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“Un diritto virtuale? La regolamentazione giuridica del Metaverso”


E’ stato un piacere poter partecipare al convegno “Un diritto virtuale? La regolamentazione giuridica del Metaverso” organizzato oggi presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Giuridiche dell’Università di Messina.


guidoscorza.it/un-diritto-virt…



#NoiSiamoLeScuole questa settimana racconta la Scuola primaria “Padre Pio da Pietrelcina” di Valmontone, a pochi chilometri dalla Capitale.


Godflesh - Purge


Però per chi vuole c'è il sangue che scorre dentro i computer, quella sottile ansia mista a piacere che solo i Godflesh sanno dare. Un disco molto molto importante, ancora più utile in questi nostri tempi, che i Godflesh avevano già abbondantemente descritto. Un grandissimo ritorno per un disco che diventerà fondamentale in una discografia che non ha eguali.
@Musica Agorà iyezine.com/godflesh-purge

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Taiwan, nel G7 studiano altre sanzioni alla Cina: avranno un impatto devastante sull’economia globale


Tuttavia, date le dimensioni e i legami dell’economia cinese, per i governi occidentali sarebbe molto più difficile approvarle rispetto alle punizioni contro Mosca per la guerra contro l'Ucraina. L'articolo Taiwan, nel G7 studiano altre sanzioni alla Cin

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di Michelangelo Cocco*

Pagine Esteri, 7 luglio 2023– Almeno 3.000 miliardi di dollari andrebbero subito in fumo se i paesi del G7 sanzionassero la Cina in caso di crisi su Taiwan. L’economia globale perderebbe una cifra equivalente al Pil del Regno Unito nel 2022. Il dato è al centro di una ricerca congiunta pubblicata da Atlantic Council e Rhodium Group, Sanctioning China in a Taiwan Crisis, Scenarios and Risks. Lo studio del think tank con sede a Washington che si occupa di «stimolare la leadership degli Stati Uniti nel mondo» e del centro di ricerca con focus sul settore privato in Cina muove da un confronto in corso tra policymaker e aziende dei sette paesi pesi più avanzati (ufficialmente non se ne parla all’interno dei governi). Tuttavia queste discussioni rivelano che un’ennesima crisi dello Stretto (sarebbe la quarta, dopo quelle del 1954-55, 1958 e 1995-96) rappresenta uno scenario tutt’altro che fantapolitico.

Secondo il rapporto, il coordinamento costante tra funzionari statunitensi ed europei ha evidenziato che «l’invasione russa dell’Ucraina ha rimodellato i contorni di ciò che era possibile nel regno della politica economica».

Quando parliamo di “crisi” intendiamo non solo uno scontro militare, ma anche altri due scenari, che a Taipei ritengono più probabili: un blocco dell’Isola da parte della marina e dell’aviazione cinese, e/o un grande attacco informatico contro le sue infrastrutture. Entrambi metterebbero in ginocchio l’economia di Taiwan, fortemente dipendente dall’export.

Prima di esaminare i risultati del paper, è importante riflettere sulle sue conclusioni. Secondo Atlantic Council e Rhodium Group, contro queste eventuali mosse di Pechino le contromisure economiche non basterebbero: esse sono «complementari, piuttosto che sostitutive, degli strumenti militari e diplomatici per mantenere la pace e la stabilità nello Stretto di Taiwan». Tuttavia a chi abbia analizzato l’ascesa di Xi Jinping e la riorganizzazione alla quale ha sottoposto negli ultimi dieci anni il partito e l’esercito appare evidente che nella “Nuova era” proclamata dal presidente cinese la questione taiwanese ha assunto una rinnovata centralità. In questo quadro, nessuna pressione militare e diplomatica potranno far recedere Pechino dalla “riunificazione” del territorio che considera una provincia ribelle. Pertanto, ciò che servirebbe con urgenza è una soluzione politica, basata su un nuovo accordo complessivo tra la potenza egemone e quella in ascesa.

Al contrario, si studiano le sanzioni, che colpirebbero tre ambiti principali: le banche (divieto di utilizzare il sistema SWIFT; limitazioni delle transazioni; mercato internazionale precluso ai titoli di debito cinesi); le élite politiche e militari (blocco dei beni e restrizioni ai visti); le compagnie legate all’esercito (restrizioni al commercio e agli investimenti; su obbligazioni e azioni; controlli sull’export).

Tuttavia, date le dimensioni (dieci volte quella russa) e i legami dell’economia cinese, per i governi del G7 sarebbe molto più difficile approvarle rispetto alle punizioni contro Mosca per l’invasione dell’Ucraina. I due think tank evidenziano «gli interessi nazionali differenti, la diversa disponibilità a sopportare le ripercussioni economiche e le sfaccettature uniche delle loro relazioni con Washington». In effetti, se al Congresso Usa è già stato introdotto (il 29 marzo scorso) un progetto di legge ad hoc (lo “STAND with Taiwan Act”) per sanzionare la Cina se «l’Esercito popolare di liberazione avvia un’invasione di Taiwan», il presidente francese, Emmanuel Macron, pochi giorni dopo (il 9 aprile), ha avvertito in un’intervista a Politico che «la cosa peggiore sarebbe pensare che noi europei su questa questione (Taiwan, ndr) dobbiamo seguire l’agenda degli Stati Uniti e una reazione eccessiva cinese». Per Washington Taiwan rappresenta una questione di sicurezza nazionale, per le capitali europee no. Le divergenze politiche riflettono quelle dell’opinione pubblica, con l’83 per cento degli statunitensi che ha un’idea “negativa” della Cina (Pew Research Center, aprile 2023), mentre il 62 per cento degli europei vorrebbe rimanere neurale in caso di conflitto tra Cina e Stati Uniti su Taiwan (European Council on Foreign Relations, giugno 2023).

