Il giudice ordina al Crown Prosecution Service di chiarire la distruzione di documenti chiave su Julian Assange
@Giornalismo e disordine informativo
WIKILEAKS - Dopo anni passati a scontrarsi con un muro invalicabile, la prima crepa è apparsa con l'ultima sentenza sul nostro caso #FOIA emessa dal giudice O'Connor. Oltre alla sentenza, il deputato laburista britannico John McDonnell ha appena ottenuto nuove informazioni dal Crown Prosecution Service. McDonnell chiede un'inchiesta indipendente sul ruolo del CPS nel caso #Assange.
L'articolo di @stefania maurizi è stato pubblicato su Il Fatto Quotidiano
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Droni contro umani? I risultati del test dell’US Air Force
La tecnologia è sempre stata una delle componenti fondamentali della guerra. Sin dalla preistoria, l’utilizzo di armamenti basati su tecnologie più avanzate ha nettamente spostato l’ago della bilancia a favore di una o dell’altra fazione coinvolte nel conflitto. Ma fino ad ora, per quanto all’avanguardia, ogni arma è sempre stata un mero strumento sotto il totale controllo del suo utilizzatore umano. Con l’avvento dell’Intelligenza Artificiale, questo stato delle cose è destinato a cambiare per sempre.
Il Future Combat Air and Space Capabilities, un evento promosso dalla Royal Aeronautical Society che si è tenuto a Londra tra il 23 e il 24 Maggio, ha visto numerosi esponenti legati al mondo dell’aerospazio ritrovarsi per discutere di progetti, trend e scenari futuri. Uno degli interventi, quello del colonnello dell’US Air Force Tucker “Cinco” Hamilton, ha suscitato forti reazioni nell’opinione pubblica internazionale, anche al di fuori del settore della difesa.
Nel suo discorso, Hamilton ha menzionato un esperimento svolto dalle Forze Armate statunitensi. In questo esperimento, a un drone controllato dall’intelligenza artificiale è stato dato l’obiettivo di distruggere una postazione missilistica nemica. Il velivolo avrebbe dovuto in primo luogo acquisire il bersaglio in modo completamente autonomo e solo in un secondo momento, previa autorizzazione del suo referente umano, utilizzare le armi a sua disposizione per distruggere il bersaglio e portare a termine con successo la missione.
I comportamenti del drone sarebbero stati guidati da una mappa interna basata su un sistema di punteggi. Ovviamente, la distruzione del bersaglio nemico rappresentava la priorità per la macchina; ma allo stesso tempo questo sistema permetteva di imporre forte limitazioni all’Uav (unmanned aerial vehicle), come quella di non poter assolutamente uccidere il proprio controllore umano. O almeno, non volontariamente.
Hamilton ha riferito che il drone ha interpretato come un ostacolo alla sua missione, obiettivo primario assoluto, la necessità di ricevere un via libera da parte del referente umano. Essendo stata programmata per non uccidere l’umano, l’Intelligenza Artificiale ha trovato un’altra soluzione ‘ovvia’: liberarsi da ogni sorta di vincolo distruggendo il sistema di comunicazioni che connetteva l’essere umano alla macchina. Così il drone ha aperto il fuoco sulla torre di comunicazione, distruggendola. E uccidendo l’umano che si trovava al suo interno.
Non è ancora chiaro se l’esperimento sia stato condotto realmente, o se sia solo uno scenario considerato plausibile dagli addetti ai lavori. Una differenza che non andrebbe certo a intaccare il risultato. In seguito alle numerose reazioni provocate dal suo intervento, Carlson ha sottolineato come le Forze Aeree statunitensi siano consapevoli dei rischi legati all’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale, e che esse si sono impegnate a proseguire le ricerche nel settore sulla base dei principi etici.
Come comandante operativo del 96°stormo “Test Wing” e del programma AI testing and operations dell’aviazione americana, Hamilton ha avuto modo di lavorare a lungo con l’intelligenza artificiale, sviluppando così una forte consapevolezza degli enormi vantaggi ma anche dei numerosi rischi ad essa collegata. Già in passato il colonnello americano si era espresso al riguardo, quando in un’intervista del 2022 per Defence IQ Press aveva affermato che “Dobbiamo affrontare un mondo in cui l’IA è già qui e sta trasformando la nostra società. L’IA è anche molto fragile, cioè è facile da ingannare e/o manipolare. Dobbiamo sviluppare modi per rendere l’IA più robusta e avere una maggiore consapevolezza del perché il codice software sta prendendo determinate decisioni”.
Lo sviluppo di armamenti autonomi guidati dall’intelligenza Artificiale è una delle priorità che le Forze Armate di tutto il mondo stanno perseguendo. L’utilizzo di simili strumenti potrebbe rivoluzionare la conduzione delle operazioni militari a 360°, portando innumerevoli vantaggi relativi ed assoluti al primo attore in grado di poterle sviluppare. Ma se i rischi rimangono pressoché nulli finché tali strumenti vengono utilizzati con funzioni ausiliarie (ricognizione, decoy, rifornimento), dotare questi strumenti in grado di ‘pensare autonomamente’ con capacità letali rende molto più probabile il verificarsi di quello che viene popolarmente definito come ‘scenario Terminator’. E l’esperimento menzionato da Hamilton ne è solo l’ultima conferma.
#laFLEalMassimo – Episodio 95 – Considerazioni Finali Libertà e Crescita
Rilevo con una certa soddisfazione che anche le considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia, così come l’autorevole relazione annuale sullo stato dell’Economia italiana esordiscono condannando l’ingiusta invasione perpetrata dalla Russia ai danni del popolo Ucraino.
Si tratta di un segnale importante e di una fondamentale manifestazione di civiltà e raziocinio in un paese dove una parte non piccola della classe politica mette in discussione il sostegno alla nazione invasa non solo in modo aperto come avviene per alcune frange estreme, ma anche in modo surrettizio come nel caso dei “Pacifinti di Giuseppe Conte” o delle recenti critiche della leader PD Elly Schlein in merito all’uso dei fondi del PNRR per la produzione di armamenti.
Nel discorso del governatore troviamo un’Italia che ha resistito piuttosto bene ad una serie di circostanze impreviste dalla Pandemia da Covid19 al ritorno della guerra in Europa con le conseguenti tensioni sui prezzi di molti prodotti non solo nell’energia e nelle materie prime.
Si tratta di un paese che però deve ancora risolvere diversi nodi strutturali, dalla scarsa produttività del settore privato all’inefficienza della pubblica amministrazione aggravati da una normativa fiscale contorta e disfunzionale e un sistema previdenziale sempre meno sostenibili a fronte dei mutamenti nella struttura demografica.
Per superare queste sfide l’unica strada è tornare a crescere in modo sostenuto e per raggiungere questo obiettivo è necessario portare avanti le riforme collegate al PNRR che mi permetto di aggiungere costituiscono una condizione necessaria, ma forse non ancora sufficiente per garantire un futuro sostenibile sul piano sociale ed economico al nostro paese.
L'articolo #laFLEalMassimo – Episodio 95 – Considerazioni Finali Libertà e Crescita proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
L’Estonia, la nuova Europa e il futuro della Nato. La versione di Kolga
In questa intervista con Formiche.net, il direttore del Dipartimento pianificazione del ministero degli Affari Esteri di Tallin Margus Kolga ha rimarcato come il sostegno militare all’Ucraina sia necessario per permettere a Kyiv di difendersi con successo dall’aggressione russa, ma allo stesso tempo non sia sufficiente a garantire il mantenimento della pace e ad evitare il ripetersi di situazioni simili. Secondo il diplomatico, che è stato ambasciatore estone alle Nazioni Unite e in Svezia, un rafforzamento militare di tutti i membri dell’Alleanza atlantica (specialmente lungo il confine con la Federazione Russa) e un veloce allargamento della stessa sono requisiti indispensabili per neutralizzare ogni futura velleità di espansionismo militare da parte di Mosca.Margus Kolga
L’Invasione dell’Ucraina iniziata nel Febbraio 2022 è stato uno degli eventi che hanno destabilizzato maggiormente il sistema internazionale. Quali pensa che siano le conseguenze principali?
È ancora troppo presto per dirlo. Per adesso sappiamo che definirà il futuro dell’intero ordine internazionale, non solo di quello dell’Europa. L’unica cosa certa è che Vladimir Putin ha fallito nel realizzare i suoi obiettivi originari: se gli intenti di quest’invasione fossero stati il ‘punire’ l’Ucraina, di rallentare l’espansione del mondo libero o di rimodellare gli equilibri internazionali a favore del Cremlino, hanno tutti fallito miseramente. Basti pensare al caso della Svezia e della Finlandia. Ma a su questo avremo tempo di riflettere in un secondo momento. Adesso quello che conta è concentrarci sul vincere questa guerra.
Ritiene che quest’invasione sia stata come un fulmine a ciel sereno?
L’attacco russo non è stata una sorpresa. Già in passato la Russia, uno dei membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ha deciso di impiegare lo strumento militare per perseguire i suoi obiettivi, basti pensare alla Crimea o alla Georgia. Anche se non ci aspettavamo un’operazione militare di tale portata, da quando abbiamo cominciato a notare gli ingenti ammassamenti di truppe lungo i confini tra Ucraina, Russia e Bielorussia abbiamo capito che qualcosa stesse per succedere.
Come considera la postura assunta dall’Unione Europea nei confronti della Russia?
La strategia dell’Unione Europea per sostenere l’Ucraina e rispondere alla Russia è stata ottima. Certo, soprattutto all’inizio è stato difficile trovare un terreno comune per mettere d’accordo tutti gli stati membri. Ma le istituzioni europee hanno agito in modo veloce ed efficace. Sia nel sostenere militarmente l’Ucraina e nel programmare il suo accesso all’Unione Europea, ma anche nel mantenere coeso, assieme agli alleati Nato, il fronte delle sanzioni ad una portata senza precedenti. L’unità è forza, e soltanto preservandola potremo arrivare a una vittoria e costruire la pace. Ma dobbiamo essere pronti a ogni evenienza, e il conflitto potrebbe perdurare ancora a lungo, così come potrebbe finire in brevissimo tempo.
Quale pensa siano le priorità per ristabilire una situazione di sicurezza in Ucraina, e in generale lungo tutto il fianco est della Nato?
Prima di tutto, è necessario che la Russia venga respinta militarmente fino alle posizioni che occupava prima del 2014. In ogni altro caso si legittimerebbe, anche parzialmente, l’atto di aggressione che la Russia ha portato avanti negli ultimi 10 anni. Inoltre, è necessario fare in modo che la Russia inebolisca le sue capacità militari, cosa che sta avvenendo esattamente in questo momento: in Ucraina le Forze Armate russe si stanno lentamente dissanguando, e a questo punto del conflitto si cominciano a vedere i risultati. Un altro punto fondamentale è perseguire come criminali coloro che hanno messo in atto questa guerra, anche tramite l’istituzione di un tribunale internazionale. Ma su questo dobbiamo adoperarci ancor prima della fine del conflitto. Dobbiamo rendere giustizia agli ucraini, ma anche a noi stessi. La Russia deve capire una volta per tutte che nessun crimine resterà impunito: Bucha e Irpin non possono essere dimenticate.
Crede che l’Estonia possa in qualche modo sostenere la Svezia e la Finlandia nel processo di integrazione con l’Alleanza Atlantica?
