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GAZA. Popolazione alla fame, prezzi alle stelle. Gli aiuti vengono distribuiti solo in parte


L'Onu comunica che alcune consegne limitate di aiuti sono avvenute nell'area di Rafah ma ma nel resto di Gaza la distribuzione è in gran parte interrotta, a causa dell'intensità dei bombardamenti. L'articolo GAZA. Popolazione alla fame, prezzi alle stell

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della redazione

Pagine Esteri, 15 dicembre 2023 – La gente di Gaza non ha più pane, deve fare i conti con prezzi che sono aumentati anche di 50 volte e spesso deve macellare asini per sfamarsi. Ciò mentre i camion con gli aiuti alimentari ed umanitari della Mezzaluna rossa e delle Nazioni unite non riescono a raggiungere numerose aree della Striscia di Gaza, in particolare a nord, a causa dei bombardamenti israeliani. L’ufficio umanitario delle Nazioni Unite Ocha ha comunicato che alcune distribuzioni limitate di aiuti sono avvenute nell’area di Rafah, vicino al confine con l’Egitto, dove si stima che viva quasi la metà della popolazione di Gaza di 2,3 milioni di abitanti.

“Nel resto della Striscia di Gaza, la distribuzione degli aiuti è in gran parte interrotta, a causa dell’intensità delle ostilità e delle restrizioni alla circolazione lungo le strade principali”, si legge in un comunicato.

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Secondo i civili palestinesi, spingere la popolazione di Gaza alla fame sarebbe uno degli obiettivi dell’offensiva militare israeliana. “Gli israeliani ci hanno costretto a lasciare le nostre case, poi le hanno distrutte e ci hanno portato al sud dove possiamo morire sotto le loro bombe o di fame”, ha dichiarato uno sfollato a giornalisti locali. Philippe Lazzarini, capo dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, Unrwa, ha detto che persone affamate fermano i camion degli aiuti per prendere cibo e mangiarlo subito.

Youssef Fares, giornalista di Jabalia, nel nord, dice che i beni di base, come la farina, sono ormai così difficili da trovare che i prezzi sono aumentati da 50 a 100 volte rispetto a prima della guerra. “Stamattina sono andato in cerca di un pezzo di pane e non l’ho trovato. Al mercato sono rimaste solo caramelle per i bambini e qualche barattolo di fagioli, il cui prezzo è salito di 50 volte”, ha scritto su Facebook. “Ho visto qualcuno che macellava un asino per darlo ai membri della sua famiglia”, ha aggiunto.

Tutti i camion degli aiuti entrano a Gaza attraverso il valico di Rafah con l’Egitto, ma prima devono essere ispezionati da Israele. Da quando le consegne sono iniziate il 20 ottobre, le ispezioni avvengono al valico di Nitzana tra Israele ed Egitto, costringendo i camion a fare il giro da Rafah a Nitzana e ritorno. Ciò causa forti ritardi nell’ingresso degli aiuti nella Striscia.

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Mercoledì sono entrati a Gaza 152 camion di aiuti, rispetto ai circa 100 del giorno precedente, ma è solo una frazione di ciò che è necessario per affrontare la catastrofe umanitaria in corso. Due giorni fa Israele ha avviato ulteriori ispezioni al valico di Kerem Shalom. Potrebbe fare una differenza significativa se Israele lasciasse passare i camion direttamente a Kerem Shalom, ma ha scelto di non farlo.

Dal 7 ottobre, giorno dell’attacco compiuto dal movimento islamico Hamas nel sud di Israele (1200 morti, in maggioranza civili), i bombardamenti e l’offensiva di terra delle forze armate israeliane hanno provocato circa 19mila morti tra i palestinesi, in prevalenza civili, tra cui migliaia di bambini e donne. Pagine Esteri

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I salari in Italia fermi da trent'anni, grazie alla concertazione tra governi e Cgil Cisl Uil | Contropiano

"In Italia i salari reali sono sostanzialmente al palo da trent'anni, la forza lavoro è in rapido invecchiamento secondo l’Inapp (Istituto Nazionale per le Politiche Pubbliche).
Perché è dal 1992 che i salari di lavoratrici e lavoratori italiani sono rimasti al palo? Gli europeisti hanno la coda di paglia e tendono sempre a svicolare sul fatto che l’adesione dell'Italia al Trattato di Maastricht avviò le politiche di austerità e impose il blocco dei salari."

contropiano.org/news/news-econ…



Dal Consiglio europeo, piccoli passi verso la difesa comune. L’analisi di Politi


Un quadro normativo per il settore industriale della difesa europea: lo prevede la bozza dedicata alla sicurezza e alla difesa delle conclusioni del Consiglio europeo, con l’obiettivo di coordinare gli acquisti congiunti e aumentare l’interoperabilità e l

Un quadro normativo per il settore industriale della difesa europea: lo prevede la bozza dedicata alla sicurezza e alla difesa delle conclusioni del Consiglio europeo, con l’obiettivo di coordinare gli acquisti congiunti e aumentare l’interoperabilità e la capacità produttiva dell’industria europea della difesa. Formiche.net ne ha discusso con Alessandro Politi, direttore della Nato Defense College Foundation.

Attuare con urgenza le misure esistenti per facilitare e coordinare gli acquisti congiunti e per aumentare l’interoperabilità e la capacità produttiva dell’industria europea della difesa per ricostituire le scorte degli Stati membri, in particolare alla luce del sostegno da fornire all’Ucraina. Questa una delle richieste contenuta nel capitolo sicurezza e difesa delle conclusioni del Consiglio europeo. A questo punto il passo successivo è la difesa comune europea. Ma quando?

C’è una parolina che mi ha colpito della bozza, ovvero standardizzazione: è interessante che leader ancora alle prese con questa bozza abbiano deciso di introdurre questa parola per un passaggio puramente burocratico. Quindi nessuno va a toccare i programmi di armamento in quanto oggetti che poi finiscono nelle mani di una forza armata, però questa parola riguarda le procedure ed è chiaro che se si standardizzano le procedure si facilita la vita a valle.

Un punto di partenza o serviva dell’altro?

Dopo 40 anni di guerra fredda avrebbe già dovuto esser fatta: non pretendo già da oggi l’esercito europeo ma almeno standardizzare i sistemi d’arma e per ora siamo ancora molto lontani. Come si fa a mettere d’accordo 27 voci sull’unanimità? Già con il consenso è complicato, figuriamoci con l’unanimità. Non nascondo che dei passi in avanti siano stati compiuti, come il lavoro enorme sui sistemi radio che oggi si parlano fra loro.

Perché la seconda guerra nel giro di 600 giorni non ha stimolato un’accelerazione su certi processi?

Il problema è che nessuno vuole ridurre i margini di guadagno e mentre durante la guerra fredda sostenevamo che diversità dei sistemi d’arma complicava la pianificazione tattico-operativa del nemico, oggi vediamo che i russi reggono benissimo l’assalto degli ucraini, che tra le altre cose non hanno sistemi standardizzati. Per cui mantenere questa diversità di sistemi operativi è un incubo.

Questa iniziativa contenuta nelle conclusioni del Consiglio europeo quali vantaggi può portare all’Italia che nel suo background ha competenze, imprese e cervelli in quel settore che rappresenta una fetta importante di Pil?

In primis bisognerà valutare se quelle conclusioni presenti nella bozza verranno poi approvate. In quel caso questo tipo di accordo non dico che sarebbe un toccasana, per un sistema come quello tedesco caotico, ma certamente dovrebbe snellire, ad una condizione però: che quando poi si va a negoziare sul concreto ognuno negozi con le unghie e con i denti il meglio che ha. Se gli italiani, come gli altri, non negoziano il meglio di quello che possono offrire come procedure e concetti, allora si uniformano su una specie di ircocervo.

Una chiusura sull’Ucraina: si aspettava qualcosa di più dal Consiglio europeo?

Innanzitutto vorrei contestare alcune affermazioni apparse sulla stampa internazionale secondo cui le esitazioni a sostenere Kiyv sarebbero europee: falso. Sono tanto per cominciare degli americani e, a loro a rimorchio, anche di parte degli europei. Biden fin dall’inizio ha avuto il braccino corto con gli ucraini, tanto è vero che quando Olaf Scholz è stato pungolato dagli americani, ha promesso di mandare i suoi carri armati Leopard solo quando gli Usa avrebbero mandato gli Abrams. Questi ultimi non si sono ancora visti in Ucraina, mentre i Leopard sì: pochi, maledetti e vecchi ma sono arrivati. Quindi le esitazioni sono di tanta parte dei Paesi euro-atlantici. Certo c’è chi è più garibaldino e chi frena di più per ovvi motivi.

Ora è arrivata Gaza…

Che naturalmente ha tolto visibilità comunicativa all’Ucraina. Ma anche se non ci fosse stata Gaza, la fase attuale di stanchezza si sarebbe manifestata ugualmente, anche perché i Paesi hanno finito le scorte. È chiaro che i Paesi occidentali devono tenere duro sul principio che non ci sono cambi di territorio se non concordati tra le parti. Non ci sono perché in quel caso si aprirebbe un vaso di Pandora in tutta Europa, anche a danno dei russi.


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In Cina e Asia – Allerta meteo, 100 feriti sulla metro di Pechino


In Cina e Asia – Allerta meteo, 100 feriti sulla metro di Pechino allerta meteo
I titoli di oggi:

Allerta meteo, 100 feriti sulla metro di Pechino
Xinjiang, critiche al rapporto commissionato da Volkswagen sul lavoro forzato
Italia, Giappone e Regno Unito svi

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Ax-3 di Axiom Space, così l’Italia gioca la carta dell’economia spaziale. Il messaggio di Meloni


Buongiorno a tutti, non potevo far mancare il mio contributo alla presentazione di un progetto alla quale il Governo tiene molto e che rappresenta uno dei tanti tasselli del coinvolgimento del Sistema Italia nella missione Ax-3 di Axiom Space, che sarà la

Buongiorno a tutti,

non potevo far mancare il mio contributo alla presentazione di un progetto alla quale il Governo tiene molto e che rappresenta uno dei tanti tasselli del coinvolgimento del Sistema Italia nella missione Ax-3 di Axiom Space, che sarà lanciata a gennaio 2024 e che porterà gli astronauti a bordo della Stazione Spaziale Internazionale per proseguire la ricerca in microgravità.

È una missione estremamente importante che consentirà all’Italia di rafforzare la sua posizione nell’ambito dell’economia spaziale e delle attività in orbita bassa e permetterà alla nostra comunità scientifica, accademica ed industriale di fare grandi progressi.

È un progetto che coinvolge la Presidenza del Consiglio, più Ministeri, l’Agenzia spaziale italiana, il mondo accademico e la filiera spaziale italiana.

Sarà il colonnello dell’Aeronautica militare, Walter Villadei, che è lì con voi e al quale rivolgo un grande in bocca al lupo, ad essere il nostro portabandiera in questa missione. Ma al colonnello Villadei spetta anche un altro compito: essere Ambasciatore della candidatura della cucina italiana a patrimonio culturale immateriale dell’umanità. L’Italia sarà, infatti, protagonista di questa missione anche con i suoi prodotti di qualità, con il suo cibo, amato e apprezzato in tutto il mondo.

Grazie alla collaborazione con due grandi aziende italiane, come Barilla e Rana, che ringrazio, il colonnello Villadei e tutti gli astronauti gusteranno la cucina italiana sia in orbita sia nel periodo di quarantena che precederà il lancio. Per la prima volta, arriveranno così nello spazio le nostre eccellenze e un prodotto iconico come la pasta. E nello spazio i nostri prodotti saranno utilizzati per la ricerca legata ai bisogni all’alimentazione degli astronauti in condizioni estreme.

Siamo molto orgogliosi di questa iniziativa, esempio concreto di come sia possibile coniugare la nostra tradizione con l’innovazione, l’amore per le proprie radici con il desiderio di andare oltre gli orizzonti conosciuti. E portare quell’identità nel futuro.

