tra il 65% e il 75% in diversi paesi arabi, con il 100% che riflette la massima iniquità.
Queste tendenze dei livelli di disuguaglianza sono state associate a una contrazione della classe media nella regione. La dimensione della classe media ha iniziato a diminuire intorno al 2013 ed è scesa al di sotto del 40% negli ultimi anni, mentre i paesi, soprattutto quelli a basso e medio reddito (LMIC), sono alle prese, tra le tante sfide, con ricorrenti crisi del debito, austerità, aumento dei livelli di povertà, servizi pubblici sottofinanziati, distribuzione ineguale delle risorse, conflitti, aumento dell’economia informale, alti tassi di disoccupazione, sistemi fiscali iniqui e cambiamenti climatici.
Queste disuguaglianze si sono ulteriormente aggravate e consolidate durante la pandemia COVID-19, che ha colpito in modo sproporzionato le comunità più vulnerabili, tra cui i poveri, i rifugiati e coloro impegnati nel settore informale. Mentre 16 milioni di persone sono state spinte in condizione di povertà durante la pandemia, facendo salire il numero totale di indigenti nella regione a oltre 116 milioni, la metà più povera della popolazione del Medio Oriente e del Nord Africa ha visto la propria ricchezza ridursi di un terzo. Il residente medio della regione, a sua volta, ha visto una diminuzione della propria ricchezza di circa il 28%.
Nel frattempo, i ricchi della regione hanno aumentato il loro controllo su beni e società finanziarie. Tra il 2019 e il 2022 la loro ricchezza netta è aumentata del 60%, mentre i miliardari hanno beneficiato di un incremento del 22% del patrimonio, a testimonianza dell’acuirsi del divario in Medio Oriente e Nord Africa a seguito della pandemia.
Ad esempio, mentre il crollo economico e finanziario del Libano dal 2019 ha fatto cadere in povertà il 60% della popolazione, la ricchezza netta delle persone più ricche del Paese è quasi raddoppiata tra il 2020 e il 2022. Allo stesso modo, mentre l’Egitto è alle prese con una crisi del debito e del costo della vita, i ricchi hanno visto la loro ricchezza aumentare di oltre la metà nello stesso periodo, proprio come in Giordania. Secondo il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite per l’Asia occidentale, i paesi arabi rappresentano la metà dei sedici paesi del mondo che, dopo la pandemia, hanno registrato l’aumento più significativo della disuguaglianza in termini di distribuzione della ricchezza.
L’estremo livello di concentrazione della ricchezza nella regione è evidenziato dal fatto che la ricchezza combinata dei tre individui più facoltosi della regione, pari a 26,3 miliardi di dollari durante la pandemia, ha superato la ricchezza totale dei 222,5 milioni di cittadini più indigenti, pari a 25,5 miliardi di dollari.
Questi alti livelli di iniquità sono ulteriormente aggravati dall’impennata del debito nella regione. A ciò si aggiungono la riduzione dello spazio fiscale, gli alti tassi di inflazione, le svalutazioni monetarie e la crisi del costo della vita, che hanno caratterizzato il Medio Oriente e il Nord Africa (in particolare i paesi a basso reddito) negli ultimi anni, soprattutto dopo lo scoppio del conflitto in Ucraina.
PERCHÉ LA DISUGUAGLIANZA È IMPORTANTE
Affrontare la disuguaglianza dovrebbe essere una preoccupazione cruciale per i paesi della regione, che hanno però ampiamente trascurato il problema. Il motivo per cui è prioritario ridurre le disuguaglianze è che riguardano la giustizia sociale, ma anche perché le disparità socioeconomiche hanno profonde conseguenze economiche, sociali e politiche che influenzeranno lo sviluppo a lungo termine del Medio Oriente e del Nord Africa.
La disuguaglianza economica è un fattore causale strutturale dell’instabilità globale e delle crisi finanziarie. È stato dimostrato che si traduce in strutture economiche instabili e meno efficienti, che soffocano la crescita economica e la partecipazione delle persone al mercato del lavoro. Poiché i ricchi, che detengono una quota maggiore di reddito, tendono a spendere una parte minore del loro reddito rispetto ai poveri, la distribuzione ineguale del reddito finisce per diminuire la domanda aggregata e può quindi ostacolare la crescita economica. La disuguaglianza economica pregiudica anche gli sforzi di riduzione della povertà e porta alla perdita del potenziale produttivo e a un’allocazione inefficiente delle risorse.
Sul fronte sociale, questi divari economici sono riconosciuti per i loro effetti sulla mobilità sociale, portando alla trasmissione di opportunità diseguali da una generazione all’altra. Inoltre, crea trappole della povertà, in cui gli individui che si trovano all’estremità inferiore dello spettro di reddito rimangono intrappolati in un ciclo di indigenza, poiché l’assenza di risorse porta a ulteriori limitazioni delle stesse.
In particolare, in Medio Oriente e Nord Africa, la concentrazione del reddito e della ricchezza nelle mani di pochi ha portato all’emergere di una società duale, in cui una categoria di persone può accedere a servizi privati di buona qualità, come l’istruzione, la sanità e altri servizi di base, mentre un’altra può accedere solo a servizi di base di qualità molto inferiore, solitamente forniti in modo inadeguato dal settore pubblico. Creando scissioni all’interno della società, la disuguaglianza economica erode il senso di comunità, riduce la coesione sociale e alimenta tensioni e conflitti, aprendo la strada alla disintegrazione della società, ai disordini politici e a una generale precarietà.
Combattere l’elevata disuguaglianza è fondamentale anche perché, con le fratture che crea all’interno dell’economia e della società, è stata associata all’emergere di plutonomie, sistemi in cui un piccolo segmento ricco della popolazione beneficia principalmente della crescita economica. Poiché la distribuzione del reddito e della ricchezza determina in larga misura la distribuzione del potere nei sistemi politici, questo porta a due risultati.
In primo luogo, si crea un circolo vizioso in cui la disuguaglianza economica porta alla disuguaglianza politica, permettendo ai ricchi di usare il potere politico per radicare i loro interessi economici nelle istituzioni sociali e proteggere così il loro status, il che non fa che rafforzare ulteriormente le disuguaglianze economiche. Questo fenomeno viene talvolta definito “trappola della disuguaglianza“, che permette di evitare che i ricchi scivolino verso il basso nella scala socioeconomica, impedendo al contempo la mobilità verso l’alto degli indigenti.
Un secondo risultato è che la disuguaglianza politica, in un momento in cui le disparità economiche sono più accentuate, mette sempre più a rischio le istituzioni rappresentative ed erode la fiducia nelle istituzioni pubbliche. Diversi studi hanno infatti dimostrato che la disuguaglianza economica tende a rafforzare il potere autocratico ed è uno dei fattori chiave alla base del malcontento popolare e del crescente populismo nel mondo. Di conseguenza, si potrebbe ipotizzare che in Medio Oriente e in Nord Africa l’aumento della disuguaglianza possa essere un fattore trainante dell’ondata degli uomini forti in politica e del crescente successo di figure populiste che capitalizzano il risentimento e la frustrazione della popolazione.
Senza politiche efficaci, gli attuali alti livelli di disuguaglianza non solo persisteranno, ma molto probabilmente aumenteranno ulteriormente. Il cambiamento climatico rischia di esacerbare questa tendenza, poiché colpirà in modo sproporzionato i poveri e i più vulnerabili, che sopporteranno il peso dell’aumento delle temperature, del degrado dei terreni e dei problemi legati alla disponibilità e ai prezzi del cibo. Anche l’intelligenza artificiale, le tecnologie digitali emergenti e l’automazione potrebbero aggravare le disuguaglianze, in quanto potrebbero aumentare in modo sproporzionato i guadagni dei lavoratori ad alto reddito e dei proprietari di capitali.
Pertanto, è della massima urgenza affrontare la disuguaglianza nella regione intraprendendo serie riforme strutturali radicate nel perseguimento della giustizia economica. Una riforma urgente, tra le tante, prevede l’ampliamento dello spazio fiscale e il potenziamento della mobilitazione delle risorse interne, soprattutto allargando la base imponibile e rendendo il sistema fiscale più progressivo per garantire una struttura fiscale più equa. La diversificazione delle fonti di finanziamento pubblico consentirebbe agli stati di aumentare la spesa per la sicurezza sociale, l’assistenza sociale e l’istruzione, che sarebbero fondamentali per migliorare il benessere sociale e combattere le diverse dimensioni della disuguaglianza.
In assenza di tali riforme, e in presenza di un continuo disinteresse dei governi per il problema della disuguaglianza, si profila all’orizzonte una crisi significativa per la regione.
LINK ORIGINALE
carnegie-mec.org/2024/02/02/ec…
*Nur Arafeh è borsista presso il Malcolm H. Kerr Carnegie Middle East Center, dove il suo lavoro si concentra sull’economia politica della regione MENA, sulle relazioni tra imprese e Stati, sulle strategie di costruzione della pace, sul nesso sviluppo-sicurezza e sulle questioni tra Palestina e Israele.
Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint
L'articolo L’ingiustizia economica si sta radicando nel mondo arabo proviene da Pagine Esteri.
Emily Fox likes this.
Sabrina Web 📎 reshared this.
Ma scusa, caro Draghi, tu sai che l’Europa è piccola e debole e la getti in una guerra a rischio nucleare con la Russia?
A causa della guerra in Ucraina, l'Europa è più debole e piccola di prima.
Alessandro Orsini
Un'agenzia di credito tedesca guadagna milioni grazie alla manipolazione illegale dei clienti L'azienda utilizza disegni manipolativi per impedire alle persone di ottenere una copia gratuita dei loro dati in conformità con la legge
Chi è Carmine Masiello, nuovo capo di Stato maggiore dell’Esercito
Sarà il generale Carmine Masiello il nuovo capo di Stato maggiore dell’Esercito. L’avvicendamento con il generale Pietro Serino avverrà nel giro di un paio di settimane, con la scadenza del mandato triennale (fissata al 27 febbraio). La nomina da parte del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro Guido Crosetto. Sulla tabella di marcia di Serino il compito di guidare l’Esercito in un contesto complesso per la Difesa italiana, nel contrasto a minacce in rapida evoluzione, in vista soprattutto del processo di modernizzazione dei sistemi e delle dottrine dell’Esercito per il prossimo futuro, a partire dalla modernizzazione delle piattaforme e dei sistemi d’arma nel nuovo paradigma del multidominio.
Il profilo
Nato il 28 giugno 1963 a Casagiove, in provincia di Caserta, il generale Masiello è sottocapo di Stato maggiore della Difesa. In precedenza è stato vice direttore generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza dal 2018. Dal 2016 al 2018 è stato consigliere militare del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. Ufficiale di artiglieria, ha iniziato la sua carriera nel 185º reggimento artiglieria paracadutisti Folgore. Tra gli incarichi svolti, è stato capo Ufficio generale del capo di Stato maggiore dell’Esercito dal 2011 al 2015, e successivamente della Difesa fino al 2016. Tra i ruoli operativi, il generale Masiello ha comandato il Regional Command West in Afghanistan dall’aprile al settembre 2011, e la brigata paracadutisti Folgore, dove in precedenza aveva comandato il 185º Reggimento paracadutisti ricognizione acquisizione obiettivi “Folgore”
L’eredità
Serino prenderà il posto del generale Serino, arrivato a palazzo Esercito nel 2021, dopo tre anni come capo di gabinetto del ministro della Difesa da ottobre 2018, con Elisabetta Trenta e poi Lorenzo Guerini. Serino lascerà il vertice della Forza armata in un momento di profonda modernizzazione per l’intera Difesa italiana, e in particolare per la dimensione terrestre. La guerra in Ucraina ha riportato l’attenzione sull’importanza che le forze di terra ancora rivestono all’interno della pianificazione operativa dei conflitti, ma le nuove tecnologie impiegate sui campi di battaglia dell’Europa orientale sottolineano al contempo l’importanza di avere messi terrestri moderni e dotati delle nuove tecnologie all’avanguardia per essere interconnessi e capaci di agire nel multidominio.
Esercito 4.0
Il generale Serino lascia in eredità anche il concept paper Esercito 4.0, presentato a settembre 2022, nel quale si indicano i prossimi passi per l’evoluzione della Forza armata. “Lo scoppio di una guerra convenzionale a poche centinaia di chilometri dai nostri confini ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica la rinnovata esigenza di assicurare alla Difesa uno strumento terrestre credibile, efficace, pronto e, se necessario, in grado di combattere in ambienti in continua evoluzione”, spiega infatti l’ex capo di Sme nel teso. Il documento individua cinque macro-aree su cui concentrare risorse e impegno nel medio periodo: manovra a contatto, in profondità e nella terza dimensione, difesa integrata e logistica distribuita. “Tale sviluppo non potrà prescindere dalla consapevolezza dell’ingresso ‘prepotente’ nella condotta delle operazioni dei nuovi domini cyber e spazio, nonché della combinazione di opportunità e insidie che li caratterizza”.
Prossimi programmi
Tra principali programmi che dovranno essere portati avanti dal generale Masiello, spicca quello della modernizzazione della componente da combattimento pesante, dai mezzi corazzati per la fanteria fino ai carri armati. L’Italia, infatti, sta modernizzando i propri carri Ariete e a partire da quest’anno saranno acquistati i carri armati Leopard 2A8. A questo si accompagna il progetto di sviluppo della futura generazione di piattaforme per veicoli blindati, tra le quali l’Mgcs (Main ground combat system) – progetto franco-tedesco dal quale l’Italia è rimasta finora esclusa ma sul quale ci sono da tempo gli interessi della Difesa e dell’industria di settore – nella consapevolezza, più volte segnalata anche dai vertici della Difesa, che nessun Paese europeo può farcela da solo quando si tratta di programmi d’armamento di prossima generazione. Il livello tecnologico raggiunto da tutte le piattaforme, tra cui spicca la necessaria digitalizzazione e integrazione dei singoli sistemi all’interno del più grande e complesso scenario multidominio, richiedono infatti lo sforzo congiunto di più Paesi al fine di avere strumenti efficaci e sostenibili. Questa dimensione, inoltre, per quanto riguarda il settore terrestre, non si limita ai soli carri armati, investendo direttamente anche i veicoli blindati per la fanteria, così come i sistemi di difesa contraerea terrestri e le piattaforme elicotteristiche per il supporto alle forze di terra.