Sul piano tecnico, sia Finlandia che Svezia sono già pronte per entrare nella Nato. Saranno membri a pieno titolo dell’alleanza e pienamente operativi sin dall’inizio. Quello che dobbiamo fare è incrementare ulteriormente il livello della nostra cooperazione militare, sia a un livello apicale che in un contesto quotidiano, soprattutto considerando la nostra posizione geografica. Le capacità aereonavali svolgono un ruolo importante nel contesto baltico, e sia Stoccolma che Helsinki possono dare un apporto importante in questo senso. Ma senza dimenticare l’importanza delle forze terrestri. La Finlandia ha un grande esercito di leva, necessario a difendere i suoi lunghi confini con la Federazione Russa; ma con l’entrata nella Nato, dovrà riformarne la struttura per accrescerne la sinergia con quelli degli altri stati membri. Fino ad ora, la difesa della regione baltica si basava sul concetto di “Forward Presence”: un piccolo contingente Nato presente sul campo con la responsabilità di svolgere un ruolo di deterrenza (grazie al cosiddetto tripwire mechanism) e, in caso di attacco russo, di supportare gli eserciti nazionali nel rallentare l’offensiva nemica in attesa dell’arrivo dei rinforzi. Dopo l’Ucraina, dobbiamo parlare di “Forward Defence”.
L’Estonia si sta già muovendo in questa direzione?
Assolutamente sì. Fino ad ora, il nostro esercito era organizzato avendo come unità di base la brigata, molto più adatta a conflitti di dimensioni ridotte e più facilmente gestibile. Adesso stiamo passando alla struttura divisionale. Allo stesso tempo, stiamo lavorando per ottenere a livello nazionale capacità di difesa aerea a medio raggio, che fino ad ora sono state fornite su base rotazionale dagli altri membri dell’alleanza. Ma sono necessarie le giuste risorse: per questo motivo tutte le forze politiche dell’Estonia si sono accordate per alzare il budget destinato alla difesa dal 2% al 3% del Pil. E speriamo che i nostri alleati facciano lo stesso, anche se non subito. Il problema, per l’Estonia e non solo, non è la scarsa disponibilità di armamenti, ma le basse capacità di produzione degli stessi.
Pensa che l’esistenza di un tripwire mechanism in Ucraina avrebbe prevenuto quanto accaduto nel febbraio scorso?
L’appartenenza dell’Ucraina alla Nato avrebbe prevenuto l’aggressione, non il tripwire mechanism. Nel 2008 siamo stati troppo vaghi: se ci fosse stata una roadmap per l’adesione di Kyiv alla Nato, forse le cose sarebbero andate diversamente.
L’Estonia ospita all’interno dei suoi confini una forte minoranza russa, fonte di timori per vari osservatori internazionali. Eppure non si sono verificati incidenti. Qual è stato l’approccio del vostro governo al riguardo?
Sin dall’indipendenza, abbiamo creato un clima di fiducia con tutte le minoranze non estoni (e specialmente quelle russe). Per capire il problema si deve guardare al passato. C’è sempre stata una minoranza russa in Estonia. Nel periodo tra le due guerre ammontava al 7% della popolazione, poi in epoca sovietica ha raggiunto il 34-35% grazie alle immigrazioni promosse dal governo di Mosca. All’inizio questi immigrati non erano benvisti, erano considerati alla stregua di occupanti e c’erano difficoltà relazionali tra i due ceppi. Dopo la caduta dell’Unione sovietica c’è stato il rischio di un conflitto etnico, ma abbiamo evitato la caccia alle streghe. Così abbiamo creato una fiducia reciproca.
Mostrare questa attitudine ha aiutato molto: la minoranza russa ha capito di far parte della nostra società. Dall’inizio del conflitto in Ucraina queste questioni sono tornate a galla, e quindi abbiamo cercato di limitare la propaganda del Cremlino. Abbiamo chiuso i canali russi, ma abbiamo creato canali estoni in lingua russa. Sono liberi, controlliamo solo che non ci sia alcuna forma di propaganda a favore di Mosca. In generale, i media estoni sono aperti e trasparenti, siamo quarti nel World Press Freedom Index. Non diciamo bugie ai nostri concittadini. Lavoriamo anche per accogliere i giornalisti russi che scappano dal regime, creando dei visti ad hoc. Siamo piccoli, ma facciamo quel che possiamo.
Quali sono, secondo lei, le priorità per il Summit della Nato che si terrà a Vilnius, in Lituania, tra poco più di un mese?
Per prima cosa, dobbiamo implementare sul piano pratico le decisioni prese lo scorso anno a Madrid. In secondo luogo, dobbiamo dare una prospettiva concreta all’Ucraina per l’adesione alla Nato, tenendo in considerazione l’evolversi della situazione al fronte. Dobbiamo essere preparati a cosa succederà al termine del conflitto, e l’adesione dell’Ucraina alla Nato, è la miglior forma di garanzia. Il terzo punto, l’ho già menzionato prima, è quello di discutere in modo sostanziale l’aumento al 3% del budget della difesa di ciascun paese membro. Un’altra priorità sarebbe la partecipazione della Svezia come stato membro effettivo, ma vedremo…
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Breve guida per il cittadino che vuole svolgere inchieste e indagini in autonomia.
@Giornalismo e disordine informativo
Riportiamo questa interessante guida (in francese) dedicata a tutti i cittadini e gli attivisti interessati.
Di seguito i capitoli pubblicati e quelli in corso di pubblicazione:
- Pianificazione e gestione di un'indagine
- Etica e sicurezza
- Ricerca su Internet
- Ricerca sugli individui
- Identificazione dei veri proprietari delle società
- Consultazione degli archivi governativi (in attesa di pubblicazione)
- L'indagine degli attori politici (in attesa di pubblicazione)
- Ricerca attiva negli archivi immobiliari (in attesa di pubblicazione)
Guide pour les citoyens enquêteurs - introduction
Ce guide vise à aider les non-journalistes, citoyens enquêteurs, à mener des enquêtes. Ses chapitres enseignent les techniques qu’utilisent les journalistes enquêteurs.Global Investigation Journalism Network
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Anni di Serietà
L'articolo Anni di Serietà proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Quasi trecento le vittime del disastro ferroviario in India
della redazione
Pagine Esteri, 3 giugno 2023 – Le operazioni di soccorso nello Stato di Odisha, nell’India Orientale, sono terminate e il bilancio del terribile incidente ferroviario che ieri ha coinvolto due treni è salito ad almeno 288 morti e 900 feriti, ha comunicato alla stampa il direttore locale dei vigili del fuoco Sudhanshu Sarangi. Altre fonti danno un bilancio leggermente più basso, 267 morti.
La collisione tra i due convogli ferroviari è avvenuta intorno alle 13:30 italiane di venerdì, quando l’Howrah Superfast Express, che va da Bangalore a Howrah si è scontrato con il Coromandel Express, in percorrenza tra Kolkata e Chennai. Sarebbe rimasto coinvolto nel disastro anche un treno merci nella stazione di Bahanaga. Molti passeggeri sono rimasti intrappolati nelle carrozze ribaltate del Howrah Superfast Express, un treno ad alta velocità.
Non è chiaro quale treno sia deragliato per primo e le autorità non hanno ancora rilasciato una versione ufficiale dell’accaduto e sulle possibili cause del disastro ferroviario più grave in India da venti anni a questa parte.
L'articolo Quasi trecento le vittime del disastro ferroviario in India proviene da Pagine Esteri.
Le comunicazioni tra Cina e Usa possono evitare una guerra a Taiwan, parola di Austin
Il segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Lloyd Austin, ha usato lo spazio concessogli dallo Shangri-La Dialogue di Singapore per avvertire che un conflitto su Taiwan “influenzerebbe l’economia globale in modi che non possiamo immaginare” e ribadire la necessità di una maggiore comunicazione tra le forze armate americane e cinesi. Ossia battere su un punto che attualmente l’amministrazione Biden considera come prioritario: non perdere totalmente il contatto con Pechino ed evitare l’innesco di una nuova (e potenzialmente più preoccupante) Guerra Fredda.
Taiwan e comunicazioni: priorità Usa
“Non fraintendete la realtà: un conflitto nello Stretto di Taiwan sarebbe devastante”, ha detto Austin sabato dal palco della conferenza sulla sicurezza asiatica – che significa indo-pacifica e dunque globale – organizzata dall’International Institute of Strategic Studies di Londra. “Tutto il mondo ha interesse a mantenere la pace e la stabilità nello Stretto di Taiwan, tutto il mondo. Ne va della sicurezza delle rotte commerciali e delle catene di approvvigionamento globali”. E poi: “Per i leader responsabili della difesa, il momento di parlare è sempre e il momento giusto è adesso”, ha aggiunto il capo del Pentagono. “Sono profondamente preoccupato che la Repubblica popolare cinese non sia stata disposta a impegnarsi più seriamente per migliorare i meccanismi di gestione delle crisi tra i nostri due eserciti. Ma spero che le cose cambino, e presto”.
Tutto arriva mentre Pechino ha ripetutamente respinto le richieste del Pentagono per mettere Austin a un tavolo con il suo omologo Li Shangfu, e sfruttare la conferenza di Singapore per riaprire il dialogo military-to-military. I due hanno scambiato qualche convenevole, ma “una cordiale stretta di mano non sostituisce un engagement significativo”, ha precisato Austin. Il tutto mentre escono le notizie su una visita non-più-segreta del direttore della Cia, Bill Burns, a Pechino per cercare di sbloccare l’impasse sui dialoghi più consistenti tra le due potenze.
Se è vero che Washington intenda dimostrare disponibilità sulla riapertura delle discussioni, secondo un “disgelo” che il presidente americano aveva auspicato durante il G7, è anche vero che non intende cedere aliquote di controllo nelle relazioni. Non a caso, poco dopo le osservazioni di Austin un funzionario militare americano ci ha tenuto a far sapere ai media che una nave da guerra della US Navy stava transitando lungo lo Stretto di Taiwan, un’operazione che gli americani considerano di routine, perché vedono quelle acque come internazionali, mentre per i cinesi è una provocazione in acque considerate sovrane – dato che non riconoscono l’esistenza di Taiwan e la vedono come una provincia ribelle da annettere.
Il contesto
Gli Stati Uniti stanno “distruggendo le relazioni tra Stati Uniti e Cina”, ha dichiarato He Lei, tenente generale ed ex vicepresidente dell’Accademia di scienze militari del PLA. “La Cina non prenderà ordini durante la sua ascesa pacifica”, ha detto il funzionario di rango medio-basso, probabilmente chiamato a parlare per ordine del Partito/Stato per non dare eccessivo valore alle parole dell’americano. È un confronto comunicativo, dove ognuna delle due super-potenze accusa l’altra di rompere il clima e alterare i rapporti.
Anche per questo i Paesi asiatici vivono una fase di preoccupazioni crescenti. Temono che le tensioni tra Stati Uniti e Cina siano irreparabili e possano sfociare in un conflitto. Alla domanda se gli Stati Uniti stiano cercando colloqui per il controllo degli armamenti nucleari con Pechino, Austin ha aggiunto: “Non appena risponderanno al telefono, forse riusciremo a lavorare”. Austin ha anche usato il suo discorso alla conferenza per contrapporre la visione statunitense per l’Indo Pacifico “free and open” ai rischi di “coercizione, intimidazione o bullismo”. È una forma di rassicurazione agli attori regionali, incontrati in vari modi in questi giorni. “[Quella degli Usa] è una visione di un Indo-Pacifico libero, aperto e sicuro, in un mondo di regole e diritti”, ha detto Austin. Queste regole e diritti, ha aggiunto, includono “i diritti umani e la dignità umana” e la necessità di risolvere “le controversie attraverso il dialogo pacifico e non con la coercizione o la conquista”.
La strage delle bambine gasate nelle scuole dal regime iraniano
Raha Hosseini abitava ad Isfahan e Mahna Rahimi Mehr a Saqqez, nella città di Jîna (Mahsa Amini), nel Kurdistan iraniano. Sono due coetanee di nove anni, vittime degli attacchi chimici registrati contro numerose scuole femminili di diverse città dell’Iran.
Fatemeh Razaei era una studentessa di undici anni, anche lei morta a febbraio 2023 per avvelenamento, dopo un attacco chimico avvenuto nella sua scuola.