Grazie al ministro Lollobrigida, all’Ambasciatrice Zappia, al colonnello Villadei, a tutti coloro che hanno reso possibile questo progetto, che ci unisce tutti nel nome dell’Italia e nell’orgoglio di essere ciò che siamo.


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Sustanalytics – Cop28 e Cina: contraddizioni e novità della diplomazia climatica made in Bejing


Sustanalytics – Cop28 e Cina: contraddizioni e novità della diplomazia climatica made in Bejing cop28 cina clima
Poche variazioni sul tema nel sillabario cinese della diplomazia climatica alla Cop28. Ma tra le novità arriva un nuovo inviato per il clima e uno slancio (all'indietro?) verso il compromesso crescita-sostenibilità. La nuova puntata con la rubrica dedicata ad ambiente, energia e cambiamenti climatici in Asia

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FPF Publishes New Report: A Conversation on Privacy, Safety, and Security in Australia: Themes and Takeaways


On October 27, 2023, the Future of Privacy Forum (“FPF”), in partnership with the UNSW Allens Hub for Technology, Law and Innovation (“Allens Hub”), convened a multidisciplinary meeting of experts on technology, privacy, safety, and security in Sydney, NS

On October 27, 2023, the Future of Privacy Forum (“FPF”), in partnership with the UNSW Allens Hub for Technology, Law and Innovation (“Allens Hub”), convened a multidisciplinary meeting of experts on technology, privacy, safety, and security in Sydney, NSW, Australia to discuss benefits, challenges, and unanswered questions associated with the Australian eSafety Commissioner’s (“eSafety”) forthcoming industry standards for the regulation of certain online content. Today, FPF publishes a report summarizing broad themes and takeaways gleaned from this discussion, “A Conversation on Privacy, Safety, and Security in Australia: Themes and Takeaways.”

Read the Report

Australia’s Online Safety Act of 2021 (“Online Safety Act”) mandates the development of industry codes or standards to provide appropriate community safeguards with respect to certain online content, including child sexual exploitation material, pro-terror material, crime and violence material, and drug-related material. Through September 2023, the eSafety has registered six industry codes that cover: Social Media Services, App Distribution Services, Hosting Services, Internet Carriage Services, Equipment, and Internet Search Engine Services. In May 2023, however, the Commissioner rejected proposed codes for relevant electronic services (“RES”) and designated internet services (“DIS”) on account that they “do[] not provide appropriate community safeguards.” Under the Online Safety Act, the rejection of the RES and DIS codes by the Office of the eSafety Commissioner initiated a process in which the Commissioner drafted industry standards for these sectors. A draft of the industry standards was published on November 20, 2023, and is open for public comment until December 21, 2023.

For purposes of the FPF and meeting, participants were asked to assume the existence of industry standards that satisfies the Online Safety Act’s statutory requirements. As such, the goal was not to solicit arguments about any specific approach, but rather to provide an opportunity for experts to discuss underlying opportunities and challenges in regard to the creation of industry standards, particularly in regard to partially or entirely end-to-end encrypted services. While meeting participants were not in full agreement in regard to any specific point, there were many themes that came up multiple times within the conversation as well as areas of consensus on certain points, including:

  1. Participants agreed broadly on the goals of the e-Safety Act and the mission of the e-Safety Commissioner
  2. Several participants found deficits in the length and scope of the public consultation available throughout the process
  3. Participants identified several potential benefits of an industry code beyond its intended scope
  4. Participants broadly opposed any approach that would require otherwise encrypted messaging services to utilize content hashing and/or client-side scanning
  5. Many participants discussed the need for unique treatment for different types of content based on distinctions in context
  6. Participants flagged previous cases of mission drift in regard to certain legal authorities and warned of similar evolution
  7. Participants flagged an important role for greater education, both for individuals as well as enforcers
  8. Participants supported a broad public dialogue on effective responses and solutions
  9. Participants identified a large number of unanswered questions in regard to the creation, implementation, and enforcement of industry codes that left much uncertainty
  10. Australia has played a leadership role globally on issues related to Online Safety and is likely to continue to do so

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    Paolo Favilli* Il complesso normativo liberista ha come punto di riferimento un complesso teorico.  Siamo portati a pensare che tra tenuta d


Scuola di Liberalismo 2023 – Messina: lezione della prof.ssa Rosa Faraone sul tema “Saggio sui limiti dell’autorità dello Stato”


Quattordicesimo e penultimo appuntamento dell’edizione 2023 della Scuola di Liberalismo di Messina, promossa dalla Fondazione Luigi Einaudi ed organizzata in collaborazione con l’Università degli Studi di Messina e la Fondazione Bonino-Pulejo. Il corso,

Quattordicesimo e penultimo appuntamento dell’edizione 2023 della Scuola di Liberalismo di Messina, promossa dalla Fondazione Luigi Einaudi ed organizzata in collaborazione con l’Università degli Studi di Messina e la Fondazione Bonino-Pulejo. Il corso, giunto alla sua tredicesima edizione, si è articolato in 15 lezioni, che si sono svolte sia in presenza che in modalità telematica, dedicate alle opere degli autori più rappresentativi del pensiero liberale.

La penultima lezione si svolgerà giovedì 14 dicembre, dalle ore 17 alle ore 18.30, presso l’Aula n. 6 del Dipartimento “COSPECS” (ex Magistero) dell’Università di Messina (sito in via Concezione n. 6, Messina); dell’incontro sarà altresì realizzata una diretta streaming sulla piattaforma ZOOM.

La lezione sarà tenuta dalla prof.ssa Rosa Faraone (Ordinaria di Storia della Filosofia Moderna e di Storia della Storiografia filosofica presso l’Università di Messina), che relazionerà sull’opera “Saggio sui limiti dell’autorità dello Stato” di Wilhelm Von Humboldt.

La partecipazione all’incontro è valida ai fini del riconoscimento di 0,25 CFU per gli studenti dell’Università di Messina.

Come da delibera del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Messina e della Commissione “Accreditamento per la formazione” di AIGA, è previsto il riconoscimento di n. 12 crediti formativi ordinari in favore degli avvocati iscritti all’Ordine degli Avvocati di Messina per la partecipazione all’intero corso.

Per ulteriori informazioni riguardanti la Scuola di Liberalismo di Messina, è possibile contattare lo staff organizzativo all’indirizzo mail SDLMESSINA@GMAIL.COM

Pippo Rao, Direttore Generale della Scuola di Liberalismo di Messina

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Le ultime scoperte di Perseverance, che ha superato i mille giorni di permanenza su Marte | AstroSpace

"Di recente, il rover Perseverance della NASA ha superato il mille giorni di permanenza su Marte. Con l’occasione ha anche completato l’esplorazione dell’antico delta del fiume che conserva le prove di un’antico bacino lacustre, che riempiva il cratere Jezero miliardi di anni fa."

astrospace.it/2023/12/14/le-ul…




I piani di Israele a Gaza: guerra intensa fino a fine gennaio e distruzione di Hamas nel 2024


I bombardamenti e le operazioni militari andranno avanti fino a fine gennaio. Saranno poi seguiti dal ritiro della maggioranza delle forze armate. Allo stesso tempo andranno avanti per tutto il 2024 gli attacchi contro Hamas. L'articolo I piani di Israe

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della redazione

Pagine Esteri, 14 dicembre 2023 – Israele presenterà agli Stati Uniti un calendario in più fasi per quanto riguarda la guerra che sta conducendo nella Striscia di Gaza. Lo afferma la tv israeliana Canale 12 che ieri sera ha spiegato che i pesanti bombardamenti e le operazioni militari a Gaza andranno avanti fino a fine gennaio. Saranno poi seguiti dal “ritiro graduale della maggioranza delle forze a Gaza e dal loro dispiegamento sulle linee di difesa, continuando allo stesso tempo ad eliminare Hamas per tutto il 2024″.

La tv ha detto: “La settimana scorsa, Israele è entrato nel terzo mese di guerra e gli Stati Uniti stanno segnalando che il tempo sta per scadere. Il presidente Joe Biden ha persino inviato il suo consigliere per la sicurezza nazionale, Jake Sullivan (in arrivo oggi), in Israele per assicurarsi che il messaggio arrivi e che i piani di Israele siano coerenti con il calendario americano”.

Gli Usa inizialmente volevano che finisse tutto entro Natale (o all’inizio di gennaio), ma alla luce della situazione attuale, Israele non vede la possibilità che ciò accada e chiederà ancora qualche settimana per completare il ritiro delle forze dalle profondità di Gaza e il loro dispiegamento sulle “linee difensive”, alcune all’interno e altre all’esterno del territorio palestinese. Le stime israeliane indicano che questa fase si estenderà approssimativamente fino alla fine del 2024 e includerà la distruzione della capacità militare di Hamas attraverso operazioni specifiche e raid mirati da parte delle forze dell’esercito di occupazione israeliano. Canale 12 ha sottolineato che “Israele si sta muovendo per mantenere il controllo della sicurezza (di Gaza) nel prossimo futuro”.

La giornalista e analista politica Dana Weiss ritiene che “questo sembra essere un calendario realistico, secondo il quale sia Israele che gli Stati Uniti possono raggiungere un accordo. Gli americani comunque attribuiscono grande importanza anche all’aspetto umanitario”.

L’attacco di Israele a Gaza cominciato oltre due mesi fa ha ucciso oltre 18.500 palestinesi, distrutto decine di migliaia di case ed edifici e sfollato 1,9 dei 2,3 milioni di civili che ora vivono ammassati nel settore meridionale della Striscia.

Dana Weiss ha aggiunto che restano i disaccordi tra Tel Aviv e Washington riguardo “il giorno dopo Hamas”. Gli Stati Uniti sembrano preoccupati per la situazione dell’Autorità Palestinese e la mancanza di volontà da parte del governo Netanyahu di trasferire i fondi (ai palestinesi) e di approvare l’ingresso dei lavoratori (palestinesi) in Israele, in contrasto con la posizione dello stesso establishment israeliano della sicurezza”. Pagine Esteri

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In Cina e in Asia – Milioni di cinesi abbandonano il sistema di assicurazione sanitaria nazionale


In Cina e in Asia – Milioni di cinesi abbandonano il sistema di assicurazione sanitaria nazionale 11081920
Milioni di cinesi abbandonano il sistema di assicurazione sanitaria nazionale
Ex funzionario condannato per tangente record da 3 miliardi di yuan
La Cina supera gli Stati Uniti come Paese con più catene di caffetterie
La smart city di Xiong’an avrà un sistema di navigazione per la rete sotterranea
Nuovo rimpasto di governo in Giappone
Thailandia, condannata a 6 anni deputata del Move Forward

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Gcap, si parte. Ecco l’accordo Italia, Uk e Giappone


Italia, Regno Unito e Giappone hanno firmato un trattato internazionale per stabilire un programma aereo da combattimento volto allo sviluppo di un caccia di sesta generazione, il Global Combat Air Programme. L’accordo è stato firmato a Tokyo dai ministri

Italia, Regno Unito e Giappone hanno firmato un trattato internazionale per stabilire un programma aereo da combattimento volto allo sviluppo di un caccia di sesta generazione, il Global Combat Air Programme. L’accordo è stato firmato a Tokyo dai ministri della Difesa dei tre Paesi – l’italiano Guido Crosetto, il britannico Grant Shapps e il giapponese Minoru Kihara. Dovrà ora essere ratificato dai parlamenti dei tre Paesi.

