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Il nostro altruismo perduto


Non è solo a causa dell’antiamericanismo diffuso, forse nemmeno a causa delle proprie posizioni politiche, che parte degli italiani è contraria all’appoggio agli ucraini L’antiamericanismo, certo. Quell’antiamericanismo magistralmente descritto da Anton

Non è solo a causa dell’antiamericanismo diffuso, forse nemmeno a causa delle proprie posizioni politiche, che parte degli italiani è contraria all’appoggio agli ucraini

L’antiamericanismo, certo. Quell’antiamericanismo magistralmente descritto da Antonio Polito qualche giorno fa proprio sul Corriere quale nucleo politico forte della contrarietà di una parte vasta di italiani a un appoggio militare del nostro Paese alla resistenza dell’Ucraina contro la Russia. Un antiamericanismo carico di motivi di ogni genere: da quelli più esplicitamente politici a quelli non meno forti, espressione di una disposizione psicologica e culturale che puntualmente ritorna a farsi sentire. Espressione, tra l’altro, di un patetico complesso d’inferiorità che si camuffa nel suo contrario: per cui ci sentiamo tenuti a ribadire, ad ogni occasione, qualche nostra presunta superiore diversità nei confronti degli americani, quasi che però nel nostro intimo non fossimo per nulla sicuri della sua effettiva esistenza. A me pare, per l’appunto, che i motivi più veri della contrarietà a schierarsi con l’Ucraina di tanta parte dell’opinione pubblica italiana molto più che con la politica in senso proprio abbiano a che fare con questo genere di cose. Con stati d’animo radicati nell’inconscio del Paese, con una mutata sensibilità etica. Ciò che infatti più mi colpisce negli italiani che negano il loro appoggio alla causa ucraina è — posso dirlo? — una cosa che non saprei che definire in un modo: indifferenza morale.

Ma come? Non gli dice nulla la figura di Putin? Non significa nulla che si tratti di un signore il quale negli anni ha già aggredito due o tre Paesi, ha condotto un po’ dappertutto feroci guerre di sterminio radendo al suolo intere città, e non perde occasione per sbandierare le sue ambizioni imperialistiche? E davvero per questi nostri concittadini è del tutto indifferente, è una cosuccia da niente, che ad ogni momento egli vomiti disprezzo sul nostro modo di vivere, su tutto quello che siamo, sulla nostra libertà? E davvero per loro conta poco o nulla, ai fini del giudizio da dare sulla guerra in corso, il fatto che uno dei contendenti, cioè il sullodato Putin, sia un organizzatore compulsivo di assassinii politici, un abituale avvelenatore di avversari, uno incline a spedire in galera (come minimo) chiunque osi opporsi alle sue decisioni? Come si spiega, mi chiedo, una simile gelida impassibilità di fronte a realtà così evidenti? Come si spiega dopo tutto quello che è accaduto in Europa nel ’900 questa indifferenza ai crimini di guerra più atroci, premeditati, ripetuti, documentati, commessi dalle truppe russe in Ucraina? Non è a dir poco sorprendente che oggi qui in questo Paese ci siano tanti pronti ad andare in brodo di giuggiole per l’esibizione sanremese di Benigni in lode dei valori della Costituzione ma per i quali rapire e deportare migliaia di bambini ucraini, come hanno fatto i russi nelle zone occupate, non voglia dire sostanzialmente nulla per decidere da quale parte stare?

O forse dobbiamo pensare davvero che nel giudizio di una parte di nostri concittadini sulla guerra in corso abbia un peso maggiore di quello che si deve dare a una battuta l’epiteto di «comico ebreo» che, a proposito di Zelensky, abbiamo più volte ascoltato in questi mesi? È vero, gli ebrei hanno un’antica tradizione di versatilità nell’umorismo e nell’arte della recitazione. Sospetto però che quelle parole volessero dire qualche altra cosa: c’entra forse anche questa nella diffusa antipatia per la causa ucraina?

Un’antipatia, un rifiuto infastidito, un volersi girare dall’altra parte, in cui, di nuovo, sembra di vedere qualcosa, che con la politica c’entra poco. E cioè, in sostanza, l’uscita della guerra dall’orizzonte di milioni di «nuovi» italiani. Ma non già nel senso di un’ovvia preferenza per la pace rispetto alla guerra che condividiamo tutti anche se non ne facciamo una bandiera nella quale avvolgerci. Bensì nel senso di una ormai compiuta estraneità nei confronti dei tratti del carattere e della personalità, anche del modello educativo, del mondo culturale e morale che la guerra mette in gioco: beninteso la guerra in difesa della patria, quella di cui qui si tratta e che gli ucraini stanno combattendo (e quale altra se no? visto che sul fatto che l’aggressione venga dalla Russia nessuno ha il coraggio di discutere) e che anche la nostra Costituzione definisce un dovere sacro di ogni cittadino.

Ma quanti sono, mi chiedo, gli italiani che oggi sentono un tale dovere? Quanti sono le donne e gli uomini disposti quindi a pensare che esistono cause per le quali è giusto mettere da parte la propria esistenza quotidiana con i suoi piccoli e meno piccoli piaceri, le sue comode abitudini, e accettare rinunce, disagi, pericoli, magari anche di rischiare la propria vita? Perché la guerra è questo. La guerra mette in gioco la tenacia, la forza di volontà, il coraggio, anche l’abnegazione di cui siamo capaci, e dunque i valori personali e collettivi a cui siamo stati educati e in cui siamo cresciuti. Evoca per sua natura l’idea che esista qualcosa di più importante e quindi di più grande della nostra vita. In questo senso essa è a suo modo una terribile prova di altruismo.

Che gli ucraini stanno affrontando nella maniera che si sa. E forse il pacifismo nostrano è solo il rimorso (forse anche un rimosso rimpianto?) per la consapevolezza di non essere più capaci di essere come loro.

Il Corriere della Sera

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Tra i signori della guerra si conferma il guerrafondaio Stoltenberg che continua a annunciare che l'Ucraina entrerà nella NATO, non torneremo a relazioni norma


Affondare


Si deve far tacere il cuore, per ragionare. Tacere dovrebbero le polemiche inutili e la stoltezza presuntuosa di chi suppone di potere essere argine o leva di un tale fenomeno. Per ora, solo per ora, quelli di Crotone sono gli ultimi morti. Un bambino che

Si deve far tacere il cuore, per ragionare. Tacere dovrebbero le polemiche inutili e la stoltezza presuntuosa di chi suppone di potere essere argine o leva di un tale fenomeno. Per ora, solo per ora, quelli di Crotone sono gli ultimi morti. Un bambino che muore, il fratellino che se lo vede sfuggire, decine di corpi che galleggiano. Ci può essere strazio più grande? Sì, sapere che si sarebbe potuto evitare. E sì, sapere che quelli erano profughi, afghani, iraniani, siriani in fuga da despoti, fanatici e guerre, gente che aveva il diritto d’essere accolta. Il diritto. Taccia il cuore, che non ha parole intelligenti da dire. Ragioniamo su cosa fare.