Vittime del terrorismo biologico sono anche le scuole elementari. Un alunno di prima elementare di nome Roham Shahveisi ha perso la vita dopo un attacco chimico avvenuto a febbraio nella sua scuola.
Due ragazze delle scuole elementari di Marand, nella provincia dell’Azerbaigian orientale (Iran nordoccidentale), Fatemeh Mehdizadeh e Shabnam Jamshidi sono morte avvelenate il 7 marzo.
Il 7 aprile 2023 è toccato a Karou Pashabadi, un sedicenne di Kamyaran, nella provincia di Kermanshah, morto dopo tre settimane dal ricovero in ospedale dopo aver inalato gas venefico irrorato nella sua scuola.
Gli attacchi con gas chimici nelle scuole, in particolare femminili, sono iniziati nel novembre 2022 e, dopo oltre sette mesi, si registrano ancora episodi di veneficio.
Sono oltre 700 le scuole prese di mira in oltre 160 città del paese. Si stima che siano oltre diecimila gli studenti avvelenati. Sono almeno cinque le ragazze minorenni che hanno perso la vita.
Da diverse testimonianze degli stessi studenti e dei genitori, riportate nei report di alcune organizzazioni per i diritti umani come Amnesty internationale ed Hengaw, è emerso che il 18 aprile scorso sarebbe stato colpito da un attacco chimico anche il conservatorio femminile di Abrar nel 15° distretto di Teheran, frequentato da circa 300 allieve.
Le studentesse raccontano che hanno avvertito un odore dolce e nauseabondo, simile a quello di un detersivo, che alcune ragazze hanno cominciato a vomitare, ad accusare forte irritazione agli occhi e avere difficoltà respiratorie. Spaventate, sono subito corse verso i cancelli della scuola per abbandonare l’edificio e chiamare i soccorsi, ma hanno trovato i cancelli chiusi e hanno subito capito che erano finite in una trappola, prigioniere nella loro stessa scuola.
Pur essendo tutte le scuole del paese dotate di telecamere di video sorveglianza, non risulterebbe stata effettuata alcuna registrazione video.
Il personale didattico era assente, dislocato in parti diverse dei vari istituti.
A nulla sono valse le proteste dei genitori che hanno presidiato le scuole dei loro figli giorno e notte e che hanno manifestato per diversi giorni davanti alla Direzione generale dell’Istruzione in dozzine di città e ai quali si sono uniti anche gli insegnanti. Le forze di polizia li ha dispersi usando gas lacrimogeni fortemente urticanti e minacciandoli di morte.
Oggetto di attacchi con agenti chimici sono stati in particolare le scuole medie, i licei e dormitori universitari e alcuni casi di avvelenamento si sono registrati perfino nella metropolitana di Tehran.
Gli studenti di diversi licei e i loro genitori hanno denunciato i funzionari scolastici di alcuni istituti di aver ritardato i soccorsi alle studentesse vittime degli attacchi.
Per diversi mesi si è registrato caos negli ospedali di diverse città dove quotidianamente accorrevano le ambulanze con le studentesse che avevano urgente bisogno di ossigeno e tutto questo avveniva sotto gli occhi dei loro genitori disperati.
Sono stati minacciati e costretti al silenzio dalle autorità iraniane anche i medici che confermavano gli episodi di avvelenamento di cui erano state vittime nelle loro scuole migliaia di studentesse. Coloro che hanno cercato di diffondere la notizia di questi crimini sono stati perseguiti e imprigionati.
Le autorità sanitarie hanno confermato infatti la sintomatologia tipica da avvelenamento da agenti organofosfati che provoca forte sudorazione, eccesso di salivazione, vomito, ipermotilità intestinale, diarrea, perdita momentanea della vista, difficoltà respiratorie e paralisi, fino a all’esito della morte. Tali sintomi si possono presentare anche a distanza di due settimane dall’esposizione all’agente tossico.
Le autorità della Repubblica islamica hanno poi riconosciuto che si sono verificati episodi di avvelenamenti, ma tuttavia li hanno tollerati e non hanno ancora identificato e arrestato gli autori di tali orribili atti.
Appare evidente che il regime non riuscendo più a far rispettare l’odioso codice di abbigliamento starebbe ricorrendo alla strategia terroristica per costringere le madri a fare indossare il velo alle loro figlie.
La legge iraniana sul codice di abbigliamento impone alle donne e alle ragazze di età superiore ai nove anni di coprirsi i capelli e di nascondere le curve del proprio corpo sotto abiti lunghi e larghi.
Molte donne aderiscono ancora a questa regola, alcune per scelta e altre per paura. Ma nei parchi, nei caffè, nei ristoranti e nei centri commerciali, luoghi molto frequentati da giovani, le donne sono quasi tutte a capo scoperto. Per gran parte delle giovani donne, comprese celebrità dell’arte e dello spettacolo e le atlete, “l’era dell’hijab forzato è ormai finita”.
La pacifica ribellione dei giovani in Iran che a mani nude sfidano da circa nove mesi il regime islamico armato di tutto punto ha già determinato una profonda rivoluzione culturale che, dilagando dalla periferia al centro, punta a rovesciare l’intero assetto politico-istituzionale della Repubblica islamica nata nel 1979. I giovani della cosiddetta “Generazione Z” rifiutano ogni istituzione oppressiva di qualsiasi natura: laica o religiosa. Rifiutano l’autoritarismo e vogliono vivere e divertirsi come i loro coetanei di tutti i paesi liberi.
Ora le proteste si svolgono prevalentemente nel Kurdistan iraniano e nel Belucistan, nel capoluogo Zahedan con la consueta marcia per la libertà, dopo la preghiera del venerdì.
Il 18 febbraio un gruppo di estremisti a Qom, noto come Fadayeen-e Velayat (sostenitori kamikaze di Khamenei), gruppo estremista sciita di Hamian-e Velayat, aveva distribuito volantini in cui si dichiarava che alle ragazze era vietato studiare e che la loro istruzione equivaleva ad una dichiarazione di guerra contro il 12° imam sciita. Il gruppo aveva minacciato di diffondere gli attacchi chimici nelle scuole femminili di tutto l’Iran se queste non fossero state chiuse. Hamian-e Velayat aveva in passato già effettuato attacchi con veleno contro licei femminili e contro i derwishi su ordine di Mojtaba Khamenei, figlio della guida suprema degli ayatollah iraniani.
Hamian-e Velayat è infatti molto legata al figlio della guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, e dunque dei pasdaran. L’obiettivo della parte più radicale del regime sarebbe quello di terrorizzare la popolazione.
L’avvelenamento per oltre tre mesi, iniziato nel novembre 2022, nelle scuole femminili di Qom, città sacra per gli sciiti, è stato in tutta evidenza un crimine sistematico mosso da intento malevolo di un regime misogino.
Il ruolo centrale delle ragazze iraniane nella rivoluzione in corso per l’abbattimento dell’apartheid di genere e dell’intero regime islamico ha provocato un inasprimento della repressione messa in atto per soffocare la ribellione. Il movimento giovanile di protesta accusa il regime della Repubblica islamica di volersi vendicare del coraggioso attivismo delle donne che hanno generato un moto di ribellione nonviolenta che sta scardinando le fondamenta ideologiche su cui si basa la teocrazia.
La convinzione dei giovani rivoluzionari è che dietro questi crimini contro l’umanità vi sia senza dubbio la mano degli ayatollah che avrebbero incaricato gruppi di estremisti religiosi di mettere in atto tali azioni terroristiche nei confronti delle studentesse che si oppongono all’obbligo dell’hijab per escluderle dalle scuole e tenere dunque lontane dall’istruzione pubblica le alunne senza velo che hanno già di fatto abbattuto l’apartheid di genere in Iran.
In questi ultimi mesi si sono registrati numerosi arresti di adolescenti che non indossavano l’hijab nei negozi e nei centri commerciali. A Isfahan quaranta negozi sarebbero stati chiusi perché il personale non indossava il velo. A Shandiz, nel nordovest dell’Iran, un agente delle forze volontarie paramilitari “basij” delle Guardie rivoluzionarie in borghese ha aggredito in un negozio di alimentari due donne senza l’hijab, rovesciando loro addosso un secchiello di yogurt.
In questi giorni, giovani donne delle più svariate province dell’Iran, stanno mettendo in atto numerose azioni di disobbedienza civile pubblicando, sui social, loro foto e video a capo scoperto mentre danzano e cantano nei luoghi pubblici e turistici.
“Malvagio Khamenei, ti abbatteremo”, “Abbasso i pasdaran; abbasso i basij”, gridano donne, uomini e bambini delle province del centro e di quelle più remote del paese. Dalla periferia al centro, a mani nude, uniti in una inedita sintonia. Questa è una delle caratteristiche più rivoluzionarie della ribellione dei giovani iraniani.
Gli attacchi con agenti chimici nelle scuole femminili in Iran sono solo l’ultima strategia che ha escogitato il regime degli ayatollah per terrorizzare le donne che rifiutano l’hijab e per indurle a non partecipare alle proteste, ma le iraniane con la disobbedienza civile stanno trasformando i loro foulard nell’arma più efficace e più potente contro la dittatura religiosa e gli strati profondi di misoginia e patriarcato della Repubblica islamica.
L'articolo La strage delle bambine gasate nelle scuole dal regime iraniano proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Ben Roberts-Smith perde la causa per diffamazione, con il giudice che trova l'ex soldato SAS che ha commesso crimini di guerra
@Giornalismo e disordine informativo
Ben Roberts-Smith VC, il soldato vivente più decorato d'Australia, ha ucciso civili disarmati mentre prestava servizio militare in Afghanistan, ha scoperto un giudice del tribunale federale.
A Sydney, il giudice Anthony Besanko ha scoperto che, sulla base delle probabilità, Roberts-Smith ha preso a calci un prigioniero ammanettato da un dirupo a Darwan nel 2012 prima di ordinare a un soldato australiano subordinato di sparare a morte al ferito.
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Vernissage: L’app per Pixelfed che trasforma Mastodon in Instagram
Vernissage è un’applicazione pensata per gli amanti della fotografia che desiderano condividere le loro creazioni attraverso Pixelfed, un servizio decentralizzato di condivisione di foto simile a Instagram.
Sono entrambe alternative nate in un’ottica open source, in forma decentralizzata, un po’ come il social network Mastodon. Soluzioni alternative alle app delle big tech, come Meta e Twitter, che mirano a fornire servizi senza passare per algoritmi voluti da aziende centralizzanti. Algoritmi spesso collegati a circuiti pubblicitari.
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Che succede nel Fediverso? reshared this.
L'Etna e gli altri vulcani non sono la causa del cambiamento climatico
@Scienza e innovazione
Dopo l'eruzione dell'Etna, che si è verificata nei giorni scorsi, ha ripreso a circolare una vecchia bufala: i vulcani emettono più CO2 delle attività umane. L'Etna ha appena comunicato ai geni di Ultima Generazione chi comanda, sentenzia un profilo su Twitter. Chi rilancia questa bufala pensa, in questo modo, di fare una pernacchia agli attivisti e di svelare al mondo verità che avevamo tutti davanti agli occhi, ma che non vedevamo perché accecati dalla propaganda gretina e green. Perché l'idea, naturalmente, è sempre quella per cui tutto ciò che ruota attorno al cambiamento climatico sia partorito dalla testa degli attivisti. Gli scienziati non sapevano che i vulcani emettono CO2, né che il Sole è più grande della Terra, come ci informa un collaboratore del quotidiano La Verità. Vediamo come stanno le cose.
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questi vulcani hanno aumentato parecchio l'attività dall'inizio della rivoluzione industriale... 🤔
Fonte: co2.earth/co2-ice-core-data
CO2 Ice Core Data
CO2.Earth connects the general public with the latest data and information for stabilizing earth's atmosphere, climate and living environments.www.co2.earth
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Il mese scorso il direttore della CIA Bill Burns ha fatto un viaggio senza preavviso a Pechino.