Un anno fa l’annuncio

A dicembre dell’anno scorso i capi dei governi dei tre Paesi – l’italiana Giorgia Meloni, il britannico Rishi Sunak e il giapponese Fumio Kishida – avevano annunciato la fusione tra le ricerche condotte dal Giappone sul jet F-X e da Italia e Regno Unito sul Tempest. Un’intesa che prendeva atto del fatto che “la sicurezza dell’Euro-Atlantico e dell’Indo-Pacifico sono indivisibili”, aveva commentato il primo ministro britannico. Allora i tre governi avevano concordato di sviluppare insieme una piattaforma di combattimento aerea di nuova generazione entro il 2035. Nella nota comune, i capi del governo dei tre Paesi avevano sottolineato in particolare il rispettivo impegno a sostenere l’ordine internazionale libero e aperto basato sulle regole, a difesa della democrazia, per cui è necessario istituire “forti partenariati di difesa e di sicurezza, sostenuti e rafforzati da una capacità di deterrenza credibile”.

I dettagli

Entrambi i quartieri generali del Global Combat Air Program e la sua controparte industriale avranno sede nel Regno Unito. Il primo amministratore delegato dell’organizzazione governativa verrà dal Giappone, mentre il primo leader dell’organizzazione imprenditoriale verrà dall’Italia. Sotto la supervisione dell’organismo di coordinamento, un consorzio formato dall’azienda aerospaziale italiana Leonardo, dalla giapponese Mitsubishi Heavy Industries e dalla britannica Bae Systems Plc punta a completare la progettazione del nuovo velivolo entro il 2027.

Le parole di Crosetto…

“Essere qui oggi rappresenta per l’Italia, e penso per tutti noi, un traguardo molto importante per il programma Gcap, e allo stesso tempo un messaggio fortissimo perché la nostra partnership è un messaggio per il resto del mondo”, ha detto Crosetto all’inizio dell’incontro trilaterale. “Viviamo in un’epoca molto complessa che è caratterizzata dalla presenza di attori aggressivi sul palcoscenico internazionale”, ha continuato il ministro della Difesa. “Una situazione di instabilità crescente, di competizione tra stati e di rapidi cambiamenti tecnologici. Ed è quindi diventato di vitale importanza rimanere un passo avanti rispetto alle minacce che crescono ogni giorno. Le nostre tre nazioni hanno relazioni antiche consolidate, basate sugli stessi valori di democrazia e libertà, rispetto dei diritti umani e lo stato di diritto. Attraverso il Gcap potremmo sviluppare ancora di più i nostri rapporti e rafforzarli nel campo della difesa”, ha concluso. Per il programma la spesa prevista dal Documento programmatico pluriennale della Difesa per il triennio 2023-2025 è passata dai 3,8 miliardi stimati lo scorso anno ai 7,7 riportati nell’ultimo documento diffuso nelle scorse settimane.

… e quelle di Shapps

“Il nostro programma di aerei da combattimento leader a livello mondiale mira a essere cruciale per la sicurezza globale e continuiamo a fare progressi estremamente positivi verso la consegna dei nuovi jet alle nostre rispettive forze aeree”, ha affermato il ministro britannico Shapps. Il jet stealth supersonico sarà dotato di un radar in grado di fornire 10.000 volte più dati rispetto ai sistemi attuali, ha affermato il governo britannico.

Il Gcap

Il progetto del Global combat air programme è destinato a sostituire i circa novanta caccia F-2 giapponesi e gli oltre duecento Eurofighter britannici e italiani, e prevede lo sviluppo di un sistema di combattimento aereo integrato, nel quale la piattaforma principale, l’aereo più propriamente inteso, provvisto di pilota umano, è al centro di una rete di velivoli a pilotaggio remoto con ruoli e compiti diversi, dalla ricognizione, al sostegno al combattimento, controllati dal nodo centrale e inseriti in un ecosistema capace di moltiplicare l’efficacia del sistema stesso. L’intero pacchetto capacitivo è poi inserito all’intero nella dimensione all-domain, in grado, cioè di comunicare efficacemente e in tempo reale con gli altri dispositivi militari di terra, mare, aria, spazio e cyber. Questa integrazione consentirà al jet di essere fin dalla sua concezione progettato per coordinarsi con tutti gli altri assetti militari schierabili, consentendo ai decisori di possedere un’immagine completa e costantemente aggiornata dell’area di operazioni, con un effetto moltiplicatore delle capacità di analisi dello scenario e sulle opzioni decisionali in risposta al mutare degli eventi.

Le altre aziende italiane coinvolte

Nella nota diffusa dopo l’accordo dalla Difesa italiana vengono evidenziati come risultati del programma: il vantaggio operativo per affrontare le sfide poste dai nuovi scenari attraverso lo sviluppo di un sistema di sistemi, una combinazione di velivoli pilotati e senza pilota, altamente connessi con un numero variabile di altri assetti per aumentare le loro capacità; la sovranità tecnologica e industriale; la prosperità. Infatti, livello industriale, in Italia, il programma è guidato da Leonardo It, che si avvale della collaborazione di Mbda It, Elettronica e Avio Aero, con l’obiettivo di instaurare un processo di cooperazione che coinvolgerà, oltre alle aziende leader nel settore, piccole e medie imprese, centri di ricerca e università, “formando così un network di competenze capace di mettere a sistema le eccellenze nazionali attive sia in ambito industriale che accademico”. Il Gcap “realizzerà tecnologie innovative con rilevanti ricadute in termini di occupazione, competenze e know-how per tutto l’eco-sistema industriale nazionale”, conclude la nota.


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Il Niger sceglie Mosca e Pechino e rafforza l’alleanza con Mali e Burkina Faso


La giunta golpista del Niger rompe con la Francia e le Nazioni Unite e stringe accordi economici con la Cina e militari con la Russia. I paesi del Sahel rafforzano l'alleanza sul fronte militare ed economico L'articolo Il Niger sceglie Mosca e Pechino e

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di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 14 dicembre 2023 – Niger, Mali e Burkina Faso, i paesi del Sahel dove negli ultimi tre anni si sono imposte altrettante giunte militari grazie a colpi di stato, sembrano avviati sulla via di una collaborazione sempre più stretta.
Nei mesi scorsi, infatti, i governi militari di Niamey, Bamako e Ouagadougou hanno già firmato un accordo di cooperazione militare dopo aver espulso le truppe francesi da anni presenti sul loro territorio, indebolendo fortemente l’influenza di Parigi nell’area.

L’Alleanza degli Stati del Sahel si rafforza
Il 16 settembre i leader di Mali, Niger e Burkina Faso avevano ufficializzato la nascita dell’Alleanza degli Stati del Sahel (Aes), un’iniziativa di natura diplomatica e militare diretta a «garantire l’indipendenza dei tre paesi nei confronti degli organismi regionali e internazionali».
Se all’inizio l’Aes è nata come un patto di difesa comune, diretta a unire le rispettive risorse militari per combattere i gruppi ribelli e jihadisti attivi nel Sahel – per contrastare i quali i governi precedenti avevano chiesto in passato l’intervento delle truppe francesi e dell’Onu – sembra che ora le tre giunte golpiste puntino ad allargare la cooperazione anche ad altri campi.

Recentemente i rappresentanti dei tre paesi si sono nuovamente incontrati a Bamako e al termine della riunione hanno annunciato la firma di protocolli aggiuntivi, l’istituzione di organismi istituzionali e giuridici dell’Alleanza e la «definizione delle misure politiche e del coordinamento diplomatico». I tre governi hanno affermato di voler rafforzare gli scambi commerciali, realizzare insieme progetti energetici e industriali, creare una banca di investimenti e persino una compagnia aerea comune.

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Il colonnello Yevkurov firma accordi in Niger

Il Niger diventa una potenza petrolifera
Nei giorni scorsi, poi, il generale golpista Omar Abdourahamane Tchiani, salito al potere lo scorso 26 luglio, ha annunciato l’intenzione di avviare con gli altri due paesi una collaborazione di tipo anche politico e monetario. Tchiani ne ha parlato nel corso di un’intervista rilasciata all’emittente nigerina “Rts”, affermando che «oltre al campo della sicurezza, la nostra alleanza deve evolversi nel campo politico e in quello monetario».

Nell’intervista Tchiani ha informato che Niamey intende esportare già a gennaio i primi barili di greggio sfruttando il nuovo oleodotto che collegherà il giacimento nigerino di Agadem al porto di Seme, in Benin. La realizzazione dell’oleodotto, lungo 2000 km e con una capacità di 90 mila barili al giorno, è ormai in fase conclusiva ed è stata avviata a novembre grazie ai finanziamenti di PetroChina. L’infrastruttura permetterà al Nigerdi diventare una piccola potenza petrolifera aggirando almeno in parte le sanzioni imposte al paese dopo la deposizione del governo filoccidentale. Secondo il capo del settore della raffinazione del petrolio, la produzione petrolifera potrebbe generare un «quarto del Prodotto interno lordo del Paese». La Cnpc, un’impresa di proprietà del governo cinese, è inoltre impegnata nello sfruttamento del bacino del Rift di Agadem e nella costruzione del gasdotto Niger-Benin sostenuto con un investimento da 6 miliardi di dollari.

Che l’avvio della cooperazione monetaria vada in porto o meno, i tre paesi sembrano intenzionati a rompere del tutto i legami con la Cedeao – la Comunità Economica dei Paesi dell’Africa occidentale – che dopo i colpi di stato ha sospeso Bamako, Ouagadougou e Niamey dall’alleanza alla quale fino ad un certo punto Parigi chiedeva di intervenire militarmente per ripristinare i governi estromessi prima di decidere il ritiro delle proprie missioni militari dal Niger chiesta a gran voce dai golpisti.

L’annuncio del generale Tchiani è giunto dopo che domenica scorsa i leader dell’organismo regionale hanno deciso di confermare le sanzioni alla giunta golpista del Niger, che si è rifiutata di rilasciare il presidente deposto Mohamed Bazoum in cambio della loro revoca.

La rottura con Parigi e Bruxelles
Sempre la scorsa settimana i governi di Mali e Niger avevano denunciato, tramite un comunicato stampa congiunto, le convenzioni firmate con la Francia dai governi precedenti miranti al superamento della doppia imposizione fiscale e che disciplinano le norme per la tassazione dei redditi e per le successioni. La decisione di abolire le convenzioni in questione entro tre mesi – afferma la nota – risponde al «persistente atteggiamento ostile della Francia» e al «carattere squilibrato» degli accordi in questione che causano «un notevole deficit per il Mali e il Niger». Se effettivamente attuata, la misura avrà serie ripercussioni sia per i privati che per le imprese domiciliate in Francia e che svolgono attività in Mali e in Niger e viceversa.
Nelle settimane scorse, inoltre, la giunta militare del Niger ha già annunciato la cancellazione degli accordi di difesa e sicurezza siglati con l’Unione Europea, diretti a «combattere il terrorismo, la criminalità organizzata e l’immigrazione irregolare».

Già a fine novembre i golpisti avevano abrogato una legge, precedentemente concordata con la Francia e l’Unione Europea, che puniva il «traffico illecito di migranti» e bloccava il loro transito verso la Libia, spiegando che la decisione risponde alla necessità di una «decolonizzazione dall’occidente».

In un comunicato, lo scorso 4 dicembre il ministro degli Esteri di Niamey ha annunciato di voler revocare anche l’accordo stipulato con l’Ue relativo alla missione civile europea denominata Eucap Sahel Niger, attiva dal 2012 e che attualmente conta su 130 gendarmi e agenti di polizia europei, impegnati finora nell’addestramento dei militari nigerini.

Inoltre la giunta nigerina ha comunicato di aver ritirato il consenso al dispiegamento della “Missione di partenariato militare dell’Ue in Niger” (Eumpm), attualmente a guida italiana. Entro la fine di dicembre, inoltre, si concluderà il ritiro dei circa 1500 militari francesi schierati finora nel paese; secondo quanto riferito da fonti militari francesi citate dall’emittente “Rfi”, rimane da evacuare soltanto la base aérea di Niamey, dove restano circa 400 uomini. In Niger per ora rimangono 1100 militari statunitensi e 250 soldati italiani.