Invocare l’Unione europea è abbaiare alla luna. Le parole del Presidente della Repubblica hanno un contenuto diverso. Prima l’appello è alla comunità internazionale, perché cessino le guerre, le persecuzioni e il terrorismo. Nobile intento, che resterà fra le cose inutilmente dette. Mentre relativamente all’Ue l’invito è ad assumere <<in concreto la responsabilità di governare il fenomeno>>. E qui la questione è schiettamente politica, coinvolgendo la necessità di cedere sovranità nazionale.

Due cose, avremmo dovuto imparare, non funzioneranno mai: a. supporre di potere fermare tutte le partenze; b. provare a dividersi quanti arrivano. La prima non funzionerà mai perché se la guerra o la fame minacciano i miei figli io parto, strafregandomene di cosa dicono le leggi altrui. Su quel bisogno insopprimibile speculano i trafficanti, ma il problema è il bisogno, il trafficante un’aggravante. La seconda cosa non funzionerà mai perché l’irregolarità all’origine della partenza genera irregolarità all’arrivo e, nell’incapacità di distinguere e identificare, anche chi dice di volere condividere poi può obiettare e non far accedere. Senza contare i governi, come taluni nostri, che barattano la gestione della frontiera con benefici finanziari. Sono cose che non funzioneranno mai. Il che ha condotto alla mostruosità di persone che avevano il diritto d’essere accolte e che finiscono affogate.

Quel che non abbiamo mai sperimentato, perché non abbiamo voluto farlo, è affidare alle istituzioni dell’Unione il governo dell’intera questione. Il che comporta che la frontiera italiana resta italiana (francese, spagnola e via andando), ma quando viene penetrata dall’esterno e in modo massiccio diventa solo e soltanto una frontiera europea, sicché non solo la sua difesa, ma la sua stessa giurisdizione fa capo all’Ue. Significa che la Guardia costiera italiana agisce per conto Ue, come la Banca d’Italia agisce nel sistema Banca centrale europea. Significa che risponderanno al diritto europeo quanti si trovano, da neo arrivati, su territori nazionali che vengono sottratti alla giurisdizione nazionale, divenendo extraterritoriali. Quindi sarà chi agisce sotto il dominio del diritto europeo a identificare, individuare i profughi (che nessuno rifiuta di accogliere), ordinare gli ingressi e gestire i respingimenti. In un sistema in cui forza, diritto e costi sono condivisi, secondo quanto già si fa in altri campi. Abbiamo visto quelle vite affondare, eliminate come d’insetti, se ne tragga almeno la determinazione e il coraggio di affondare il colpo e cambiare il modo in cui gestiamo il dramma.

Non è l’Ue che si attiva per “non lasciare sola l’Italia”, come odiosamente si ripete, ma l’Ue che assume la responsabilità diretta. Non potrà farlo, però, senza la cessione di sovranità da parte degli Stati nazionali. Si è andati in questa direzione con alcuni pattugliamenti navali o con la guardia doganale, ma senza il coraggio di rendere compiuto il passaggio di competenze. In quell’equivoco crescono anche gli antieuropeisti che si lamentano di quello che l’Ue non fa, salvo a impegnarsi per evitare che possa farlo.

C’è qualche cosa di guasto nel pretendere che tutto si riassuma nelle colpe o meriti di questo o quel governo, c’è l’incapacità di comprendere che sono irrilevanti. Come i dati e la realtà non si stancano di ricordarci.

La Ragione

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Un anno di guerra in Ucraina: relazioni USA-Germania sempre più tempestose?


A un anno dall’invasione russa dell’Ucraina, l’alleanza transatlantica appare rivitalizzata e più forte che mai. Una componente significativa di ciò è stata la relazione strategica tra Stati Uniti e Germania. Ma a causa delle tensioni economiche e geopolitiche degli ultimi 12 mesi, la partnership potrebbe navigare in mare agitato. Dall’invasione russa dell’Ucraina un anno fa, […]

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Un gruppo di lavoratori della Portovesme srl, l’unico produttore italiano di zinco e piombo da primario, si è arrampicato su una ciminiera alta cento metri c


Mariarosaria Taddeo: una filosofa commenta l’Intelligenza Artificiale


Se ne parla e se ne continua a parlare. Ma cos’è l’Intelligenza Artificiale? Tra le tante definizioni ne abbiamo colto una: «Lo strumento che ci permette di leggere la realtà e capirne le dinamiche». Ma per evitare qualsiasi generalizzazione abbiamo chiesto a Mariarosaria Taddeo; nel 2020 Computer Weekly l’ha nominata tra le 100 donne più […]

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Serbia, Vučić: “Tutti vogliono andare in guerra e tutti si preparano per la guerra”


Il presidente serbo intende accelerare la corsa agli armamenti del suo Paese ed esprime soddisfazione in merito alle possibilità economiche derivanti dal commercio di armi per nuove guerre L'articolo Serbia, Vučić: “Tutti vogliono andare in guerra e tutt

di Marco Siragusa –

Pagine Esteri, 28 febbraio 2023 – “Tutti vogliono andare in guerra e tutti si stanno preparando per la guerra”. Queste le parole pronunciate dal presidente serbo Aleksandar Vučić durante la sua visita ad Abu Dhabi (Emirati Arabi Uniti) per la sedicesima convention sulle armi, l’International Defence Exhibition and Conference (IDEX2023), una delle più importanti al mondo, che si è tenuta dal 20 al 24 febbraio 2023. Le parole di Vučić non erano però dettate dalla preoccupazione di un’escalation militare e il coinvolgimento diretto di altri paesi nel conflitto ucraino o, ancora peggio, per l’apertura di un nuovo fronte di guerra. No, le sue parole nascondevano una certa soddisfazione legata alle possibilità economiche derivanti dal commercio di armi.