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Shanghai

Anche se l’ultimo vertice, a Hiroshima, ha ostentato unità sulla Cina, raggiungere un accordo tra i paesi del G7 per applicare eventuali sanzioni contro Pechino richiederebbe tempo e difficili compromessi. Un embargo contro la Cina equivarrebbe secondo alcuni alla “distruzione reciproca assicurata” immaginata in caso di impiego in guerra degli ordigni nucleari. Si tratta certamente di un’iperbole: in realtà quella delle punizioni e delle rappresaglie è una strada che Stati Uniti, Unione Europea e Cina hanno imboccato già da qualche tempo. Con il dialogo politico che si è fatto difficile e intermittente, avanzano le sanzioni. Come, ad esempio, quelle varate il 22 marzo 2021 da Bruxelles (in base al nuovo EU Global Human Rights Sanctions Regime) contro quattro funzionari e un’entità cinese per la repressione dei musulmani nella provincia del Xinjiang, reciprocate il giorno stesso da Pechino – uno scontro che ha contribuito alla sospensione del Comprehensive Agreement on Investiment (Cai) negoziato per sette anni tra la Cina e l’Ue. Oppure le tre compagnie cinesi (di Hong Kong) colpite, per la prima volta, da un pacchetto di sanzioni dell’Ue sulla guerra in Ucraina, l’undicesimo, approvato il 21 giugno scorso (Asia Pacific Links Ltd; Tordan Industry Limited; Alpha Trading Investments Limited) per il loro contributo finanziario o tecnologico allo sforzo bellico russoL’esposizione del sistema finanziario globale nei confronti di quello cinese è relativa soprattutto ai flussi commerciali internazionali: le banche cinesi mantengono conti (in dollari e in euro) presso istituti di credito internazionali per facilitare i pagamenti cross border. Stando così le cose, il G7 avrebbe due opzioni: sanzionare solo alcune banche con legami con il settore militare e tecnologico, senza alcun impatto sostanziale sui flussi finanziari complessivi del paese, oppure colpire le grandi banche di stato, causando i succitati 3.000 miliardi di ammanco al commercio e agli investimenti globali.

Punire alti funzionari del governo e dell’Esercito popolare di liberazione rappresenta invece un’eventualità alla quale i soggetti presi di mira si sono già preparati, rendendo molto complicato identificare i loro patrimoni detenuti all’estero.

C’è infine il controllo sulle esportazioni di componenti chiave, che potrebbe avere anch’esso un effetto boomerang sui paesi del G7. Prendiamo ad esempio il settore aerospaziale, predestinato alle sanzioni in caso di scontro su Taiwan. Sarebbero interessati 2,2 miliardi di dollari di export dei paesi del G7 verso la Cina, la quale potrebbe mettere in campo una rappresaglia da 33 miliardi di dollari, attraverso il blocco dell’acquisto di aerei e componenti dai paesi più avanzati.

Col ricorso sempre maggiore alle sanzioni contro la Cina, il governo di Pechino ha iniziato ad affinare gli strumenti per contrastarle. Anzitutto spingendo i paesi amici a utilizzare la sua divisa, in luogo del dollaro, nei commerci bilaterali. Lo yuan – che rappresenta tuttora una percentuale trascurabile delle riserve valutarie internazionali, il 2,7% – è sempre più utilizzato da paesi come Argentina, Brasile, oltre alla Russia, che hanno firmato con Pechino accordi ad hoc per regolare in yuan i loro commerci con la Cina.

In conseguenza di questo cambiamento, a marzo le banconote con l’effigie di Mao (48,4 per cento) hanno superato il biglietto verde (46,7 per cento), diventando la valuta più utilizzata dalla seconda economia del pianeta nei suoi scambi con l’estero. Non solo, a Pechino ritengono che in futuro lo yuan potrà essere impiegato sempre di più nelle transazioni tra paesi terzi, proprio in risposta a quella che stigmatizzano come l’“utilizzo del dollaro come arma” da parte degli Stati Uniti che i paesi non allineati stanno osservando contro la Russia (espulsa dal sistema interbancario SWIFT) e la Cina.

In secondo luogo Pechino sta spingendo per la promozione a livello globale del CIPS. L’alternativa “made in China” allo SWIFT, lanciata nel 2015 dalla Banca centrale, nel 2022 ha “processato” transazioni pari a 96.700 miliardi di yuan (oltre 14.000 miliardi di dollari) con 1.420 istituzioni finanziarie connesse in 109 paesi e regioni del mondo. Il sud del mondo ha iniziato a vedere sempre più il CIPS come una alternativa al CHIPS (utilizzato per le grandi transazioni, in dollari) proprio in seguito alle sanzioni imposte contro la Russia. Infine, la Cina sta sperimentando anche lo yuan digitale (e-CNY), che l’anno scorso è stato il gettone digitale (token) più utilizzato nelle transazioni internazionali. Pagine Esteri

*Questo articolo è stato pubblicato in origine da Rassegna Cina, del Centro Studi sulla Cina Contemporanea