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Manifestanti filorussi in Niger

Sempre più vicini a Mosca
Nello stesso giorno dell’annuncio sulla fine della cooperazione con l’UE, a Niamey era giunto in visita il viceministro della Difesa della Federazione Russa, il colonnello Junus-bek Yevkurov, che dopo aver fatto tappa prima in Mali, in Burkina Faso e poi in Libia è stato ricevuto dal generale Tchiani e dal Ministro della Difesa del Niger Salifou Modi con i quali ha siglato un accordo che prevede il rafforzamento della cooperazione militare fra i due paesi.

A Bamako la delegazione russa è stata ricevuta dal capo del “governo di transizione maliano”, il colonnello Assimi Goita. Al termine dei colloqui il ministro dell’Economia e delle Finanze del paese africano, Alousseni Sanou, ha riferito che con i russi si è parlato della costruzione di una rete ferroviaria, di uno stabilimento per la lavorazione dell’oro estratto nelle miniere maliane e di un accordo per la realizzazione di una centrale nucleare. La realizzazione di una centrale nucleare in Burkina Faso è stata invece al centro dei colloqui tra i rappresentanti di Mosca e la giunta di Ouagadougou.

Basta alle missioni Onu
Come se non bastasse, il 2 dicembre il Niger e il Burkina Faso hanno annunciato il proprio ritiro dal gruppo “G5 Sahel”, creato nel 2014 grazie ai finanziamenti dell’Unione Europea per coordinare la lotta contro il terrorismo jihadista. L’anno scorso era stato il Mali ad abbandonare il progetto che coinvolge ora soltanto la Mauritania e il Ciad che però hanno già informato di voler sciogliere il coordinamento ormai privo di senso.

La giunta militare di Bamako, al potere dal 2021, ha invece deciso recentemente di mettere fine a dieci anni di presenza in Mali della Missione militare dell’Onu denominata Minusma, avviata nel 2012 per contrastare l’insurrezione jihadista. L’11 dicembre i vertici della missione internazionale, nel corso di una mesta cerimonia, hanno ammainato la bandiera delle Nazioni Unite dal quartier generale delle truppe dell’Onu. Il ritiro del contingente internazionale dalle 12 basi sparse per il Mali, che ospitavano 12 mila caschi blu e 4300 dipendenti civili, dovrebbe concludersi entro il 31 dicembre proprio mentre le milizie jihadiste intensificano gli attacchi contro l’esercito e conquistano nuovi territori.

I jihadisti avanzano nonostante la Wagner
A fine agosto i miliziano dei “Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani” (Jnim) hanno occupato Timbuctù, infliggendo un duro colpo alle forze fedeli alla giunta militare maliana che, nel tentativo di contrastare l’offensiva jihadista, ha stretto un accordo con le milizie mercenarie russe della Wagner. La decisione ha però scatenato le proteste dei movimenti tuareg che in molte aree costituiscono l’unico baluardo efficace contro i combattenti fondamentalisti. In alcuni territori le milizie tuareg indipendentiste, riunite nel “Coordinamento dei movimenti dell’Azawad”, hanno ingaggiato violenti scontri con l’esercito regolare e i paramilitari della Wagner, che recentemente avrebbe iniziato ad operare utilizzando la denominazione di “Africa Corps”. Secondo molti analisti la compagnia mercenaria, dopo la morte dei suoi vertici in un “incidente aereo” nell’agosto scorso, sarebbe meno autonoma dal governo di Mosca rispetto alla Wagner e dovrebbe limitare le proprie attività proprio al continente africano in stretta sintonia con le esigenze politiche ed economiche del Cremlino. Pagine Esteri

11079572* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.

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Dialoghi – SOS: sfide ed evoluzione della risposta cinese alle emergenze


Dialoghi – SOS: sfide ed evoluzione della risposta cinese alle emergenze emrgenze cina
A vent’anni dall’esplosione della pandemia di Sars in Cina com’è evoluta la strategia della Repubblica popolare per rispondere a catastrofi naturali ed emergenze sanitarie? Dal 2003 sono tanti i tentativi avviati da Pechino per implementare un sistema tempestivo di soccorso. La parola chiave resta la“mobilitazione”. “Dialoghi” è una rubrica in collaborazione tra China Files e l’Istituto Confucio di Milano

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Denuncia GDPR contro X (Twitter) per micro-targeting illegale per gli annunci di controllo della chat X ha permesso il microtargeting politico illegale utilizzato dalla Commissione europea Twitter Political Micro-Targeting


noyb.eu/it/gdpr-complaint-agai…

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in reply to Informa Pirata

Non ne ho idea. Secondo Wikipedia quando è stato introdotto ero poco più che un pargolo, quindi non ho vissuto direttamente quel periodo e mi rifaccio a racconti e testimonianze terze. Si tratta in ogni caso di un precedente e la storia può benissimo ripetersi. Comunque, vedendo l'operato di Meta e l'andazzo generale che queste aziende hanno, me ne tengo volentieri ben alla larga.


“Colpevoli e vincenti”: alla FLE presentato il nuovo libro di Davide Giacalone, con Gelmini e Paita


“Colpevoli e vincenti. Gli occidentali contro se stessi” è il titolo del nuovo libro del direttore de La Ragione, Davide Giacalone. Il volume, edito da Rubbettino, è stato presentato questa sera nell’Aula Malagodi della Fondazione Luigi Einaudi. “Viviamo

“Colpevoli e vincenti. Gli occidentali contro se stessi” è il titolo del nuovo libro del direttore de La Ragione, Davide Giacalone. Il volume, edito da Rubbettino, è stato presentato questa sera nell’Aula Malagodi della Fondazione Luigi Einaudi. “Viviamo nell’area più ricca, libera, sana e longeva del mondo. Eppure non si sente che parlare delle colpe occidentali, del declino, della soccombenza, della debolezza, della povertà”, ha detto Giacalone. “Ma c’è una radice profonda, in quell’antioccidentalismo degli occidentali, e va cercata nella paura della libertà, che comporta sempre una collettiva e personale responsabilità. Molti orfani delle ideologie novecentesche non apprezzano la libertà di sognare e realizzare, ma tremano alla mancanza delle false certezze. Senza le quali si vive assai meglio”.

Dopo i saluti introduttivi del presidente della Fondazione Luigi Einaudi, Giuseppe Benedetto, la senatrice di Azione, Maria Stella Gelmini, e la senatrice di Italia Viva, Raffaella Paita, hanno dato vita a un dibattito sui temi affrontati dal libro, moderate dal vicedirettore del TgLa7, Andrea Pancani.

“Ringrazio la Fondazione Einaudi e Davide Giacalone per questo libro, che ci aiuta molto perché ci dà le ragioni delle conquiste che l’occidente ha conseguito negli anni e prova, forte di questa consapevolezza, ad affrontare le sfide del presente e del futuro”, ha detto Gelmini. “Dobbiamo recuperare l’orgoglio e la consapevolezza di queste conquiste, abbandonare i populismi e riscoprire la complessità. Oggi abbiamo un appuntamento con la storia, a partire dall’Ucraina. Non si possono interrompere gli aiuti, è una battaglia fondamentale che vede di fronte la democrazia contro le autocrazie. Per troppi anni ci siamo occupati solo di politica interna e ora la politica estera ci presenta il conto: l’Ucraina, il Medio Oriente, quello che succede in Iran, tutto si tiene. Dobbiamo ripartire e riscoprire la fatica della democrazia, e dobbiamo farlo attraverso il riformismo. Ristabilire un nuovo patto di fiducia con gli elettori creando uno spartiacque tra riformisti e populisti, ovvero chi banalizza e cavalca soltanto le paure”.

Per Raffaella Paita, quello di Giacalone “è un libro di amore e di speranza verso l’occidente”, oggi però “un grande sistema burocratico si è mangiato questa speranza”. Il problema più profondo che abbiamo”, ha detto, “è quello di essere arrivati ad avere una società con logiche autorefenziali che non riesce a raggiungere i suoi obiettivi di cambiamento. E l’occidente ha rinunciato al suo primato culturale. La cancellazione della cultura è un elemento sul quale dobbiamo discutere e dobbiamo farlo in termini spietati. La sfida più importante che abbiamo davanti è quella di una grande riforma istituzionale dell’Europa, una sfida che dobbiamo legare alla competizione elettorale che avremo tra pochi mesi”.

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Natali


Natale è Natale, non è la “festività di fine anno”. Molti anni prima che a qualcuno venisse la bislacca idea di assegnare a una ricorrenza il malevolo significato di volere discriminare quanti non vi si riconoscono, molto tempo prima che il politicamente

Natale è Natale, non è la “festività di fine anno”. Molti anni prima che a qualcuno venisse la bislacca idea di assegnare a una ricorrenza il malevolo significato di volere discriminare quanti non vi si riconoscono, molto tempo prima che il politicamente sciocco pretendesse i panni del corretto, i cultori della festività religiosa lamentavano la sua desacralizzazione e la sua riduzione a festa dei consumi e dei regali. Agli uni e agli altri vada un mesto pensiero.

Due cose, però, sono giunte a ricordarci che il problema non è archiviato. Due cose accadute in due diversi e lontani palazzi istituzionali. Il presidente francese ha invitato all’Eliseo il rabbino capo di Francia perché colà accendesse la prima luce di Hanukkah, festività ebraica che ricorda la riconsacrazione del Tempio nel II secolo avanti Cristo (taluni pretendono non si scriva neanche «avanti Cristo», discriminatorio). Considerata la stagione che viviamo e il riemergere del ripugnante antisemitismo, ha fatto bene. Hanukkah non è il “Natale ebraico”, ma non è privo di significato che, nel tempo, le principali festività religiose tendono a convergere nei calendari, così come fece il Natale cristiano con le ricorrenze dell’impero romano e pagano. Non di meno ne è nata una polemica, perché in Francia la laicità è consustanziale alla Repubblica e quella luce è stata accesa nel palazzo presidenziale.

A Monfalcone c’è il problema opposto: i musulmani non hanno un luogo dove riunirsi e pregare, non c’è una moschea. Lo hanno fatto all’aperto e sono stati raggiunti da una ordinanza municipale che lo proibisce. Liberi di pregare, ma lo facciano a casa propria, ciascuno per i fatti propri. Significativo che a protestare siano stati non solo i diretti interessati, ma anche i parroci delle vicinanze. Le comunità di fede sono poco frequentate e il problema che avvertono è che siano libere ma anche che attirino i fedeli, non le ordinanze. Da noi la questione dovrebbe essere stata risolta dalla Carta che diede i natali alla Repubblica, che impone di non discriminare per fedi (art. 3) e stabilisce la libertà di culto (art. 19). Ma nulla si risolve una volta per tutte e certe questioni tornano a gola. Lo Stato laico è una conquista della nostra civiltà occidentale e, per noi italiani, una acquisizione assai sofferta, che diede i natali all’Unità stessa d’Italia (Roma divenne capitale anni dopo perché il pontefice la considerava sua e, per ‘liberarla’, si dovette mandare l’esercito). Quei due articoli della Costituzione non sono una graziosa concessione agli ‘altri’, ma una potente affermazione della nostra identità. Violarli o relativizzarli non serve a combattere altre fedi, serve a distruggere noi stessi. Ditegli di smettere.

La laicità non è la cancellazione delle fedi e dei culti, ma la loro convivenza. Il che richiede una impegnativa crescita culturale, perché non subordina la fede ad alcunché ma subordina il culto e i riti al rispetto della legge. Posso pure affiliarmi a un culto che evoca sacrifici umani, ma se provo a praticarli mi mettono – giustamente – in galera. Facciamo un esempio più scomodo: si può ben stabilire che in un culto il sacerdozio sia esclusivamente maschile, ma non si può mai farne discendere, fuori dal rito, una violazione della parità senza distinzione di genere. Lo Stato laico non regola il culto, ma il culto non può negare la laicità dello Stato. Un equilibrio delicato, che può essere messo in pericolo dall’arrivo di genti che non ne hanno vissuto la sostanza fin dalla nascita, meno secolarizzate. Un equilibrio che però non si difende negando quella loro differenza, bensì chiarendo che la legge qui prevale proprio perché non nega. Ecco perché leggi e ordinanze che negassero non sarebbero contro di ‘loro’, ma contro di noi.