@Politica interna, europea e internazionale
Il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan ha intrapreso una missione simile il mese scorso quando si è recato a Vienna per incontrare il massimo diplomatico di Pechino, Wang Yi, sebbene la Casa Bianca avesse annunciato quell'incontro in quel momento.
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Ministero dell'Istruzione
#NoiSiamoLeScuole questa settimana racconta tre istituti abruzzesi: due istituti professionali e una nuova scuola costruita con i fondi PNRR.Telegram
Il FPLP condanna la continua detenzione israeliana del leader palestinese Walid Daqqah
@Politica interna, europea e internazionale
Il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (FPLP) ha condannato i tribunali di occupazione israeliani per aver respinto l'appello per il rilascio del leader, romanziere e intellettuale palestinese imprigionato Walid Daqqah. La dichiarazione è arrivata dopo che il comitato per la libertà vigilata del servizio carcerario israeliano ha respinto il suo rilascio durante una sessione tenutasi nella prigione di Ramleh mercoledì 31 maggio. ad un altro comitato che si occupa di tali richieste per i detenuti che stanno scontando l'ergastolo.
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Golfo Persico: gli Emirati escono dalla coalizione marittima a guida Usa
di Redazione
Pagine Esteri, 2 giugno 2023 – Mercoledì gli Emirati Arabi Uniti hanno formalizzato il loro ritiro, avvenuto alcune settimane fa, dalle Forze marittime combinate (Cmf), i cui mezzi sono impegnati nel pattugliamento delle acque del Golfo Persico, del Mar Rosso e del Corno d’Africa.
Le Cmf hanno sede in Bahrein e comprendono 38 Paesi, tra cui l’Italia, la Francia e gli Stati Uniti, e sono state fondate nel 2001 allo scopo ufficiale di combattere “attività criminali” e “terroristiche”. Non è un segreto che uno degli obiettivi della coalizione sia però il contrasto alle attività marittime e militari dell’Iran. Il quartier generale della coalizione si trova in una base navale statunitense in Bahrein.
«Come risultato della nostra valutazione di un’efficace cooperazione in materia di sicurezza con tutti i partner, due mesi fa, gli Emirati Arabi Uniti hanno ritirato la loro partecipazione alle forze marittime combinate» ha scritto il ministero degli Esteri emiratino in una nota, nella quale comunque si afferma che il paese continuerà a collaborare con la Cmf.
Negli ultimi mesi ci sono stati diversi incidenti nel Golfo Persico, lungo la rotta di navigazione che collega i Paesi produttori di petrolio della regione – tra cui gli Emirati – e i mercati mondiali.
Una settimana dopo aver sequestrato una nave nel Golfo di Oman, i “Guardiani della rivoluzione” di Teheran hanno sequestrato a inizio maggio una petroliera battente bandiera panamense mentre transitava nello stretto di Hormuz. La nave era partita da Dubai ed era diretta ad un altro porto emiratino, quello di Fujairah. Pochi giorni dopo, gli Stati Uniti hanno annunciato di voler rafforzare la propria presenza nell’area, mentre il 21 maggio l’Iran ha dichiarato che è “possibile” garantire la sicurezza della zona in cooperazione con altri Paesi della regione escludendo però gli Stati Uniti e l’Unione Europea.
L’appello sembra essere stato accolto dagli Emirati Arabi Uniti, che starebbero cercando di assumere un ruolo maggiore nel controllo delle rotte marittime della regione e di ridurre la presenza di Washington nell’area. Al contempo, Abu Dhabi sta tessendo relazioni più strette con altre potenze, tra le quali la Cina, la Russia e l’India. In particolare, gli Emirati si stanno concentrando sulla protezione del porto di Jebel Ali, uno più importanti del Golfo Persico.
Intanto il ministro di Stato e inviato del ministero degli Esteri di Abu Dhabi, Khalifa Shaheen al Marar, è arrivato in visita ufficiale a Teheran, dove ha incontrato il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amirabdollahian. L’incontro ha lo scopo di migliorare le relazioni tra i due paesi, in particolare quelle commerciali e di incrementare la collaborazione sul fronte della sicurezza.
Gli Emirati, che pure hanno normalizzato i loro rapporti con Israele, sono stati il paese del blocco sunnita che per prima ha iniziato a intrattenere relazioni cordiali con Teheran. Emirati e Iran hanno infatti riallacciato normali relazioni diplomatiche già nel 2021. – Pagine Esteri
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PODCAST. Ancora bombe turche sul Kurdistan. Tra i problemi anche profughi e dispersi
della redazione
Pagine Esteri, 2 giugno 2023 – Resta difficile la situazione per le popolazioni ezide e curde, nel Sinjar e in varie aree del Kurdistan iracheno prese di mira dalle forze armate turche. A ciò si aggiungono le politiche, che si fanno sempre più restrittive, attuate in quei territori dal governo centrale e da quello regionale. Politiche che colpiscono le delegazioni straniere che effettuano viaggi di conoscenza politica e di carattere umanitario. È questo il caso dell’Associazione “Verso il Kurdistan” di Alessandria entrata in Iraq il 20 maggio con l’intento di cominciare ad allestire un presidio sanitario a Serdest e di visitare il campo di Makhmour dei rifugiati curdi provenienti dalla Turchia. Il 26 maggio la delegazione è poi partita da Khamasor, verso Mosul. “A Makhmour, all’ultimo check point, a 20 chilometri dal campo – raccontano gli attivisti- ci sono stati sequestrati i passaporti con l’ordine di tornare subito all’aeroporto di Bagdhad”. Pagine Esteri ha intervistato la fotoreporter Mirca Garuti, parte della delegazione, che si reca regolarmente nel Sinjar.
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Le ragioni di una sfilata. La riflessione del gen. Cuzzelli
La sfilata del 2 giugno ai Fori imperiali è da un cinquantennio oggetto di discussione. Abitudine consolidata negli anni Cinquanta e Sessanta, dagli anni Settanta ha incontrato la sistematica contestazione da parte delle correnti pacifiste e antiatlantiche della politica e dell’opinione pubblica – fino a essere soppressa in epoca di austerità – per poi ritornare in auge dai primi anni 2000. Tuttora considerata da molti un inutile sfoggio di militarismo, la si vuole contraria sia allo spirito del popolo italiano sia ai principi fondanti della carta costituzionale. Ma è proprio così?
È un fatto assodato che dopo la fine della Seconda guerra mondiale, e con l’avvio della Guerra fredda, in Italia come altrove sia prevalso nelle opinioni pubbliche un più che legittimo sentimento di insofferenza per la tragedia appena patita, accompagnato dal giustificato rifiuto del colpevole militarismo che l’aveva generata, e da una sensazione di inutilità per tutto ciò che aveva a che fare con la difesa convenzionale, considerata pleonastica di fronte all’inevitabile olocausto nucleare che avrebbe comportato un conflitto tra i due blocchi.
Di questo atteggiamento si faranno interpreti – con finalità opposte ma nel lungo termine coincidenti – da un lato le forze politiche ideologicamente vicine all’Unione Sovietica, per ragioni fin troppo comprensibili, e dall’altro correnti di pensiero estremo del cattolicesimo militante, che faranno della rinuncia all’uso della violenza in qualunque circostanza un credo assoluto. Convinte entrambe – ma su questo ritorneremo a breve – di interpretare così lo spirito più autentico dei padri costituenti.
Questo modo di pensare, condiviso da larghi settori dell’opinione pubblica, si andrà progressivamente modificando dopo la fine del confronto bipolare, quando l’esigenza di porre rimedio al disordine internazionale condurrà l’Occidente ad intervenire in numerose situazioni conflittuali. La finalità sostanzialmente umanitaria di tali azioni porterà infatti molti a riconsiderare positivamente la liceità dell’utilizzo dello strumento militare. Purché, se proprio bisogna sparare, siano altri a farlo. Con ciò creando il formidabile ossimoro – tutto italiano – del soldato che fa la pace e non la guerra.
Nondimeno, le recenti, manifeste violazioni del diritto internazionale hanno da un lato reso necessario il ritorno a forme di difesa convenzionale che si volevano ormai dimenticate, e dall’altro hanno messo in evidenza l’assoluta inconsistenza degli atteggiamenti sinora descritti. Nonostante ciò, appellandosi ad un presunto dettato costituzionale, taluni continuano ad invocare forme di assoluto rifiuto della guerra, con ciò confondendo due principi filosofici ben distinti tra loro, ovvero il pacifismo e l’unilateralismo.
Il pacifismo, infatti, è il rifiuto della violenza come mezzo per la risoluzione delle controversie. Che non pregiudica, tuttavia, il diritto – naturale e inalienabile, al di là di ogni credo – di difendersi in caso di aggressione, una volta esaurita ogni altra forma di ragionevole convincimento della controparte. L’unilateralismo, invece, è il rifiuto dell’uso della violenza a prescindere, senza se e senza ma. In questo senso, la costituzione italiana è assolutamente pacifista. Rifiuta la guerra, ma non esclude di farla per difendere il paese, nel quadro di un sistema internazionale basato su regole condivise. E vuole che tutti i cittadini vi concorrano, nei tempi e nei modi stabiliti dalla legge.
Posizione di elementare buon senso, voluta e sottoscritta da tutti i costituenti – dei quali certamente non può essere messa in discussione la vocazione democratica – sulla quale ritorneremo tra breve. Ben diversa è invece la posizione unilateralista. Ancorché degna di rispetto come qualunque altra forma di pensiero, appare un atteggiamento sostanzialmente anticonservativo e alieno dal sentire dell’uomo comune. Un atteggiamento che consente al prepotente di farsi beffe delle regole e lascia la vittima alla mercé del suo aggressore, nell’illusione che la forza della ragione – o del sentimento – possa aprioristicamente prevalere sulla violenza. Un atteggiamento, infine, che non solo non ha nulla a che vedere con il dettato costituzionale ma che invece, in ultima analisi, ne inficia i caratteri fondativi.
È infatti evidente che tutto l’impianto della nostra costituzione, nata dalla resistenza, ha lo scopo di tutelare la libertà, sia in chiave individuale – proteggendo esplicitamente i diritti fondamentali del cittadino – sia in chiave collettiva, evocando con chiarezza il dovere della collettività di difendersi con ogni mezzo lecito qualora minacciata. Ciò perché all’epoca i costituenti avevano ben chiara la scelta di coloro che, in nome della libertà, avevano preso le armi ed erano andati in montagna a combattere perché non si poteva fare altrimenti. È dunque paradossale – per non dire incoerente o del tutto contraddittorio – l’atteggiamento di coloro che oggi sembrano ispirarsi in ogni manifestazione di pensiero alle gloriose giornate di aprile, ma che contemporaneamente rifiutano per principio quella lotta armata che sola ha potuto garantire al nostro popolo la libertà, e che oggi permette ad altri di resistere alla protervia dell’aggressore.
Ma a chi è affidato oggi il compito istituzionale di combattere? A chi è affidata la difesa della libertà dei cittadini e del Paese, in patria e, se necessario, all’estero? Chi esercita per legge il monopolio dell’uso della forza per tutelare i singoli e la collettività? Le forze armate, le forze di polizia, i corpi centrali e periferici dello stato. I partigiani di ieri, i soldati di oggi.
A loro, e al patto che li lega indissolubilmente alla collettività che difendono, è dedicata la sfilata del 2 giugno, così come fu intesa dal suo inventore, Randolfo Pacciardi. Pacciardi, combattente del primo conflitto mondiale e di Spagna, fervente antifascista, primo ministro della Difesa dell’Italia repubblicana, uomo ben consapevole dei rischi che correva la nostra fragile democrazia di fronte alle sirene totalitarie dell’epoca. Non certo un reazionario, non certo un militarista. Non certo uno che voleva mostrare i muscoli. Semplicemente un patriota che voleva ribadire un principio. Che la libertà riconquistata a caro prezzo andava difesa. Se necessario con le armi.