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In Cina e Asia – Yellen chiede a Pechino riforme economiche


In Cina e Asia – Yellen chiede a Pechino riforme economiche yellen
Yellen chiede riforme economiche
Xi visita il comando militare responsabile per Taiwan
Fukushima: la Cina limita ulteriormente le importazioni dal Giappone
Le fregate russe attraccano a Shanghai
BYD apre stabilimento in Brasile, è il primo fuori dall'Asia
Hong Kong: approvata controversa riforma delle elezioni distrettuali
Funzionari del Tesoro a Hong Kong per fermare il flusso di tecnologia in Russia
Vietnam: l'industria culturale inciampa nel Mar cinese meridionale

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Tra i tagli di Scholz la Difesa fa eccezione. Ecco la proposta tedesca


La Difesa è l’eccezione e non la regola. Questo il risultato del Consiglio dei ministri della Germania, che proprio questa settimana ha approvato una bozza di bilancio per il prossimo anno che prevede una generale riduzione delle spese, ma non per il sett

La Difesa è l’eccezione e non la regola. Questo il risultato del Consiglio dei ministri della Germania, che proprio questa settimana ha approvato una bozza di bilancio per il prossimo anno che prevede una generale riduzione delle spese, ma non per il settore della Difesa.

L’eccezione non fa la regola

Il piano del governo del cancelliere Olaf Scholz prevede infatti una spesa di circa 445,7 miliardi di euro per il 2024, in diminuzione del 7% rispetto ai 476,3 miliardi di euro preventivati per il 2023; a fronte però di una spesa per la Difesa che aumenterà di 1,7 miliardi di euro rispetto a quest’anno, raggiungendo così quota 51,8 miliardi di euro nel 2024. Un dato che, seppur in controtendenza rispetto ai diversi tagli, è inferiore alle aspettative auspicate dal ministro della Difesa, Boris Pistorius, e dall’ambizioso piano dei “100 miliardi” annunciato lo scorso anno per modernizzare la Bundeswehr, l’esercito tedesco con la più grande operazione di riarmo degli ultimi 70 anni di storia tedesca.

Il budget per la Difesa

Alla luce dello scoppio della guerra in Ucraina, Berlino si era detta volenterosa a rivedere la propria filosofia militare per perseguire l’obiettivo di raggiungere la soglia del 2% del Pil da destinare alla Difesa, così come richiesto dalla Nato a partire dal vertice del 2014 in Galles. Un obiettivo ambizioso che la Germania punta a raggiungere entro la fine del decennio. Il prossimo step per stabilire con certezza quanti saranno i fondi da destinare alla Difesa, avverrà a dicembre, quando il Parlamento tedesco sarà chiamato ad approvare la versione finale del bilancio.

La proposta di Berlino

A giugno scorso il Bundesrat aveva dato il via libera definitivo al fondo speciale da 100 miliardi di euro per il potenziamento e la modernizzazione della Bundeswehr, che dalla sua formazione nel 1955 non ha mai subito un rinnovamento di tale portata. Una somma talmente consistente da comportare una modifica stessa della Costituzione. Per anni infatti dopo la fine della Guerra fredda, la Germania era stata nel mirino delle critiche per la sua parsimonia nelle spese militari. Ancor prima della celebre frase dell’ex presidente Usa, Donald Trump, “Angela, devi pagare”. L’obiettivo del 2% fissato dalla Nato, tuttavia, è finora rimasto lettera morta, nonostante dal 2015 – in seguito all’annessione russa della Crimea – la spesa militare tedesca sia aumentata, ma senza però mai superare l’1,5% del Pil. In un’intervista rilasciata a fine gennaio al quotidiano Sueddeutsche zeitung, il ministro Pistorius aveva dichiarato che i 100 miliardi “non sarebbero bastati” ” a raggiungere gli obiettivi per cui è stato istituito a seguito della guerra mossa dalla Russia contro l’Ucraina.


formiche.net/2023/07/tagli-al-…



PRIVACYDAILY


N. 159/2023 LE TRE NEWS DI OGGI: L’Autorità olandese per la protezione dei dati (AP) sta indagando sulla DUO, l’agenzia governativa che attua le disposizioni in materia di istruzione e gestisce le richieste di finanziamento degli studenti. Il motivo è da ricercare nelle notizie riportate dai media circa gli abusi nel controllo delle frodi sugli... Continue reading →


Il Partito della Rifondazione Comunista esprime un plauso per il coraggio della GIP di Roma Emanuela Attura per l'imputazione coatta nei confronti del Sottosegr


La governance aziendale: una nuova sfida tra manager e azionisti attivisti.


La settimana scorsa il mondo delle corporation americane ha vissuto un po’ di turbamento. Infatti, si sono svolte le elezioni per il consiglio di amministrazione di Masimo, una società che produce apparecchi e soluzioni tecnologiche per il settore sanitar

La settimana scorsa il mondo delle corporation americane ha vissuto un po’ di turbamento. Infatti, si sono svolte le elezioni per il consiglio di amministrazione di Masimo, una società che produce apparecchi e soluzioni tecnologiche per il settore sanitario ed ha una capitalizzazione di borsa di 8,5 md di dollari (per dare il senso delle proporzioni, Telecom, Leonardo o Unipol in borsa valgono meno di così).