Quanti sostengono che non si debba dire “Natale”, in nome della inclusività e del rispetto, non sono la punta avanzata della laicità: sono gli avanzi di un fondamentalismo che ha smarrito i fondamentali.

La Ragione

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Non solo Leopard. Tutte le potenzialità dell’accordo tra Leonardo e Knds


Un’alleanza strategica per la difesa terrestre, in vista dei grandi programmi per i veicoli da combattimento del futuro. Questo il risultato della firma, presso la sede del Segretariato generale della Difesa, dell’intesa per lo sviluppo di una collaborazi

Un’alleanza strategica per la difesa terrestre, in vista dei grandi programmi per i veicoli da combattimento del futuro. Questo il risultato della firma, presso la sede del Segretariato generale della Difesa, dell’intesa per lo sviluppo di una collaborazione industriale tra Leonardo e Knds, il gruppo franco-tedesco che realizza, tra gli altri, gli obici semoventi d’artiglieria PzH 2000 (già in uso presso il nostro Esercito) nonché i carri armati Leopard 2A8 che a partire dal 2024 saranno acquisiti dal nostro Paese per affiancare i carri Ariete modernizzati in versione C2. Proprio sul carro Leopard, Leonardo e Knds hanno stabilito l’implementazione congiunta del programma di approvvigionamento, all’interno del quale le due aziende collaboreranno nello sviluppo, nella costruzione e nella manutenzione del Main battle tank (Mbt) per l’Esercito italiano, oltre che nelle piattaforme di supporto. L’obiettivo dell’accordo è la creazione di un Gruppo di difesa europeo, oltre al rafforzamento della collaborazione nel campo dell’elettronica terrestre.

Verso i carri del futuro

Oltre ai programmi già in corso, l’alleanza strategica tra i due giganti ha come orizzonte la collaborazione sui programmi di sviluppo per i mezzi corazzati del futuro. L’accordo consentirà di implementare programmi di collaborazione tra le nazioni europee attraverso il rafforzamento delle proprie basi industriali e lo sviluppo della futura generazione di piattaforme per veicoli blindati, tra le quali l’Mgcs (Main ground combat system) – progetto franco-tedesco dal quale l’Italia è rimasta finora esclusa – e ha l’obiettivo congiunto di accrescere ulteriormente le capacità di produzione e sviluppo in Italia e di utilizzarle per futuri progetti europei e di export. L’iniziativa si inserisce nella consapevolezza, più volte segnalata anche dai vertici della Difesa, che nessun Paese europeo può farcela da solo quando si tratta di programmi d’armamento di prossima generazione. Il livello tecnologico raggiunto da tutte le piattaforme, tra cui spicca la necessaria digitalizzazione e integrazione dei singoli sistemi all’interno del più grande e complesso scenario multidominio, richiedono infatti lo sforzo congiunto di più Paesi al fine di avere strumenti efficaci e sostenibili. Questa dimensione, inoltre, per quanto riguarda il settore terrestre, non si limita ai soli carri armati, investendo direttamente anche i veicoli blindati per la fanteria, così come i sistemi di difesa contraerea terrestri e le piattaforme elicotteristiche per il supporto alle forze di terra.

Nel solco del Dpp

L’intesa raggiunta tra Leonardo e Knds, inoltre, è pienamente in linea sia con quanto previsto dal Piano di azione recentemente siglato dai governi di Italia e Germania, nel quale la cooperazione in materia di difesa rappresenta uno dei pilastri fondamentali della relazione tra Roma e Berlino, sia con il Documento programmatico della Difesa 2023-2025 presentato dal ministro della Difesa, Guido Crosetto, il quale si concentra soprattutto nel potenziamento della capacità di combattimento pesante dell’Esercito. Quello che emerge dai numeri e dalle impostazioni del Dpp, infatti, è lo sforzo di ammodernamento e potenziamento dello strumento militare, chiamato ad affrontare il ritorno della sfida convenzionale nell’orizzonte delle minacce, e per la quale le Forze armate devono essere messe nelle condizioni di affrontarla. Uno sforzo che segue anni di focus sui conflitti a bassa intensità e operazioni di contro-insorgenza. Tra i principali gap individuati, e da tempo segnalati dall’intero comparto militare, c’è l’adeguamento della componente pesante delle forze di terra in ogni sua parte, che infatti registra la maggior parte dei programmi di previsto avvio (budget complessivo di quattro miliardi e 623 milioni), a cominciare dall’acquisto dei carri armati da battaglia Leopard 2 e dai veicoli da combattimento per la fanteria Aics (Armored infantry combat system), che dovranno sostituire i Dardo. Due programmi che insieme valgono circa dieci miliardi di euro.

Verso un polo terrestre?

Sulle collaborazioni industriali quale strumento per il rafforzamento della difesa europea è intervenuto di recente anche lo stesso ministro della Difesa, che intervenendo al Forum Adnkronos al palazzo dell’Informazione, registrava come proprio nel settore terrestre l’Italia avrebbe potuto giocare un ruolo da protagonista. Crosetto ha infatti sottolineato come tutti i governi abbiano fatto “interventi che consentono all’Italia di avere un potenziale investimento che permette alla nostra industria di consolidarsi e fare alleanze europee”. Proprio riferendosi alla scelta del carro armato tedesco Leopard, il ministro aveva auspicato la “potenziale creazione di un polo terrestre italo-franco- tedesco”. L’accordo siglato da Leonardo e Knds, allora, potrebbe proprio rappresentare il primo significativo passo verso questo scenario.


formiche.net/2023/12/polo-dell…




Apprendiamo con grande tristezza la notizia inaspettata della morte improvvisa di Massimo Scalia, un compagno che ha fatto la storia dell'ambientalismo e dell'e

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GAZA.Ong: 25mila bambini palestinesi sono rimasti orfani. Uccisi 10 soldati israeliani nei combattimenti


Lo riferisce la ong Euro-Med Human Rights Monitor aggiungendo che 640mila minori non hanno più una casa. Israele ha cominciato ad allagare con acqua di mare le gallerie sotterranee che sono usate da Hamas. In pericolo la falda acquifera di Gaza. L'artico

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di Michele Giorgio*

(foto di archivio di DYKT Mohigan da commons.wikimedia.org)

Pagine Esteri, 13 dicembre 2023 – All’ospedale dei Martiri di Al Aqsa, uno dei pochi operativi a Gaza, arrivano sempre tanti bambini. Sono feriti, talvolta gravi. Oltre alle disabilità con cui buona parte di loro dovranno convivere per il resto della vita, quanto stanno soffrendo resterà scolpito dentro di loro per sempre. Tanti dovranno crescere da soli, nel migliore dei casi affidati a qualche parente, più probabilmente a una istituzione. Perché sono orfani, hanno perduto padre, madre e spesso anche fratelli e sorelle. «Di molti bambini che portati qui all’Ospedale dei Martiri di Al Aqsa, non conosciamo i nomi. Scriviamo ‘sconosciuti’ sui loro file finché uno dei loro parenti arriva e li riconosce, ma non avviene sempre», spiega il dottor Younis al-Ajla. Durante i bombardamenti tanti bambini estratti vivi dalle macerie sono stati portati di corsa agli ospedali dai soccorritori e ora è difficile identificarli. I piccoli, perciò, sono soli e in non pochi casi non sanno ancora che la loro famiglia non c’è più.

Secondo un rapporto della ong Euro-Med Human Rights Monitor, con sede in Europa, circa 25.000 bambini di Gaza hanno perduto uno o entrambi i genitori. E 640mila non hanno più una casa. La ong ritiene che il numero totale di bambini e ragazzi morti superi i 10.000 poiché i corpi di tanti minori non sono stati recuperati dalle macerie.

Nel sud di Gaza prosegue la offensiva israeliana nella città di Khan Yunis dove i combattenti di Hamas si oppongono con ogni arma disponibile all’avanzata dei mezzi corazzati causando perdite all’avversario. Ieri 10 soldati israeliani sono stati uccisi martedì nei combattimenti a Gaza, compreso un colonnello che aveva comandato una base della brigata di fanteria Golani. Otto militari sono morti a Shujayieh, a est di Gaza city, dove si sta svolgendo una delle battaglie più aspre da quando Israele ha invaso la Striscia di Gaza. Secondo un resoconto fornito su Telegram da Hamas, i soldati sono caduti in una trappola. I militanti del movimento islamico avrebbero attirato un gruppo di soldati in un punto dove avevano nascosto delle cariche esplosive che ha fatto saltare uccidendone otto e ferendone altri. Da parte israeliana non ci sono conferme.

Israele nel frattempo ha cominciato ad allagare le gallerie sotterranee di Hamas con l’acqua di mare, con l’utilizzo di enormi pompe fatte entrare a Gaza nei giorni scorsi. Con questo ritiene di poter costringere alla resa comandanti e militanti del movimento islamico nascosti sottoterra. E’ però alto il rischio che l’acqua salata comprometta la falda acquifera di Gaza riducendo ulteriormente la disponibilità di acqua potabile per la popolazione civile palestinese.

A Gaza i civili non muoiono solo per i bombardamenti e le cannonate ma anche per mancanza di assistenza medica e per la gravità di ferite che non possono essere curate negli ospedali ancora operativi ma poco attrezzati. Inoltre tra i più penalizzati ci sono gli ammalati oncologici. Ieri su X il capo dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha denunciato che un paziente è morto in ambulanza mentre veniva trasferito a un altro ospedale a causa di lunghi controlli israeliani. L’Oms, ha scritto Ghebreyesus, «è profondamente preoccupata per i controlli prolungati e la detenzione degli operatori sanitari che mettono a rischio la vita di pazienti già fragili. A causa del ritardo un paziente è morto durante il viaggio».

Che la condizione di oltre due milioni di civili palestinesi a Gaza stia peggiorando giorno dopo giorno comincia a comprenderlo anche l’Alto rappresentante europeo per gli Affari Esteri, Josep Borrell. «Avevamo pensato e chiesto al G7 che le attività militari di Israele nel sud di Gaza non seguissero lo stesso schema che hanno seguito nel nord, ma stanno seguendo lo stesso schema, se non peggio», ha detto ieri Borrell che comunque si è guardato dal chiedere, a nome dell’Ue, lo stop immediato all’offensiva militare israeliana che ha già ucciso circa 18.500 palestinesi e ferito altri 50mila secondo gli ultimi dati del ministero della sanità.

A Gaza si moltiplicano i saccheggi dei camion degli aiuti umanitari. La fame dilaga e gli autocarri rischiano di essere bloccati dai civili senza più cibo solo se rallentano a un incrocio, ha avvertito Carl Skau, vicedirettore del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite. «La metà della popolazione muore di fame, nove su dieci non mangiano tutti i giorni», ha avvertito.