Una “Legge terrestre”
Sul potenziamento della capacità di combattimento pesante dell’Esercito si concentra anche l’ultimo Documento programmatico della Difesa 2023-2025 presentato dal ministro della Difesa, Guido Crosetto. Quello che emerge dai numeri e dalle impostazioni del Dpp, infatti, è lo sforzo di ammodernamento e potenziamento dello strumento militare, chiamato ad affrontare il ritorno della sfida convenzionale nell’orizzonte delle minacce, e per la quale le Forze armate devono essere messe nelle condizioni di affrontarla. Uno sforzo che segue anni di focus sui conflitti a bassa intensità e operazioni di contro-insorgenza. Tra i principali gap individuati, e da tempo segnalati dall’intero comparto militare, c’è l’adeguamento della componente pesante delle forze di terra in ogni sua parte, che infatti registra la maggior parte dei programmi di previsto avvio (budget complessivo di quattro miliardi e 623 milioni), a cominciare dall’acquisto dei carri armati da battaglia Leopard 2 e dai veicoli da combattimento per la fanteria Aics (Armored infantry combat system), che dovranno sostituire i Dardo. Due programmi che insieme valgono circa dieci miliardi di euro.
Verso un polo terrestre?
Inoltre, il ministro della Difesa ha di recente registrato come proprio nel settore terrestre l’Italia potrebbe giocare un ruolo da protagonista collaborando con le realtà industriali del Vecchio continente in vista del rafforzamento della difesa europea. Crosetto ha infatti sottolineato come tutti i governi abbiano fatto “interventi che consentono all’Italia di avere un potenziale investimento che permette alla nostra industria di consolidarsi e fare alleanze europee”. Proprio riferendosi alla scelta del carro armato tedesco Leopard, il ministro aveva auspicato la “potenziale creazione di un polo terrestre italo-franco- tedesco”.
Presentazione del libro “Epicarmo Corbino e le delizie del protezionismo”
INTERVERRANNO
ANTONIO MAGLIULO, Università di Firenze
ROBERTO RICCIUTI, Università di Verona
LUCA TEDESCO, Università Roma Tre
MODERA
SIMONE MISIANI, Università di Teramo
L'articolo Presentazione del libro “Epicarmo Corbino e le delizie del protezionismo” proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
LIBANO. 10 civili, tra cui cinque bambini, uccisi da raid aerei israeliani
Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint
di Michele Giorgio
Pagine Esteri, 15 febbraio 2024 – Il movimento sciita Hezbollah ha avvertito oggi che Israele “pagherà il prezzo” dell’uccisione di 10 civili, tra cui cinque bambini, nel sud del Libano, il giorno più sanguinoso per i civili libanesi in quattro mesi di scontri lungo il confine libanese-israeliano. Sette civili sono stati uccisi a Nabatieh ieri sera, quando un attacco israeliano sulla città meridionale ha colpito un edificio a più piani. I morti appartenevano alla stessa famiglia allargata e includevano tre bambini. Altre tre civili, una donna e i suoi figli, erano stati uccisi poco prima a Suwaneh. Almeno tre i militanti di Hezbollah uccisi, tra cui, pare, un comandante militare.
Ieri una militare israeliana era stata uccisa da razzi lanciati dal Libano contro una base dell’esercito a Safed, in Galilea. Altre otto persone erano rimaste ferite.
Poco dopo jet da combattimento israeliani hanno martellato con bombe e missili il Libano del sud, prendendo di mira in particolare Nabatieh e le zone di Jubal Safi, Kfar Dunin, Basliya, Sawana e Adashit Al Qusayr.
“Il nemico pagherà il prezzo di questi crimini”, ha detto oggi un alto rappresentante di Hezbollah, Hassan Fadlallah, aggiungendo che il movimento sciita ha il “diritto legittimo di difendere il suo popolo”.
In Israele si levano alte le voci che chiedono una guerra aperta al Libano e ad Hezbollah. Il capo del Consiglio regionale di Mateh Asher, Moshe Davidovich, che è anche presidente di un forum delle città al confine settentrionale, ha chiesto al governo “di svegliarsi”. Senza sicurezza, non c’è il nord”, ha aggiunto.
Il capo del consiglio regionale di Merom HaGalil, Amit Sofer, ha invitato le forze armate a colpire con forza Hezbollah “dal confine fino al fiume Litani”. Secondo Sofer è necessario creare una zona smilitarizzata nel sud del Libano.
Hezbollah ieri aveva avvertito che gli attacchi israeliani «non rimarranno senza risposta». Secondo un suo dirigente Hashem Safieddin «Alcuni immaginano di poter raggiungere obiettivi che non sono riusciti a raggiungere, né nel 2006, né tra il 2006 e il 2023». Ma, ha aggiunto Safieddin, «ancora una volta si sbagliano…il nemico non raggiungerà nessuno dei suoi obiettivi perché la Resistenza è e sarà presente, forte e pronta, su tutti i fronti». Si è riferito alle richieste fatte dal gabinetto di guerra israeliano e all’iniziativa francese per riportare la calma al confine tra il Libano e lo Stato ebraico. Tutto questo, spiegava ieri il quotidiano di Beirut, Al Akhbar, vicino a Hezbollah, nascerebbe dall’idea che Israele sia il vincitore del conflitto in corso e che, pertanto, il movimento sciita dovrà fare concessioni perché «sconfitto». Secondo il giornale, la Francia cerca di affermare un suo ruolo di mediazione tra Israele e Hezbollah. In realtà, aggiunge, non farebbe altro che rappresentare le condizioni poste da Tel Aviv.
Nei giorni scorsi il ministro degli Esteri francese Stephane Sigourney è arrivato a Beirut, portando la proposta di Parigi. Il documento di due pagine dal titolo «Accordi di sicurezza tra Libano e Israele» punta, con un processo in tre fasi, all’applicazione della risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che chiuse la guerra del 2006 tra Israele ed Hezbollah. In particolare, all’arretramento delle posizioni e delle armi del movimento sciita di 10 chilometri dalla Linea Blu, il confine tra i due paesi, assieme al dispiegamento di 15.000 soldati dell’esercito libanese in ogni zona a sud del fiume Litani. In cambio, Israele cesserebbe i suoi attacchi. Hezbollah vede questa proposta come una «resa totale» alle condizioni del suo nemico e rifiuta l’iniziativa francese e le altre, sostanzialmente simili, presentate da altri paesi occidentali. Pagine Esteri
Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint
L'articolo LIBANO. 10 civili, tra cui cinque bambini, uccisi da raid aerei israeliani proviene da Pagine Esteri.
The Mourning After - Lately / Quit Bazar 7"
Pronti alla bisogna per assolvere nel migliore dei modi tale irrinunciabile esigenza ecco qui per me e per noi tutti, direttamente da quel di Sheffield, i veterani e collaudatissimi Mourning After ed il loro 7" licenziato in questi giorni dalla Rogue Records.
iyezine.com/the-mourning-after…
The Mourning After - Lately / Quit Bazar 7"
Pronti alla bisogna per assolvere nel migliore dei modi tale irrinunciabile esigenza ecco qui per me e per noi tutti, direttamente da quel di Sheffield, i veterani e collaudatissimi Mourning After ed il loro 7" licenziato in questi giorni dalla Rogue…In Your Eyes ezine
Musica Agorà reshared this.
ricinch reshared this.
Artico, Mediterraneo e non solo. Così il clima impatta sulla Difesa
Quando si parla di cambiamento climatico, la dimensione della difesa non è forse la prima che viene in mente. Tuttavia, gli impatti che l’incrementarsi delle modifiche all’ambiente terrestre hanno in tutti i livelli della sicurezza, da quello strategico fino al tattico, sono sempre più evidenti agli addetti ai lavori. Diffondere questa consapevolezza è stato l’obiettivo della conferenza “Le implicazione del cambiamento climatico sulle politiche di difesa e sicurezza” organizzato dal Centro studi militari aeronautici Giulio Douhet (Cesma) dell’Associazione arma aeronautica. Come registrato dal generale Luca Baione, rappresentante permanente d’Italia presso l’Organizzazione meteorologica mondiale, nella parte introduttiva del Concetto strategico della Nato approvato a giugno 2022 si legge: “Il cambiamento climatico è la sfida che definisce il nostro tempo, con impatti profondi sulla sicurezza alleata”. Come descritto nel documento, il cambiamento climatico ha impatti diretti anche sul modo in cui operano le forze armate, oltre che nello scenario globale. La conferenza è servita dunque ad analizzare questi impatti con una visione multidisciplinare attraverso le relazioni specialistiche del dottor Antonello Pasini, dell’Istituto sull’inquinamento atmosferico del Cnr, del dottor Matteo Paonni, del Joint research centre della Commissione europea, e del professor Alberto Pirri, della scuola superiore Sant’Anna di Pisa.
Secondo le previsioni, nel 2030 quasi un terzo degli otto miliardi e mezzo di umani vivrà in zone prive di accesso all’acqua. Si tratta di oltre due miliardi e mezzo di persone. Questa previsione lascia presagire le complessità che si svilupperanno da questa situazione, tra spinta alla migrazione e lotta per assicurarsi le risorse, fragilità che avranno effetti drammatici soprattutto il quadrante meridionale dello spazio euro-atlantico, con impatti profondi in tutta l’area del Mediterraneo. Dal mare nostrum all’Artico, il disgelo del Polo nord “consentirà l’avvicinamento di potenziali attori malevoli direttamente ai confini della Nato” ha sottolineato Baione, ricordando come anche sul versante tattico-operativo il clima avrà profonde conseguenze: “equipaggiamenti, sistemi e apparati soffriranno un maggiore stress dovuto al surriscaldamento delle aree d’operazione” e comporterà anche “l’esigenza di considerare dei periodi di permanenza dei contingenti militari perché sottoposti a condizioni di stress maggiori”.
Come sottolineato dal direttore generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis), l’ambasciatore Elisabetta Belloni, “il nesso fra cambiamento climatico, sicurezza e difesa ormai è un dato acquisito”, tuttavia, ha registrato l’ambasciatore, se “riflettere è certamente importante” è anche il momento di “cominciare a guardare agli strumenti che dobbiamo adottare per cercare di affrontarne le conseguenze”. “L’Intelligence – ha continuato Belloni – ha da tempo posto all’attenzione dei governi europei il tema” e già nel 2008 il rapporto dell’allora Alto rappresentante per la politica estera Javier Solana, sottolineava “l’impatto che il cambiamento climatico avrebbe avuto sulla sicurezza dei Paesi europei”. Naturalmente, l’effetto sui trend migratori è in cima alla lista di fragilità all’attenzione dei servizi di informazione, dato che il cambiamento climatico ha delle profonde implicazioni sulle condizioni di vita di numerose popolazioni che potrebbero costringerle a migrare. “Ma in realtà come Intelligence noi guardiamo moltissimo ad altri temi, ad esempio l’approvvigionamento energetico pulito” ha continuato Belloni, con “la transizione verso energie pulite [che] ci pone di fronte a dei rischi enormi, ad una competizione tecnologica che deve consentire al nostro Paese di essere al sicuro”.
“Sia come gestori della cosa pubblica, sia come gestori di aziende, abbiamo davanti un quadro dei rischi, e ci stiamo accorgendo che la dimensione geoclimatica si aggiunge come un fattore esasperante, perché quello che c’è di nuovo oggi è che i rischi si sovrappongono” ha detto il presidente dell’Ispi, Giampiero Massolo, registrando come ormai le relazioni e le interdipendenze tra Paesi non possano più basarsi esclusivamente sui confini di una cartina politica, ma “sono molto più immateriali di così, riguardano le grandi opere infrastrutturali, le grandi reti di comunicazione (come i cavi sottomarini), e le comunicazioni”. In questo quadro, il cambiamento climatico si inserisce esasperando i rischi. Allora, i Paesi europei si trovano in un momento nella necessità di mitigare i rischi del cambiamento climatico “in un momento in cui i nostri meccanismi tradizionali di meditazione stanno grippando” nel quale “il multilateralismo non è più visto come utile a risolvere le grandi crisi internazionali”. Per quanto riguarda il futuro, allora, “l’incorporazione della dimensione climatica nel discorso della difesa e sicurezza non può che rappresentare un obiettivo a cui tendere” ma rimane un discorso di lungo periodo “ci pensiamo, ma difficilmente a breve potremmo avere dei risultati concreti”.
Di quanto sia importante il ruolo del cambiamento climatico quale moltiplicatore di rischi anche a livello tattico, ne ha parlato il consigliere del ministro della Difesa, l’ambasciatore Francesco Maria Talò, prendendo in considerazione un elemento cruciale come il meteo, che sarà fortemente modificato dagli effetti della crisi ambientale: “Se n’è accorto Napoleone dopo la battaglia di Waterloo: se avesse avuto un buon servizio metereologico forse avrebbe organizzato in modo diverso la propria tattica quel giorno”. Come ricordato ancora Talò, “è stato menzionato il Concetto strategico della Nato. Nello stesso anno anche l’Unione europea ha redatto e approvato un altro documento, la Bussola strategica. Entrambi stabiliscano quanto sia cruciale tener conto del cambiamento climatico nelle nostre strategie di sicurezza”. Il fattore ambientale per la difesa non è solamente un aspetto geopolitico od operativo, ma rischia di mettere a repentaglio lo stesso strumento della difesa. “Senza difesa e sicurezza – ha ribadito Talò – la nostra crescita economica non è assicurata, [invece] sono il presupposto per la crescita nazionale e internazionale”. In questo senso bisogna investire in sicurezza, ma per farlo bisogna cominciare a tenere conto del quadro reso più complesso dal cambiamento climatico, soprattutto per quanto riguarda gli strumenti militari del futuro. “Un camion militare, un carro armato, un aereo militare, una nave” hanno un impatto maggiore rispetto a piattaforme civili “è evidente che ci sono dei costi ambientali, ma senza sicurezza non si va da nessuna parte”. Per questo, in queto quadro, “la politica deve contemperare l’agire con la saggezza”, investendo in maniera corretta, senza però lasciarsi frenare dalle complessità.