Ebbene, dopo una lunga battaglia per assicurarsi le deleghe, il fondo attivista Politan ha ottenuto ben 2 dei 5 membri del board. Hanno votato a suo favore la maggioranza dei 20 azionisti più rilevanti di Masimo anche a seguito delle raccomandazioni delle società di consulenza specializzate Institutional Shareholders Services e Glass Lewis.

Il fondo, che detiene il 9% della società, si è avvalso di una recente norma approvata dalla Securities Exchange Commission (SEC, l’autorità dei mercati finanziari statunitense) che consente di votare singoli candidati nel CdA, un po’ come mettere le preferenze alle elezioni politiche.

Questa nuova regola ha molto incoraggiato le iniziative dei soci attivisti che potremmo sinteticamente definire come chi utilizza la sua partecipazione in una società quotata in borsa per esercitare pressioni sul management affinché adotti un determinato approccio. Invero, prendendo come esempio l’elezione di candidati indipendenti e alternativi a quelli della lista di maggioranza o presentata dal consiglio uscente, dall’1 giugno 2022 al 31 maggio di quest’anno essi sono stati ben 88 contro i 77 dell’anno passato.

L’approvazione della norma da parte della SEC aveva peraltro creato numerose preoccupazioni da parte di chi paventava il disturbo nelle assemblee societarie da parte di azionisti poco interessati al buon funzionamento e alla redditività dell’impresa ma a loro particolari fini, sia di lucro che politico-sociali.

Le grandi società quotate hanno pertanto cominciato a cambiare gli statuti per rendere più difficile la vita ai “disturbatori” ma questo non li ha scoraggiati. E, in effetti, gli attivisti raramente sono sognatori che combattono le battaglie per la pace nel mondo o la foca monaca, ma piuttosto fondi pensione, hedge fund, investitori individuali come il famoso Carl Icahn, fondi di investimento o di private equity.

Le risoluzioni che vengono approvate dall’assemblea hanno spesso a che fare con una migliore governance del gruppo, sia a livello assembleare che di consiglio (81% dei casi, secondo la Harvard Law School), compenso degli amministratori (un argomento particolarmente sensibile negli USA dove i CEO sono strapagati rispetto al resto del mondo), contributi politici e solo nel 32% dei casi riguardano il cambiamento climatico.

In Italia il potere dell’assemblea e degli azionisti è lievemente superiore a quello che si registra negli Stati Uniti. Le liste di minoranza sono in vigore da lustri e -salvo alcuni casi particolari- in genere rappresentano “il mercato”, vale a dire gli investitori istituzionali. I soci hanno soglie basse per far inserire argomenti all’ordine del giorno, votano il bilancio, eleggono i sindaci, mentre quelli di minoranza hanno più difficoltà che negli USA per far causa agli amministratori.

La domanda che dobbiamo tuttavia porci è la seguente: la presenza di azionisti attivisti rappresenta un bene o un fardello per le imprese quotate?

Orbene, in questi anni è stata vivace la dialettica tra chi propugna lo shareholder value e la visione contrattualistica della società il cui scopo dovrebbe essere aumentare il benessere degli azionisti e chi invece ritiene che l’impresa debba rispondere anche agli stakeholders (dipendenti, creditori, clienti, comunità locali, fornitori). Ci sono infine i cosiddetti istituzionalisti per i quali l’impresa ha interessi e valori propri che non necessariamente coincidono con quelli dei soci né, d’altra parte, con quelli degli stakeholder.

Ebbene, l’esperienza fin qui fatta sembra dimostrare che quando hanno i giusti strumenti giuridici a disposizione, i soci di minoranza mirano a massimizzare il valore a lungo termine della società. Possono essere molesti o aggressivi o motivati principalmente dal loro self-interest ma, come avrebbe detto Adam Smith, l’azionista “perseguendo il proprio interesse frequentemente promuove quello della società [civile] più efficacemente di quando intende realmente promuoverlo”. Persino quando vengono votate risoluzioni relative ai principi ESG, l’ottica assembleare è che la mancanza di trasparenza da parte della società sui rischi legati al cambiamento climatico o pratiche inadeguate per la salute o sicurezza sul lavoro siano comportamenti pericolosi innanzitutto per il valore e la sostenibilità della società, per lo shareholder value, insomma.

Gli studi più recenti notano un declino della performance societaria immediatamente dopo una campagna di soci attivisti, seguita da una ripresa, specialmente quando si richiede una rappresentanza all’interno dei CdA o il rispetto dei diritti degli azionisti (Barros, Guedes et alii 2023); meno efficaci sono le campagne che cercano di influire su singole operazioni e strategie.

Questa dovrebbe essere la direzione da prendere: laddove una maggiore vigilanza stimola l’efficienza dei manager, pretendere di governare l’impresa al loro posto dall’ assise assembleare è invece illusorio.

L'articolo La governance aziendale: una nuova sfida tra manager e azionisti attivisti. proviene da Fondazione Luigi Einaudi.



Conoscere ADHD


chng.it/RbKy5dqXdH
Conoscere ADHD è importante, in particolare per gli insegnanti, e la sanità pubblica deve essere dalla parte delle famiglie rilasciando le certificazioni in tempi brevi


Riceviamo e chiediamo gentilmente pubblicazione A partire dalle ore 10.30, a Roma, negli spazi del Circolo Arci “Concetto Marchesi” nel Parco Tiburtino I


“Un diritto virtuale? La regolamentazione giuridica del Metaverso”


Il 7 di luglio a partire dalle ore 9.30 avrò il piacere di partecipare, presso l’Aula “O. Buccisano” del Dipartimento di Scienze Politiche e Giuridiche dell’Università di Messina, al convegno “Un diritto virtuale? La regolamentazione giuridica del Metaverso” Qui le informazioni complete unime.it/eventi/convegno-un-di…


guidoscorza.it/un-diritto-virt…



#NotiziePerLaScuola

Pubblicata la ricerca INDIRE su libri di testo e contenuti didattici digitali.