La Serbia, infatti, negli ultimi anni ha notevolmente aumentato le spese per l’ammodernamento del proprio esercito. Se nel 2018 la spesa militare aveva pesato per circa 800 milioni di dollari nel bilancio complessivo dello stato, nel 2022 questa cifra era salita a 1,2 miliardi di dollari. Durante la sua visita a IDEX2023, il presidente serbo ha dichiarato esplicitamente di voler continuare a rafforzare l’industria militare investendo ulteriori 750 milioni di dollari nel 2023, che si aggiungono al miliardo e mezzo già stanziato per quest’anno. L’obiettivo dichiarato è di portare la spesa complessiva al 3% del PIL dall’attuale 2%. Un impegno economicamente non indifferente per un paese piccolo come la Serbia.

Tutto questo mentre il paese si appresta a raggiungere un accordo sulla normalizzazione dei rapporti con il Kosovo, dopo le tensioni dei mesi passati nel nord del paese a maggioranza serba.

Dai droni emiratini ai caccia francesi

Il presidente Vučić è ormai ospite gradito negli Emirati. Da anni intrattiene infatti un proficuo e sempre più profondo rapporto con lo sceicco Muhammad bin Zayed al-Nahyan, presidente degli Emirati Arabi Uniti e tra le persone più influenti e potenti al mondo. Dal 2012, anno della prima vittoria elettorale di Vučić, i due si sono incontrati ufficialmente ben 20 volte, cui si aggiungono gli innumerevoli incontri tra diplomatici delle delegazioni dei due paesi.

Gli Emirati sono economicamente presenti in Serbia già da qualche anno. Tra gli investimenti più consistenti, circa 4 miliardi di euro, rientra il famoso Belgrade Waterfront, un quartiere di lusso costruito sulle rive del fiume Sava nella capitale serba dalla società emiratina Eagle Hills. Recentemente, alla fine del 2022, i due paesi hanno sottoscritto ben dieci accordi nei settori della giustizia, della cultura, della sicurezza informatica, della lotta alla tratta di esseri umani e della cooperazione diplomatica. L’accordo più importante riguardava però il sostegno finanziario degli Emirati sottoforma di un prestito di 1 miliardo di euro a un tasso di interesse favorevole del tre percento. Con l’ultima visita del presidente serbo ad Abu Dhabi, la cooperazione tra i due paesi si è allargata anche al settore militare. Vučić ha infatti annunciato l’acquisto di munizioni e droni kamikaze prodotti nel paese arabo.

Questo non sarà però l’unico investimento serbo per l’ammodernamento delle proprie forze armate. Negli scorsi mesi il presidente ha avviato una trattativa con la Francia per l’acquisto di 12 caccia Rafale per un valore complessivo di circa 3 miliardi di euro. Il doppio del budget previsto per tutto il 2023. A differenza della Croazia, che modernizzerà la sua aeronautica con caccia francesi di seconda mano, i Rafale acquistati dalla Serbia dovrebbero essere completamente nuovi. Uno scarto qualitativo che, stando alle parole di Vučić, serve solo come forma di deterrenza verso possibili attacchi esterni. Serbia e Francia avevano recentemente concluso un accordo per l’acquisto da parte delle Serbia dei missili Mistral, un sistema di difesa aerea portatile a infrarossi.

Meno Russia, più Cina

Che la politica estera di Vučić, al comando della Serbia ininterrottamente dal 2012 prima come premier e poi come presidente della Repubblica, si basi sul concetto di multilateralismo non è certo una novità. La prospettiva europea, costantemente ribadita in questi anni nonostante lo stallo del processo di adesione all’Unione, viene accompagnata da relazioni sempre più strette con i competitor europei come Russia, Cina e Turchia.

Per decenni la Serbia ha potuto contare su un canale privilegiato con la Russia, anche in campo militare. Gran parte dell’esercito serbo è composto da mezzi di origine sovietica e russa. Tra i mezzi a disposizione, può contare infatti su diversi caccia ed elicotteri russi. La guerra in Ucraina ha provocato una netta chiusura verso la Russia da parte dell’Unione Europea. Tra i requisiti per l’adesione, l’UE chiede ai paesi candidati di adeguarsi alla politica estera comunitaria e applicare le sanzioni al governo di Mosca. Belgrado però, è uno dei pochi paesi europei a non aver ancora adottato misure restrittive nei confronti della Russia, anche se, circa un mese fa, il ministro degli Esteri Ivica Dačić ha sorprendentemente comunicato che il suo paese è pronto ad applicare le sanzioni contro Mosca. Un cambio di strategia non indifferente che si lega a doppio filo con gli investimenti in campo militare degli ultimi dodici mesi. La decisione di acquistare i caccia francesi è dovuta soprattutto alla difficoltà di acquistare, a causa delle sanzioni, i materiali necessari all’ammodernamento e al mantenimento dei caccia russi acquistati in passato.

Non è un caso quindi che, anche in campo militare, Vučić stia cercando di “fare affari con tutti”. Oltre a Francia ed Emirati, l’attenzione si è recentemente spostata anche verso la Cina con cui il paese intrattiene già fortissimi legami economici. Nell’aprile 2022, Belgrado ha ricevuto da Pechino un sistema missilistico terra-aria di difesa aerea FK-3. La consegna seguiva quella di due anni prima dei droni CH-92. L’importanza di questi scambi non riguarda solo il piano militare, con il trasferimento di tecnologie e know-how, ma anche quello geopolitico. Con la consegna dei droni infatti, la Serbia è stato il primo e unico paese europeo a utilizzare tecnologie militari cinesi.

Come se non bastasse, nel settembre 2022, Vučić ha annunciato che la Serbia diventerà presto un cliente turco per l’acquisto dei famigerati droni Bayraktar, diventati famosi per il loro utilizzo nel conflitto in Ucraina. Il presidente serbo, in occasione dell’incontro con il turco Erdogan, si era detto pronto a stanziare “diverse centinaia di milioni di euro” per acquistare i droni.

E la NATO?

Che Serbia e NATO non abbiano avuto in passato rapporti pacifici è dimostrato dai bombardamenti dell’Alleanza Euro-Atlantica contra la Serbia di Milošević nel 1999. Una missione considerata da più parti illegittima, sia da un punto di vista politico che di diritto internazionale. Dal 2007 Belgrado persegue la neutralità militare, cosa che gli ha permesso nell’ultimo anno di condannare l’invasione russa alle Nazioni Unite senza applicare le sanzioni europee contro Mosca. Eppure, tra NATO e Serbia si è andata strutturando negli ultimi anni una costante collaborazione. Il primo importante passo si è avuto già nel 2006, quando il paese ha aderito al Partenariato per la pace e al Consiglio di partenariato euro-atlantico (EAPC). Una cooperazione che si è ulteriormente approfondita a partire dal 2015, quando la Serbia ha concordato il suo primo piano d’azione di partenariato individuale biennale.