Quali sono, allora, i problemi che bisogna tenere a mente per preparare lo strumento militare a quelli che saranno i nuovi paradigmi della difesa e della sicurezza? A porre la domanda è stato il capo di Stato maggiore dell’Aeronautica militare, il generale Luca Goretti, concludendo la giornata. Alcuni esempi già esistono, come il biocarburante “per vedere se effettivamente siamo in grado di poter produrre carburante che inquini meno” consapevoli che “un aereo per andare per aria ha bisogno di un motore che gira, e per girare ha bisogno di qualche cosa che produca energia”. Altri esempi sono l’uso del fotovoltaico e di sistemi di produzione di energia pulita nelle basi militari, con l’obiettivo di “trasformare tutto il parco infrastrutturale delle Forze armate in un’infrastruttura ecosostenibile”. Quello che i militari possono fare è prepararsi “per consentire ai decisori politici e ai cittadini di essere certi che la difesa nel complesso c’è, e ci sarà anche in futuro, con strumenti utili che serviranno per poter continuare a difendere la nostra libertà”.
Trilogue deal: EU extends error-prone bulk chat control scanning of private messages by US internet companies
This morning, the EU Parliament and EU Council reached a trilogue agreement on the extension of the controversial, error-prone voluntary bulk scanning of private messages and photos for suspected content by US internet companies such as Meta (Instagram, Facebook), Google (GMail) and Microsoft (X-Box) until April 2026 (so-called chat control 1.0 or interim ePrivacy derogation regulation). The deal is to be approved in a fast-track procedure before the European elections. The EU Parliament majority originally only wanted to extend the regulation by 9 months in order to switch as quickly as possible to targeted surveillance of suspects and a far more effective approach to protecting children, including by safer default settings and design of internet services, proactive searches for freely accessible CSAM, removal obligations and setting up an EU child protection centre. Instead, the EU Parliament today agreed to extend the status quo by more than twice the period of time originally envisaged.
Pirate Party MEP and digital freedom fighter Patrick Breyer, who is taking legal action against Meta’s scanning of direct messages, criticises:
”The EU Parliament wants to end blanket chat controls that violate fundamental rights, but with today’s deal it is cementing them. The EU Parliament wants a much stronger and court-proof protection against child abuse online, but today’s deal achieves nothing at all to better protect our children. With so little fighting spirit, further extensions of the status quo are likely to follow and a better protection for our children is increasingly becoming unlikely. Victims of child sexual abuse deserve better!
The EU Commission, EU governments and an international surveillance-industrial network have unfortunately succeeded in scaring the parliamentary majority about a supposed ‘legal gap’ as a consequence of phasing out bulk chat control mass surveillance. In reality, bulk scanning makes no significant contribution to saving abused children or convicting abusers, but instead criminalises thousands of minors, overburdens law enforcement officers and opens the door to arbitrary private justice by internet companies. If, according to the EU Commission, only one in four reports is relevant for the police, this means 750,000 leaked private beach photos, nude images and intimate coversations of Europeans without any law enforcement relevance every year. Our chats and photos are not safe in the hands of unknown moderators abroad and do not belong there. The EU regulation on voluntary chat control is obsolete and violates our fundamental right to privacy: Social networks that classify as ‚hosting services‘ do not need a regulation to screen public posts to begin with. And the error-prone scanning of private communications by Zuckerberg’s Meta group will soon be a thing of the past anyway thanks to the announced introduction of end-to-end encryption.
As a Pirate, I am working to stop the illegal bulk chat control scanning in court. We will be watching every move of the EU Commission which now has more time to find majorities in the EU Council in favour of the extreme dystopia of mandatory chat control 2.0 to destroy digital privacy of correspondence and secure encryption, including by manipulating critical EU states using infamous PR campaigns and misinformation.”
Today‘s agreement still requires approval by the EU Parliament and EU Council. At the beginning of March, the EU interior ministers will once again discuss the EU Commission’s parallel proposal to destroy digital privacy of correspondence and secure encryption (Chat Control 2.0 or permanent child sexual abuse regulation). So far, there has been no agreement between supporters and opponents among the EU governments, meaning that this project is on hold or possibly even dead.
Emily Fox likes this.
In Cina e Asia -Il Giappone non è più la terza economia mondiale
I titoli di oggi: Il Giappone non è più la terza economia mondiale Indonesia, Prabowo annuncia la vittoria Accuse incrociate tra Cina e Taiwan dopo la morte di due pescatori cinesi Capodanno lunare, boom di viaggi ma ancora pochi turisti stranieri India, la protesta degli agricoltori arriva a Nuova Delhi Volkswagen accusata per le operazioni in Xinjiang annuncia colloqui con ...
L'articolo In Cina e Asia -Il Giappone non è più la terza economia mondiale proviene da China Files.
Catania. La scuola pubblica in mimetica normalizza la guerra l Contropiano
"Oltre ad una scuola sempre più aziendalizzata, che plasma il mondo studentesco allo sfruttamento schiavista del lavoro e alla precarietà lavorativa, c’è anche una scuola sempre più militarizzata. Tutto questo si traduce con la normalizzazione della guerra, della militarizzazione dei territori, e delle spese militari senza limiti."
Africa. Cina a caccia di basi militari, Stati Uniti in allarme
Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 15 febbraio 2024 – Nei mesi scorsi l’amministrazione Biden ha lanciato un’offensiva diplomatica ed economica nel continente africano allo scopo di controbilanciare la penetrazione cinese e russae di approfittare della ritirata francese per consolidare o guadagnare qualche posizione. Alla fine di gennaio il segretario di stato americano Antony Blinken ha compiuto il suo quarto tour africano visitando Capo Verde, l’Angola, la Costa d’Avorio e la Nigeria.
Pechino vuole estendere la presenza militare in Africa
I principali competitori geopolitici di Washington, però, non sono rimasti a guardare. Se la Russia ha scelto da tempo la carta militare per accreditarsi in Africa, sembra che ora anche la Cina voglia capitalizzare la sua enorme influenza economica per conquistare punti anche sul piano militare e dotarsi di infrastrutture stabili. Pechino è alla ricerca, in particolare, di approdi permanenti per la sua flotta da guerra nell’Africa Occidentale dopo averne ottenuto anni fa uno a Gibuti, sul Mar Rosso, cioè dall’altra parte del continente. Una strategia che, neanche a dirlo, impensierisce non poco gli Stati Uniti.
Nei giorni scorsi è stato il Wall Street Journala suonare l’allarme generando una vasta eco sui media d’oltreoceano. Un articolo del quotidiano ha riferito che nell’agosto del 2023 l’allora presidente del Gabon, Ali Bongo Ondimba (al potere dal 2009, succeduto al padre Omar Bongo) aveva confessato al vice consigliere alla Sicurezza Nazionale statunitense Jonathan Finer di aver promesso al leader cinese Xi Jinping la concessione di una postazione militare sulle coste del paese. Finer aveva ovviamente esposto la contrarietà del proprio governo al leader del Gabon che però, poche settimane dopo, era stato deposto da un colpo di stato militare.
La Cina punta su Gabon e Guinea Equatoriale. Le contromisure USA
Nei confronti della giunta golpista, nelle prime settimane, Washington aveva tenuto un atteggiamento prudente e conciliante per poi prendere le distanze dal nuovo regime, con cui le relazioni dei cinesi sono invece rimaste cordiali.
Ora, visto l’attivismo diplomatico, economico e politico di Xi Jinping nell’area, Washington teme che anche il regime militare sia possibilista rispetto alla concessione di una base militare sull’Atlantico alla marina militare cinese che gli Stati Uniti considerano una minaccia diretta alla propria sicurezza nazionale.
La Cina è già il principale partner commerciale del Gabon, paese che può contare sul terzo Pil per importanza dell’Africa grazie alle ingenti riserve petroliferee ai giacimenti di manganese, minerale esportato soprattutto a Pechino dopo il coinvolgimento di Libreville nella “Belt and Road Initiative” o Nuova Via della Seta.
Gli emissari dell’amministrazione Biden avrebbero aumentato le pressioni sui governi africani affinché oppongano un diniego alle richieste della Repubblica Popolare che intanto concentra i suoi sforzi sul Gabon e su un paese limitrofo che pure si affaccia sull’Oceano Atlantico. Le autorità della Guinea Equatoriale, paese in cui Pechino gestisce già un porto commerciale, hanno per ora affermato di non aver intenzione di concedere alla Marina da guerra cinese “l’utilizzo stabile” di una propria base.
Gli USA possono contare all’estero su 750 basi militari
Attualmente, la Cina possiede o gestisce porti e terminali commerciali in un centinaio di località in oltre 50 paesi distribuiti in tutti i continenti, ma a Xi Jinping non basta.
La Cina vuole aumentare le basi militari per difendere i suoi interessi economici e commerciali, per consolidare la sua influenza politica e per avere qualche chance di tener testa agli Stati Uniti in caso di conflitto. Nonostante la crescita del suo ruolo militare, la proiezione militare internazionale della Repubblica Popolare Cinese è ancora insignificante se si considera che Washington può contare su circa 750 infrastrutture militari all’estero tra permanenti e temporanee.
Comunque, secondo un rapporto del Pentagono del 2021, oltre che nel continente africano Pechino starebbe cercando di ottenere infrastrutture militari in Cambogia, Tailandia, Sri Lanka, Pakistan e Indonesia. Inoltre la Repubblica Popolare, negli ultimi anni, avrebbe notevolmente potenziato la propria capacità di realizzare navi da guerra.
Nel gennaio dell’anno da poco iniziato il ministro degli Esteri di Pechino, Wang Yi, ha visitato la Costa d’Avorio, l’Egitto, il Togo e la Tunisia, firmando nuovi accordi con i rispettivi governi, il Pentagono sta premendo sui governi del Ghana, della Costa d’Avorio e del Benin per la realizzazione di tre nuove basi militari nei rispettivi paesi, che dovrebbero ospitare altrettante squadriglie di droni ufficialmente destinati al contrasto dell’insorgenza islamista.
Manifestazione antifrancese in Niger
Mosca aumenta la cooperazione con i paesi del Sahel
Da parte sua la Russia ha aumentato la cooperazione con alcuni dei paesi del Sahel usciti dall’orbita francese dopo i colpi di stato militari degli anni scorsi che hanno destituito i leader vicini a Parigi. In particolare Mosca ha siglato una serie di accordi economici e militari con il Mali e poi con il Burkina Faso. In quest’ultimo paese Mosca si è impegnata a realizzare nei prossimi anni anche una centrale nucleare.
Mentre rafforzano i legami con la Federazione Russa, i regimi militari di Mali, Burkina Faso e Nigerintendono creare una moneta unica regionale. Lo ha annunciato nei giorni scorsi il leader della giunta “di transizione” del Niger, Abdourahamane Tchiani, in una dichiarazione televisiva. «La moneta è un passo fuori da questa colonizzazione» ed «un segnale di sovranità» ha detto il generale. I tre Paesi, che di recente hanno formato l’Alleanza degli Stati del Sahel (Aes), «sono impegnati in un processo di recupero della loro sovranità totale» ha aggiunto, senza però fornire dettagli sulla possibile messa in circolazione di una futura moneta che dovrebbe sostituire il franco Cfa, tradizionale strumento dell’egemonia francese che attualmente costituisce la valuta comune degli otto Paesi membri dell’Unione economica e monetaria dell’Africa occidentale (Uemoa). Inizialmente l’Aes è nata come un patto di difesa tra i tre paesi che hanno deciso di unire le loro risorse militari per combattere i gruppi ribelli o jihadisti e bilanciare la presenza militare francese e statunitense nell’area.
Mali, Burkina Faso e Niger fuori dal franco CFA e dalla CEDEAO
Poi, a novembre, i ministri dell’Economia e delle Finanze dei tre stati hanno raccomandato la creazione di un fondo di stabilizzazione e di una banca di investimento comune. A fine gennaio, infine, Mali, Burkina Faso e Niger si sono già ritirati dalla Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Cedeao o Ecowas), un’organizzazione regionale accusata di essere al servizio degli interessi di Parigi.
Dopo i colpi di stato la Cedeao, in evidente “coordinamento” con la Francia, ha imposto pesanti sanzioni economiche prima al Mali e poi al Niger, e nell’agosto del 2023 è giunta a minacciare un intervento militare contro Niamey per reinsediare il presidente Mohamed Bazoum, deposto e arrestato dai militari. Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria
Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint
L'articolo Africa. Cina a caccia di basi militari, Stati Uniti in allarme proviene da Pagine Esteri.
GAZA. Fuga dall’ospedale Nasser assediato dai cecchini e dai carri armati
Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint
di Eliana Riva
Pagine Esteri, 14 febbraio 2024. Centinaia di persone provano a uscire dall’ospedale Nasser assediato, circondato dai cecchini, privato dell’elettricità, dei rifornimenti medici, del cibo e dell’acqua. Il più grande ospedale del sud di Gaza, a Khan Yunis, diventato rifugio per centinaia di palestinesi sfollati, sta per essere invaso dai militari israeliani che nelle ultime settimane hanno attaccato in diversi modi la struttura pur di costringere medici, pazienti e famiglie in fuga ad abbandonarla per andare chissà dove.
Sono stati lanciati volantini, poi si sono posizionati i cecchini che per giorni hanno sparato, senza far differenza tra donne, uomini e bambini, a chi cercava di entrare nell’ospedale o di uscirne. Sono numerosi i video diffusi dai giornalisti e dalle persone che si rifugiano nel Nasser o nelle scuole proprio di fronte, che mostrano le persone colpite e lasciate a terra. Una madre con suo figlio, lei morta e il bambino gravemente ferito, un ragazzino di cui non sono riusciti per ore a recuperare il cadavere, a causa dei fucili di precisione sistemati dai soldati sui tetti delle case sgomberate nei dintorni. Mentre il corpo era ancora sull’asfalto, proprio all’ingresso della struttura sanitaria, un piccolo drone è stato mandato dai soldati per ordinare a tutti con un messaggio vocale di andare via. I cecchini, denunciano i medici, hanno iniziato a colpire attraverso le finestre dell’ospedale le persone che si trovano al suo interno. Almeno due bambini sono stati così feriti, e un infermiere, mentre si trovava in sala operatoria.