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Presentazione del libro “La nuova disciplina dei contratti pubblici. Commento al D.Lgs. 31 marzo 2023, n. 36″ di Brunella Bruno, Marco Mariani, Emilio Toma


Martedì 11 luglio alle ore 17:30 presso l’AulaMalagodi, la Fondazione Luigi Einaudi vi invita al convegno dal titolo “La nuova disciplina dei contratti pubblici” (Giappichelli editore), a margine del quale verrà presentato il libro “La nuova disciplina de

Martedì 11 luglio alle ore 17:30 presso l’AulaMalagodi, la Fondazione Luigi Einaudi vi invita al convegno dal titolo “La nuova disciplina dei contratti pubblici” (Giappichelli editore), a margine del quale verrà presentato il libro “La nuova disciplina dei contratti pubblici. Commento al D.Lgs. 31 marzo 2023, n. 36″ di Brunella Bruno, Marco Mariani, Emilio Toma

Saluti introduttivi

Giuseppe Benedetto, Presidente della Fondazione Luigi Einaudi

Modera

Marco Mariani, Direttore Affari europei Fondazione Luigi Einaudi

Inverventi

Massimiliano Annetta, Docente di diritto penale

Brunella Bruno, Consigliere di Stato

Emilio Toma, Avvocato amministrativista

Conclusioni

Tommaso Miele, Presidente aggiunto della Corte dei Conti

L'articolo Presentazione del libro “La nuova disciplina dei contratti pubblici. Commento al D.Lgs. 31 marzo 2023, n. 36″ di Brunella Bruno, Marco Mariani, Emilio Toma proviene da Fondazione Luigi Einaudi.



Mazzoni (Prc-S.E.): L’assesora Alfonsi non si presenta. L’amministrazione Capitolina teme le motivazioni limpide e le proposte sostenibili di chi è contrario al mega bruciatore


Open landmark court proceedings up to public debate and participation!


EU lawmakers René Repasi (Socialists and Democrats) and Patrick Breyer (Pirate Party) today submitted amendments to the reform of the EU Court of Justice Statute, aimed at … https://www.patrick-breyer.de/wp-content/uploads/2023/07/CJEU-Statute-AMs.pdf

EU lawmakers René Repasi (Socialists and Democrats) and Patrick Breyer (Pirate Party) today submitted amendments to the reform of the EU Court of Justice Statute, aimed at opening proceedings before the EU’s highest court to more public debate and participation. Specifically the public, civil society and the media would be given a right to access documents, positions and arguments submitted in court proceedings, subject to some exeptions. Civil society organisations would also be allowed to submit „amicus curiae“ comments to the Court in procedures initiated by national courts.

Breyer explains: „In landmark cases with far-reaching implications, the public has a right to know and debate our governments’ and institutions’ positions. In a democracy and where press freedom reigns the powerful can be held accountable. Transparency builds trust in times of the EU and the Court experiencing a crisis of acceptance. In the same vein civil society representing general interests needs to have a say before landmark decisions are made.“

Background:

The European Court on Human Rights already grants public access to documents submitted to the court. Regarding the EU Court of Justice, however, insights can so far only be obtained indirectly by requesting the Commission to grant access to copies of documents it holds, with the Commission being very reluctant to do so.

The EU is currently in the process of revising the EU Court of Justice Statute. The overloaded Court of Justice proposes to delegate some proceedings to the General Court of first instance.

The EU Court of Justice decides on the interpretation and validity of European law, including its compliance with fundamental rights. Landmark court rulings have, for example, concerned communications data retention, upload filters, the right to be forgotten or the purchase of government bonds by the European Central Bank (“euro bailout”).

In light of the increasing non-application of Court of Justice rulings by some national courts for ‘ultra vires’ reasons, Breyer additionally proposes introducing a dialogue between the EU Court of Justice and national courts where needed.


patrick-breyer.de/en/open-land…



I have a plan to fix social media


SALUT DE PARIS. This is Digital Bridge, and I’m Mark Scott, POLITICO’s chief technology correspondent. This week’s newsletter comes from the City of Light, where I’m on a panel this afternoon (4:30 p.m. CET / 10:30 a.m. ET) on the global race to create AI

POLITICO’s weekly transatlantic tech newsletter uncovers the digital relationship between critical power-centers through exclusive insights and breaking news for global technology elites and political influencers.

Digital Bridge

By MARK SCOTT

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SALUT DE PARIS.This is Digital Bridge, and I’m Mark Scott, POLITICO’s chief technology correspondent. This week’s newsletter comes from the City of Light, where I’m on a panel this afternoon (4:30 p.m. CET / 10:30 a.m. ET) on the global race to create AI rules. You can watch along here.

Logistics note: I’m away for the next two weeks, and my POLITICO colleagues will be quarterbacking Digital Bridge. Be gentle with them.

Ready? Let’s do this:

— If we want social media to be more accountable, we first need to create the right tools to know what’s going on.