I dati sulle esercitazioni militari compiute da Belgrado contribuiscono a una parziale decostruzione dell’idea di una Serbia inequivocabilmente filo-russa. Nel 2021, infatti, il paese ha partecipato a quattro esercitazioni congiunte con la Russia e a ben quattordici esercitazioni con membri della NATO. Tra questi, ben otto esercitazioni hanno coinvolto anche gli Stati Uniti. La situazione non cambia di molto se si considerano le donazioni di natura militare fate da paesi terzi. Anche in questo caso, nel biennio 2019-2020, al primo posto si trovano gli Stati Uniti con 13 milioni di euro stanziati, seguiti dalla Cina con 755 mila euro e dalla Corea del Sud (167 mila euro).

Su un piano prettamente militare, l’invasione russa dell’Ucraina ha avuto come conseguenza quella di un allentamento della cooperazione militare tra Serbia e Russia in favore di nuovi accordi con altri partner strategici. Il fatto che questi partner facciano parte del blocco Occidentale (Francia e Stati Uniti), del mondo arabo (Emirati) o siano grandi potenze globali (Turchia e Cina) dimostra la capacità del presidente serbo di differenziare le relazioni e di mantenere buoni rapporti con tutti gli attori dello scacchiere internazionale. Una strategia che potrebbe però subire modifiche consistenti qualora la Serbia dovesse aderire pienamente alla politica estera europea. Cosa che provocherebbe probabilmente una riduzione della cooperazione con la Cina e altri “rivali” europei.

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John Preston – La nave sepolta


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CONFESSIONI DI UNA MASCHERA - INVERNO MMXXIII


Scrivere di musica. Una passione che rischia di diventare un’ossessione. Questo l’incipit che crediamo possa meglio di tanti giri di parole introdurre quello che sarà l’argomento di questa nostra “confessione”.

iyezine.com/confessioni-di-una…



Data brokers: Identification possible to sell ads, not to exercise fundamental rights


Broker di dati: Identificazione possibile per vendere annunci, non per esercitare i diritti fondamentali noyb ha presentato una serie di reclami contro siti web e broker di dati che non hanno gestito correttamente le richieste di accesso utilizzando i cookie come fattore di autenticazione. Person wears name tag with


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In Cina e Asia – Cina: cala l’occupazione urbana per la prima volta in 60 anni


In Cina e Asia – Cina: cala l’occupazione urbana per la prima volta in 60 anni lavoro
I titoli di oggi:
Ucraina, la risposta russa al position paper della Cina
Cina, Bao Fang "sta collaborando con la giustizia"
Pcc, il Comitato centrale invita al rafforzamento dell'"educazione giuridica nella Nuova era"
Covid, i governi locali iniziano a svendere l'esclusiva su funzioni funebri e patrimonio culturale
Cina, migliorano i diritti delle donne nelle campagne
Cina, boom di progetti energetici a carbone

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Che significa "usare" bitcoin?


Un mio post su twitter ha scatenato reazioni opposte e anche abbastanza infiammate. Il post era: “Spendete 'sti cazzo di bitcoin. Il risparmio d…

Un mio post su twitter ha scatenato reazioni opposte e anche abbastanza infiammate. Il post era:

“Spendete 'sti cazzo di bitcoin. Il risparmio del 100% è da degenerati mentali.”


Cioè che intendevo è: risparmiare in bitcoin è fantastico, ma risparmiare al 100% — cioè non spendere mai bitcoin — non aiuta te stesso e non aiuta neanche la causa politica di bitcoin. Perchè dico questo? Per almeno 4 motivi:

  • Una questione di privacy: tutti i pagamenti elettronici e bancari sono tracciati, analizzati, censurati. Se esiste un’alternativa concreta per proteggere privacy e autodeterminazione, perché non usarla?
  • Una questione politica: il successo di bitcoin non è scontato. È il nemico pubblico nr.1 e non è custodendolo in cold storage fino alla morte facendo meme su twitter che si porterà avanti la sua causa. Le persone normali hanno bisogno di toccare con mano e capire che può essere usato come moneta.
  • Una questione filosofica: come suggeriva Ayn Rand: il pensiero senza azione è una frode. Molti libertari criticano il sistema FIAT e al tempo stesso lo usano anche quando l’alternativa sarebbe facilmente disponibile. Questa per me è una contraddizione, oltre che una frode verso se stessi.
  • Una questione di responsabilità: aspettare che “altri” scelgano di iniziare a usare bitcoin come moneta e poi tirar fuori il gruzzoletto dal cold storage in un famigerato momento di hyperbitcoinization lo trovo assurdo. Perché pretendere che altri facciano ciò che noi non vogliamo fare? Chi sceglie di non usare bitcoin sta delegando il suo futuro a gente nei paesi del terzo mondo che NON può fare a meno di usare bitcoin.

Sono curioso di sapere cosa ne pensano i lettori e anche

5664558A proposito di usare Bitcoin…se vuoi donare qualche sats, scansiona il QR CODE col tuo wallet LN oppure clicca qui!


privacychronicles.substack.com…





A noi comunque fa piacere che si sia imposta una delle poche personalità di sinistra che sottrattasi al gravissimo, complice e silenzioso appoggio alla schiforma oligarchica del taglio di rappresentanza parlamentare!

https://twitter.com/informapirata/status/1303725588675465222





I cespugli consentono al PD-parassita di nutrirsi dei partitini di sinistra: il PD ne dà un senso politico e ne giustifica l'esistenza (e le rispettive dirigenze) in cambio di sostegni in coalizione e di un tributo migratorio delle migliori individualità
informapirata.it/2022/02/12/dar…


[share author='Informa Pirata #WeAreAllAssange #PiratesForAssange' profile='https://twitter.com/informapirata' avatar='https://pbs.twimg.com/profile_images/1362822279810449412/luhv2IGn_400x400.jpg' link='https://twitter.com/informapirata/status/1630119805347930115' posted='2023-02-27 08:17:02']Purtroppo @sbonaccini ha perso! La sua elezione avrebbe accelerato l'inarrestabile autodistruzione del PD.
Ma almeno la vittoria di @ellyesse contribuirà a distruggere i "cespugli" di "sinistra" come @PossibileIt, il piccolo horcrux personale che tiene ancora in vita @civati

twitter.com/beabri/status/1629…



Africa Rossa – Cina, Russia e Sudafrica sempre più vicine


Africa Rossa – Cina, Russia e Sudafrica sempre più vicine sudafrica
Crollano del 54% gli investimenti cinesi nelle infrastrutture africane
Ombre cinesi sulle elezioni in Nigeria
Dal "modello Angola" al "modello Lekki"
Una Bretton Woods “con caratteristiche cinesi”
I torbidi retroscena della ferrovia Mombasa-Nairobi
L’Uganda comincerà a esportare petrolio