Un video mostra un ferito che si trascina all’interno dell’ospedale, con il sangue che si rovescia copioso da una gamba. Un medico prova a strisciare sul pavimento per tirarlo lontano dalla porta. Un giornalista ha ripreso una dottoressa che coraggiosamente si sfila il cappotto per correre con più agilità, cercando di evitare i cecchini e attraversare la strada per portare soccorso a un uomo ferito dai militari.
Decine di persone sono state uccise e molte altre ferite. L’esercito ha ordinato all’amministrazione dell’ospedale di mandar via gli sfollati e trattenere pazienti e personale sanitario.
Il Ministero della Sanità denuncia che la situazione al Nasser di Khan Yunis è “sempre più catastrofica”, mentre l’esercito di occupazione ha ordinato di allontanare le centinaia di sfollati e di trattenere i pazienti, circa 450 persone, e il personale sanitario, 300 tra medici, paramedici e infermieri. Il Ministero della Sanità ha denunciato che i militari hanno sparato sulla folla che cercava di lasciare la struttura, causando diverse vittime.
Le macchine escavatrici dell’esercito hanno spostato e depositato terra e detriti tutto intorno, bloccando l’entrata nord. I palestinesi che erano rifugiati nell’0spedale stanno uscendo in fila, passando tra le colonne di mezzi, sotto il controllo dei militari armati e delle telecamere di riconoscimento facciale montate nel checkpoint allestito all’esterno. Questo significherà, dicono le persone che ci sono già passate in altri luoghi di Gaza ormai distrutti, centinaia di arresti, o “rapimenti”, come li chiamano i palestinesi, non avendo modo di sapere dove vengono portati i propri parenti fermati dall’esercito, né quali siano le accuse, senza garanzie sul trattamento che li attende. Quasi tutti gli arrestati che sono stati poi rilasciati hanno raccontato di aver subito torture, di essere rimasti legati, senza vestiti, di essere stati brutalmente picchiati. Un uomo che, fermato e liberato dall’esercito è riuscito a ricongiungersi con la sua famiglia, ha spiegato che anche alle donne è riservato il trattamento peggiore: lasciate nude insieme agli uomini, ritornano dagli interrogatori spesso con i capelli tagliati e rasati.
Alcuni sfollati dell’ospedale Nasser sono arrivati a Rafah, dove l’esercito israeliano intende compiere una massiccia operazione militare.
Gli sfollati costretti a lasciare il Nasser sono stati fermati e trattenuti. Tra loro famiglie e numerosi bambini. Alcune persone hanno provato a ritornare nella struttura a causa degli spari e della situazione estremamente pericolosa trovata all’esterno. Altri sfollati sono già arrivati o si stanno dirigendo verso Rafah, secondo le indicazioni dell’esercito israeliano. L’ultima città di Gaza, schiacciata al confine con l’Egitto, con una popolazione pre-guerra di 280.000 abitanti, accoglie già circa 1,4 milioni di persone, per la maggior parte profughi costretti dai militari a spostarsi verso sud. Le persone, che vivono nelle tende o affollano le abitazioni ancora in piedi, sono terrorizzate dall’imminente attacco annunciato dal governo israeliano. Qualcuno ha provato a fuggire, disposto a cercare rifugio tra le rovine delle proprie abitazioni al centro e al nord della Striscia. Ma l’esercito intende fare qualsiasi cosa per evitare il ritorno dei profughi. Anzi, continua a mandare a Rafah anche i nuovi sfollati, in attesa che venga chiuso e approvato un “piano di evacuazione” per la popolazione civile che è la popolazione quasi dell’intera Striscia di Gaza. L’esercito ha presentato varie proposte al gabinetto di guerra: campi profughi lungo la costa, forse. O nelle zone già devastate dai bombardamenti e dalle demolizioni controllate. Una nuova trattativa con l’Egitto, magari. Non è chiaro neanche con quali forze immagina (e se lo immagina) Israele fornire assistenza a quasi 2 milioni di persone, soprattutto intendendo dichiaratamente liberarsi dell’UNRWA e dell’Onu in generale. Ma forse anche della Difesa civile e della Mezzaluna Rossa Palestinese. Con i coloni che sempre più numerosi si affollano ai valichi per impedire ai camion degli aiuti di entrare nella Striscia.
Intanto si è fatta sera e al Nasser sono rimasti solo pochi medici e i pazienti che non possono camminare sulle loro gambe o rinunciare all’ossigeno che rimane. I dottori sono pronti a tutto. E noi non sappiamo più se ci sarà qualcuno che potrà continuare a raccontarci cosa sta succedendo in quel buco nero fuori dal mondo e dalla legge che è diventato l’ospedale Nasser di Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza.
pagineesteri.it/wp-content/upl…
Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint
L'articolo GAZA. Fuga dall’ospedale Nasser assediato dai cecchini e dai carri armati proviene da Pagine Esteri.
Emily Fox likes this.
Lotta agli hacker malintenzionati: smantellato il gruppo ransomware Hive ma c’è una nuova taglia su di loro
Gli attacchi ransomware Hive avevano causato gravi interruzioni nelle operazioni quotidiane delle vittime in tutto il mondo e hanno influenzato le risposte alla pandemia di COVID-19. Il gruppo utilizzava un modello ransomware-as-a-service (RaaS) con amministratori, a volte chiamati sviluppatori, e affiliati. RaaS è un modello basato su abbonamento in cui gli sviluppatori o gli amministratori sviluppano un ceppo di ransomware e creano un'interfaccia facile da usare con cui farlo funzionare e quindi reclutano affiliati per distribuire il ransomware contro le vittime.
È stato utilizzato altresì un modello di attacco definito “a doppia estorsione”. Prima di crittografare il sistema della vittima, l'affiliato avrebbe esfiltrato o rubato dati sensibili. L'affiliato ha quindi chiesto un riscatto sia per la chiave di decrittazione necessaria per de-crittografare il sistema della vittima sia per la promessa di non pubblicare i dati rubati. Gli attori di Hive hanno spesso preso di mira i dati più sensibili nel sistema di una vittima per aumentare la pressione a pagare. Dopo che una vittima aveva pagato, gli affiliati e gli amministratori dividevano il riscatto in percentuali pari a 80/20.
A distanza di poco più di 11 mesi da quando l'FBI ha dichiarato di aver chiuso la rete dell'organizzazione criminale, Il governo degli Stati Uniti ha assegnato una taglia extra di 5 milioni di dollari ai membri della banda di ransomware Hive: la seconda ricompensa del genere in un anno.
Intanto, i criminali online continuano a fare soldi con le loro richieste di estorsione, con dozzine di nuovi arrivati che sono entrati nella mischia solo lo scorso anno.
Chainalysis, nella sua analisi del 2023 pubblicata questa settimana (leggi qui, in inglese => Ransomware Hit $1 Billion in 2023 (chainalysis.com)), ha stimato che lo scorso anno le squadre di ransomware hanno incassato più di 1 miliardo di dollari in pagamenti estorti in criptovaluta dalle vittime, rispetto ai 567 milioni di dollari del 2022. La società di analisi delle criptovalute ha anche osservato che la rimozione di Hive probabilmente ha avuto un ruolo non banale nel calo dei pagamenti di ransomware nel 2022, che altrimenti sarebbero aumentati dal 2019.
La stima di 130 milioni di dollari dell'FBI "potrebbe non raccontare tutta la storia", osserva il rapporto, perché tiene conto solo dei riscatti direttamente evitati dalle chiavi del decrittatore. Da parte sua, Chainalysis ritiene che il fallimento di Hive abbia probabilmente evitato pagamenti di ransomware per almeno 210,4 milioni di dollari.
"Durante i sei mesi in cui l'FBI si è infiltrata in Hive, il totale dei pagamenti di ransomware per tutti i ceppi ha raggiunto i 290,35 milioni di dollari", ha osservato Chainalysis. "Ma i nostri modelli statistici stimano un totale previsto di 500,7 milioni di dollari durante quel periodo di tempo, sulla base del comportamento degli aggressori nei mesi precedenti e successivi all'infiltrazione, e si tratta di una stima conservativa."
Scontri tra Israele e Hezbollah. Uccisi 13 libanesi e una israeliana
Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint
di Michele Giorgio
Pagine Esteri, 14 febbraio 2024 – Alta tensione al confine tra Libano e Israele. Una militare israeliana è stata uccisa da razzi lanciati dal Libano che hanno colpito obiettivi nei pressi di una base dell’esercito a Safed, in Galilea. Altre otto persone sono rimaste ferite. L’attacco non è stato rivendicato ufficialmente da Hezbollah, ma si ritiene che sia stato lanciato dal movimento sciita libanese in risposta agli ultimi raid dell’aviazione israeliana in Libano del sud.
Poco dopo il lancio di razzi, jet da combattimento israeliani hanno martellato con bombe e missili, prendendo di mira il distretto meridionale di Nabatieh e le zone di Jubal Safi, Kfar Dunin, Basliya, Sawana e Adashit Al Qusayr. In meno di 24 ore almeno 9 civili libanesi sono stati uccisi oltre a quattro combattenti di Hezbollah tra cui Muhammad Alouya, il comandante per la regione di Maroun al-Ras.
In Israele ora si levano più alte le voci che chiedono una guerra aperta al Libano e ad Hezbollah. Il capo del Consiglio regionale di Mateh Asher, Moshe Davidovich, che è anche presidente di un forum delle città al confine settentrionale, ha chiesto al governo “di svegliarsi”. Senza sicurezza, non c’è il nord”, ha aggiunto.
Il capo del consiglio regionale di Merom HaGalil, Amit Sofer, ha invitato le forze armate a colpire con forza Hezbollah “dal confine fino al fiume Litani”. Secondo Sofer è necessario creare una zona smilitarizzata nel sud del Libano.
È stato perentorio il presidente del Comitato esecutivo di Hezbollah, Hashem Safieddin, quando ieri pomeriggio ha avvertito che gli attacchi israeliani «non rimarranno senza risposta». Secondo Safieddin «Alcuni immaginano di poter raggiungere obiettivi che non sono riusciti a raggiungere, né nel 2006, né tra il 2006 e il 2023». Ma, ha avvertito, «ancora una volta si sbagliano…il nemico non raggiungerà nessuno dei suoi obiettivi perché la Resistenza è e sarà presente, forte e pronta, su tutti i fronti». Si è riferito alle richieste fatte dal gabinetto di guerra israeliano e all’iniziativa francese per riportare la calma al confine tra il Libano e lo Stato ebraico. Tutto questo, spiegava ieri il quotidiano di Beirut, Al Akhbar, vicino a Hezbollah, nascerebbe dall’idea che Israele sia il vincitore del conflitto in corso e che, pertanto, il movimento sciita dovrà fare concessioni perché «sconfitto». Secondo il giornale, la Francia cerca di affermare un suo ruolo di mediazione tra Israele e Hezbollah. In realtà, aggiunge, non farebbe altro che rappresentare le condizioni poste da Tel Aviv.
Nei giorni scorsi il ministro degli Esteri francese Stephane Sigourney è arrivato a Beirut, portando la proposta di Parigi. Il documento di due pagine dal titolo «Accordi di sicurezza tra Libano e Israele» punta, con un processo in tre fasi, all’applicazione della risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che chiuse la guerra del 2006 tra Israele ed Hezbollah. In particolare, all’arretramento delle posizioni e delle armi del movimento sciita di 10 chilometri dalla Linea Blu, il confine tra i due paesi, assieme al dispiegamento di 15.000 soldati dell’esercito libanese in ogni zona a sud del fiume Litani. In cambio, Israele cesserebbe i suoi attacchi. Hezbollah vede questa proposta come una «resa totale» alle condizioni del suo nemico e rifiuta l’iniziativa francese e le altre, sostanzialmente simili, presentate da altri paesi occidentali. Pagine Esteri
Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint
L'articolo Scontri tra Israele e Hezbollah. Uccisi 13 libanesi e una israeliana proviene da Pagine Esteri.
LIBIA. L’influenza di Erdogan su milizie locali e mercenari stranieri
Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint
di Alessandra Mincone
Pagine Esteri, 15 febbraio 2024 – Il 7 febbraio, il ministro degli Esteri della Turchia Hakan Fidan si è recato a Tripoli per incontrare il Premier libico Abdul Hamid Dbeibeh e alte cariche del Consiglio Presidenziale, allo scopo di migliorare le relazioni con l’area orientale della Libia e favorire il processo di stabilità e unità della nazione. Il ministro ha colto occasione per far visita al Centro di Comando delle Forze Armate Turche nell’aereoporto di Mitiga, dove risiede anche la milizia di deterrenza Rada conosciuta come unità della polizia islamista e per aver ricevuto addestramenti militari dall’esercito di Erdogan. A pochi giorni dalla visita dell’esponente turco, il comandante della Rada, Abdul Rauf Kara, ha annunciato il ritiro delle truppe sia dall’aeroporto internazionale sia dal porto di Tripoli, nel rispetto della regolamentazione del governo in materia di sicurezza varata a gennaio 2024. Il quotidiano Libya Review ha descritto l’annuncio della milizia “un significativo incremento dell’influenza della Turchia in Libia”.
Fidan ha anche dichiarato che in un futuro non molto distante la Turchia riaprirà la sede del Consolato turco a Bengasi, città della Libia orientale sotto il controllo dell’esercito nazionale libanese di Haftar. Alcune agenzie di stampa libanesi hanno riferito della visita di Recep Tayyip Erdogan ieri al Cairo e subito dopo ad Abu Dhabi, nell’ottica di una normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Turchia, Egitto ed Emirati Arabi Uniti a partire dalle divergenze legate proprio alla questione libica. L’agenzia di stampa turca Daily Sabah, ha previsto che “la riconciliazione con Bengasi per ripristinare le relazioni con la Tripoli occidentale, la rottura dello stallo politico nel Paese, la spinta verso elezioni volte a raggiungere l’unità così come la cooperazione e il dialogo tra ex avversari diventati partner, saranno elementi fondamentali per plasmare le future politiche della Turchia in Libia”.
Dall’accordo di Tripoli dell’agosto 2020, con cui la Turchia garantiva il sostegno economico e militare nella guerra civile all’allora Governo al-Serraj, si è assistito a un processo di trasformazione militare turco che ha visto repentinamente sostituiti l’aeroporto e il porto marittimo di Tripoli in favore di snodi strategici ammodernati. La base militare al-Watiya, sottratta nel 2020 all’esercito di Haftar e attuale roccaforte turca su suolo libico, è diventata la destinazione dei cargo C-130 e A400M con cui l’Aeronautica della Turchia rifornisce di armi il governo e dove potrebbero essere dispiegati anche F-16 turchi. Mentre la base navale di Kohms, oltre ad essere un centro di addestramento per attività subacquee, ospita unità navali da combattimento come una fregata Classe G.