— The United Nations wants to wade into the thorny issue of artificial intelligence. We should all be very wary.

— Canada is the latest skirmish between platforms and publishers over online content. It won’t be the last.

A ‘CLEARINGHOUSE’ FOR SOCIAL MEDIA


I’M GOING TO CHANNEL MY INNER GEN-Z INFLUENCER and say that everyone needs a side hustle. Mine — since last September — has been as a visiting fellow at Brown University’s Information Futures Lab, where I’ve focused on how to turn Europe’s new online content rulebook into something that people can actually use. Specifically, my research, based on more than 50 interviews with regulators, academics, public health officials and others around the world, relates to how best to give outsiders better access to social media companies’ data for improved transparency, accountability and, inevitably, better policymaking.

But data access is boring, I hear you say. Yes, it is. But what the last seven years, dating back to the 2016 election cycle, clearly demonstrate is that we still have a very blurry understanding of how social media really works. There are limited ways to see what’s happening on these platforms, at scale. To fix that, the European Union wrote mandatory data access provisions into its Digital Services Act — the first, and currently only, legislation to legally force companies like Facebook, Google and TikTok to open themselves up to outside scrutiny. For me, it’s the first step to improving everyone’s social media feeds. You can’t fix what you don’t know, amirite?

What became quickly apparent via my fellowship, though, was the current data access ecosystem is seriously flawed. Regulators — which have their own enforcement powers to review social media data — don’t know where to start. Academics, who currently have the best access to these platforms, often compete with each other for resources and/or are beholden to ad hoc relationships with the companies. Civil society groups either lack the funding to do this work or the technical expertise to do it well. Journalists mostly scramble around in the dark, whipsawing between one-off projects that don’t really move the needle. Platforms themselves struggle with internal power dynamics that have thwarted engagement with outsiders.

What’s needed, then, is a way to do social media data access work at scale and make it available to as many people as possible. That would democratize who can do this by removing barriers that currently stifle accountability; reduce costs as people don’t have to replicate existing data collection practices already carried out by others; and allow better analysis across multiple social media networks (where the real dangers lie) by providing a one-stop-shop for those in need of data access. It goes without saying this work must uphold people’s privacy rights; protest proprietary corporate information; and avoid capture by commercial/government interests seeking to track people online.

So that’s the problem — one that Europe’s new content rulebook (albeit flawed) is uniquely placed to solve. That goes for both those within the 27-country bloc and those elsewhere, given the Digital Services Act’s data access provisions can apply to non-EU groups. The answer, for me, is what I’m calling a “social media clearinghouse,” an underlying digital infrastructure that would bring together platforms’ accessible data into a universal database available to vetted researchers, civil society groups and others. It would take care of the technical layer of this work, so organizations can get on with what they do best: providing a level of accountability and transparency to what happens on social media.

I can already hear you shouting: “You want to create a global database to track everyone’s social media activities? Hard pass.” I get that. The clearinghouse would have to run in conjunction with a strict, independent vetting procedure — one already being created via the European Digital Media Observatory (more on that here) — to limit who can access such infrastructure. This isn’t about creating a global surveillance regime. Think about it more like a CrowdTangle 2.0, a replacement for the cross-platform social media analytics tool owned by Meta that’s indispensable for existing social media accountability work, but which is falling apart, mostly out of neglect.

What my Brown fellowship made clear to me is the current work in this area represents less than the sum of its parts. The limited resources available for social media transparency work is balkanized in a million ways. Brussels has, uniquely, laid out the ability to force greater access to platform data with its new content rulebook, potentially for a global network of organizations. But policymakers have done little, if any, work to turn these rules into a reality for anyone beyond their own enforcement investigatory work.

A social media clearinghouse would fill a much-needed gap by providing the underlying digital data infrastructure to jumpstart a wider array of organizations’ work on unpicking the black box that social media still remains. It’s not going to fix the dumpster fire that parts of this online world have become. But it can provide a universal foundation for what policymakers keep telling me is their goal: to make social media a better experience for all.

THE UNITED NATIONS AND AI


TO MISQUOTE RONALD REAGAN, “The 13 most terrifying words in the English language are: ‘I’m from the United Nations, and I’m here to help (on artificial intelligence).'” Yes, that’s a pretty hamfisted metaphor. But I am incredibly skeptical of any U.N. effort to wade into international digital policymaking. Mostly, that’s because such efforts give authoritarian governments like China, Russia and Saudi Arabia a seat at the table in how things like AI, online content rules and cybersecurity are shaped. Call me an elitist, but let’s work it out between democracies first.

Still, Thursday marks the sixth installment of the U.N.’s AI for Good summit in Geneva. Overseen by the International Telecommunications Union, a Swiss-based UN agency, the two-day gathering is aimed at harnessing the emerging tech to help meet the international organization’s sustainable-development goals. It includes panels on everything from the technical challenges around regulating generative AI to using the technology to fight climate change. Given the summit started years before AI became the over-hyped beast it is today, it would be hard to claim the U.N. is merely jumping on the bandwagon of the latest hot policy area.

“I’m hopeful,” Doreen Bogdan-Martin, the International Telecommunication Union’s American head, told me when I asked her how optimistic she was the U.N. could successfully bash international policymakers’ heads together, given the litany of failed global digital initiatives that pot mark the internet superhighway. “We sort of don’t have a choice. We have to try to make this work.” I’m not sure if the “What else can we do?” argument is a strong one. But Bogdan-Martin is right in that global cooperation on all facets of AI is needed, and needed now.