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#uncaffèconLuigiEinaudi ☕ – L’intervento non avrebbe ragione di essere…


L’intervento non avrebbe ragione di essere quando ognuno fosse pagato in ragione dei propri meriti. Quando non ci fossero sacche di extra guadagni, lo stato non avrebbe ragione di intervenire. da Di alcuni problemi di politica sociale, Lezioni di politica
L’intervento non avrebbe ragione di essere quando ognuno fosse pagato in ragione dei propri meriti. Quando non ci fossero sacche di extra guadagni, lo stato non avrebbe ragione di intervenire.


da Di alcuni problemi di politica sociale, Lezioni di politica sociale, Torino, 1949

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fondazioneluigieinaudi.it/unca…



Ucraina: il piano di pace cinese è affare di Zelensky, non certo di Biden


La situazione di apparente stallo della guerra in Ucraina, quale che sia la reale situazione sul campo, mai come oggi dovrebbe favorire un inizio almeno di dialogo tra le parti. Dico ‘quale che sia’ la areale situazione, perchè ormai abbiamo imparato che questa guerra è caratterizzata da due elementi straordinariamente particolari: la propaganda assordante che […]

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Shamar

@Pare

ci stiamo lavorando... scusate.

ieri era tardissimo (sono andato a dormire alle 4, sveglia alle 6.30) quindi ho riletto troppo velocemente.

in pausa pranzo sistemo.

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Unknown parent

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Shamar

@netofo

se qualcosa non è chiaro, non esitare a chiedere sulla chat Matrix / Telegram del progetto #MonitoraPA.

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Il superbatterio della diarrea antibioticoresistente si diffonde in fretta e gli scienziati... se la fanno addosso

@Scienza e innovazione

I funzionari dei Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie stanno lanciando l'allarme per un superbatterio che causa la diarrea. I dati del CDC mostrano un notevole aumento di ceppi di batteri Shigella ampiamente resistenti ai farmaci nell'ultimo mezzo decennio. Sebbene queste infezioni in genere non siano gravi, sono necessari antibiotici per prevenire e curare casi potenzialmente letali e i batteri possono trasmettere i loro geni di resistenza ad altri germi fastidiosi.

La Shigella è una delle fonti più comuni di diarrea nel mondo, con circa 450.000 infezioni ogni anno negli Stati Uniti. La maggior parte dei casi sono "lievi", ma ti lasciano comunque soffrire di circa una settimana di diarrea, febbre e crampi. A volte, la diarrea diventa sanguinolenta, una condizione nota come dissenteria. Più raramente, l'infezione può causare complicazioni come grave disidratazione, convulsioni, danni ai reni e sepsi (spesso perché i batteri entrano nel flusso sanguigno). La malattia grave è più probabile nei giovanissimi e nelle persone con un sistema immunitario indebolito.

[b][urlhttps://gizmodo.com/cdc-advisory-shigella-drug-resistant-bacteria-1850164899]Il post di Ed Cara è su Gizmodo[/url]

Fotografia di un rotolo di carta igienica su un portarotolo appeso al muro

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Le ragioni del finto pacifismo italiano


Sette italiani su dieci cedono sul sostegno all’Ucraina per ragioni storiche, culturali e sondaggistiche. Per ora il governo rimane atlantista ma sarà dura andare avanti a lungo Difficile pensare si possa andare avanti a lungo nel sostenere un conflitto c

Sette italiani su dieci cedono sul sostegno all’Ucraina per ragioni storiche, culturali e sondaggistiche. Per ora il governo rimane atlantista ma sarà dura andare avanti a lungo


Difficile pensare si possa andare avanti a lungo nel sostenere un conflitto così poco popolare tra gli eletti e gli elettori italiani. Ovvio notare che la necessaria opera pedagogica sulle ragioni di fondo per cui il conflitto in Ucraina ci riguarda direttamente sia ora in capo a Giorgia Meloni. Ed è su questo, oggi, che si misurerà la sua leadership interna ed internazionale.

Il contesto è scoraggiante, il dissenso colossale. Ma ciascun dissenso, in fondo, ha la sua spiegazione “politica”. I sondaggi per Conte, Berlusconi e Salvini. L’antiamericanismo, cioè il rifiuto del modello capitalista, per una parte del mondo cattolico e per quella destra e quella sinistra estreme ancora radicate la prima nel fascismo e la seconda nel comunismo sovietico. Un idealismo prossimo all’infantilismo per alcuni commentatori e diverse realtà sociali. La paura della guerra e la salvaguardia dell’interesse economico immediato per il 70% dei cittadini.

Ogni dissenso ha la sua ragione “politica”, certo, ma la somma delle singole ragioni politiche fa dell’Italia un unicum in Occidente e rischia di spingerci ancora una volta verso la parte sbagliata della Storia.

Ci sono, evidentemente, ragioni più profonde per spiegare perché, con un misero 30% di favorevoli, siamo la nazione dell’Alleanza atlantica e della Comunità europea meno propensa a sostenere lo sforzo militare del popolo ucraino. Evidentemente, non consideriamo quella degli ucraini contro l’invasore russo la “nostra” guerra. Mancano, nella percezione dei due terzi degli italiani e di molti dei loro rappresentanti politici, sia il senso di un’identità comune minacciata da Vladimir Putin sia la consapevolezza che in gioco vi siano valori fondanti e in quanto tali irrinunciabili. E manca perciò la disponibilità al sacrificio.

Ci manca, per ragioni storiche (secoli di conflitti interni e di dominazioni straniere), la fiducia nello Stato in quanto tale e nella bontà delle sue scelte. Ci mancano, per ragioni religiose (la mancata Riforma protestante), l’etica del sacrificio e della responsabilità individuale e collettiva. Ci mancano, per ragioni storiche e per ragioni religiose, il senso della tragedia e quello del destino. E ci manca il sentimento di una comune appartenenza all’Europa e all’Occidente. Siamo, notoriamente, un Paese di furbi: entriamo in guerra solo quando riteniamo che altri la vinceranno per noi, usciamo dalla guerra alleati di regola col nemico iniziale e perciò in conflitto con l’alleato degli esordi.