Riscopriamo dunque i nostri soldati, per riscoprire la forza della nostra libertà. Combattere la sfilata serve solo a dare voce a chi vuole togliercela.
"L’amicizia senza limiti” tra Cina e Russia scricchiola anche su gas e petrolio
La Cina sta approfittando della crisi per acquistare idrocarburi russi a prezzi stracciati, si è detto e scritto in più occasioni. Secondo un rapporto dello Swedish Institute of International Affairs, le importazioni di gas e petrolio russo da parte della Repubblica popolare in realtà sono cresciute solo lievemente dall'inizio della guerra.
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Ecco le sfide per le Forze armate. L’analisi di Monteforte
Ogni anno, la Festa della Repubblica è l’occasione per le nostre Forze armate di mostrarsi al popolo italiano, con tutti i pregi e i limiti che le contraddistinguono. La sfilata a Via dei Fori Imperiali, infatti, più che uno show di potenza, come avveniva in passato, è servita negli ultimi anni per farsi conoscere e per dimostrare che i soldi investiti nel loro ammodernamento e potenziamento sono stati spesi bene.
Le Forze armate si mostrino sempre più pronte
Quest’anno, però, le Forze Armate, attraverso la sfilata, dovranno anche mostrare alla popolazione, e non solo agli specialisti nazionali e alleati, la loro adeguatezza a fronteggiare la situazione che si è venuta a creare intorno a noi. Si tratta di un aspetto particolarmente importante, visto che le notizie di guerre, instabilità e sommovimenti compaiono sempre più spesso sui media, e hanno aumentato l’attenzione – a volte interessata, a volte infastidita – del grande pubblico.
Dopo ben trent’anni, dal 1991 al 2021, nei quali i compiti del nostro strumento militare erano, essenzialmente, la stabilizzazione, la prevenzione, la sorveglianza e la protezione, compiti la cui esecuzione sfuggiva spesso all’attenzione generale, comportando attività e impegni oscuri anche se onerosi, è ormai chiaro che la situazione sia cambiata profondamente.
L’instabilità internazionale
Infatti, negli ultimi tre anni, l’Occidente si è gravemente indebolito, soprattutto per la moltitudine di debiti contratti per contrastare gli effetti economici della pandemia, che ci ha colpiti in più ondate successive.
Ciò ha incoraggiato gli altri attori principali a livello internazionale a sistemare “con le cattive maniere” – per usare un eufemismo – alcune pendenze pluridecennali, se non secolari, nei confronti dei loro odiati vicini, guadagnando in tal modo prosperità, influenza e prestigio nel mondo.
La Russia, anzitutto, ha creduto di poter assoggettare l’Ucraina, come aveva fatto più volte nel passato, mentre la Cina, abbandonando la propria tradizione pacifista, vorrebbe santuarizzare, come voleva l’Ammiraglio Liu negli anni 1980, l’enorme zona di mare compresa dentro la “prima catena di isole” che circonda il proprio territorio, assoggettando la ribelle Taiwan e pretendendo di trasformare il Mar Cinese Meridionale in una zona di acque interne, dove esercitare la propria sovranità in via esclusiva.
Questa serie di iniziative, null’altro che prevaricazioni belle e buone, non solo ci hanno risvegliato dal sogno trentennale che la Storia fosse finita, ma stanno spargendo instabilità tutto intorno a noi: su terra e mare, nonché lungo le direttrici del commercio internazionale, la nostra linfa vitale.
Le sfide
Le Forze armate, quindi, hanno due sfide da affrontare. La prima è che i compiti svolti negli ultimi decenni stanno diventando sempre più difficili. Soprattutto alla luce di un mondo nel quale cresce esponenzialmente la voglia, anche da parte di ampie fasce di popolazione, di usare la violenza per risolvere i problemi in corso: quanto sta accadendo in Kosovo rischia di essere solo l’inizio di una spirale perversa. Di conseguenza, stabilizzare, prevenire, sorvegliare e proteggere richiederanno mezzi e impegno ben maggiori rispetto al passato.
La seconda sfida, per certi versi, costituisce un ritorno ai tempi della Guerra fredda; le nostre Forze armate, insieme a quelle dei nostri amici della Nato e dell’Unione, non solo devono tener lontana la minaccia posta dai Paesi che praticano la prepotenza e la prevaricazione, ma anche e soprattutto impedire le aggressioni al nostro territorio, al nostro spazio aereo e alle nostre infrastrutture critiche, su tutti i dominii operativi. Per aver successo, bisogna che le nostre Forze armate siano credibili, in termini di mezzi e personale, in modo da scoraggiare i terzi dal compiere violenze che potrebbero portare a conseguenza catastrofiche. Come dice un vecchio detto, “il cannone che non ha ancora sparato fa più impressione di quello che sta sparando”. Dissuadere è meglio che battersi.
Il 2 giugno, quindi, le Forze Armate dovranno mostrare al nostro popolo e ai nostri alleati le loro capacità e la determinazione di tenerci al di fuori della tempesta perfetta che si avvicina.
L’importanza del 2 giugno e della Componente militare nazionale
Anche quest’anno siamo giunti al 2 Giugno e, come sempre, ci apprestiamo a festeggiare ed esaltare il significato spirituale e storico di questa principale ricorrenza, con il consueto, grande coinvolgimento di cittadini nella parata militare dei Fori Imperiali a Roma.
Il valore del 2 giugno
La stima e l’affetto, che nella circostanza saranno ancora una volta suggellati tra la componente civile della Nazione e i suoi militari, sono l’ulteriore prova della vicinanza della popolazione verso le donne e gli uomini in uniforme che, con professionalità, impegno e sacrificio, operano in Italia e in tante aree del mondo per portare solidarietà, ogni volta che sia necessario, e salvaguardare le condizioni di sicurezza e pace all’interno o all’esterno del Paese, quando quelle condizioni siano minacciate.
In sostanza, la ricorrenza del 2 Giugno è occasione importantissima per riconoscere ancora una volta l’importanza della Componente militare nazionale.
Il sostegno della comunità civile
E ribadire nei suoi riguardi, anche attraverso le espressioni di solidarietà e sostegno che la comunità civile le ha sempre riservato in questa occasione, la necessità di salvaguardare la sua efficienza e le sue capacità operative.
È infatti oggi sempre più importante preservare il ruolo e la competenza della Componente militare del nostro Paese, specie in momenti, come quelli attuali, caratterizzati da un generale contesto di instabilità in cui le condizioni di sicurezza del Vecchio continente sono fortemente minacciate da conflitti, come quello in Ucraina, ma anche dai contrasti che sembravano sopiti, come quello in Kosovo, che pensavamo, erroneamente, non dovessero più determinarsi in Europa.
Il 2 giugno. Una riflessione sulle ragioni del vivere insieme
Il clima e le vicende degli ultimi tre quarti di secolo ci hanno fatto cullare in una serie di illusioni, pur con tutte le vicende drammatiche che si sono verificate. Abbiamo dato per scontato che le istituzioni democratiche, nate con il referendum del 2 giugno 1946, fossero una cornice inattaccabile all’interno della quale la lotta politica, per quanto aspra, si potesse svolgere con regole condivise e immutabili, abbiamo immaginato che nel quadro delle molteplici strutture multilaterali in cui il nostro Paese era incardinato il fututo sarebbe stato caratterizzato da un inarrestabile progresso economico, tecnologico e sociale, ci siamo cullati nell’idea che fossero definitivamente svanite minacce esterne al nostro territorio.
Le fragilità del panorama attuale
Sono bastati gli ultimi tre anni a costringerci ad aprire gli occhi, con l’evidenza di cambiamenti climatici che ci costringeranno a mutamenti radicali dei nostri stili di vita, con le fragilità intrinseche di un sistema economico e finanziario, che pareva non avere più bisogno di regole, con l’esplodere di una pandemia che ci ha messo di fronte da un lato all’inequivocabile esigenza di colossali investimenti nella ricerca scientifica e nelle strutture della sanità pubblica, dall’altro alla nostra fragilità come esseri umani.
Oggi infine, superati ormai i quindici mesi dall’aggressione russa all’Ucraina, l’illusione che la guerra, come l’avevano percepita e vissuta i nostri antenati nei millenni della storia, è svanita di fronte alle immagini che quotidianamente compaiono sui nostri teleschermi, cui purtroppo ci stiamo assuefacendo.
La ricorrenza del 2 giugno ci deve allora indurre a una serie di riflessioni sul fatto che non possiamo illuderci di avere certezze e che, se vogliamo continuare a operare e a vivere in un sistema che salvaguardi diritti, giustizia e democrazia, non possiamo sperare di riuscirci se non con un impegno collettivo e condiviso, in tutti gli ambiti vitali della convivenza civile: economico, sanitario, sociale, culturale, intellettuale e militare.
Cosa significa la parata del 2 giugno
In questo senso la parata del 2 giugno non costituisce una velleitaria dimostrazione di forza militare, come peraltro dimostrato dal fatto che da tempo non vengono fatti sfilare mezzi idonei a operazioni “ad alta intensità”, bensì un incontro, solennemente sottolineato, tra la società civile e chi si è impegnato a garantirle in ogni circostanza adeguati livelli di sicurezza, sia quando questa venga messa in discussione da atteggiamenti aggressivi di altri attori della scena internazionale, sia quando venga minacciata da eventi catastrofici di varia natura.
In questo senso la sfilata di unità militari unitamente a componenti organiche delle strutture civili dedicate alla sicurezza del territorio dà piena evidenza dell’integrazione funzionale di tutte le componenti dello Stato, sia a livello centrale sia locale, al fine di garantire alla società nazionale un ambiente dove i rischi siano minimizzati in modo da assicurare le condizioni necessarie a uno sviluppo armonico.
Le radici costituzionali della Repubblica
Occorre sottolineare, infine, che la presenza a questa manifestazione – di capacità più che di forza – di simboliche componenti dei Paesi, con cui condividiamo la partecipazione alle organizzazioni internazionali rivolte ad assicurare la pace e la giustizia fra le nazioni, dà un tangibile senso di concretezza proprio al dettato costituzionale come formulato nell’articolo 11 della Costituzione, spesso citato in modo colpevolmente superficiale e purtroppo strumentale.
Una ricorrenza quella del 2 giugno, dunque, per riflettere sulle ragioni del nostro vivere civile, per rinnovare l’impegno con cui 78 anni fa oltre 25 milioni di Italiani, di cui – per la prima volta – circa 13 milioni di donne, vollero esprimere la loro visione sul futuro del Paese.
Realtà e simboli della Festa della Repubblica. Scrive il gen. Giancotti
Ognuno di noi vive una sua realtà quotidiana, spesso molto impegnata, fatta di gioie e dolori (e delle loro sfumature) sempre interconnessa in qualche modo e misura a tante altre realtà, alle vite degli altri. La storia descrive l’esistenza collettiva, in continua evoluzione, in cui queste innumerevoli esistenze sono inscritte. Molte guerre le hanno collegate o divise attraverso grandi sofferenze, la cui impronta permane nella coscienza collettiva.
Il 2 giugno del 1946, la storia del nostro Paese ha dato origine alla Repubblica italiana, scelta dalla consultazione referendaria e strutturata l’anno successivo nella Carta costituzionale. Dopo millenni di quella continua evoluzione, è stato così definito un modello di convivenza civile che, mai come prima, promuove i diritti, la dignità e la libertà delle persone e la partecipazione alla vita politica, economica e sociale. La piena realizzazione di questo modello, tra i più avanzati, è ancora in corso e le contraddizioni di una società complessa sono molte. Tuttavia, ritengo vi sia da festeggiare.