Al di là dei proclami, le politiche di Ankara continuano a riprodursi con le stesse forme di soggiogamento militare sul territorio e sono mosse dagli stessi interessi rincorsi già nella Libia di Gheddafi, tra cui il posizionamento bellico strategico, lo sfruttamento delle risorse energetiche e la gestione dei flussi migratori verso l’UE.
Il 27 Gennaio l’Osservatorio per i diritti umani in Siria ha evidenziato il malcontento generale esploso tra i mercenari siriani destinati a partire per Tripoli per effettuare “un cambio della guardia”. In conseguenza al “processo di pace” del 2021 auspicato da Turchia e Russia, ai mercenari pagati da Erdogan è stata imposta una riduzione del salario di circa duecento dollari al mese. Anche il cambio turno, che sarebbe stato promesso ai soldati stranieri con una frequenza trimestrale, non è stato rispettato e ciò ha contribuito a esacerbare maggiore frustrazione in tanti soldati che sono stati costretti a restare in Libia oltre un anno, fino a che nel 2023 le stesse fonti siriane hanno denunciato la fuga di tremila mercenari siriani dalle basi militari turco-libiche, in cerca di un lavoro o di nuove rotte migratorie. I dati ufficiali parlano di altri quattromila mercenari siriani sul territorio della Libia occidentale, convinti a fidelizzarsi nelle operazioni militari sia attraverso una matrice religiosa sia per le condizioni di estrema fragilità economica vissute nella Siria del Nord. La riduzione dei costi dovuti alla fuga di quasi la metà dei mercenari ha consentito il ripristino degli stipendi contrattati con la Turchia, che oscillano tra i duemila e duemila e cinquecento dollari al mese.
Nelle ultime settimane il Governo di Ankara è tornato a sfruttare la disperazione dei mercenari organizzando la spedizione di un nuovo lotto di soldati siriani diretti non più nell’area occidentale libica, ma nell’entroterra del Niger. La prima operazione, a detta di una fonte interna alla milizia turca Sultan Murad, sarebbe avvenuta il 23 dicembre 2023. Il Sohr è riuscito a intervistare anche un comandante della fazione, che avrebbe fornito molti dati sulle condizioni contrattuali dei mercenari siriani inviati in Niger, come la durata semestrale e lo stipendio di mille e cinquecento dollari al mese. Inoltre “secondo il contratto ogni mercenario che subisce ferite durante le battaglie riceverà una somma di denaro che può raggiungere i 35.000 dollari, a seconda del grado di invalidità causato dalla ferita, mentre le famiglie dei mercenari uccisi prenderanno 60.000 dollari”.
Tale investimento da parte di Erdogan in territorio nigerino non è casuale, visto il crescente legame militare tra l’esercito di Haftar e l’esercito nigerino. La coalizione tra la Cirenaica e il Niger è stata approvata dalla Russia che ha sempre sostenuto l’esercito nazionale libico con il dispiegamento sul territorio dei mercenari Wagner, in cambio di un occhio militare sul mediterraneo; e che sta sviluppando nuove alleanze economiche e militari per consolidare un’influenza in tutto il nord africa, soprattutto alla luce del ritiro dall’Ecowas di Niger, Mali e Burkina Faso. La giunta militare del Niger, alla fine dell’anno 2023 ha revocato una legge contro l’immigrazione clandestina risalente al 2015: sembrerebbe che una delle sfide che ha richiamato subito l’interesse di Erdogan e Putin riguarderebbe proprio il controllo e la gestione dei flussi migratori, potenzialmente un’arma politica puntata alle porte dell’Europa.
Mentre la Turchia e la Russia continuano ad utilizzare soldati alla loro mercé, il primo ministro algerino, Nadhir Arbawi, è intervenuto al vertice di Brazzaville per conto del Presidente Abdelmadjid Tebboune, chiedendo il ritiro dei mercenari dalla Libia. Ha dichiarato che “le parti esterne interessate alla questione libica dovrebbero rispettare la sovranità della Libia, l’integrità territoriale e l’indipendenza delle sue decisioni” e che “la soluzione finale alla crisi potrà avvenire solo attraverso un percorso elettorale, che sancisca il principio della sovranità nazionale”. Le denunce algerine potrebbero far sospettare di un lento processo di allontanamento politico da Ankara e Mosca, che farebbe seguito soprattutto all’annullamento dell’Accordo di Algeri con il Mali, altro paese dove le mire espansionistiche turche e russe stanno via via accrescendo. Le complesse posizioni dell’Algeria, potrebbero risultare non congrue alla stabilità dell’intera area nordafricana da qualsiasi prospettiva le si guardi. Pagine Esteri
Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint
L'articolo LIBIA. L’influenza di Erdogan su milizie locali e mercenari stranieri proviene da Pagine Esteri.
reshared this
Tecnologia microonde. La nuova arma con cui la Cina vuole cuocere Taiwan
La fantascienza arriva sui campi di battaglia. Gli scienziati cinesi dell’Istituto di tecnologia nucleare del Nord-Ovest di Xi’an e dell’Istituto di ingegneria elettrica dell’Accademia delle scienze cinese di Pechino hanno presentato una nuova ed innovativa arma, prima del suo genere: un sistema a microonde ad alta potenza alimentato da quattro motori Stirling a ciclo chiuso, compatti ed efficienti. Questi motori convertono efficacemente l’energia termica in energia meccanica, lavorando in sintonia come una pompa di calore inversa. La bobina superconduttrice genera un campo magnetico capace di raggiunge una forza fino a quattro tesla, campo che viene sfruttato per concentrare e guidare microonde abbastanza potenti da sopprimere droni, aerei militari e persino satelliti. L’intensità del suo campo magnetico continuo e stazionario dovrebbe essere 68.000 volte quella del campo magnetico terrestre, quasi la metà dell’intensità del campo magnetico del Large Hadron Collider (LHC) in Europa.
Fonti riportate dal South China Morning Post sostengono che il sistema d’arma, facilmente inseribile e trasportabile in un camion, vanta una significativa riduzione del consumo energetico per la generazione di un forte campo magnetico rispetto alle tecnologie esistenti. Secondo i test preliminari, Pechino sostiene che il sistema consuma solo un quinto dell’energia richiesta dai metodi attuali e può funzionare ininterrottamente per quattro ore. Un basso consumo di energia è essenziale per la produzione e l’uso su larga scala di armi a microonde.
Il sistema in questione sarebbe la prima arma a microonde basata sulla tecnologia del motore Stirling ad essere rivelata pubblicamente al mondo, segnando un salto significativo nella tecnologia della guerra a energia diretta. E la svolta degli scienziati cinesi sarebbe stata raggiunta anche grazie alle sanzioni avviate dall’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump: la decisione di vietare alle aziende occidentali di esportare in Cina determinati materiali nel tentativo di ostacolare i progressi hi-tech della Repubblica Popolare ha causato un’impennata nei prezzi per i fornitori locali, che hanno destinato i maggiori fondi guadagnati alla ricerca e allo sviluppo.
Non è però ancora chiaro quando questa nuova tecnologia sarà pronta per l’impiego effettivo sul campo di battaglia. Durante i test sarebbero emersi alcuni problemi che richiederebbero un ulteriore perfezionamento, tra cui una potenza di refrigerazione inferiore agli obiettivi iniziali e un notevole calo della stabilità del sistema oltre le quattro ore di funzionamento continuo.
“Sebbene soddisfi i requisiti di base, c’è ancora spazio per migliorare il sistema nel suo complesso e si può ottenere un’ulteriore miniaturizzazione all’interno della struttura attuale” si può leggere nel documento rilasciato dagli scienziati cinesi.
Secondo Jim Romeo gli armamenti a microonde possono essere impiegati per distruggere o danneggiare computer, componentistica elettronica e sensori senza intaccare le vite umane, una caratteristica che renderebbe queste tipologie di armi adatta agli scenari di guerra urbana che richiedono un basso numero di danni collaterali. Come potrebbe essere quello di Taiwan. Altri vantaggi sarebbero la grande capacità dei caricatori, la logistica semplificata, il costo trascurabile per colpo, l’ingaggio istantaneo e l’estrema precisione.
Un San Valentino che fece epoca
Era il 4 agosto 1983, primo governo Craxi, esecutivo che durò 1093 giorni e che terminò il primo agosto 1986. Perché le date sono importanti? Perché il decreto sulla scala mobile, il 14 febbraio 1984, si colloca proprio all’interno del primo governo a guida socialista. Sono andato a guardare attraverso Google per controllare i ricordi: Spadolini era alla Difesa, Visentini alle Finanze, Goria al Tesoro, Andreotti agli Esteri, Renato Altissimo all’Industria e Gianni De Michelis era al Ministero del Lavoro. Il passato si fa nitido, presente come certe immagini dell’infanzia: ero in vacanza in quei giorni a Malta, fui chiamato al telefono e Gianni De Michelis mi disse «Vieni, torna, anzi, scrivimi subito un po’ di programma». E il tema era secondo lui decisivo, una sorta di pietra d’angolo per l’idea di Italia che avevamo noi socialisti, e pietra d’inciampo per i comunisti: il tema insomma era quello della politica dei redditi, che era certo un argomento sin da allora dibattuto non solo accademicamente, ma era un tema di valenza, in quei tempi, cruciale e soprattutto divisiva.
La politica dei redditi in quegli anni veniva malamente e banalmente interpretata come politica di controllo e blocco dei salari, ai fini di disinflazione. L’intuizione alla quale io lavoravo il mio punto di riferimento teorico era Niklas Kaldor era di far diventare la politica dei redditi politica di sviluppo (quale distribuzione ottimale dei redditi per massimizzare la crescita) e non semplicemente politica di controllo dei salari. De Michelis aveva perfettamente compreso la novità di questa prospettiva. Intanto la realtà, insistentemente, ci provocava: dinamica dei prezzi a due cifre, crisi petrolifera, instabilità politica, terrorismo, anni di piombo, scorte… (…)
Non era facile bloccare la scala mobile, cancellare la scala mobile, manipolare la scala mobile. Ci aveva provato il ministro Enzo Scotti l’anno precedente, con scarsi risultati. Non era facile perché era una impresa contro intuitiva e assai impolitica: come dare meno soldi ai lavoratori, senza metterteli contro, per difendere i salari reali, contrastando l’illusione monetaria. Dall’altra parte il populismo alla Berlinguer: serio, strutturato, ma populismo, del tipo: «La scala mobile non si tocca!».
Eppure l’interpretazione che con Gianni abbiamo dato a quella stagione è stata proprio questa: non solo freezing (congelamento), blocco relativo dei salari e blocco (sempre relativo) dei prezzi, come facevano malamente e con esiti fallimentari su tutta la linea in altre parti di Europa. Quello che cercammo fu un accordo complessivo di politica dello sviluppo: come fare più crescita, più occupazione e meno inflazione. Più massa salariale, più salario reale. Dalla parte dei lavoratori. (…)
Arrivò dunque il 14 febbraio, ma nessuno aveva pensato che il cronoprogramma dell’accordo avrebbe avuto la sua scadenza proprio il giorno di San Valentino. (…) Mi ricorderò sempre la redazione di questo accordo (alla base del decreto), un documentone alto una spanna. A Palazzo Chigi non c’erano ancora i computer, si andava di piano in piano, chi scriveva le prime dieci, le seconde dieci, le terze dieci, le quarte dieci pagine, su e giù per controllare e poi mettere tutto insieme, perché poi bisognava mandare per motociclista il testo concordato a tutte le parti sociali, (datori di lavoro e lavoratori) per la firma. Ci fu consenso, tranne la Cgil comunista. Inizialmente furono bloccati nel decreto originario tutti e quattro i trimestri a 2 punti (non più di 2 scatti per trimestre era la dicitura esatta); poi bastò come detto bloccarne semplicemente due di trimestri, nelle reiterazioni del decreto, poiché la manovra d’anticipo aveva in sé la capacità di raffreddare i trimestri successivi (il terzo e il quarto, che non avrebbero avuto bisogno di blocco perché l’inflazione da salari veniva già ridotta). Fu un grande risultato che cambiò la storia di questo nostro Paese. Insomma, la predeterminazione di Modigliani e di Tarantelli funzionò. Mai teoria ricevette così palese e piena applicazione di successo, smontando nei fatti la propaganda degli avversari.
Si andò al referendum abrogativo voluto dal PCI, e qui il finale: spiegare ai lavoratori e chiedere il loro voto, parlando loro di illusione monetaria, quasi una follia. Non è stata cosa facile, né per un giovane professore come il sottoscritto, né per i ben più attrezzati di lui uomini del sindacato non comunista che si batterono nelle fabbriche e nelle piazze.
Il risultato fu 54,3% a 45,7%, un risultato straordinario, antipopulista ante litteram. Il quesito di fatto era: «Volete o non volete 400.000 lire in busta paga tutte e subito?» Il 54,3% del popolo italiano andò a votare il 77,9% degli aventi diritto disse di no, che non voleva circa 380-400.000 lire, per un miracolo di saggezza e maturità. Perché probabilmente aveva capito, non tanto l’illusione monetaria del giovane professor Brunetta, ma il senso di quella manovra e di quella strategia antipopulista, controcorrente, contropelo, che allora percosse il Partito comunista e il sindacato comunista, mentre tutte le altre forze politiche e sociali stavano dalla parte della ragione. Il nemico dei salari era l’inflazione a due cifre. E la scala mobile, con l’inflazione a due cifre, da cosa buona diventava cosa cattiva. I lavoratori e gli italiani lo capirono bene. Ecco, questo è il ricordo che ho io e, devo dire, è il ricordo di un Gianni che vedeva più lontano di tutti noi. Come ho detto anche prima, approfittando pure di qualche contributo tecnico-accademico che qualcuno gli portava, alla fine riusciva nell’impossibile. Da una parte sola, dalla parte dei lavoratori, come avrebbe detto Giacomo Brodolini, suo predecessore al Ministero del Lavoro, e padre dello Statuto dei lavoratori, socialista come noi. Su questo accordo fu determinante alla fine Bettino Craxi che, nella riunione del Consiglio dei ministri del 13 febbraio cercò l’alleanza con Visentini, che fece di buon grado lo scambio sulla parte fiscale, equo canone e altro. Perché il senso dell’accordo stava in uno scambio fiscale e non di compensazione di quelle 400.000 lire virtuali in meno con una serie di vantaggi per i lavoratori per «compensare» concretamente (blocco dell’equo canone, soprattutto) la populista illusione monetaria, cavalcata dal PCI e dalla CGIL comunista. Visentini capì, Spadolini no. La situazione si stava mettendo male e Spadolini pensando che l’accordo non si sarebbe fatto, uscì dal Consiglio dei ministri per andare a telefonare a «la Repubblica», dando il titolo di prima pagina, Accordo fallito. Solo che mentre lui usciva per telefonare a Scalfari, Craxi chiudeva finalmente con Bruno Visentini, e d’accordo con Gianni De Michelis, si passò al punto seguente dell’ordine del giorno di quel Consiglio dei ministri notturno. Tornò Spadolini, capì che il punto in discussione non c’era più, ma si era il punto successivo. Si fece spiegare, «no, guarda, l’accordo è passato» gli disse De Michelis, e lui «oddio!».