Ma centrale è la nostra, storica, refrattarietà a quei principi liberali e democratici che rappresentano la vera posta in gioco nel conflitto ucraino e il vero obiettivo dell’aggressione putiniana. Ma quei valori e quei principi sono da sempre minoritari nella nostra società. Lo testimonia il fatto che per i primi cinquant’anni di storia repubblicana il sistema politico e la società civile italiane sono stati egemonizzati da un partito marcatamente cattolico legato alla Chiesa e da un partito marcatamente comunista legato all’Unione sovietica. Insieme rappresentavano il 70% dei cittadini italiani, mentre la destra più o meno post fascista ne rappresentava, mediamente, un altro 7%. Liberali ed atlantisti erano formalmente una minoranza allora e lo sono sostanzialmente ancora oggi che la demagogia ha preso il posto dell’ideologia.

Sua Maestà il Caso, per dirla con le parole di Federico II di Prussia, ha voluto che a difendere i principi e i valori liberali e democratici sia oggi Giorgia Meloni. Buona fortuna a lei e di conseguenza a noi.

Huffington Post

L'articolo Le ragioni del finto pacifismo italiano proviene da Fondazione Luigi Einaudi.




Le Associazioni e i Comitati territoriali dei Castelli Romani – nello specifico i Comitati di quartiere di Albano, Pavona e Cecchina, FARE Castelli, l’ANPI


Il cinismo del Viminale non conosce remore. Ci vuole una cultura intrisa di disprezzo per la vita umana perché un ministro dell'Interno di un paese come l'Ital

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di Ezio Locatelli - Col suo discorso d’insediamento da nuova segretaria del Pd Elly Schlein ha confermato la sua fama di affabulatrice. Trascinata dall’e


di Raul Mordenti - In merito all'elezione della Schlein, condivido le considerazioni di Maurizio Acerbo (compresi gli auguri alla vincitrice) ma credo che si

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Le ragioni del finto pacifismo italiano


Sette italiani su dieci cedono sul sostegno all’Ucraina per ragioni storiche, culturali e sondaggistiche. Per ora il governo rimane atlantista ma sarà dura andare avanti a lungo Difficile pensare si possa andare avanti a lungo nel sostenere un conflitto

Sette italiani su dieci cedono sul sostegno all’Ucraina per ragioni storiche, culturali e sondaggistiche. Per ora il governo rimane atlantista ma sarà dura andare avanti a lungo

Difficile pensare si possa andare avanti a lungo nel sostenere un conflitto così poco popolare tra gli eletti e gli elettori italiani. Ovvio notare che la necessaria opera pedagogica sulle ragioni di fondo per cui il conflitto in Ucraina ci riguarda direttamente sia ora in capo a Giorgia Meloni. Ed è su questo, oggi, che si misurerà la sua leadership interna ed internazionale.

Il contesto è scoraggiante, il dissenso colossale. Ma ciascun dissenso, in fondo, ha la sua spiegazione “politica”. I sondaggi per Conte, Berlusconi e Salvini. L’antiamericanismo, cioè il rifiuto del modello capitalista, per una parte del mondo cattolico e per quella destra e quella sinistra estreme ancora radicate la prima nel fascismo e la seconda nel comunismo sovietico. Un idealismo prossimo all’infantilismo per alcuni commentatori e diverse realtà sociali. La paura della guerra e la salvaguardia dell’interesse economico immediato per il 70% dei cittadini.

Ogni dissenso ha la sua ragione “politica”, certo, ma la somma delle singole ragioni politiche fa dell’Italia un unicum in Occidente e rischia di spingerci ancora una volta verso la parte sbagliata della Storia.

Ci sono, evidentemente, ragioni più profonde per spiegare perché, con un misero 30% di favorevoli, siamo la nazione dell’Alleanza atlantica e della Comunità europea meno propensa a sostenere lo sforzo militare del popolo ucraino. Evidentemente, non consideriamo quella degli ucraini contro l’invasore russo la “nostra” guerra. Mancano, nella percezione dei due terzi degli italiani e di molti dei loro rappresentanti politici, sia il senso di un’identità comune minacciata da Vladimir Putin sia la consapevolezza che in gioco vi siano valori fondanti e in quanto tali irrinunciabili. E manca perciò la disponibilità al sacrificio.

Ci manca, per ragioni storiche (secoli di conflitti interni e di dominazioni straniere), la fiducia nello Stato in quanto tale e nella bontà delle sue scelte. Ci mancano, per ragioni religiose (la mancata Riforma protestante), l’etica del sacrificio e della responsabilità individuale e collettiva. Ci mancano, per ragioni storiche e per ragioni religiose, il senso della tragedia e quello del destino. E ci manca il sentimento di una comune appartenenza all’Europa e all’Occidente. Siamo, notoriamente, un Paese di furbi: entriamo in guerra solo quando riteniamo che altri la vinceranno per noi, usciamo dalla guerra alleati di regola col nemico iniziale e perciò in conflitto con l’alleato degli esordi.

Ma centrale è la nostra, storica, refrattarietà a quei principi liberali e democratici che rappresentano la vera posta in gioco nel conflitto ucraino e il vero obiettivo dell’aggressione putiniana. Ma quei valori e quei principi sono da sempre minoritari nella nostra società. Lo testimonia il fatto che per i primi cinquant’anni di storia repubblicana il sistema politico e la società civile italiane sono stati egemonizzati da un partito marcatamente cattolico legato alla Chiesa e da un partito marcatamente comunista legato all’Unione sovietica. Insieme rappresentavano il 70% dei cittadini italiani, mentre la destra più o meno post fascista ne rappresentava, mediamente, un altro 7%. Liberali ed atlantisti erano formalmente una minoranza allora e lo sono sostanzialmente ancora oggi che la demagogia ha preso il posto dell’ideologia.

Sua Maestà il Caso, per dirla con le parole di Federico II di Prussia, ha voluto che a difendere i principi e i valori liberali e democratici sia oggi Giorgia Meloni. Buona fortuna a lei e di conseguenza a noi.