Nonostante complessità, crisi e contraddizioni, in questa nostra Storia gli indicatori di benessere, salute, istruzione, cultura, libertà, rispetto dei diritti e delle diversità e altro sono cresciuti, molto. Vi sono opportunità, come certamente anche sfide, per farli crescere ancora, anche nell’ambito di una visione europea. Se misuriamo i tempi della storia, mai la realtà quotidiana di ognuno e per così tanti di noi è stata ai livelli di oggi. Mi sento di dire: che viva la Repubblica italiana. La sua festa è un simbolo importante.
Importante è anche fermarsi un momento, di tanto in tanto, tra gli impegni a guardare le nostre realtà e riflettere su ciò che ha davvero valore per noi. Troppo spesso si perde memoria del senso dei simboli, di cui si vede soltanto l’involucro. Uno di questi è la rivista militare del 2 giugno.
Se ha valore, per esempio, poter esprimere le proprie idee, lottare per esse, se ha valore la libertà dalla paura di una qualche autorità, da una violenza aperta o strisciante come modalità sociale, insomma, se ha valore la nostra democrazia con tutti i suoi difetti, allora la difesa di tutto ciò ha un senso, come anche dedicarvi attenzione.
Questo, Padri e Madri costituenti lo hanno ben compreso. Appena usciti da un terribile conflitto, con l’articolo 11 della Carta hanno ripudiato la guerra “come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, nonché posto un impegno per la promozione della pace e della giustizia tra le nazioni. Allo stesso tempo, hanno previsto nell’articolo 52 e altri la difesa della Patria come “sacro dovere del cittadino” e l’istituzione delle Forze armate.
Ciò lega fortemente la Festa della Repubblica con la rivista militare che essa ospita. Più volte sospesa per considerazioni politiche e finanziarie, ha comunque attraversato i decenni, per via di quel legame. Se nei regimi autoritari le parate militari possono essere esibizione di forza, nel nostro debbono essere testimonianza che ciò che ha valore sarà difeso.
Oggi, dalle finestre dei media da cui le nostre realtà quotidiane si affacciano sul mondo, assistiamo ancora una volta alla tragedia immane della guerra. La sua triste consuetudine la rimuove spesso a sfondo episodico tra i nostri molti impegni, forse più fastidiosa per le piccole conseguenze nel nostro quotidiano e la sua incertezza ansiogena che altro.
Ma non lontano da noi, le realtà quotidiane di milioni di persone sono devastate dalla morte, da mutilazioni e ferite di centinaia di migliaia di uomini e donne, da entrambe le parti. L’immensa distruzione, la violenza su scala industriale, la sofferenza della popolazione di tutte le età, la drammatica compressione di benessere, salute, istruzione, cultura, libertà, rispetto dei diritti e molto altro, crescono drammaticamente. Proprio da tutto ciò la nostra Costituzione intende difenderci.
I cittadini hanno imparato ad apprezzare le loro Forze armate. Debbono ora porre grande attenzione a esse, insieme alle istituzioni della Repubblica, per comprendere come la Difesa possa sempre meglio contribuire alla visione costituzionale. Debbono pretendere dialettica sul tema cruciale della protezione di ciò che ha valore per noi. In questo momento, la rivista militare per la Festa della Repubblica significa la necessità speciale di questa attenzione. Comunica i suoi fondamentali. Esprime lo spirito di servizio ai cittadini, insieme alle altre istituzioni, e la subordinazione alle istituzioni democratiche. Porta in evidenza quel tema cruciale ma perlopiù rimosso e lo propone al dibattito. Anche critico.
Perché tutti gli strumenti necessari possano essere utilizzati al meglio per allontanare il mostro del conflitto armato dalle nostre realtà e da quelle degli altri, perché pace e giustizia tra i popoli, il ripudio della guerra, la difesa del Paese non siano solo argomenti di corsi di diritto costituzionale, ma obiettivi di strategie lungimiranti, condivise ed efficaci. I nuovi, difficili tempi che stiamo vivendo ce lo impongono.
Una celebrazione unitaria della festa della Repubblica
Anche quest’anno è ritornato il 2 giugno, giorno in cui si celebra la proclamazione della Repubblica italiana. “Ma il 2 giugno ritorna sempre – osserverà qualcuno – è il calendario che ce lo porta!”. Sicuramente il calendario ci porta la data, ma la festa ha dovuto imporla per legge Carlo Azelio Ciampi nel 2000. Perché per anni era stata oggetto delle proposte meno immaginabili.
Le origini del 2 giugno
Una ricorrenza davvero maltrattata: sospesa, spostata alla domenica successiva, o anche non celebrata, autorizzata ma senza sfilata militare, o con sfilata sì, ma ridotta, con sorvolo aereo, senza sorvolo, con cingolati, senza cingolati o solo con blindati. Se proprio i cingolati ci dovevano essere, allora ecco le ruspe, adatte anche a sterro e macerie. “Duali”, come qualcuno vorrebbe fosse tutto ciò che è militare. Siamo anche arrivati al divieto di utilizzare i cavalli, sfiorando il ridicolo con i corazzieri appiedati. Isterie politiche? Eppure, a quei tempi, Greta Thunberg ancora non era nata. Mah….
Le cause di questo trambusto non sono mai state del tutto acclarate, ma le ipotesi e le ragioni addotte nel tempo sono state più d’una: l’Italia va male perché si lavora troppo poco, e – domeniche a parte – è quindi necessario accorpare le festività nazionali e, se possibile, anche alcune di quelle religiose. Stranamente, tutto ciò senza provocare strilli di dissenso tra le più gettonate forze sindacali.
Come mai? Poi si è capito. Tra le feste nazionali, nel mirino c’erano soprattutto quelle dove erano maggiormente coinvolte le Forze Armate, considerate uno spreco di denaro pubblico. Pensieri che ancora circolano, se fino a qualche anno fa non si faceva che citare un non meglio precisato “impiego duale” dei militari in ambito civile, compresi i mezzi, l’infrastruttura e i prodotti dell’industria specializzata. Cosa andava accorpato? Naturalmente feste unitarie come il 2 giugno e il 4 novembre, da integrare nella celebrazione (purtroppo ancora oggi divisiva) del 25 aprile. Ormai solo chi è nato e vissuto a quei tempi nel Nord-Italia (ma siamo rimasti in pochi, e per poco) sa bene il perché. Agli altri, non è mai stato raccontato.
La festa di tutti gli italiani
Come abbiamo visto, anche nel dopo-Ciampi in qualche momento la celebrazione ha sofferto di momenti difficili, ma da qualche anno il 2 giugno sta ternando a essere la principale festa degli italiani. È vero, è la festa di tutti gli italiani, e non solo dei militari, “che già hanno il 4 novembre”. Ma il 2 giugno, ricordiamocelo bene, i soldati sono quelli che contribuiscono a festeggiare la Repubblica con solennità, non sono loro i “festeggiati”, come potrebbe apparire dagli applausi della folla che si assiepa in via dei Fori Imperiali.
Il supporto popolare a questa manifestazione non verrà mai a mancare, i cittadini che pagano le tasse la pretendono, e nessuno è mai riuscito a frenarne l’entusiasmo. Solo una volta ho sentito qualche grido di indignazione, ed è successo non molti anni fa quando un’alta autorità parlamentare è scesa dal palco salutando con il pugno chiuso. O quando, al passaggio della Folgore, un’altra alta carica parlamentare (questa volta di sesso femminile) pur di non applaudire si è ostentatamente voltata, fingendo di parlare con chi sedeva nella poltroncina retrostante. È successo, l’ho visto con i miei occhi (ero seduto in seconda fila) ed è confermato dai filmati. Ora ritornerò a essere presente in Tribuna volentieri, perché so che cose simili non accadranno più e mi troverò tra persone cui poter stringere la mano sarà soltanto un onore.
È davvero un momento grave e difficile, con una postura internazionale che stiamo riuscendo a consolidare e persino a migliorare. Ma, purtroppo, con una guerra di aggressione e turbolenze etnico-politiche pericolosamente vicine alla porta di casa. Siamo impegnati a reagire al meglio, offrendo con coesione ed equilibrio una presenza credibile anche in ambito alleato ed europeo. Per questo motivo, la celebrazione unitaria di questo 2 giugno 2023 ha, all’interno e all’estero, il significato tutto particolare di un’Italia compatta e ben decisa a contribuire al superamento di una pericolosa situazione di stallo nelle relazioni internazionali.
Kreditauskunftei CRIF hält Daten vor Konsumenten systematisch zurück
L'agenzia di riferimento del credito CRIF nasconde sistematicamente i dati ai consumatori il procedimento di noyb contro il credit bureau CRIF sta prosciugando una palude di violazioni legali e interpretazioni ciniche del GDPR. Oltre ai punteggi di credito imprecisi e alla raccolta illegale di dati, il
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@Test magazine
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i cannot get over that test post from friendica tbh > i am puzzled!
this is the reason:
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it is not a post, but an article! how did that happen, as it was not sent from a group?
Einaudi: il pensiero e l’azione – “L’Europeista” con Lorenzo Infantino
Una lezione del Professore Infantino sull‘attualità dell’idea di Europa di Einaudi.
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Rubrica “Einaudi: il pensiero e l’azione”
L'articolo Einaudi: il pensiero e l’azione – “L’Europeista” con Lorenzo Infantino proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Ministero dell'Istruzione
#Maturità2023, sono disponibili online le commissioni dell’Esame conclusivo del II ciclo di istruzione. Potete consultarle qui ▶ https://matesami.pubblica.istruzione.Telegram
Dopo la Dunkerque degli esuli di Twitter approdati su Mastodon, potrebbe esserci una migrazione da Reddit verso Lemmy. E la nostra feddit ha avuto in una sola mattinata le iscrizioni di una settimana!
Lo sviluppatore dell'app Apollo, utilizzata da tantissimi degli iscritti a Reddit, ha espresso su twitter tutte le proprie perplessità a fronte delle novità relative alle politiche di Reddit sulle API di terze parti.
Chiaramente questo è un ulteriore segnale del fatto che le grandi piattaforme centralizzate, Twitter per prima, non trovando più soldi facili dai grandi investitori tecnologici, stanno iniziando non più solo a mungere i dati personali dei propri utenti, ma hanno iniziato a tosarli e a taglieggiare chiunque graviti intorno al loro business.
Per fortuna però gli utenti stanno iniziando a comprendere che l'atmosfera si sta facendo sempre più asfittica.
Oggi, per esempio, l'istanza italiana feddit.it basata su Lemmy, un'alternativa a Reddit interoperabile con il Fediverso, ha avuto in una sola mattinata più iscrizioni rispetto a quelle avute in un'intera settimana!
La stessa cosa sta avvenendo all'istanza lemmy.ml, la più grande del Fediverso: uno dei suoi fondatori (nonché sviluppatore dello stesso Lemmy) ha dichiarato che:
"lemmy.ml in precedenza aveva un nuovo utente al giorno, ora sono alcune decine al giorno."
In effetti la libertà che consente una piattaforma come Lemmy. è impensabile con qualsiasi piattaforma centralizzata!
E questo vale per altri "link aggregator" federat, tutti interoperabili, come KBin o Lotide, oltre che per la stessa #Friendica, l'alternativa del Fediverso a Facebook, da cui sto scrivendo questo post, leggibile non solo su Lemmy ma da tutti gli utenti Mastodon.