Luckily, the U.N. isn’t starting from scratch. Back in 2021, UNESCO — another U.N. agency — published its AI Principles, underlying ethics guidelines around things like upholding people’s right to privacy; the proportionate use of AI to carry out specific tasks; and a need for accountability and transparency baked into how these opaque systems are developed. All of UNESCO’s 193 members (but, pointedly, not the United States, which is about to rejoin the group) backed the proposals, including countries like China.

And that’s where things start to fall down. I have my personal views on allowing Beijing to participate in such global digital policymaking fora. But if countries agree to certain underlying AI ethical principles, how do you square that with China’s aggressive roll-out of the technology, especially around its controversial social credit system?

“Well, China signed (the principles),” Gabriela Ramos, UNESCO’s assistant director general for the social and human sciences who helped to negotiate the agency’s recommendations, said when I asked her if China would abide by UNESCO’s AI Principles. “We take it at face value that if countries sign up to the recommendations, we are expecting that they will implement them.”

Again, not exactly the strongest of statements. But Bogdan-Martin, the ITU boss, made it clear the era of self-regulation (looking at you, White House, and your ongoing meetings with industry about such efforts) is over. “Business, alone, can’t be self-regulating,” she said. “There’s a need to have governments engaged. There’s a really important role for the U.N., for academia, and for civil society.” I agree with her that governments need to roll up their sleeves and set some ground rules. I’m just not so sure the U.N. — with the inevitable complex geopolitics that comes with it — is the right place for those discussions to take place.

BY THE NUMBERS

infographic

PLATFORMS VS. PUBLISHERS, CANADA EDITION


TO OVER-GENERALIZE OUR COUSINS FROM THE NORTH, Canadians are typically pretty chilled-out people. So when Justin Trudeau and his officials attack the likes of Meta and Alphabet for threatening to take down news content from their platforms, you know something has gone wrong. This is all in response to local legislation, known as the Online News Act, that will force the tech giants to pay Canadian publishers when their content appears on their sites. The Canadian government estimates it may bolster national media outlets’ coffers, annually, by $250 million by mandating Facebook and Google to negotiate such commercial deals.

This follows separate (successful) efforts in Australiawhere local publishers are now pocketing an estimated $150 a year in similar platform payments. In Europe, national governments are now strong-arming tech companies to similarly hand over blockbuster fees via the bloc’s copyright directive, which allows outlets to charge whenever their content appears on these platforms. (Disclaimer: Axel Springer, POLITICO’s German owner, was a vocal supporter of those provisions.) In California, state lawmakers are considering a similar Canada/Australia-style model.

There’s a lot to be said about the lobbying efforts from cash-poor publishers seeking to tap wealthy platforms for additional revenues when their underlying advertising business is crumbling. But it’s also true tech giants gain massively from media outlets’ content that appears on their sites. Is that dynamic unsustainable? Probably. But it’s worth remembering both sides are hard-nosed lobbyists and the answer, inevitably, is somewhere between publishers charging platforms for their content and tech giants using this material for free.

WONK OF THE WEEK


NOW THE ENFORCEMENT POWERS OF CALIFORNIA’S privacy rules are in place (as of July 1), it’s time to focus on Michael Macko, who was just appointed the first deputy director of enforcement at the California Privacy Protection Agency.

The University of Pennsylvania law school graduate has a mix of public and private sector experience. Most recently, he was a senior lawyer at Amazon, and previously was both an assistant U.S. attorney at the U.S. Department of Justice and a trial attorney at the U.S. Securities and Exchange Commission.

Overnight, Macko will become one of the most powerful privacy enforcers in the U.S. (albeit his work will have to be done in conjunction with the state’s attorney general.) That includes a likely focus on how mobile apps are complying with the Golden State’s de facto national privacy standards, as well as how companies’ use of AI aligns with the new rules.

THEY SAID WHAT, NOW?


“The United States has fulfilled its commitments for implementing the EU-U.S. Data Privacy Framework announced by President Joe Biden and European Commission President Ursula von der Leyen in March 2022,” said Gina Raimondo, the U.S. commerce secretary, after the U.S. Department of Justice approved the surveillance practices of EU member countries and American intelligence agencies updated their own guidelines to comply with a 2020 decision from Europe’s highest court that U.S. data protection safeguards were not sufficient to uphold the bloc’s fundamental privacy rights.

Those steps mark the final stages required by Washington before Brussels approves a transatlantic data-transfer deal, which may come as early as Tuesday or Wednesday next week.

WHAT I’M READING


— The U.S. federal government is already using artificial intelligence in myriad ways. Luckily, the National Artificial Intelligence Initiative Office has brought them all into one place. Take a look here.

The United Kingdom has its own regime to regulate “online safety.” The country’s regulator in charge of these efforts has outlined exactly what its plans are, and over what time period.

— Germany’s federal cartel office won its case against Meta over claims that it abused its dominant position to unfairly favor its own services via the collection of people’s online data. Read the decision here.

A U.S. judge ordered vast parts of the federal government not to meet or coordinate with social media companies over allegations officials and tech executives were censoring or suppressing people’s protected speech online. Read the ruling here.

Meta released Threads, a Twitter alternative, that had already signed up millions of users within its first hours. Unfortunately, it appears you can’t delete your Threads account without also removing your Instagram account. Awkward.