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Foreign fighters in prima linea nella guerra Russia-Ucraina


Il 2 febbraio 2023, l’ex marine statunitense Peter Reed è stato ucciso in Ucraina durante l’evacuazione di civili nella città in prima linea di Bakhmut. Due giorni dopo, il 4 febbraio, i corpi di due volontari britannici, Christopher Perry e Andrew Bagshaw, furono restituiti nell’ambito di un accordo di scambio di prigionieri con le forze […]

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Ucraina: 5 motivi per cui il Sud del mondo non sostiene l’Occidente


Nell’ottobre 2022, circa otto mesi dopo l’inizio della guerra in Ucraina, l’Università di Cambridge nel Regno Unito ha armonizzato i sondaggi condotti in 137 Paesi sul loro atteggiamento nei confronti dell’Occidente e della Russia e della Cina. I risultati dello studio, sebbene non esenti da un margine di errore, sono abbastanza solidi da essere presi sul serio. […]

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Ucraina: i pericoli della pace


Mentre l’invasione russa dell’Ucraina compie un anno, sembra che non se ne veda la fine. Tuttavia, la domanda rimane, come si può raggiungere la pace e al più presto? Sia Kiev che Mosca continuano a perseguire atteggiamenti negoziali massimalisti per una buona ragione. Nonostante i contrattacchi ucraini riusciti negli Oblast di Kharkiv e Kherson, Mosca […]

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Cina e Stati Uniti: i soli padroni del mondo!


Non più tardi di oggi abbiamo riportato le parole che Romano Prodi ha usato per concludere la giornata di studi della TAB, presieduta dall’ing. Giuseppe Carta. La ripetiamo: «La guerra tra Russia e Ucraina terminerà solo a seguito di un accordo tra Stati Uniti e Repubblica cinese». E la condividiamo. È una considerazione che nasce una […]

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Congratulazioni a Elly Schlein che ha vinto le primarie del PD. Speriamo che la sua vittoria rappresenti una vera rottura rispetto al solito Pd neoliberista e


Guerra tutt’altro che finita: lezioni che fanno riflettere dall’Ucraina


Pochi esperti avevano previsto che la guerra della Russia contro l’Ucraina sarebbe stata lunga. Una volta che è diventato chiaro che gli ucraini avevano un’incredibile, e imprevista, capacità e volontà di resistere, le previsioni si sono spostate sull’impatto degli errori di calcolo della Russia. Nei primi mesi dell’invasione, i media occidentali erano pieni di proiezioni […]

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Lo sguardo italiano su Kyiv. L’analisi del generale Arpino


Febbraio. Siamo a un anno dall’inizio della “operazione speciale” di Vladimir Putin verso l’Ucraina. Per i russi si tratta di un mese altamente simbolico, all’inizio del quale nel 1943 ottennero la resa dell’armata del generale tedesco Von Paulus, che era

Febbraio. Siamo a un anno dall’inizio della “operazione speciale” di Vladimir Putin verso l’Ucraina. Per i russi si tratta di un mese altamente simbolico, all’inizio del quale nel 1943 ottennero la resa dell’armata del generale tedesco Von Paulus, che era stato molto vicino al successo. Rileggendo la storia di quella campagna, è possibile trovare alcune analogie.

L’area dei combattimenti, innanzitutto, altro non è se non parte di quella stessa Ucraina, dove, dal 2014, è ripreso a scorrere il sangue. Sulla nostra stampa, forse perché la toponomastica locale è in parte cambiata, oggi pochi ricordano che negli stessi luoghi contro l’Unione Sovietica (Urss) allora combattevano anche migliaia di soldati italiani. La seconda analogia vede l’esercito sovietico risaltare non tanto per la qualità dei mezzi ma per una preponderanza numerica che, gettata nella mischia a ondate di coscritti poco armati e peggio addestrati, allora finì per prevalere. La terza analogia riguarda, invece, la scarsa fiducia di Stalin nei propri capi militari, il che già allora si era tradotto in un’incredibile girandola di generali. Fino ad arrivare all’individuazione di chi, con spietatezza e perdite enormi, era stato in grado di portare alla vittoria truppe armate di grande coraggio, seppur attraverso un sacrificio estremo. Si potrebbe continuare con le analogie ma è bene fermarsi qui, per evitare premature estrapolazioni sull’esito dell’attuale conflitto.

Inoltre, va tenuto in considerazione il fatto che gli occidentali, italiani compresi, da allora sono cambiati molto più del popolo russo: noi siamo diventati in buona misura globalisti, loro rimangono tuttora patriottici. Questo finalmente ci porta ad alcune “lezioni apprese” di carattere generale, ma valide anche per l’Italia. La prima, a mio avviso, è che bisognerebbe ri-studiare la storia. Per evitare così valutazioni che rispondano soltanto ai criteri logici che oggi ci sembrano validi, e tengano invece in considerazione anche le lezioni del passato. Ciò che appare ovvio a noi, può non apparire tale a chi appartiene a un differente background culturale, professa una diversa religione o vive in altre parti del mondo.

Parlare di territorio ci porta a mettere in campo vecchie teorie geopolitiche, svalutate dopo i disastri del pangermanesimo del tedesco Karl Haushofer, che non si differenzia molto dal panslavismo ancora latente. Se è vero che la cultura dei popoli, e quindi il loro atteggiamento, è diretta funzione della geografia dei territori abitati, allora non limitiamoci a Haushofer, ma ricordiamoci anche del britannico Halford John Mackinder, dell’americano Nicholas John Spykman e dell’ammiraglio statunitense Alfred Thayer Mahan (Indo-Pacifico). È tutto correlato. Ecco, quindi, la seconda lezione appresa: dopo la storia è bene ri-studiare anche la geopolitica che, come strumento di previsione, potrebbe essere utile al nostro Paese.

Considerato quanto detto in precedenza, si potrebbe concludere che l’Italia abbia appreso almeno quattro lezioni. La prima: finalmente ci rendiamo conto di aver troppo a lungo abboccato all’amo di argomentazioni eco-ideologiche di assertività similtalebana. Ciò ci ha in parte impedito, e ancora ci vorrebbe impedire, di estrarre e utilizzare le nostre risorse energetiche che, sia pure non in abbondanza, esistono e sono ben localizzate. La seconda: solo ora ci accorgiamo di non aver diversificato le fonti di approvvigionamento esterne, ma finalmente stiamo provvedendo. La terza lezione: siamo stati espropriati delle nostre tradizionali relazioni in Nord Africa, grazie a una continua erosione da parte dei cugini d’oltralpe e di un nuovo sultano, da considerarsi alleato ma non amico. Ma, anche qui, il governo si è attivato e stiamo recuperando. La quarta è di carattere industriale e militare: le “scorte intangibili” vanno rinnovate con materiali allo stato dell’arte. Sembra cosa ovvia ma, sinora, solo i ministri Guerini e Crosetto se ne sono davvero occupati.