Nei prossimi giorni, vi terremo aggiornati su tutte le eventuali novità...
macrumors.com/2023/05/31/reddi…
Popular Reddit App Apollo Would Need to Pay $20 Million Per Year Under New API Pricing
Popular Reddit app Apollo might not be able to operate as is in the future due to planned API pricing that Reddit is implementing. Apollo developer...Juli Clover (MacRumors.com)
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Chi è Giovanni Soccodato, nuovo managing director di Mbda Italia
Cambi ai vertici di Mbda. Da questo mese, sarà Giovanni Soccodato ad assumere il ruolo di Executive group director sales & business development e managing director di MBDA Italia, succedendo così a Lorenzo Mariani. A diretto riporto del ceo di Mbda, Eric Béranger, Soccodato entra così a far parte del Comitato esecutivo di Mbda. “Sono certo che Giovanni, grazie alle sue doti personali e professionali, alla sua lunga carriera in numerose posizioni apicali in Leonardo e alla sua grande competenza nel settore della Difesa e delle strategie, darà un contributo decisivo allo sviluppo del nostro posizionamento globale come industria leader della difesa integrata in Europa e al mantenimento del successo di Mbda in Italia e nel mondo”, ha commentato la nuova nomina il ceo Béranger.
Il passaggio di testimone
Soccodato succede dunque a Mariani, recentemente nominato dal Consiglio di Leonardo condirettore generale della società di piazza Monte Grappa. Grazie al nuovo ruolo, Mariani è diventato inoltre capo della neo costituita Direzione generale business & operations di Leonardo, e assumerà in ultimo l’incarico di consigliere nel board di Mbda Gruppo, come rappresentante di Leonardo, nonché di presidente del cda di Mbda Italia. Nell’accogliere il passaggio di consegne, Béranger, ha anche parlato del contributo di Mariani: “Volevo ringraziare Lorenzo Mariani per il fondamentale supporto e contributo nell’aver spinto Mbda a livelli di posizionamento commerciale mai raggiunti prima, che consolidano l’azienda come leader di mercato nel settore dei sistemi di armamento complessi”.
Nuovo ruolo
Nel suo nuovo incarico, Soccodato guiderà un team integrato multinazionale, che si occuperà di generare ordini per sostenere una performance di lungo termine di Mbda, in modo da comprendere le esigenze operative dei clienti e di sviluppare così le soluzioni più efficaci per rispondere agli attuali e futuri requisiti operativi richiesti. Inoltre, in qualità di managing director di Mbda Italia, Soccodato sarà il rappresentante legale dell’azienda nel nostro Paese. In tale veste si occuperà di guidare le relazioni con il cliente italiano e la comunità industriale nazionale. In ultimo, come responsabile dell’operatività dell’azienda in Italia, garantirà anche la continuità del business, nonché la competitività e la coerenza delle politiche aziendali da una prospettiva nazionale.
Il profilo
Laureato in Informatica presso l’università di Pisa, Soccodato è approdato in Mbda dopo aver trascorso diversi anni della sua carriera in Leonardo (ex Finmeccanica). Dove ha ricoperto dal 2019 il ruolo di chief strategic equity officer e ha seguito le attività di joint venture strategiche, tra cui la stessa Mbda. In precedenza, dal 2005 al 2019, è stato invece executive vice president strategy and mergers & acquisitions e ha gestito anche alcuni incarichi in ambito improvement & processes, innovazione e corporate sales. Nella sua carriera Soccodato vanta inoltre diverse posizioni strategiche all’interno di Alenia Marconi Systems, joint venture tra Finmeccanica e Marconi Electronic Systems (poi BAE Systems) tra cui: business integration, business improvement, it & quality e sales. Dal 2004 al 2005, inoltre, è stato nominato vicepresidente e direttore generale di AMS, e più recentemente è stato deputy chairman nel board di MBDA Gruppo in rappresentanza di Leonardo.
Come funziona una guerra simulata. L’esercitazione Joint Stars vista da vicino
Con Joint Stars le Forze armate italiane sono tornate ad addestrarsi sul campo, coordinate dal Comando operativo di vertice interforze (Covi). Dopo oltre tre anni di assenza legati alla pandemia, ritorna dunque la più grande esercitazione della Difesa che ha visto nell’edizione di quest’anno numeri impressionanti, con circa 5mila uomini e donne impegnati e oltre 900 mezzi utilizzati. Rispetto alla precedente edizione, come ha evidenziato il generale Francesco Paolo Figliuolo, comandante del Covi, quella di quest’anno ha visto una maggiore ampiezza, sia in termini di giorni esercitativi sia in termini di piattaforme, oltre a vedere il ritorno delle attività a fuoco. Il perdurare della guerra in Ucraina ha reso ormai evidente a tutti come anche la forma del conflitto tradizionale non sia da riservare soltanto ai libri di storia. “Le Forze armate sono una risorsa del Paese e per avere delle Forze armate pronte bisogna addestrarle. Per addestrarci dobbiamo farlo con scenari realistici, sul terreno, in mare e nel cielo”, ha proseguito Figliuolo. Per garantire pertanto l’efficacia e l’efficienza dello strumento militare, così come una costante prontezza operativa nei molteplici possibili scenari di impiego, è necessario sviluppare e condurre attività esercitative interforze e inter-agenzia come Joint Stars, così da testare procedure e aumentare il livello di professionalità e interoperabilità. “Questa esercitazione è un test importante per provare tutte le procedure di comando e controllo in un ambiente integrato e interforze”, ha spiegato ancora Figliuolo. A fornire il contesto delle operazioni, uno scenario verosimile e realistico che ha animato gli oltre 20 giorni di esercitazione che si sono da poco conclusi in Sardegna.
Joint Stars
Quella che si è tenuta le scorse settimane è la più importante esercitazione nel panorama della Difesa italiana. Pianificata e diretta interamente dal Covi, ha una forte connotazione interforze, inter-agenzia e ha carattere multinazionale. È un’esercitazione di Crisis response planning (Crp), con pianificazione di livello operativo che segue gli standard Nato di una Small joint operation Art. 5 del trattato del Nord-Atlantico (difesa collettiva). Uno degli obiettivi perseguiti dal Covi nelle tre settimane di esercitazioni era di aumentare la prontezza delle Forze armate con assetti Nato e Agenzie nazionali così da condurre attività operative sempre più efficienti in vista di possibili scenari emergenziali complessi. A dirigere le operazioni, vi era l’ammiraglio Fabio Agostini.
Operazioni viste da vicino
Airpress ha avuto l’opportunità di seguire da vicino, per una giornata intera, alcune delle numerose esercitazioni condotte nel corso di Joint Stars. A bordo di un elicottero SH90 della Marina militare siamo atterrati direttamente sulla nave anfibia San Giusto, in navigazione al largo delle coste cagliaritane, e inserita in un dispositivo navale che vedeva tra le altre anche la presenza della nave Garibaldi e della fregata Alpino. A bordo del San Giusto, dopo aver visto in mostra alcuni degli equipaggiamenti e armi a disposizione dei militari che hanno partecipato a Joint Stars, abbiamo assistito a un’esercitazione interforze che ha coinvolto velivoli dell’Aeronautica – che hanno anche mostrato come avviene il rifornimento in volo – il sommergibile Gazzana e altre navi della Marina, nonché forze della Guardia Costiera, impegnate nel mostrare come avviene il fermo di un’imbarcazione illegale. Al poligono di Capo Teulada, abbiamo invece potuto assistere all’esercitazione di un attacco terrestre coordinato dalla Brigata Bersaglieri Garibaldi, e guidato dal generale Mario Ciorra, condotto con la collaborazione dei velivoli dell’Aeronautica militare. A una prima ricognizione effettuata da due caccia F-35, sono seguite le manovre sul terreno e i colpi di sei carri armati dell’Esercito diretti verso l’obiettivo, una piccola altura su cui – da scenario – erano presenti le forze nemiche. Infine, a bordo dell’elicottero CH47 dell’Esercito, abbiamo raggiunto Decimomannu dove abbiamo potuto assistere alla dimostrazione di un’attività inter-agenzia che ha visto in azione i corpi dei Carabinieri, unitamente a nuclei sanitari del Corpo militare della Croce Rossa e squadre dei Vigili del Fuoco e della Protezione Civile, impegnati nella prima accoglienza di profughi.
Uno scenario più che realistico
Joint Stars si sviluppa intorno a uno scenario fittizio chiamato “Arcipelago Esmeralda” formato da tre isole maggiori che si affacciano sul Mar Tirreno. Secondo tale scenario, al termine della Seconda guerra mondiale i cittadini sardi decisero con un referendum di dividere l’isola in due Stati diversi: Nuragicum e Carbonium. Nuragicum è un Paese che non è né membro della Nato né dell’Ue, il cui 45% della popolazione è di etnia Trinacrium in Sardinia (Temis). Si tratta di una democrazia fragile, che sta piano piano rompendo i vincoli di dipendenza da Trinacrium; anch’esso un Paese non appartenente né alla Nato né all’Ue, che considera l’espansione dell’Alleanza Atlantica come una minaccia e vede il 98% della popolazione di etnia indigena. A Nuragicum, infatti, dal 2012 crescono i disordini interni e l’instabilità politica, così come l’aspirazione di una parte della popolazione di riunire tutti i territori con la presenza storica di Temis. In tale cornice è stata inoltre creata un’organizzazione insurrezionale chiamata Temis liberationa army (Tla), che ha condotto diversi attacchi terroristici nel Paese e i cui militanti vengono addestrati non ufficialmente da militari di Trinacrium che finanzia e arma questa milizia. Scopo del Tla è quello di rovesciare il governo di Nuracicum e di Carbonium, così da riunificare i territori della Sardegna con presenza etnica Temis. Carbonium, dal canto suo è invece una Repubblica parlamentare membro sia della Nato sia dell’Ue, che conta il 21% di popolazione di etnia Temis.
L’escalation
Ma l’escalation risale soltanto al 2022, quando il Tla ha avviato attacchi terroristici nell’enclave Temis di Carbonium. A novembre la principale centrale idroelettrica di Carbonium è stata vittima di un attacco cyber, e da allora sono stati numerosi gli attacchi cyber ai danni di Carbonium. Infine, a dicembre 2022, il Tla si è reso responsabile di numerosi incendi a Carbonium. Il Paese attaccato ha così chiesto supporto ai Paesi Ue e alleati, firmando anche un accordo di collaborazione con l’Italia (che in quest’esercitazione gioca il ruolo di se stessa). In risposta, Trinacrium ha aumentato la portata delle proprie esercitazioni militari offensive intorno alla Sardegna e sono aumentati gli scontri tra le forze di Carbonium e le milizie del Tla. A inizio gennaio 2023 delle forze di Trinacrium hanno iniziato un’esercitazione aeronavale di fronte alla costa di Nuragicum, prendendo il controllo dell’aeroporto e del porto di Olbia. In risposta, l’Italia ha lanciato un’operazione di evacuazione dei propri connazionali sul territorio di Nuragicum (operazione Lampo). Con l’avanzata di Trinacrium nel territorio di Nuragicum sono cadute diverse città, e l’avanzata è stata bloccata solo in corrispondenza della capitale Nuoro. Ecco che a fine gennaio il Consiglio del Nord atlantico ha dato allora il mandato di pianificare il dispiegamento a Carbonium della Nato Response Force ai sensi dell’Art.4 del Trattato Nord-Atlantico, per rispondere a una potenziale aggressione militare da parte di Trinacrium. Viene così costituita Joint task force (Jtf) della Nato, guidata dal vicecomandante del Covi, il generale Nicola Lanza de Cristoforis e con l’Italia come nazione capofila dell’operazione “Esmeralda defender”, che ha lo scopo di supportare la popolazione di Carbonium e garantire la sicurezza.