Ritornò fuori per dare il contrordine a «la Repubblica», a Scalfari. Almeno questo fu il racconto che mi fece Gianni di quel Consiglio dei ministri per tanti versi drammatico ma anche salvifico. E a pranzo dal «Bolognese», il giorno dopo, ancora morti di sonno e di fatica, ci ridemmo affettuosamente su, con lessi misti e uno straordinario Sassicaia. Ecco, questo è il ricordo di chi aveva vissuto quella stagione straordinaria, con uomini straordinari. Poi la scala mobile fu cambiata, fu cancellata, e la storia ci portò ad altre prove terribili. Però quella rimane nella mia vita come forse la stagione più importante, vissuta assieme a tanti ragazzi, a tanti giovani che adesso giovani non sono più e fu una delle storie più belle che spesso ricordo. E mi piace pensare che il capitano preveggente di quella avventura, il nostro Gianni, sarebbe contento di essere ritratto nel vivo di quella battaglia, avendo accanto il suo Renato. L’inflazione fu domata, i salari reali difesi, il Partito comunista battuto. L’Italia era momentaneamente salva, ma sempre in un mare di guai.
L'articolo Un San Valentino che fece epoca proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
GAZA. Fuga dall’ospedale Nasser assediato dai cecchini e dai carri armati
Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint
di Eliana Riva
Pagine Esteri, 14 febbraio 2024. Centinaia di persone provano a uscire dall’ospedale Nasser assediato, circondato dai cecchini, privato dell’elettricità, dei rifornimenti medici, del cibo e dell’acqua. Il più grande ospedale del sud di Gaza, a Khan Yunis, diventato rifugio per centinaia di palestinesi sfollati, sta per essere invaso dai militari israeliani che nelle ultime settimane hanno attaccato in diversi modi la struttura pur di costringere medici, pazienti e famiglie in fuga ad abbandonarla per andare chissà dove.
Sono stati lanciati volantini, poi si sono posizionati i cecchini che per giorni hanno sparato, senza far differenza tra donne, uomini e bambini, a chi cercava di entrare nell’ospedale o di uscirne. Sono numerosi i video diffusi dai giornalisti e dalle persone che si rifugiano nel Nasser o nelle scuole proprio di fronte, che mostrano le persone colpite e lasciate a terra. Una madre con suo figlio, lei morta e il bambino gravemente ferito, un ragazzino di cui non sono riusciti per ore a recuperare il cadavere, a causa dei fucili di precisione sistemati dai soldati sui tetti delle case sgomberate nei dintorni. Mentre il corpo era ancora sull’asfalto, proprio all’ingresso della struttura sanitaria, un piccolo drone è stato mandato dai soldati per ordinare a tutti con un messaggio vocale di andare via. I cecchini, denunciano i medici, hanno iniziato a colpire attraverso le finestre dell’ospedale le persone che si trovano al suo interno. Almeno due bambini sono stati così feriti, e un infermiere, mentre si trovava in sala operatoria.
Un video mostra un ferito che si trascina all’interno dell’ospedale, con il sangue che si rovescia copioso da una gamba. Un medico prova a strisciare sul pavimento per tirarlo lontano dalla porta. Un giornalista ha ripreso una dottoressa che coraggiosamente si sfila il cappotto per correre con più agilità, cercando di evitare i cecchini e attraversare la strada per portare soccorso a un uomo ferito dai militari.
Decine di persone sono state uccise e molte altre ferite. L’esercito ha ordinato all’amministrazione dell’ospedale di mandar via gli sfollati e trattenere pazienti e personale sanitario.
Il Ministero della Sanità denuncia che la situazione al Nasser di Khan Yunis è “sempre più catastrofica”, mentre l’esercito di occupazione ha ordinato di allontanare le centinaia di sfollati e di trattenere i pazienti, circa 450 persone, e il personale sanitario, 300 tra medici, paramedici e infermieri. Il Ministero della Sanità ha denunciato che i militari hanno sparato sulla folla che cercava di lasciare la struttura, causando diverse vittime.
Le macchine escavatrici dell’esercito hanno spostato e depositato terra e detriti tutto intorno, bloccando l’entrata nord. I palestinesi che erano rifugiati nell’0spedale stanno uscendo in fila, passando tra le colonne di mezzi, sotto il controllo dei militari armati e delle telecamere di riconoscimento facciale montate nel checkpoint allestito all’esterno. Questo significherà, dicono le persone che ci sono già passate in altri luoghi di Gaza ormai distrutti, centinaia di arresti, o “rapimenti”, come li chiamano i palestinesi, non avendo modo di sapere dove vengono portati i propri parenti fermati dall’esercito, né quali siano le accuse, senza garanzie sul trattamento che li attende. Quasi tutti gli arrestati che sono stati poi rilasciati hanno raccontato di aver subito torture, di essere rimasti legati, senza vestiti, di essere stati brutalmente picchiati. Un uomo che, fermato e liberato dall’esercito è riuscito a ricongiungersi con la sua famiglia, ha spiegato che anche alle donne è riservato il trattamento peggiore: lasciate nude insieme agli uomini, ritornano dagli interrogatori spesso con i capelli tagliati e rasati.
Alcuni sfollati dell’ospedale Nasser sono arrivati a Rafah, dove l’esercito israeliano intende compiere una massiccia operazione militare.
Gli sfollati costretti a lasciare il Nasser sono stati fermati e trattenuti. Tra loro famiglie e numerosi bambini. Alcune persone hanno provato a ritornare nella struttura a causa degli spari e della situazione estremamente pericolosa trovata all’esterno. Altri sfollati sono già arrivati o si stanno dirigendo verso Rafah, secondo le indicazioni dell’esercito israeliano. L’ultima città di Gaza, schiacciata al confine con l’Egitto, con una popolazione pre-guerra di 280.000 abitanti, accoglie già circa 1,4 milioni di persone, per la maggior parte profughi costretti dai militari a spostarsi verso sud. Le persone, che vivono nelle tende o affollano le abitazioni ancora in piedi, sono terrorizzate dall’imminente attacco annunciato dal governo israeliano. Qualcuno ha provato a fuggire, disposto a cercare rifugio tra le rovine delle proprie abitazioni al centro e al nord della Striscia. Ma l’esercito intende fare qualsiasi cosa per evitare il ritorno dei profughi. Anzi, continua a mandare a Rafah anche i nuovi sfollati, in attesa che venga chiuso e approvato un “piano di evacuazione” per la popolazione civile che è la popolazione quasi dell’intera Striscia di Gaza. L’esercito ha presentato varie proposte al gabinetto di guerra: campi profughi lungo la costa, forse. O nelle zone già devastate dai bombardamenti e dalle demolizioni controllate. Una nuova trattativa con l’Egitto, magari. Non è chiaro neanche con quali forze immagina (e se lo immagina) Israele fornire assistenza a quasi 2 milioni di persone, soprattutto intendendo dichiaratamente liberarsi dell’UNRWA e dell’Onu in generale. Ma forse anche della Difesa civile e della Mezzaluna Rossa Palestinese. Con i coloni che sempre più numerosi si affollano ai valichi per impedire ai camion degli aiuti di entrare nella Striscia.
Intanto si è fatta sera e al Nasser sono rimasti solo pochi medici e i pazienti che non possono camminare sulle loro gambe o rinunciare all’ossigeno che rimane. I dottori sono pronti a tutto. E noi non sappiamo più se ci sarà qualcuno che potrà continuare a raccontarci cosa sta succedendo in quel buco nero fuori dal mondo e dalla legge che è diventato l’ospedale Nasser di Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza.
pagineesteri.it/wp-content/upl…
Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint
L'articolo GAZA. Fuga dall’ospedale Nasser assediato dai cecchini e dai carri armati proviene da Pagine Esteri.
Scontri incessanti tra Israele e Hezbollah. Uccisi quattro libanesi e una israeliana
Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint
della redazione
Pagine Esteri, 14 febbraio 2024 – Alta tensione al confine tra Libano e Israele. Una israeliana, forse una militare, è stata uccisa da razzi lanciati dal Libano che hanno colpito obiettivi nei pressi di una base dell’esercito a Safed, in Galilea. Altre otto persone sono rimaste ferite. L’attacco non è stato rivendicato ufficialmente da Hezbollah, ma si ritiene che sia stato lanciato dal movimento sciita libanese in risposta agli ultimi raid dell’aviazione israeliana in Libano del sud.
Poco dopo il lancio di razzi, jet da combattimento israeliani hanno martellato con bombe e missili, prendendo di mira il distretto meridionale di Nabatieh e le zone di Jubal Safi, Kfar Dunin, Basliya, Sawana e Adashit Al Qusayr. Almeno tre civili palestinesi sono stati uccisi, tra cui un bimbo di un anno, Ami Mohsen. Inoltre, un drone ha ucciso nei pressi dell’ospedale di Bint Jbiel, Muhammad Alouya, il comandante di Hezbollah per la regione di Maroun al-Ras.
In Israele ora si levano più alte le voci che chiedono una guerra aperta al Libano e ad Hezbollah. Il capo del Consiglio regionale di Mateh Asher, Moshe Davidovich, che è anche presidente di un forum delle città al confine settentrionale, ha chiesto al governo “di svegliarsi”. Senza sicurezza, non c’è il nord”, ha aggiunto.
Il capo del consiglio regionale di Merom HaGalil, Amit Sofer, ha invitato le forze armate a colpire con forza Hezbollah “dal confine fino al fiume Litani”. Secondo Sofer è necessario creare una zona smilitarizzata nel sud del Libano. Pagine Esteri
Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint
L'articolo Scontri incessanti tra Israele e Hezbollah. Uccisi quattro libanesi e una israeliana proviene da Pagine Esteri.
Colorado’s Approval of Global Privacy Control: Implications for Advertisers and Publishers
The privacy laws of both Colorado and California require organizations to recognize Universal Opt-Out Mechanisms (UOOMs), a tool through which a person can invoke their opt out rights broadly across all the websites they visit. While California has required responding to certain UOOMs since July 2021, the Colorado Attorney General has only recently approved their first tool – the Global Privacy Control – as valid within the scope of the state law. This sets the stage for organizations within the law’s jurisdiction to take appropriate action necessary to ensure that they are recognizing and responding to any person’s use of the GPC. Below we provide information for what organizations need to know about UOOMs going forward, including particular implementation challenges that must be addressed to avoid enforcement actions for falling afoul of the law.
Background
Governor Polis signed the Colorado Privacy Act (CPA) in July 2021, making Colorado the third state to pass a comprehensive privacy law. Among other things, the act requires the Colorado Attorney General to conduct a special process for approving Universal Opt Out Mechanisms (UOOMs) for people to use as a means of invoking their opt out rights. Under Colorado law, covered entities will be required to honor these UOOMs beginning July 1, 2024.
The Colorado AG’s office closed applications for UOOM tools on November 6, 2023. After a public comment period, the Colorado AG announced that only one tool – the Global Privacy Control (GPC) – would be acknowledged on the exclusive public list of acceptable UOOMs in Colorado.
The recognition of the GPC as a valid UOOM in Colorado leaves adtech vendors, advertisers, and publishers in a broadly similar place in both California and Colorado once enforcement begins this summer: Publishers will have to respond to valid GPC requests in both states; advertisers and vendors will have to adjust business practices accordingly. Although implementations of GPC must still satisfy the requirements of the CPA, Colorado’s decision aligns their enforcement of opt-out rights with those in California, creating momentum toward a national standard.
What should Advertisers, Publishers, and Other Organizations Know About the GPC and UOOMs in U.S. law
1. Implementations of GPC must still satisfy the requirements of CPA
Under the CPA, UOOMs in Colorado must satisfy three categories of rules. By selecting a single UOOM tool, the Colorado AG’s office has indicated that this is the only tool “recognized in so far as the UOOM or any authorized implementations meet the requirements of [the Colorado Privacy Act].”
The first and second of these rules relate to Notice and Choice under Rule 5.03 and Default Settings under Rule 5.04. The notice and choice requirements ask UOOM vendors to ensure that the signal represents an “affirmative, freely given, and unambiguous choice to opt out” of targeted advertising and data sales. The requirements for default settings seek to ensure the choice remains a genuine opt-OUT with respect to the device. The default browser installed on the device cannot simply negate the selection in a user interface to transform the user-facing mechanism into what would appear to be an opt-IN for the user. For browsers or browser extensions that do not come pre-installed on the device and that are marketed as tools for exercising a user’s opt out rights, the consumer’s decision to install and use these tools is considered an affirmative, freely given, and unambiguous choice.
The final requirement for UOOMs in the CPA is to follow Technical Specifications under Rule 5.06. The technical specification requirements make the tool “universal” in the sense that it can automatically transmit the opt-out to multiple publishers while remaining in compliance with other requirements, like the notice and choice requirements and the default settings requirements, and without unfairly disadvantaging controllers.