Gli Usa in ogni caso continuano a sostenere l’offensiva a Gaza e a fornire a bombe e armi a Israele. Ieri però è apparsa più evidente la frattura tra le intenzioni israeliane e la visione americana del cosiddetto dopo Hamas. Il governo di Benyamin Netanyahu è «il più conservatore nella storia di Israele» e il primo ministro deve «prendere una decisione difficile», ha detto Joe Biden, durante una raccolta fondi a Washington. «Il suo esecutivo non vuole una soluzione a Due Stati, ma deve cambiare il suo approccio in una visione di lungo termine», ha aggiunto. Israele, secondo Biden, sta iniziando a perdere il sostegno della comunità internazionale. Poco prima Netanyahu aveva confermato che Israele e Usa non sono d’accordo sul futuro di Gaza. Ed è tornato ad escludere un ruolo dell’Autorità Nazionale di Abu Mazen che considera alleata dei «terroristi». «Gaza non sarà né Hamastan né Fatahstan», ha detto. Pagine Esteri

Questo articolo è stato redatto anche sulla base di informazioni contenute in un servizio preparato dall’autore per il quotidiano Il Manifesto

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L’Italia fa sistema sull’underwater. Nasce il Polo per la subacquea


Un modello unico, di lavoro sinergico, che mette insieme ministeri, industrie, università ed enti di ricerca sulla nuova dimensione strategica dell’ambiente sottomarino. Così il capo di stato maggiore della Marina militare, l’ammiraglio Enrico Credendino,

Un modello unico, di lavoro sinergico, che mette insieme ministeri, industrie, università ed enti di ricerca sulla nuova dimensione strategica dell’ambiente sottomarino. Così il capo di stato maggiore della Marina militare, l’ammiraglio Enrico Credendino, ha definito il Polo nazionale della dimensione subacquea, inaugurato a La Spezia presso il Centro di supporto e sperimentazione navale della Marina nel corso di una cerimonia che ha visto partecipare i vertici dell’esecutivo interessati alla nuova dimensione, con il ministro della Difesa, Guido Crosetto, e il ministro per le Politiche del mare, Nello Musumeci. La nuova realtà, connotata da una marcata cooperazione tra strutture specialistiche della subacquea, dovrà fungere da incubatore delle tecnologie per la sicurezza del dominio sottomarino con le sue infrastrutture critiche, dalle dorsali dei dati ai gasdotti. Il centro, sotto l’egida della Marina militare, vede la partecipazione anche di Fincantieri e di Leonardo, che tra l’altro a ottobre hanno firmato un’intesa per la cooperazione nel dominio underwater puntando alla creazione di start up dedicate al nuovo dominio, sfruttando anche la vicinanza del Centre for maritime research della Nato. A ottobre 2024, come anticipato dall’ammiraglio Credendino, si terrà a Venezia un simposio internazionale tra le marine di ottanta Paesi dedicato al mondo subacqueo in cui il Polo sarà presentato a livello internazionale dopo un anno di rodaggio.

Il Polo di La Spezia

Come registrato dal ministro Crosetto, “molti interessi vitali del Paese si sviluppano sotto la superficie del mare” e la dimensione subacquea è una “dimensione strategica” nella quale la Difesa vuole svolgere il ruolo di “catalizzatore per riunire competenze e creare sinergie Istituzioni e privato”. Come spiegato dall’inquilino di Palazzo Baracchini, infatti, “comunicazioni internet ed energia passano sui fondali; le terre rare che sfrutteremo in futuro sono sotto il mare e dal mare arriveranno le risorse agricole per sostenere l’umanità nel futuro”. Ecco allora l’importanza di assicurare la difesa di questa dimensione e il ruolo del Polo nazionale, che riunirà “le migliori energie industriali, militari e universitarie italiane per creare un humus che consenta di ottenere risultati ancora migliori rispetto a quelli odierni, che già ci vedono ai primi posti nel mondo”. Un progetto nel quale sia la Difesa sia gli altri ministeri hanno intenzione di investire nei prossimi anni, perché diventi “uno dei pilastri sui quali costruire il futuro tecnologico del nostro Paese e il nostro peso in un ambiente rilevante come quello sottomarino”, ha detto ancora Crosetto. Nell’ottica della Difesa, inoltre, il Polo fa parte di una strategia più ampia che investirà la base di La Spezia. L’arsenale ligure, attivo del 1869, ha visto progressivamente ridimensionare il proprio ruolo operativo a seguito dei cambiamenti negli scenari tecnologici e politici. L’ambizione della Difesa, allora, è quello di costruire qui “l’arsenale del futuro, con un intervento da un miliardo di euro”.

La ricchezza della Blue economy

Come sottolineato dal ministro Musumeci, “la dimensione subacquea deve diventare un’opportunità per l’uomo prima ancora che per la ricchezza di una nazione, e questa sfida si vince soltanto facendo rete”. Il settore stesso, del resto, fa parte di quella cosiddetta Blue economy che, da sola, già vale il 9% del Pil nazionale. Il ministro è anche ritornato sull’importanza del Piano nazionale del mare e del Comitato interministeriale per le politiche del mare. Sul tema, del resto, il ministro era intervenuto anche in occasione dell’evento organizzato da Fincantieri e Formiche, dedicato proprio all’underwater. Nell’occasione, Musumeci aveva registrato come, per far crescere il settore, bisognasse partire dalla “consapevolezza che serve costruire un piano strategico per il futuro, mettendo insieme più dimensioni come, ad esempio, l’uso delle tecnologie spaziali a sostegno delle attività in mare”. Da qui l’importanza dell’approvazione del Piano per il mare, orientato a colmare alcune lacune soprattutto dal punto di vista normativo che regolavano le attività del settore.

L’importanza della sinergia industriale

Il Polo nazionale per la subacquea vedrà soprattutto la cooperazione tra i due grandi campioni industriali nazionali, Fincantieri e Leonardo. Alla base della cooperazione, che a La Spezia vede il suo consolidamento, c’è l’accordo che le due società hanno stretto a ottobre. In quel frangente gli amministratori delegati delle due società, Pierroberto Folgiero e Roberto Cingolani, avevano sottoscritto un memorandum d’intesa il cui obiettivo è quello di mettere insieme le capacità di entrambi e mettere a fattor comune le sinergie delle due società per rafforzare le capacità di ricerca e innovazione nel settore sottomarino. Nello specifico, l’accordo impegna le due società a sviluppare insieme una rete di piattaforme e sistemi di sorveglianza, controllo e protezione delle infrastrutture critiche e aree marittime subacquee, per rispondere alle esigenze indicate a livello nazionale e nell’ambito di iniziative europee. L’accordo, dunque, copre gli ambiti più disparati del nuovo dominio underwater, dalla protezione di reti strategiche sottomarine, cavi, dorsali di comunicazione e infrastrutture offshore, sistemi di allerta da minacce sottomarine, nonché la messa in sicurezza delle attività di prospezione, sea-mining ed estrattive sul fondale del mare per l’accesso a risorse minerarie preziose. In particolare, Leonardo e Fincantieri lavoreranno insieme per sviluppare soluzioni all’avanguardia per i cosiddetti droni sottomarini, e la loro integrazione delle unità navali, che saranno i grandi protagonisti dello spazio sottomarino.


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In Cina e Asia – Xi in Vietnam, è la prima visita in sei anni


In Cina e Asia – Xi in Vietnam, è la prima visita in sei anni xi jinping vietnam
I titoli di oggi:
Xi in Vietnam, prima visita in sei anni
Yoon arriva nei Paesi Bassi. E visiterà nota azienda leader dei chip
Palestina, Wang Yi al ministro iraniano: "Perseguire un cessate il fuoco immediato"
Cina, la Conferenza centrale per l'economia: "Sviluppo è priorità politica"
Malaysia, pronto il nuovo ministero del Digitale

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La "resistenza morbida” di Hong Kong e il caso Agnes Chow


La agnes chow
Citata dalla BBC tra le 100 donne più influenti del 2020, Chow è stata tra i volti delle proteste pro-democrazia. Pochi giorni fa ha annunciato di aver scelto l'esilio in Canada. "Considerata la situazione politica a Hong Kong e la mia salute personale, mentale, fisica, ho deciso di non tornare indietro", ha spiegato su Instagram.

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Precario, malpagato e al di sotto di tutti gli standard Ue: il lavoro in Italia è di bassa qualità | La Notizia

"Un report della Cgil evidenzia come in Italia il lavoro sia di bassa qualità, precario e al di sotto di tutti i Paesi dell'Ue."

lanotiziagiornale.it/precario-…



Weekly Chronicles #58


Affaire RADIOSBORO, nuove rivelazioni e libertari anti-sistema.

Questo è il numero #58 delle Cronache settimanali di Privacy Chronicles, la newsletter che parla di sorveglianza di massa, crypto-anarchia, privacy e sicurezza dei dati.

Nelle Cronache della settimana:

  • Gino Cecchettin e l’Affaire RADIOSBORO
  • Nuove rivelazioni: i governi ci spiano con le notifiche push

Nelle Lettere Libertarie:

  • Klaus Schwab odia i libertari

Rubrica OpSec & OSINT:

  • Così ti hackerano l’automobile

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Gino Cecchettin e l’Affaire RADIOSBORO


Dopo Patrick Zaki, è Gino Cecchettin il beniamino del momento della sinistra “woke” italiana. La tragedia che l’ha colpito è stata usata come forza inerziale per spingere Gino verso la luce del palcoscenico pseudo-politico, con una consacrazione che si è tenuta al tempio di Che Tempo Che Fa, con un rito presieduto dal sacerdote Fabio Fazio.

Gino Cecchettin è però anche stato il protagonista di un particolare hashtag nato in questi giorni su X: #RADIOSBORO.

L’Affaire RADIOSBORO riguarda la diffusione di alcuni contenuti pubblicati negli scorsi anni proprio da Gino sulla piattaforma social. Il tenore dei contenuti è quello tipico del boomer senza filtri, con commenti spinti di vario tipo a diverse donne, post golardici e l’indecifrabile post in cui scrisse semplicemente “radiosboro”, da cui è nato anche l’omonimo hashtag.

Molti “fact checker” in questi giorni hanno sostenuto che l’account fosse falso, ma è evidente che così non è, dato anche il confronto incrociato fatto con altri account social in cui era presente il link allo stesso account X, oltre a diversi dati di localizzazione. Ma non è questo a interessarci.

A interessarci è la reazione scomposta da parte di un ampio gruppo di utenti che hanno condannato aspramente la diffusione sul social dei contenuti scritti da Gino stesso. Bisogna lasciarlo stare, dicono. In altre parole: Gino avrebbe bisogno di un po’ di privacy, che qualcuno definì proprio come il “right to be left alone”.

Le stesse persone però non esitano un momento a chiedere a gran voce, anche politicamente, il divieto di ogni anonimato sui social network. Bisogna prendersi la responsabilità di ciò che si scrive, dicono.

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Questo accade ogni volta che un account pseudoanonimo osi scrivere contenuti contrari alla loro ideologia e pensiero (unico).

Insomma, questi soggetti hanno un rapporto a dir poco contraddittorio con la privacy: la odiano quando serve a tutelare le idee di qualcuno che la pensa diversamente da loro, mentre la chiedono a gran voce per proteggere i loro beniamini.

Se è vero che ognuno dovrebbe essere identificato e responsabile di ciò che scrive, perché mai prendersela con #RADIOSBORO, quando non è stato fatto altro che diffondere post scritti dall’autore? Una contraddizione vivente: non comprendono e non sono in grado di comprendere; solo odiare.


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MeStrazio


Anche solo ripeterlo è diventato un noiosissimo strazio, quindi proviamo a prendere la cosa da un altro punto di vista: pare che nessuno si proponga di votare contro la riforma del Meccanismo europeo di stabilità. Nessuno conduce una battaglia affinché si

Anche solo ripeterlo è diventato un noiosissimo strazio, quindi proviamo a prendere la cosa da un altro punto di vista: pare che nessuno si proponga di votare contro la riforma del Meccanismo europeo di stabilità. Nessuno conduce una battaglia affinché sia apertamente bocciato, mentre le bizze di taluni inducono la maggioranza a scantonare e posticipare quel che un giorno dovrà approvare. Una sontuosa dimostrazione di debolezza politica. Messa in scena nel momento meno opportuno, quello in cui si negozia il Patto di stabilità e crescita. Non è un totem, dice Meloni, ma uno strumento. Giusto, basta non darselo sulle ginocchia e che non sia un totem lo dica ai suoi alleati ideologizzati.

Volere bocciare il Mes e la sua riforma sarebbe legittimo. Io penso l’opposto, ma è evidente che si possono valutare diversamente le cose. Però nessuna forza politica propone di portare quel testo in Aula e votare contro perché dovrebbe prima farsi le boccacce allo specchio.