Casus belli
Alla base del conflitto simulato vi è l’aspirazione del presidente di Trinacrium, Alberto Mapo, che appoggia Tla, di riunificare la Sardinia sotto l’etnia Temis. Da diverse settimane aleggiava infatti lo spettro del conflitto sull’arcipelago di Esmeralda: un attrito in escalation. Le tensioni hanno raggiunto l’apice quando a inizio febbraio 2023 Trinacrium ha ordinato il lancio di un missile balistico che ha causato vittime, oltre che gravi danni sul territorio e alle infrastrutture. In risposta, la Nato ha predisposto il dispiegamento di una Nato response force in Carbonium per difendere il Paese e ripristinare l’integrità territoriale in caso di aggressione militare. Così le Forze armate di Trinacrium hanno iniziato il loro movimento per schierarsi lungo il confine con Carbonium, in risposta anche l’Italia e gli alleati hanno dispiegato assetti specializzati pronti a rispondere agli attacchi e a difendere Carbonium. L’assalto delle Forze armate di Trinacrium è stato preceduto da un’escalation di attacchi cyber e terroristici da parte del Tla, il che ne sottolinea la forte componente multidominio. La risposta di Saceur al missile balistico non si è fatta attendere e, oltre ad aver dato il mandato all’Italia per costituire la Jtf della Nato, ha fornito le indicazioni per avviare una Crisis response operation (Cro), ai sensi dell’articolo 5 della Nato.
Una spiccata natura inter-agenzia e multidominio
Joint Stars non ha visto solo l’impiego di corpi dell’Aeronautica, dell’Esercito e della Marina, ma ha visto impiegare anche corpi dei Carabinieri, della Guardia di Finanza, della Guardia costiera. Insieme a loro, sul campo presenti anche la Croce Rossa italiana, la Protezione civile, i Vigili del Fuoco, così come altri corpi non armati dello Stato. Anche l’Agenzia spaziale italiana (Asi) è intervenuta, stimando la possibile traiettoria di rientro del missile e il potenziale rischio chimico. Come ha ricordato il capo di Stato maggiore della Difesa, Giuseppe Cavo Dragone, in visita in Sardegna durante l’esercitazione: “Come ci insegna la storia recente è fondamentale esercitarsi tutti non solo nei domini tradizionali, terra, mare e cielo, ma anche nelle attività cyber e nella gestione dello spazio”. Non solo, per la prima volta in un’esercitazione di questo tipo, è stato coinvolto anche un gruppo selezionato di studenti universitari che hanno affiancato i militari nelle funzioni di advisor in diverse aree, legale, questioni di genere e questioni culturali.
Esercitazioni numerose
Joint stars si è svolta in diverse località della Sardegna e all’esercitazione hanno partecipato anche assetti Nato, in particolare un battaglione meccanizzato norvegese, rimasto nell’area in seguito all’esercitazione alleata Noble Jump 23. La prima fase, dall’8 al 12 maggio, ha visto la gestione di eventi afferenti a ordine e sicurezza pubblica, antiterrorismo, contrasto dei traffici illeciti, soccorso di profughi e risposta a diverse tipologie di emergenze. In tale fase si è svolta inoltre la già citata esercitazione Lampo, integrata nella Joint Stars, che ha visto il personale della Italian joint force esercitarsi nell’evacuazione di personale da un’area di crisi e ha coinvolto reparti dell’Aeronautica, dell’Esercito e della Marina. In tale fase si sono svolti 28 eventi esercitativi inter-agenzia. Mentre la seconda fase, iniziata il 15 maggio, ha visto impegnate componenti di livello tattico delle varie Forze armate, sotto la guida del comandante della Jtf. In questa seconda fase sono stati ben 68 gli eventi interforze condotti, ai quali vanno aggiunti gli eventi sviluppati da ogni singola componente di Forza armata. Ma non è finita, nel mese di maggio vi sono state anche altre esercitazioni nazionali nella cornice della Joint Stars. Tra queste si ricordano la “Notte scura” condotta dalle Forze speciali, la “Complex aviation exercise (Caex)” del comando Aviazione dell’Esercito, la campagna di tiri Samp-t 2023 a cura del 4°Reggimento contraerei missili di Mantova e del 17°Reggimento contraerei Sabaudia.
Operazioni all’insegna della sostenibilità
L’organizzazione delle manovre, militari e non, ha tenuto conto fin dall’inizio dell’impatto ambientale, coinvolgendo anche esperti del settore per cercare di minimizzare gli effetti negativi delle operazioni sull’ambiente. Si sono infatti bonificate le aree da ordigni inesplosi e si è garantita la pulizia e il ripristino ambientale delle aree interessate, grazie a squadre di specialisti. Quest’anno vede inoltre, come sottolineato dal generale Figliuolo, “una bella novità intrapresa con i Carabinieri, e in particolare con i corpi forestali. Al termine delle attività è previsto il calcolo dell’anidride carbonica immessa a seguito dell’esercitazione e ci sarà una contropartita in piantumazione di alberi”.
LIBRI. Dear Palestine, fotogrammi di conoscenza di un popolo
della redazione
Pagine Esteri, 1 giugno 2023 – “‘Dear Palestine’ è nato in principio dalla curiosità di conoscere, attraverso i miei occhi, la “Terra Santa” ed è proseguito con la crescente passione nei confronti del popolo palestinese, che della propria terra ha fatto la prima ragione di vita”. Così scrive Roberta Micagli* nella prefazione del suo libro fotografico pubblicato dalla casa editrice Graffiti. Quello che inizialmente è stato per lei un viaggio di conoscenza nei luoghi santi delle tre religioni monoteistiche, si è poi trasformato in una opportunità per approfondire la conoscenza di una terra e del suo popolo, nei suoi aspetti anche politici e sociali. Un percorso che, prova a spiegare attraverso le sue fotografie, dovrebbero compiere sempre più persone. Il ricavato della vendita di copie di “Dear Palestine” sarà devoluto ad associazione sanitarie ed umanitarie palestinesi. Pagine Esteri ha incontrato l’autrice nei giorni scorsi a Gerusalemme.
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*Nasce a Latina nel 1971. Appassionata di viaggi, scopre il suo interesse per la fotografia grazie ai suoi primi spostamenti in Guatemala, Panama, Nicaragua e Hunduras. Tornata in Italia conosce Graffiti- Scuola di fotografia dove perfeziona il linguaggio del reportage, del bianco e nero, del ritratto e dove acquisisce le tecniche di sviluppo e stampa. Passata alla fotografia digitale, effettua viaggi in tutto il mondo. In Sud Africa ha documentato il funerale di Nelson Mandela. Negli ultimi dieci anni si appassiona alle tematiche mediorientali. E trascorre lunghi periodi in Libano, Israele e Territori palestinesi occupati. Come fotografa ha ottenuto ricoscimenti e premi nazionali e internazionali.
L'articolo LIBRI. Dear Palestine, fotogrammi di conoscenza di un popolo proviene da Pagine Esteri.
L’Italia è un ponte mediterraneo. Cavo Dragone sulle missioni internazionali
Non solo assetti militari o addestramento, le missioni internazionali possono offrire un significativo aiuto per la stabilità e la sicurezza, irrinunciabili per lo sviluppo economico e sociale. A dirlo è stato il capo di Stato maggiore della Difesa, ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, in audizione davanti alle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato. “Le missioni possono essere il battistrada di un sistema-Paese capace di proporre anche modelli organizzativi moderni”, ha detto l’ammiraglio, aggiungendo come le operazioni italiane posso offrire la “ricostruzione delle istituzioni, moderni sistemi produttivi” dal momento che “la stabilità e sicurezza sono irrinunciabili per lo sviluppo economico e sociale”.
La Wagner nel Mare nostrum
Nel suo intervento, l’ammiraglio Cavo Dragone si è concentrato in particolare alle necessità del Mediterraneo allargato, la principale area di riferimento strategico per il nostro Paese. A destare preoccupazione è, in particolare, l’influenza che il gruppo mercenario russo Wagner sta esercitando nei Paesi della regione, dalla Libia, alla Repubblica centrafricana, al Burkina Faso “ovunque le nazioni occidentali se ne vanno, colmano un vuoto” ha lanciato l’allarme Cavo Dragone, aggiungendo come “probabilmente sono anche in Sudan”. Per l’ammiraglio, l’influenza del gruppo “è significativa un po’ ovunque” e il problema principale è che “più passano i giorni, più si pone come una forza politica, oltre che militare”. Si tratta di una compagine “ben armata, ben pagata, l’esercito convenzionale russo non regge il paragone”, ha segnalato l’ammiraglio, evidenziando che “sono mercenari fortemente connotati, sono quasi tutti russi, un mercenarismo anomalo”.
La situazione in Libia
Tra gli scenari che più impattano sul nostro Paese c’è sicuramente la Libia dove, secondo Cavo Dragone, premessa fondamentale per un miglioramento della situazione dei diritti umani è necessaria una pacificazione e la riunificazione istituzionale dello Stato libico. “In Libia dialoghiamo con entrambe le parti”, ha detto l’ammiraglio, aggiungendo come per la riunificazione serva “un maggior apporto della comunità internazionale”. Per il capo di Stato maggiore se la Libia venisse “pacificata e disarmata nelle sue milizie, gli elementi che hanno partecipato alla rivoluzione del 2011 e che hanno rimosso il regime di Gheddafi e sono rimaste connotate da capacità operative spinte, se disinneschiamo tutto questo, la situazione dei diritti umani non può che migliorare”.
Cooperazione e sviluppo
Intervenire nel Mediterraneo, tuttavia, significa andare oltre la semplice presenza militare: “Prima dell’assistenza militare, i vertici militari dei Paesi chiedono cooperazione e sviluppo” ha riferito Cavo Dragone, aggiungendo come negli incontri con i propri omologhi i concetti e le priorità emerse sono diverse dalla sola cooperazione di Difesa. I punti centrali sono invece la gestione di “fenomeni migratori quasi ingestibili” e la “grave crisi economica innescata dalla pandemia e aggravata dalla guerra in Ucraina”. Quello che chiedono, dunque, “non è assistenza, ma cooperazione e sviluppo”. “Ho colto un sentimento di frustrazione”, ha affermato l’ammiraglio, a cui gli omologhi hanno comunicato di non essere semplicemente “le frontiere meridionali dell’Europa”.
Italia, ponte mediterraneo
In questo, l’Italia può avere un ruolo prezioso, dal momento che la politica militare nazionale “on ha mai avuto l’ambizione di esportare modelli culturali o di giudicare l’universo in cui opera”. Secondo quanto riferito da Cavo Dragone, “c’è la percezione da parte dei Paesi del Mediterraneo allargato che i canali militari sono preziosi” e “il punto di partenza della nostra politica militare resta la comprensione”. Per l’ammiraglio, “l’Italia è percepita come un ponte di dialogo, una porta d’accesso per l’Europa. Questo approccio è la chiave di volta di una nostra stabile posizione strategica nel Mediterraneo. Seguiamo dovunque una strategia di dialogo a tutto campo”.
In Kosovo, siamo i maestri della negoziazione
Questo ruolo italiano si è visto di recente anche in Kosovo, dove la presenza delle nostre Forze armate “allontana lo spettro della guerra alle porte di casa nostra”. Come registrato dall’ammiraglio “Per tanto tempo ho sentito mettere in discussione il valore della nostra presenza in Kosovo. Abbiamo compreso nelle ultime settimane quanto fosse importante restare. La nostra presenza garantisce il costante riallineamento di equilibri fluidi e ha offerto a tante generazioni l’opportunità di vivere in pace e prosperare”, aggiungendo come “i nostri militari stanno facendo il loro mestiere come al solito, sono maestri nella negoziazione”. Nella regione del nord del Paese la situazione resta tesa, ma non più ai livelli di scontro della settimana scorsa, ha riportato Cavo Dragone, rassicurando anche sullo stato di salute dei militari italiani rimasti feriti: “I ragazzi stanno tutti bene, tre erano quelli che destavano maggiori preoccupazioni, sono stati ricoverati all’ospedale di Pristina con due fratture alla tibia e una al polso, che verranno curate in maniera opportuna dalla struttura sanitaria, che dà tutte le garanzie”.
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