It is noteworthy that the AG’s office distinguishes between “the UOOM” – the GPC in this case – and “any authorized implementations” of the UOOM. Several organizations, including FPF, expressed broad support of the GPC while correctly observing that the GPC is a protocol-level technical specification and is implementable in valid and invalid ways in user-facing tools. Actual implementations of the GPC vary significantly in their interface and functionality. However, it is not clear what is required for an implementation to be “authorized”. One may read the language to require some additional recognition by the Colorado AG’s office (which has not produced a list of authorized implementations) or instead to include those implementations recognized by the creators of the GPC, which lists several implementations that support the GPC on their website. It is even possible that “authorized implementations” may even refer to other authorized, yet-to-be-approved UOOMs and have nothing to do with the GPC.
Based on this analysis, it is technically possible for publishers to receive an invalid GPC signal originating from a tool that fails to implement other requirements of the CPA. However, discerning the validity of GPC signals as they are received may require publishers to implement otherwise invasive means, like browser fingerprinting.
2. GPC will be a multi-state enforcement priority for 2024
Despite the limitations of approving a technical specification, the decision in Colorado to recognize only the Global Privacy Control marks an alignment with California that the GPC should be a clear priority for organizations looking to avoid an enforcement action in 2024. Controllers in Colorado and businesses in California should earnestly implement appropriate means to receive these signals and respond in their advertising technology stack. Industry preparation should include some mechanism for differentiating data that has been opted-out of sale or sharing from data that has not.
The Colorado AG also indicated that the current public list (which, again, consists solely of the GPC) will be “prioritized for enforcement,” meaning publishers will likely be required to respond to GPC opt-out requests as soon as the enforcement date of July 1, 2024 rolls around. Any relevant on-going or concluded investigations in California since the AG settlement with Sephora have not resulted in publicly announced enforcement actions. However, it has remained an area of active interest, including recent discussions by the California Privacy Protection Agency (CPPA) regarding the possibility of requiring browser vendors to implement a feature allowing users to express their opt-out preferences to publishers.1
3. Novel mechanisms may still be reconsidered in upcoming years
In naming the GPC as the current exclusive UOOM recognized in Colorado, Colorado AG also indicated that this did “not exclude additional UOOMs from meeting the requirements” in the future. This could mean the other shortlisted opt out mechanisms (i.e., the OptOut Code or the Opt-Out Machine) or some tool that has not yet been developed may be able to be approved in the future. However, the process for submitting applications is uncertain. The website is no longer accepting submissions, and although it may be opened to new submissions in the future, no plans for doing so are currently public.
The Colorado AG also indicated that when it does accept new applications, it will also seek public comments on them in a similar process. The three applications listed in the shortlist each took different approaches to standardizing expression of user opt out preferences. The OptOut Code proposal focused on prepending a code to human-readable device names, the Opt-Out Machine proposed an automated email-based opt out mechanisms, and the Global Privacy Control (GPC) proposed using their HTTP-based protocol-level specification in Colorado, having already been recognized as a UOOM in California.
Challenges Ahead for Enforcement
Enforcement of the Colorado Privacy Act’s requirements for opt-outs will begin later this year. Although the Colorado AG selected the GPC, they did not reveal their rationale or respond substantively to the concerns raised during the comment process. As a result, specific enforcement techniques and investigative approaches are hard to predict. At least four enforcement challenges exist for Colorado: (1) responding to the GPC alone may not be enough to ensure compliance with the CPA, (2) confirmation of signals by controllers is not required making verification of the receipt of valid signals difficult, (3) invalid GPC signals are difficult to detect definitively, and (4) the current move toward enforcement is happening at a time of transition in the industry at large.
First, responding to the GPC alone is not enough for compliance with the CPA. Although the GPC specification includes optional requirements allowing publishers to confirm to users that they have received the GPC signal, this confirmation is not technically tied to any advertising that appears on the publisher site. In other words, it is possible for a publisher site to continue serving targeted ads while confirming to users that their GPC opt-out signal has been received, either intentionally or accidentally. The Colorado AG will need some mechanism for discerning whether any advertising displayed was targeted or not. For people who have invoked the GPC, publishers are likely to replace targeted advertising with contextual advertising, and these ads may be served by similar ad servers, making discernment challenging. (The opt-out also applies to the sale of personal data, but that would not be immediately obvious to an enforcement agency in a single web browsing session regardless of the GPC configuration.)
Second, optional confirmation requirements in the GPC specification are not strictly required by the CPA. Although confirmation may be useful for users, advertisers, and publishers seeking to test their configuration of their GPC tool of choice, their utility as part of regulatory enforcement remains unclear, and without them it is unclear how Colorado enforcement agencies will determine whether a signal has been received and responded to. It is worth noting here that California’s recently proposed revisions to the California Consumer Privacy Act (CCPA) would require businesses to display the status of the consumer’s choice.2
Third, invalid implementations of the GPC can transform the opt-out into a user-facing opt-in. Developers of privacy-oriented browsers and browser extensions have evinced a desire to make the user’s experience of setting up both the browser and the GPC as fast and easy as possible, but the legal environment is inherently complex. The installation and configuration process for these tools will be critical to ensuring that GPC signals are valid in each jurisdiction where they are intended to apply. The GPC signal does not embed information on which browser, extension or tool sent the signal. This can make it difficult for organizations seeking to determine a mechanism’s validity and investigators seeking to respond to GPC signals sent using an invalid mechanism or configuration. Investigators will also have to determine if the person covered by the signal is a Colorado resident.
Finally, enforcement of the CPA comes at a time when the industry is transitioning away from the third-party cookie and toward new advertising APIs, presenting an additional challenge for discernment of targeting information. Publishers will need to be able to connect receipt of the GPC signal to their new infrastructure for advertising APIs during this transition. Similarly, Colorado’s enforcement will need to be able to verify compliance with the CPA, including responses to valid GPC signals, during this industry transition. Many other states are considering comprehensive privacy laws, some with subtly different opt out rights. Colorado has indicated that they prefer a harmonious, multi-state approach where possible, but this possibility remains an open question as states consider new approaches to privacy.
Conclusion
Colorado’s adoption of the GPC as the only valid universal opt out mechanism, for now at least, represents a critical step for vendors, advertisers, publishers, and users. Broad alignment with California marks this as important outside of Colorado as well, particularly with other states adopting or considering comprehensive privacy laws. Although some challenges and open questions remain, covered entities should earnestly work towards compliance to be able to honor these UOOMs beginning July 1, 2024.
1 Note that this requirement may complicate the default setting requirements discussed earlier given Colorado’s differentiation between a browser that comes pre-installed on a device and one that does not.
2 See page 40, in § 7025 on Opt-out Preference Signals.
Infowar e pacifismo, esiste la guerra giusta? L’analisi di Jean
L’Infowar – cioè la competizione fra le propagande e le disinformazioni contrapposte – è una costante di tutti i conflitti. Nessun contendente ammette mai di combattere una guerra ingiusta. Tutti sostengono le loro buone ragioni. Spesso cercano anche di arruolare Dio dalla loro parte. La guerra giusta tende a trasformarsi in guerra santa. Per il Patriarca Kirill tale è l’aggressione russa all’Ucraina. Avrebbe infatti anche lo scopo di salvarla dal peccato: dal permissivismo verso i gay e i drogati e dal consumismo che l’allontanerebbe dalla “vera fede”, cioè dall’Ortodossia facente capo al Patriarcato di Mosca.
Valutazioni completamente oggettive sui vari conflitti, sulle loro cause e obiettivi sono difficili, poiché sono influenzate dai preconcetti e dalle ideologie di chi le formula. Lo si nota chiaramente nei conflitti in corso in Ucraina e in Medio Oriente.
Due grandi tendenze dominano al riguardo: il realismo politico e il pacifismo. Entrambe si manifestano in forme radicali o più moderate.
Per i realisti, la guerra è un fenomeno potenzialmente ineliminabile dalla storia delle società organizzate (cioè dal paleolitico superiore). La loro preparazione, necessaria per la sicurezza – bene supremo di ogni società – fa parte dell’“obbligazione politica”. Secondo padre Niebuhr – consigliere spirituale del grande politologo Hans Morgenthau – la guerra non può essere eliminata dalla storia, come non lo è il peccato originale. Il suo scoppio e la sua violenza possono però essere – e vanno – regolamentate dal diritto internazionale (Jus ad Bellum e Jus in Bello). Lo sono anche dalle varie dottrine della guerra giusta. Il ricorso reale alle armi può essere inoltre evitato – e la pace mantenuta – con la dissuasione realizzabile in due modi: o con l’equilibrio delle forze – di cui l’equilibrio del terrore e la minaccia di rappresaglie “di secondo colpo” della guerra fredda rappresentano la variante più stabile avvenuta nella storia – oppure con la superiorità degli Stati che, soddisfatti dello status quo, sono disponibili a ricorrere alle armi contro le potenze revisioniste che vorrebbero modificarlo con la forza. Le armi non sono, quindi, utili solo per combattere. Lo sono – a parer mio, soprattutto – per mantenere la pace. Chi non l’ha capito, dovrebbe dare una ripassatina alla storia o parlare di altro. È necessario che lo faccia in un periodo, come l’attuale, in cui la situazione strategica regionale e globale sta divenendo instabile e in cui l’Europa non può contare come in passato sulla “dissuasione estesa” americana.
La seconda tendenza è quella pacifista. Nelle sue forme più radicali essa sostiene che il ricorso alle armi sia sempre un crimine, che sia possibile eliminare ogni possibilità di guerra eliminando le armi (e il loro commercio), che non esistono guerre giuste e che la guerra possa essere cancellata dalla storia e sostituita dalla collaborazione fra i popoli, con negoziati promossi da potenti istituzioni internazionali capaci di imporre la pace, cioè il mantenimento dello status quo. La tendenza è molto popolare. La maledizione della guerra e delle sue brutture è vecchia come la guerra, soprattutto negli Stati deboli e in quelli che non vogliono sopportare i costi della sicurezza o di un conflitto. Viene normalmente utilizzata nella propaganda di guerra per diminuire la coesione dell’opinione pubblica nemica o di quella internazionale.
In sostanza, il pacifismo può essere – e viene – utilizzato come un’arma per prevalere sul nemico o per indurlo a disarmare, per batterlo più facilmente in caso di scoppio di un conflitto. Viene spesso applaudito dai politici per l’attrazione che esercita sugli elettori, poiché accantona nel breve termine il dilemma “burro o cannoni”, senza porsi il problema della sicurezza, che è sempre a medio-lungo periodo. Sulle esigenze della sicurezza è facile fare battute e sembrare spiritosi, come spesso avviene oggi in Italia, in cui viene praticamente ignorato il “ciclone” che ci investirebbe qualora Trump, eletto presidente, mantenesse le minacce espresse nei riguardi della Nato.
Tali due tendenze ideologiche contrapposte influiscono inevitabilmente sulle valutazioni date nei riguardi delle varie guerre, a parte le simpatie nutrite nei riguardi delle parti coinvolte. Basti, a quest’ultimo riguardo, pensare a come la propaganda del Cremlino e i suoi sostenitori si sono “arrampicati sugli specchi” per giustificare l’aggressione all’Ucraina (provocazione occidentale, minaccia dell’allargamento della Nato, oppressione della minoranza russofona, ecc.).
Tornando alle ideologie di base, a parer mio, il “realismo politico” corrisponde a quella che è la realtà del comportamento degli Stati e anche dell’Occidente, a cui conviene il mantenimento dello status quo esistente, seppur con una relativa politica di globalizzazione e di apertura verso il “Sud Globale”, che ne prevenga o, almeno, ne ritardi la completa indipendenza e sviluppo, per quanto ingiusta tale politica possa essere considerata da taluni. È probabile che la transizione non possa essere del tutto pacifica. La pax americana non regge più per l’erosione relativa della supremazia egemonica – militare ed economica – degli Usa e, soprattutto, per la crisi del loro impegno bipartisan di fungere da “gendarmi” dell’ordine mondiale liberal-democratico da essi costruito dopo la seconda guerra mondiale.
L’ordine internazionale attuale è divenuto instabile per la diminuzione della superiorità degli Usa e dalle loro sempre più accentuate tendenze al disimpegno e al ripiegamento isolazionistico. Ciò ha allentato – e non solo nel periodo della presidenza di Donald Trump – la solidità delle loro alleanze nell’Atlantico, ma anche nel Pacifico, peraltro indispensabili par la loro credibilità e potenza. Il ridimensionamento non si riferisce tanto alla potenza militare, tecnologica e finanziaria, quanto alle loro volontà d’intervenire per rispettare gli impegni presi, assumendone costi e rischi.
Ne consegue un periodo d’incertezza di cui l’Europa – in particolare l’Italia – non è ancora pienamente consapevole. Continua a basare la sua sicurezza sul possente deterrente nucleare e convenzionale americano, che però non dissuade più come in passato. Nessuno vuole affrontare seriamente il problema dell’autonomia strategica dell’Europa. Senza una capacità di dissuasione essa sarebbe “zoppa”, se non inesistente o, quanto meno, instabile. Questo imporrebbe di riprendere il progetto del 1957 (Taviani, Chaban-Delmas e Strauss) sulla “bomba nucleare” italo-franco-tedesca o di ricorrere a qualche altro “marchingegno” in condizioni di porre l’Ue in condizioni di resistere a ricatti nucleari (dotandosi di bombe radiologiche o di bombe basate sulle nuove tecnologie sviluppabili con l’intelligenza artificiale, ad esempio). Senza tali capacità di rappresaglia massiccia, non sarebbe possibile alcuna vera autonomia.
Meglio allora rassegnarsi ad accettare le pesanti condizioni che saranno imposte dagli Usa in caso di seconda presidenza Trump, oppure accettare il rapido declino che nella storia hanno sempre conosciuto gli Stati che non hanno saputo provvedere alla propria sicurezza, mascherando la propria impotenza con la “foglia di fico” di una virtuosa volontà di pace.
Dai fratelli Wright ai droni. Come è cambiato il potere aereo nel corso della storia
Centoventi (e uno) anni fa, il primo esperimento volo dei fratelli Wright apriva una nuova epoca nella storia dell’umanità. Da allora ad oggi, il controllo dell’uomo sui cieli e sopra di essi ha continuato a crescere costantemente in tutte le dimensioni. Compresa quella militare. L’evoluzione del potere aereo in contesti bellici, tra teoria e pratica, è stata finemente descritto in un paper dell’Istituto Affari Internazionali di recente pubblicazione, firmato da Alessandro Marrone, Andrea e Mauro Gilli.