C’è poi un’ultima convinzione da sfatare: “Putin non userà mai l’atomica perché tutto il mondo è contrario”. Ciò potrebbe essere non del tutto vero. In tal caso verrebbe distrutta (con replica verso la Russia) qualche città occidentale, magari le capitali, in Europa e negli Usa. Ma Africa, Cina, India, Sudamerica, Paesi islamici e numerosi territori dell’Indo-Pacifico resterebbero indenni. Insieme, le popolazioni che vivono in queste aree rappresentano i tre quarti, o più, della popolazione mondiale. Siamo così certi che, pur avendo in buona parte votato contro la “operazione speciale” di Putin all’Assemblea delle Nazioni Unite, tutti questi Paesi guardino verso occidente con stima, affetto e riconoscenza? Su questo, ci sono seri dubbi.

Articolo apparso sul numero 141 della rivista Airpress


formiche.net/2023/02/guerra-uc…



L’Europa riparta da budget Difesa e Patto di stabilità. Parola di Nones


La guerra in Ucraina è servita, tuttavia, da brusco risveglio per i Paesi democratici e, in particolare per i membri dell’Unione europea, dalla fine dell’illusione che non avremmo più visto guerre tradizionali sul Vecchio continente. Tutti si sono subito

La guerra in Ucraina è servita, tuttavia, da brusco risveglio per i Paesi democratici e, in particolare per i membri dell’Unione europea, dalla fine dell’illusione che non avremmo più visto guerre tradizionali sul Vecchio continente. Tutti si sono subito resi conto che aver mantenuto per trent’anni al minimo la nostra spesa militare (e, di conseguenza, le nostre capacità militari e industriali) ha lasciato la difesa europea in una condizione di tale debolezza al punto che per sostenere l’Ucraina si deve fare una specie di questua europea, raccogliendo anche i contributi militari più limitati (al di là, ovviamente, del messaggio politico che, comunque, viene dato alle ambizioni imperiali della Federazione russa). Finora i passi avanti nel processo di integrazione europea nel campo della difesa si sono mossi su una scala temporale decennale, mentre è ormai chiaro che dovrebbe essere triennale se non biennale o, forse, annuale.

Quanto al livello delle spese militari, troppi Paesi europei non si sono veramente impegnati nell’ultimo decennio nel rispettare l’impegno a investirci il 2% del Pil entro dieci anni, come concordato nel vertice Nato di Cardiff nel 2014 (proprio dopo l’annessione della Crimea da parte russa) e poi ribadito costantemente anche in sede europea. Fra questi anche l’Italia, che lo scorso anno ha deciso in modo unilaterale che la scadenza era per noi posticipata al 2028. Questo indicatore non esprime compiutamente l’effettivo impegno nel campo della difesa e ne andrebbero considerati anche altri: la quota degli investimenti e di quelle di funzionamento, le capacità operative, l’addestramento, l’organizzazione delle forze, la partecipazione alle missioni internazionali, eccetera. Ma senza un adeguato finanziamento alla fine tutto questo non basta, anche perché non è sostenibile nel tempo.

Dopo il 24 febbraio molti Paesi europei hanno deciso di cominciare a recuperare il ritardo ma, come un corpo denutrito non può tornare in poco tempo al peso ideale (rischia, anzi, di andare incontro a seri problemi), così ingenti stanziamenti per la difesa senza una meditata pianificazione e senza un coordinamento europeo non possono bastare. C’è il serio rischio che alla fine di questo decennio l’Unione europea abbia un ventaglio di equipaggiamenti ancora più ampio di quello odierno (compresi molti di provenienza extra-europea, che riducono ancora più la sovranità tecnologica del Vecchio continente), con tutte le conseguenze sull’effettiva integrazione militare e sulla sua difesa. Per mitigare questi rischi è importante che gli Stati membri si coordinino meglio. In particolare, quelli maggiori che di fatto esprimono tre quarti delle capacità militari europee.

Il punto di partenza è che ciascuno possa mettere in campo adeguate e omogenee disponibilità finanziarie nel campo della difesa. Una partenza in ordine sparso e una diversa velocità renderebbe impossibile ogni tentativo di trovare soluzioni congiunte nel campo delle acquisizioni e anche in quello di nuovi programmi di sviluppo. Tuttavia per Paesi troppo indebitati e alle prese con la crisi economica pre e post-pandemica questo percorso è difficile perché impatterebbe sul rispetto del Patto di stabilità. Di qui la proposta, già avanzata in passato ma oggi tornata di assoluta attualità, di escludere dai parametri del Patto una parte delle spese per la difesa. Se la Difesa europea è un superiore interesse comune dovrebbero essere esclusi, per principio, tutti gli investimenti che mirano a sanare le carenze militari europee individuate nel costante monitoraggio svolto dall’Eda, dal Comitato militare (Eumc) e dallo Stato maggiore dell’Unione europea (Eums). Fra questi dovrebbero esserci tutti quelli intergovernativi e quelli che deriveranno dai programmi di ricerca e sviluppo cofinanziati dall’Ue.

Tenendo conto della drammatica urgenza del rafforzamento militare europeo, all’inizio potrebbero essere compresi anche quelli nazionali, con alcune condizioni volte a evitare derive protezionistiche e superare le preoccupazioni di alcuni partner (in particolare i cosiddetti Paesi frugali): primo, la quota escludibile potrebbe essere limitata al 50%; secondo, la misura potrebbe essere limitata a pochi anni; terzo, il programma interessato dovrebbe comunque corrispondere a un’esigenza riconosciuta a livello europeo; in ultimo, dovrebbe esserci un coinvolgimento industriale europeo. Prima che sia troppo tardi, la difesa europea dovrebbe adottare e mettere concretamente in atto il motto tutti per uno, uno per tutti, assicurando che insieme si possa partecipare alla costruzione di una vera Europa della Difesa.

Articolo apparso sul numero 141 della rivista Airpress


formiche.net/2023/02/europa-bu…



Russia-Ucraina anno uno: la pace sempre a zero!


Si stanno celebrando quasi come un festoso compleanno i primi 12 mesi della “guerra lampo” cheVladimir Putin aveva sperato di scatenare contro l’Ucraina. Frutto -nostra opinione- di come stampa e opinione pubblica ingurgitino con una discinta leggerezza le informazioni su una sciagura perpetrata ad appena un paio di migliaia di chilometri dai nostri confini. […]

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