Il Mes fu negoziato e approvato – nel 2011 – dal governo Berlusconi, poi ratificato con una maggioranza comprendente il centrodestra. Vale a dire quelli che si sono messi a dire che il Mes era il demonio. Il che è falso, ma se fosse vero loro ne sarebbero i responsabili. Mentre l’ultima riforma del Mes, quella che ora va ratificata, è stata negoziata dal governo Conte 1, con il determinante sostegno della Lega. Questi i fatti. Se poi non si è votato per ratificarlo è perché la Lega della stagione putiniana e dell’uscita dall’euro e dall’Europa aveva impresso tale torsione all’intera destra (Meloni compresa) e la sinistra, nel frattempo alleatasi con i pentastellati, era già il regno del tentennare. Poi venne il governo Draghi, ma la ratifica è di competenza parlamentare e il frammischione di propaganda e trasformismo suggerì a ciascuno di evitare il voto. Ed eccoci qui: votare contro il Mes, per la destra, sarebbe votare contro sé stessa, ma votare a favore significa votare contro le bubbole che ha raccontato, quindi preferiscono non votare. Ridicolo.

Lo strazio, a un certo punto, dovrà finire. Se la maggioranza tarderà ancora a votare a favore della ratifica non avrà fatto altro che prolungare lo spettacolo della viltà. Se voterà contro avrà fatto cadere l’impalcatura su cui si regge il governo Meloni. Cosa faranno le opposizioni non è poi così rilevante ma – ove mai intendano fare politica, uscendo dalla seduta di psico-partitismo – farebbero bene ad annunciare (in realtà avrebbero dovuto farlo già mesi addietro): noi voteremo a favore, il governo non corre alcun rischio, se non si arriva al voto è soltanto perché la maggioranza è spaccata. Piuttosto facile ma, appunto, richiederebbe il far politica.

Vabbe’, il MeStrazio finirà. Il suo solo esito è un indebolimento del governo, perché chi non sa come fare quel che sa di dovere fare non consegna di sé un’immagine accattivante e confortante. Suggerimmo di farlo a Ferragosto, ora c’è Natale, poi l’Epifania che tutti i rimpiatti si porta via. Ma il resto rimane.

Il negoziato per la riforma del Patto di stabilità e crescita approderà a un compromesso, non essendo sensato immaginare un ritorno in funzione del vecchio e meschino prolungarne la sospensione. Quale che sia il punto di compromesso, poi conteranno la realtà e la sua misurabilità: il 2024, nel frattempo cominciato, renderà necessario un aggiustamento dei conti, senza il quale il peso percentuale del debito pubblico sul Prodotto interno lordo salirebbe anziché scendere, mentre la crescita economica – senza la quale i conti non si aggiustano mai – richiederà l’accompagnarsi della spesa reale dei soldi Pnrr (in investimenti che comportino sviluppo) alle riforme già concordate e fin qui ferme. Compresa quella che comporta un vigoroso e opportuno contenimento dell’evasione fiscale.

Sono cose non facili e non indolori. Per questo è grottesco incartarsi sul Mes, ovvero sul nulla. Un meccanismo la cui sola novità consiste in un fondo a garanzia degli europei che hanno un conto in banca, cioè quasi tutti. È bello avere un governo con il coraggio di sostenere l’ingresso dell’Ucraina nell’Unione europea, lascia sbalorditi che lo stesso ostacoli il proprio ingresso nella serietà.

La Ragione

L'articolo MeStrazio proviene da Fondazione Luigi Einaudi.



Oggi ricorre l'anniversario della strage di Piazza Fontana che il 12 dicembre 1969 provocò 17 vittime a cui bisogna aggiungere il compagno anarchico Giuseppe P


Stamattina è arrivata una buona notizia dalla Russia. E' stato rilasciato Boris Kagarlitsky, il più noto intellettuale marxista russo arrestato mesi fa per la


Risk Framework for Body-Related Data in Immersive Technologies


Today, the Future of Privacy Forum (FPF) released its Risk Framework for Body-Related Data in Immersive Technologies for organizations to structure the collection, use, and onward transfer of body-related data. Organizations building immersive technologi

Today, the Future of Privacy Forum (FPF) released its Risk Framework for Body-Related Data in Immersive Technologies for organizations to structure the collection, use, and onward transfer of body-related data.

Organizations building immersive technologies like extended reality and virtual worlds often rely on large amounts of data about individuals’ bodies and behaviors. While body-related data allows for new, positive applications in health, education, entertainment, and more, it can also raise privacy and safety risks. FPF’s risk-based framework helps organizations seeking to develop safe, responsible immersive technologies, guiding them through the process of documenting how and why they handle body-related data, complying with applicable laws, evaluating their privacy and safety risks, and implementing best practices.

While the framework is most useful for organizations working on technologies with immersive elements, it is also useful for organizations that handle body-related data in other contexts.

Download the framework

fpf body related data risk framework graphic v2

Stage 1: Understanding How Organizations Handle Personal Data


Understanding your organization’s data practices is the first step toward identifying potential privacy risks, ensuring legal compliance, and implementing relevant best practices to improve privacy and safety. It can also allow organizations to better communicate about those practices. To this end, organizations should:

  1. Create data maps of their data practices, particularly in regard to body-related data types.
  2. Document the purpose of each data practice.
  3. Identify all relevant stakeholders impacted by data practices, including third-party recipients of personal data and data subjects.


fpf data categories graphic 1200x628 v1

Stage 2: Analyzing Relevant Legal Frameworks and Ensuring Compliance


Collecting, using, or transferring body-related data may implicate a number of current and emerging U.S. privacy laws. As such, organizations should:

  1. Understand the individual rights and business obligations that apply under existing comprehensive and sectoral privacy laws.
  2. Analyze how emerging legislation and regulations will impact body-based data practices.


Stage 3: Identifying and Assessing Risks to Individuals, Communities, and Society


Privacy harms may stem from particular types of data being used or handled in particular ways, or transferred to particular parties. In that regard, legal compliance may not be enough to mitigate risks, and organizations should:

1. Proactively identify and minimize the risks their data practices could pose to individuals, communities, and society. Factors that impact the risk of a data practice include:

IdentifiabilityUse for critical decisions
SensitivityPartners and third parties
Potential for inferencesData retention
Data accuracy and biasUser expectations and understanding


2. Assess how fair, ethical, and responsible the organization’s data practices are based on the identified risks.

Stage 4: Implementing Relevant Best Practices


There are a number of legal, technical, and policy safeguards that can help organizations maintain statutory and regulatory compliance, minimize privacy risks, and ensure that immersive technologies are used fairly, ethically, and responsibly. Organizations should:

1. Implement best practices intentionally—adopted with consideration of an organization’s data practices and associated risks; comprehensively—touching all parts of the data lifecycle and addressing all relevant risks; and collaboratively—developed in consultation with multidisciplinary teams within an organization including stakeholders from legal, product, engineering, privacy, and trust and safety. Such practices include:

Data minimizationLocal and on-device processing and storage
Purpose specification and limitationThird party management
Meaningful notice and consentData integrity
User controlsPrivacy-enhancing technologies (PETs)


2. Evaluate best practices in regard to one another, as part of a coherent strategy.

3. Assess best practices on an ongoing basis to ensure they remain effective.


fpf.org/blog/risk-framework-fo…

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Sabino Cassese – Il governo dei giudici


L'articolo Sabino Cassese – Il governo dei giudici proviene da Fondazione Luigi Einaudi. https://www.fondazioneluigieinaudi.it/sabino-cassese-il-governo-dei-giudici/ https://www.fondazioneluigieinaudi.it/feed


Gaza, i bombardamenti cancellano anche millenni di storia della Striscia


Un patrimonio archeologico importante, che solo di recente si iniziava a valorizzare. Impossibile fare stime precise in questa fase, ma di sicuro la moschea Al Omari (VII sec.) non esiste più. Colpita anche la Basilica di San Porfirio, ritenuta una delle

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di Michele Giorgio –

(Questo articolo è stato pubblicato in origine dal quotidiano Il Manifesto).

Pagine Esteri, 12 dicembre 2023. Migliaia di famiglie di Gaza piangono i loro cari uccisi dai bombardamenti degli ultimi due mesi. Con il passare delle settimane però emerge con chiarezza non solo l’enorme costo in vite umane delle bombe sganciate dagli aerei e dell’avanzata dei carri armati israeliani. L’offensiva in corso rischia anche di disintegrare il patrimonio storico-archeologico di Gaza che progetti governativi locali e di ong internazionali avevano contribuito a riportare alla luce in particolare negli ultimi anni. Al momento, per ragioni comprensibili, archeologi e studiosi di Gaza non sono in grado di stimare i danni che hanno subito palazzi storici e siti archeologici. I bombardamenti hanno devastato a Jabaliya la moschea Al Omari del VII secolo, e a Gaza city è stata danneggiata la Basilica di San Porfirio, ritenuta una delle tre chiese più antiche del Medio oriente. Poco si sa dei danni che, alla luce della potenza di fuoco usata contro Gaza, potrebbero aver subito altri siti religiosi e archeologici.

L’ong Heritage for Peace in un rapporto riferisce che le esplosioni hanno causato danni gravi a 104 siti tra cui le moschee Ibn Uthman, risalente al XV secolo, e Sayed Hashem, dove la tradizione popolare vorrebbe sia sepolto il bisnonno di Maometto. Tra le aree colpite c’è Anthedon, il primo porto marittimo di Gaza, abitato dall’800 a.C. al 1100 d.C. che figura tra i tre siti della Striscia nella lista provvisoria del patrimonio mondiale dell’Unesco. Sono stati danneggiati anche progetti recenti come il Gazamap, lanciato nel 2022, che si proponeva di esaminare i siti costieri di Gaza di interesse archeologico che si stanno erodendo rapidamente, con particolare attenzione a Tell Ruqaish, dell’età del ferro nel sud, e Tell es-Sakan, l’area archeologica più grande della Striscia. Poche è noto del nord di Gaza occupato quasi per intero dall’esercito israeliano e dichiarato «zona di combattimento». Impossibile fare delle verifiche. Di sicuro c’è che Gaza può perdere un patrimonio storico e archeologico che gli esperti ritengono significativo e che solo negli ultimi anni era stato scavato e conservato in modo più adeguato.

La storia della Striscia di Gaza va indietro di millenni. È stata sotto il dominio egiziano (XV secolo a.C.), poi filisteo (XII secolo a.C.) e babilonese (intorno al 601 a.C.). Conquistata da Alessandro Magno (332 a.C.) divenne un centro di cultura greca. I Romani se ne impossessarono nel 63 a.C. e ne fecero una città commerciale. Quindi sono arrivati i bizantini, seguiti da varie dinastie islamiche dopo il VII secolo. Infine, Gaza ha fatto parte dei territori Ottomani dal XVI secolo fino all’occupazione britannica nel 1917. Egiziani, persiani, greci, romani, bizantini, arabi, fatimidi, mamelucchi, crociati e ottomani. Un insieme di culture che di recente è venuto in superficie. Il ritrovamento nel 2013 di una stupenda statua in bronzo a grandezza naturale di Apollo, finita nelle reti di un pescatore, è stato un incentivo per le attività di ricerca e scavo nonostante il disinteresse iniziale delle autorità locali. Qualche anno fa l’ong Premiere Urgence, con un gruppo di studenti palestinesi di archeologia ha ridato vita a Deir al Balah al Monastero di Mar Hilarion: conosciuto come Tell Umm Ammer, è uno più antichi e grandi del Medio Oriente, visitato ogni anno da migliaia di giovani di scuole ed università. L’anno scorso un contadino che piantava alberi ha portato alla luce un mosaico bizantino di eccezionale bellezza con uccelli e animali, con colori ancora brillanti. E non si può dimenticare la necropoli romana di 2.000 anni, contenente dozzine di tombe antiche e due rari sarcofagi di piombo, scoperta l’anno scorso durante i lavori di costruzione di un complesso residenziale. «È una zona piccola ma con un patrimonio importante. Quell’eredità rischia di non essere mai conosciuta perché i bombardamenti potrebbero aver distrutto ciò che è sottoterra e quello sopra», avverte Isber Sabrine, presidente di Heritage for Peace.