L’introduzione dell’arma aerea, così come la sua evoluzione, ha portato all’avvio di un processo di profondo adattamento delle dinamiche belliche, adattamento che a sua volta ha influenzato lo sviluppo delle stesse aviazioni di tutto il mondo. Inizialmente utilizzati soltanto per mere funzioni di ricognizione sopra le trincee della prima guerra mondiale, col passare degli anni sono emerse concezioni dottrinarie che assegnavano ai velivoli un ruolo principe nella conduzione dei conflitti, dall’italiano Giulio Douhet all’inglese Hugh Trenchard e all’americano Billy Mitchell. Anche se non esattamente nei termini previsti dai “pionieri della dottrina aereonautica”, con la Seconda Guerra Mondiale il ruolo del potere aereo viene definitivamente consacrato come determinante, non solo relativamente alla dimensione aerea, ma anche a quella terrestre e a quella marittima.
Un ruolo che dopo il secondo conflitto mondiale si espande ancora di più. Da una parte c’è l’introduzione sullo scenario globale dell’arma nucleare, capace di stravolgere completamente i paradigmi strategici esistenti fino ad allora, arma il cui unico vettore (perlomeno all’inizio) può essere un ordigno trasportato da un velivolo. Contemporaneamente si avvia però la corsa allo spazio, e accanto ai velivoli anche i sistemi missilistici e i satelliti compaiono diventano componenti essenziali del potere aereo.
L’evoluzione tecnologica durante la seconda metà della guerra fredda rende tutti questi sistemi sempre più complessi ed efficaci, dotandoli di armamenti più precisi e di raggio maggiore, di capacità stealth e di sistemi di comunicazione più efficaci. La Revolution in Military Affairs è emersa come risultato diretto di questi sviluppi, senza i quali non sarebbe stata possibile, così come non sarebbe stato possibile realizzare campagne militari come quelle avvenute durante il momento unipolare del sistema internazionale post-guerra fredda, come i due conflitti del golfo, le operazioni in Libia e in Afghanistan o quelle nei Balcani. Che però, è doveroso notare, si sono svolte in contesti di spazio aereo praticamente uncontested (ad eccezione del Kosovo).
Cosa aspettarsi per il futuro? Gli aspetti toccati dall’innovazione possono essere tantissimi. A partire dall’evoluzione e dalla sempre più estensiva diffusione dei droni e di tutto ciò che è collegato al loro mondo, all’integrazione dell’Intelligenza Artificiale, fino alla creazione di mega-costellazioni di satelliti capaci di fornire un’intelligence accurata e costante. Quello che è certo è che la storia del potere aereo non è assolutamente arrivata al tramonto.
GAZA. Mentre Israele attacca Rafah, gli Stati Uniti lanciano solo inviti alla cautela
Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint
della redazione con informazioni diffuse dall’agenzia Reuters
Pagine Esteri, 9 febbraio 2024 – Funzionari statunitensi hanno espresso in questi giorni le critiche più taglienti per le vittime civili fatte da Israele a Gaza. Lo stesso presidente Joe Biden ha descritto ieri come “esagerata” la reazione di Israele all’attacco di Hamas il 7 ottobre. Ma mentre lo Stato ebraico sposta il centro della sua offensiva militare su Rafah, ma non c’è nulla che suggerisca che la retorica di Washington sarà sostenuta da qualche azione concreta.
Mercoledì, durante il suo quinto viaggio nella regione dopo l’attacco mortale di Hamas del 7 ottobre, il Segretario di Stato Antony Blinken ha criticato l’attività militare israeliana a Gaza, affermando che il numero delle morti civili resta troppo alto anche dopo ripetuti avvertimenti e ha suggerito a Israele passi specifici da seguire.
Qualsiasi “operazione militare intrapresa da Israele deve mettere i civili al primo posto… E questo è particolarmente vero nel caso di Rafah”, a causa della presenza di più di un milione di sfollati, ha detto Blinken in una conferenza stampa. Ma quando gli è stato chiesto se gli Stati Uniti sarebbero rimasti a guardare mentre le forze israeliane prendevano di mira Rafah, Blinken ha solo ripetuto la posizione americana secondo cui l’operazione militare israeliana dovrebbe mettere i civili al primo posto.
I diplomatici statunitensi hanno esortato Israele a cambiare la sua tattica a Gaza per mesi, senza successo. Washington però non ha avviato misure che avrebbero potuto esercitare una maggiore pressione, come ridurre i 3,8 miliardi di dollari di assistenza militare annuale a Israele o modificare il sostegno alle Nazioni Unite al suo alleato di lunga data. I critici affermano che ciò fornisce un senso di impunità a Israele.
Aaron David Miller del Carnegie Endowment for International Peace ha citato fattori, tra cui il sostegno personale del presidente Joe Biden a Israele e alla sua politica come ragioni per cui gli Stati Uniti non hanno intrapreso tali passi. L’Amministrazione continuerà a “lavorare con gli israeliani, a volte parlerà duro, ma finché non si vedrà qualche prova concreta che sono pronti a fare davvero delle cose…non vedo cosa potrebbe accadere”, ha detto Miller.
Più della metà degli abitanti di Gaza si trovano a Rafah, al confine egiziano, molti dei quali si sono spostati più volte per sfuggire al conflitto. Israele ha già bombardato Rafah e i residenti temono un attacco di terra. Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha detto che la campagna israeliana si espanderà alla città per prendere di mira i militanti (di Hamas). Ieri, il portavoce della Casa Bianca, John Kirby, ha affermato che qualsiasi attacco a Rafah senza la dovuta considerazione per i civili sarebbe “un disastro”. Secondo funzionari del ministero della sanità a Gaza, quasi 28.000 persone sono state uccise nella campagna militare israeliana.
Israele ha scatenato la sua guerra affermando di voler sradicare Hamas dopo che i militanti di Gaza avevano lanciato un’incursione shock nel sud di Israele il 7 ottobre, uccidendo 1.200 persone e sequestrando circa 240 ostaggi. “Gli israeliani sono stati disumanizzati nel modo più orribile il 7 ottobre…Ma questa non può essere una licenza per disumanizzare gli altri”, ha detto Blinken.
Israele afferma di adottare misure per evitare vittime civili e accusa i militanti di Hamas di nascondersi tra i civili, anche nei rifugi scolastici e negli ospedali, provocando ulteriori morti tra i civili. Hamas lo nega. Pagine Esteri
Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint
L'articolo GAZA. Mentre Israele attacca Rafah, gli Stati Uniti lanciano solo inviti alla cautela proviene da Pagine Esteri.
GAZA. Fuga dall’ospedale Nasser assediato dai cecchini e dai carri armati
Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint
di Eliana Riva
Pagine Esteri, 14 febbraio 2024. Centinaia di persone provano a uscire dall’ospedale Nasser assediato, circondato dai cecchini, privato dell’elettricità, dei rifornimenti medici, del cibo e dell’acqua. Il più grande ospedale del sud di Gaza, a Khan Yunis, diventato rifugio per centinaia di palestinesi sfollati, sta per essere invaso dai militari israeliani che nelle ultime settimane hanno attaccato in diversi modi la struttura pur di costringere medici, pazienti e famiglie in fuga ad abbandonarla per andare chissà dove.
Sono stati lanciati volantini, poi si sono posizionati i cecchini che per giorni hanno sparato senza far differenza tra donne, uomini e bambini, a chi cercava di entrare nell’ospedale o di uscirne. Sono numerosi i video diffusi dai giornalisti e dalle persone che si rifugiano nel Nasser o nelle scuole proprio di fronte, che mostrano le persone colpite e lasciate a terra. Una madre con suo figlio, lei morta e il bambino gravemente ferito, un ragazzino di cui non sono riusciti per ore a recuperare il cadavere, a causa dei fucili di precisione sistemati dai soldati sui tetti delle case sgomberate nei dintorni. Mentre il corpo era ancora sull’asfalto, proprio all’ingresso della struttura sanitaria, un piccolo drone è stato mandato dai soldati per intimare alle persone di andare via. Mentre gli spari dei cecchini, hanno denunciano i medici, hanno cominciato a colpire attraverso le finestre degli ospedali le persone che si trovano al suo interno. Almeno due bambini sono stati così feriti e un infermiere, mentre si trovava in sala operatoria.
Un video mostra un ferito che si trascina all’interno dell’ospedale, con il sangue che si rovescia copioso da una gamba. Un medico prova a strisciare sul pavimento per tirarlo lontano dalla porta. Un giornalista ha ripreso una dottoressa che coraggiosamente si sfila il cappotto per correre con più agilità, cercando di evitare i cecchini e attraversare la strada per portare soccorso a un uomo ferito dai militari.
Decine di persone sono state uccise e molte altre ferite. L’esercito ha ordinato all’amministrazione dell’ospedale di mandar via gli sfollati e trattenere pazienti e personale sanitario.
Il Ministero della Sanità denuncia che la situazione al Nasser di Khan Yunis è “sempre più catastrofica”, mentre l’esercito di occupazione ha ordinato di allontanare le centinaia di sfollati e di trattenere i pazienti, circa 450 persone, e il personale sanitario, 300 tra medici, paramedici e infermieri. Il Ministero della Sanità ha denunciato che i militari hanno sparato sulla folla che cercava di lasciare la struttura, causando diversi morti e feriti.
Le escavatrici dell’esercito hanno spostato e depositato terra e detriti tutto intorno alla struttura, bloccando l’entrata nord. I palestinesi che erano rifugiati nell’0spedale stanno uscendo in fila, passando tra le colonne di mezzi, sotto il controllo dei militari armati e delle telecamere di riconoscimento facciale montate nel checkpoint allestito all’esterno della struttura. Questo significherà, dicono le persone che ci sono già passate in altri luoghi di Gaza ormai distrutti, centinaia di arresti, o “rapimenti”, come li chiamano i palestinesi, che non hanno modo di sapere dove vengono portati i propri parenti fermati dall’esercito, né quali siano le accuse, né possono avere garanzie sul trattamento che li attende. Quasi tutti gli arrestati che sono stati poi rilasciati hanno raccontato di aver subito torture, di essere rimasti legati, senza vestiti, di essere stati brutalmente picchiati. Un uomo che, fermato è liberato dall’esercito è riuscito a ricongiungersi con la sua famiglia, ha spiegato che anche alle donne è riservato il trattamento peggiore: lasciate nude insieme agli uomini, ritornano dagli interrogatori spesso con i capelli tagliati e rasati.
Gli sfollati costretti a lasciare il Nasser sono stati fermati e trattenuti al checkpoint. Ci sono tra di loro famiglie e numerosi bambini. Alcune persone stanno in questi minuti ritornando nella struttura a causa degli spari e della situazione estremamente pericolosa che hanno trovato all’esterno.
pagineesteri.it/wp-content/upl…
Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint
L'articolo GAZA. Fuga dall’ospedale Nasser assediato dai cecchini e dai carri armati proviene da Pagine Esteri.
European Court of Human Rights bans weakening of secure end-to-end encryption – the end of EU‘s chat control CSAR mass surveillance plans?
The European Court of Human Rights yesterday banned a general weakening of secure end-to-end encryption. The judgement argues that encryption helps citizens and companies to protect themselves against hacking, theft of identity and personal data, fraud and the unauthorised disclosure of confidential information. Backdoors could also be exploited by criminal networks and would seriously jeopardise the security of all users’ electronic communications. There are other solutions for monitoring encrypted communications without generally weakening the protection of all users, the Court held. The judgement cites using vulnerabilities in the target’s software or sending an implant to targeted devices as examples.
Member of the European Parliament and digital freedom fighter Patrick Breyer (Pirate Party) comments:
“With this outstanding landmark judgement, the ‘client-side scanning’ surveillance on all smartphones proposed by the EU Commission in its chat control bill is clearly illegal. It would destroy the protection of everyone instead of investigating suspects. EU governments will now have no choice but to remove the destruction of secure encryption from their position on this proposal – as well as the indiscriminate surveillance of private communications of the entire population!
Secure encryption saves lives. Without encryption, we can never be sure whether our messages or photos are being disclosed to people we don’t know and can’t trust. So-called ‘client-side scanning’ would either make our communications fundamentally insecure, or European citizens would no longer be able to use Whatsapp or Signal at all, because the providers have already contemplated that they would discontinue their services in Europe. It is a scandal that the EU Council’s latest draft position still envisages the destruction of secure encryption. We Pirates will now fight even harder for our digital privacy of correspondence!”
Background: The EU Commission and an industrial network of surveillance authorities are calling for generally searching private communications using error-prone technology, including on end-to-end encrypted messengers, for indications of illegal content. This could only be implemented by undermining secure end-to-end encryption. The majority of EU governments support the initiative, but a blocking minority is preventing a decision. The EU interior ministers want to discuss the bill again at the beginning of March. Under massive pressure from Pirates and civil society, the EU Parliament has rejected the destruction of secure encryption and indiscriminate chat control. However, this is only the starting position for possible negotiations with the EU Council, once it agrees on a position. Meta has announced that it will start encrypting direct messages via Facebook and Instagram in the course of this year and discontinue its current voluntary chat control surveillance on these messages. Nevertheless, the EU is in the process of extending the authorisation for voluntary chat control.
Breyer’s information page on chat control
imolaoggi.it/2024/02/12/spagna…
Spagna, Von der Leyen denunciata per appropriazione indebita e distruzione di documenti pubblici • Imola Oggi
L'influentissima associazione spagnola Liberum ha annunciato di aver presentato tre denunce contro Ursula Von der LeyenImolaOggi
In Cina e Asia – In Cina aumentano i matrimoni dopo dieci anni
I titoli di oggi: In Cina aumentano i matrimoni dopo dieci anni La società biotecnologica Wuxi AppTec potrebbe essere sanzionata dagli Usa La Cina è il primo produttore navale al mondo Il premier giapponese Kishida vuole incontrare Kim Jong Un India e Cina più vicine nell’indice azionario internazionale MSCI Via libera del senato Usa ai fondi per Taiwan Thailandia, l’ex ...
L'articolo In Cina e Asia – In Cina aumentano i matrimoni dopo dieci anni proviene da China Files.
ricinch
in reply to Rifondazione Comunista • • •