Mohammad Abulehia, che nel 2016 ha fondato il Museo Al Qarara – accanto a Khan Yunis in questi giorni al centro dell’offensiva israeliana -, in un’intervista ha riferito che l’edificio e la collezione hanno subito danni gravi il 12 ottobre quando un missile ha colpito una casa adiacente. Nel museo a ingresso gratuito, che fungeva anche da centro comunitario, sono contenuti oggetti di epoca bizantina. «Ho fondato il museo per proteggere e preservare il patrimonio culturale di Gaza. Ho raccolto beni minacciati di furto e distruzione e mi sono impegnato nella ricerca, nell’esplorazione e nella documentazione. Tutto ciò che resta della collezione è ora in pericolo a causa degli attacchi in corso. Non c’è posto sicuro a Gaza».

Si teme anche che, approfittando della guerra, i contrabbandieri possano impadronirsi di medaglie, monete e reperti archeologici. Tempo fa uno spettacolare medaglione d’oro raffigurante l’imperatore Diocleziano su un lato e il dio Giove sull’altro, è stato venduto a New York a un offerente anonimo per 2,3 milioni di dollari. Si ritiene che facesse parte di un piccolo tesoro trovato nella Striscia.

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In Ucraina è l’ora delle brutte notizie


La Nato avvisa che dall'Ucraina occorre attendersi brutte notizie. Al fronte i russi avanzano mentre il sostegno di Bruxelles e Washington vacilla e si chiude il rubinetto degli aiuti L'articolo In Ucraina è l’ora delle brutte notizie proviene da Pagine

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di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 7 dicembre 2023 – «Dobbiamo essere preparati anche alle cattive notizie». L’avviso è arrivato nei giorni scorsi dal segretario generale della Nato nel corso di un’intervista alla tv tedesca ARD. Jens Stoltenberg ha ribadito che «dobbiamo stare al fianco dell’Ucraina sia nei momenti buoni sia in quelli cattivi» spiegando che «più sosteniamo l’Ucraina, più velocemente questa guerra finirà», ma le quotazioni di Kiev nel conflitto in corso contro la Russia stanno rapidamente crollando.

“Putin può vincere”
Solo due giorni prima, il settimanale “The Economist” scriveva che «per la prima volta da quando Vladimir Putin ha invaso l’Ucraina sembra che abbia la possibilità di vincere. Il presidente russo ha preparato il suo Paese alla guerra e rafforzato il suo potere. Si è procurato forniture militari all’estero e sta aizzando il sud del mondo contro gli Stati Uniti. Fondamentalmente, sta minando la convinzione in Occidente che l’Ucraina possa emergere dalla guerra come una fiorente democrazia europea».

Lo stesso Volodymyr Zelensky, che pure insiste sul fatto che il conflitto potrà terminare solo con la riconquista ucraina di tutti i territori sottratti dai russi, ha dovuto ammettere che la controffensiva estiva «non è riuscita a produrre i risultati desiderati a causa della persistente carenza di armi e forze di terra». Una dichiarazione che ha fatto arrabbiare il sindaco di Kiev, Vitali Klitschko. In un’intervista l’ex pugile ha accusato il presidente di dare un’immagine euforica della guerra, e ha sottolineato: «La gente si chiede perché non fossimo meglio preparati per questa guerra. Perché Zelensky ha negato fino alla fine che si sarebbe arrivati ad un conflitto (…) Troppe informazioni non corrispondevano alla realtà».

Tutti contro Zelensky
Più la situazione dal punto di vista militare si fa difficile, più a Kiev aumentano le tensioni e le divisioni all’interno dell’establishment, anche in vista di elezioni presidenziali che prima o poi Zelensky, dopo averle sospese, dovrà indire. Il moltiplicarsi delle critiche e degli attacchi espliciti nei confronti del presidente è evidente.

Le polemiche sono esplose quando l’SBU, i servizi di sicurezza di Kiev, hanno impedito al leader del partito “Solidarietà Europea” Petro Poroshenko di lasciare l’Ucraina, nonostante l’esponente politico di opposizione avesse già ottenuto tutte le autorizzazioni. Il motivo è che intendeva incontrare il premier ungherese Viktor Orban, colpevole di aver posto il veto all’ingresso dell’Ucraina nell’Ue e di essere troppo vicino a Mosca. L’ex presidente ucraino avrebbe dovuto partecipare anche al vertice dell’IDU – l’organizzazione che riunisce i partiti di centrodestra occidentali – ed incontrare a Washington i dirigenti repubblicani e democratici; probabilmente Zelensky ha temuto che il miliardario gli rubasse la scena ed ha deciso di bloccarlo, dando però un segnale di debolezza.

Ivanna Klympush-Tsintsadze, che è stata la vice di Petro Poroshenko, ha denunciato la «involuzione autoritaria» in atto nel paese. Klitschko afferma che «Zelensky sta pagando gli errori che ha commesso» e di temere che «ad un certo punto non saremo più diversi dalla Russia, dove tutto dipende dal capriccio di un uomo». Al notiziario svizzero “20 minuten” il sindaco della capitale ha spiegato di sostenere il capo di stato maggiore Valery Zaluzhny, da tempo in contrasto con le alte sfere del governo, perché non avrebbe paura di dire le cose come stanno rispetto all’andamento della guerra. Secondo “Ukrayinska Pravda”, l’ex attore starebbe intanto comunicando con i comandanti militari fedeli tagliando fuori Zaluzhny, nel tentativo di isolarlo.

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Vitali Klitschko e Petro Poroshenko

L’Ucraina ora gioca in difesa
Dal fronte continuano ad arrivare brutte notizie per Zelensky. Le forze russe starebbero continuando ad avanzare, seppur molto lentamente, in alcuni punti del Donbass, con l’obiettivo di conquistare Avdiivka e spingersi fino a Lyman e Kupyansk, per poi occupare Sloviansk e Kramatorsk.
Mosca sta già intensificando gli attacchi contro le infrastrutture energetiche ucraine; la possibilità che milioni di persone passino un nuovo inverno al buio e al freddo, e che calino quindi ulteriormente il morale e la fiducia degli ucraini, è molto concreta e preoccupa non poco Kiev.

Intanto Putin ha ricominciato ad ammassare uomini e mezzi nelle regioni di confine ed ha firmato venerdì scorso un decreto che punta ad aumentare gli effettivi del proprio esercito, tramite arruolamenti più o meno volontari, di 170 mila unità, in maniera da avere più forze a disposizione in vista dello “scongelamento” dei combattimenti in primavera. Probabilmente Mosca non ha fatto ricorso ad un’ulteriore mobilitazione dei riservisti per non aumentare lo scontento nella società russa, dove le opinioni critiche nei confronti dell’avventura militare di Putin in Ucraina sembrano aumentare, almeno stando ad alcuni sondaggi.

Per ora la strategia di Mosca sembra essere quella di reggere un minuto più di Kiev e di non forzare quindi troppo la mano dal punto di vista militare, continuando nel frattempo a premere sull’Ucraina nell’attesa che le difficoltà crescenti spingano Zelensky – o chi lo sostituirà – a negoziare un cessate il fuoco che congelerebbe una situazione favorevole alla Federazione Russa.

Le lamentele e le proteste dei militari ucraini si fanno sempre più forti, e ora le famiglie di molti coscritti bloccati al fronte anche da 650 giorni chiedono una più ampia turnazione tra gli uomini e le donne mobilitate, l’abolizione del servizio militare a tempo indeterminato e l’abbassamento dell’età per essere richiamati.

Per evitare che le forze russe, dopo il disgelo, sfondino le linee di un esercito ucraino sempre più debilitato, Zelensky avrebbe scelto di dare la priorità al rafforzamento e alla fortificazione delle proprie posizioni, copiando di fatto la strategia utilizzata da Mosca per bloccare la controffensiva estiva di Kiev. In attesa delle decisioni dei politici dei due opposti schieramenti, quella in corso potrebbe diventare una logorante guerra di trincea.

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Soldato ucraino ferito

Il sostegno USA vacilla
Altre brutte notizie stanno arrivando a Kiev dai paesi che finora l’hanno sostenuta (se non aizzata) finanziariamente e militarmente contro la Russia e che ora sembrano tirare i remi in barca, alle prese con reali problemi di budget o interessati a congelare lo scontro con Mosca.

La responsabile del bilancio della Casa Bianca, Shalanda Young, ha suonato l’allarme: i fondi stanziati dagli Stati Uniti a sostegno dell’Ucraina potrebbero esaurirsi nel giro di poche settimane a causa della mancata approvazione di nuovi stanziamenti da parte del Congresso americano, bloccato dai Repubblicani di Trump. Young ha rivolto un accorato appello ai congressisti affinché approvino presto un nuovo pacchetto di aiuti finanziari a Kiev, perché altrimenti «l’interruzione del flusso di armi ed equipaggiamenti statunitensi metterà in ginocchio l’Ucraina sul campo di battaglia, mettendo a rischio i successi ottenuti e aumentando la probabilità di vittorie militari russe».

L’esponente dell’amministrazione Biden ha chiarito che gli ultimi stanziamenti «in materia di sicurezza sono già diventati più ridotti e le consegne di aiuti sono diventate più limitate». In cambio dello sblocco dei 106 miliardi di dollari chiesti da Biden per Ucraina e Israele, alcuni senatori repubblicani pretendono l’approvazione di nuove restrizioni all’immigrazione e al diritto di asilo.

La situazione è così incerta che nei giorni scorsi Zelensky ha inviato a Washington il capo del suo staff, Andriy Yermak, il ministro della Difesa e il presidente del parlamento per incontrare personalmente deputati e senatori recalcitranti. L’esito negativo dei colloqui avrebbe però convinto il presidente a rinunciare al previsto video-appello ai legislatori statunitensi. La notte scorsa al Senato i repubblicani (e il democratico di sinistra Bernie Sanders) hanno bloccato l’approvazione di una legge straordinaria che avrebbe stanziato circa 106 miliardi di dollari, di cui 61 di aiuti all’Ucraina e 10 a Israele.

L’UE è divisa
Il problema è che ora anche i rubinetti europei potrebbero chiudersi o comunque farsi più avari. I forti disaccordi tra i paesi dell’Unione Europea potrebbero ritardare o bloccare del tutto il pacchetto di assistenza finanziaria da 50 miliardi promesso da Bruxelles. Nonostante l’impegno dei dirigenti comunitari, poi, la recente decisione della Corte Costituzionale tedesca di limitare l’indebitamento pubblico del paese starebbero complicando il raggiungimento di un accordo con i partner. A bloccare esplicitamente gli aiuti a Kiev c’è il premier ungherese Viktor Orbán, seguito dal nuovo primo ministro slovacco Robert Fico che ha anche sospeso le spedizioni di armi all’Ucraina. Nel frattempo il presidente della Bulgaria, Rumen Radev, ha posto il veto alla fornitura di veicoli blindati all’Ucraina, chiedendo al parlamento di rivedere la legge di ratifica dell’accordo raggiunto con Kiev.

Questo mentre la rivista statunitense “Forbes” ammette che i carri armati “M-1 Abrams” forniti all’Ucraina da Washington non sono adeguati a operare nei terreni fangosi, che rappresentano la normalità sul fronte orientale ucraino durante i mesi invernali e primaverili, a causa dei delicati filtri che impediscono alla turbina del motore di intasarsi. Se non vengono puliti almeno ogni 12 ore, i filtri degli Abrams sono soggetti a gravi danni che possono essere riparati solo in strutture specializzate situate in Polonia. Pagine Esteri

11037012* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.

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