China is moving ahead with its own efforts to regulate generative AI. Yirong Sun and Jingxian Zeng unpick the draft proposals for the Future of Privacy Forum.

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Congiunti


Il modo in cui si discute delle alleanze europee, di come ciascun partito si prepara alle prossime elezioni e di quali congiunti politici si circonda, racconta molto della nostra vita politica. 1. Lo scontro non è tanto fra destra e sinistra, ma fra europ

Il modo in cui si discute delle alleanze europee, di come ciascun partito si prepara alle prossime elezioni e di quali congiunti politici si circonda, racconta molto della nostra vita politica.

1. Lo scontro non è tanto fra destra e sinistra, ma fra europeisti e antieuropeisti. Un gruppo di destra, presieduto da Meloni, si chiama “Conservatori”, ma non è che i popolari siano dei rivoluzionari. Sono anch’essi dei conservatori e fra le loro file ci sono componenti oggettivamente di destra. Il problema è quello di trovare una maggioranza europeista che a sinistra si vorrebbe più marcatamente progressista e a destra più marcatamente conservatrice, ma comunque europeista. Non è che questo escluda l’estrema destra, ma si prende atto che tanto l’estrema destra quanto l’estrema sinistra sono antieuropeiste, sicché nessuna componente politica seria intende allearsi con loro.

2. Tale condizione ricorda che non si può e non si deve procedere come da noi si fa da troppo tempo, ovvero chiamando gli elettori a essere contro gli “altri”, sopportando per ciò stesso congiunti incompatibili. La politica non può essere solo negativa, non può consistere soltanto nella contrapposizione faziosa, perché così procedendo si finisce con lo sfilare sotto bandiere senza contenuto, come gli ignavi nell’Antinferno dantesco. Occorrono anche valori comuni e proposizioni. Quindi la maggioranza deve essere europeista, altrimenti non esiste. Poi si può essere europeisti di destra o di sinistra, ma non si può essere antieuropeisti nella maggioranza europea.

3. E questo ci porta a una delle cose più insopportabili del nostro modo di fare politica: non prendere e non prendersi mai sul serio. Chi propose di uscire dall’euro è antieuropeista. E ce ne sono a destra come a sinistra. Ma non è che prima proponi di uscire dall’euro, poi vai al governo e dici di volere usare tutti gli euro dei finanziamenti europei, perché è roba da biforcuti. Quanti fra i no-euro sostengono oggi di non procedere in coerenza con quel che dissero per “senso di responsabilità” nei confronti degli interessi italiani, stanno chiaramente dicendo d’essere stati degli irresponsabili contro gli interessi italiani. Ed è pure vero. Solo che da noi si pensa che quel che si disse non abbia valore, che il trasformismo rivergini anche i bordelli, mentre fra persone serie si riconosce il diritto di cambiare idea, ma dopo avere avvertito d’essersi sbagliati. Siccome, però, sono gli stessi che oggi impediscono l’ovvia e scontata ratifica della riforma del Meccanismo europeo di stabilità, il messaggio che se ne trae è: non ci siamo sbagliati, eravamo e siamo antieuropeisti, solo lo nascondiamo per potere governare. Brutta roba.

Quindi il problema non è affatto che Forza Italia indichi alla Lega con chi non deve allearsi né che la Lega rivendichi il diritto di fare quel che gli pare, ma che entrambi ammettano che si possa governare in Italia con chi è o comunque è alleato con gli antieuropeisti, continuando a dirsi europeista. E questo è trasformismo, inaffidabilità, furbizia stolta. In ogni caso non è un atteggiamento ammissibile al Parlamento europeo. Tutto qui.

Quel che sarebbe utile, all’intera Ue, è potere andare alle elezioni europee disponendo di liste europee. Non soltanto di affiliazioni nazionali di famiglie europee, ma di liste autenticamente europee. In mancanza di questo ci si riduce alle guerre dialettali, condotte nel girone fuori casa. Il che vale per la destra oggi al governo, ma anche per la sinistra che fu antieuropeista, si convertì all’europeismo per governare e non si capisce più da che parte stia neanche sulla dirimente questione ucraina (se il Pd si allea con chi è contro l’invio di armi si ritrova più anti che europeista). E vale anche per il così detto terzo polo, che sta concorrendo per la conquista della seconda elle: non si tratta di fare i macroniani de’ noantri, ma di presentarsi condividendo idee economiche e istituzionali, non soltanto sperare di superare il quorum.

La Ragione

L'articolo Congiunti proviene da Fondazione Luigi Einaudi.



Beat!


Ecco un altro libro di quelli che suonano - questo però oltre che suonare, urla pure, protesta e soprattutto cerca di difendersi.


Dentro ci sono "quei ragazzi e ragazze che nella metà degli anni Sessanta hanno desiderato la libertà totale al posto dell'ipocrisia e la dignità umana al posto dell'arrivismo". Quelli che hanno anticipato le grandi rivolte del Sessantotto, quelli che "hanno trovato l'anarchia sulla loro strada, spesso senza saperlo, spesso senza alcun filo diretto con quel movimento, pur parlando la stessa lingua senza che alcuno l'abbia insegnata".

iyezine.com/beat



Uccisioni di massa tra i profughi che provano a fuggire dall’Etiopia


I rapporti delle organizzazioni internazionali rivelano l'utilizzo di torture, stupri e lavoro forzato lungo la via che dal Corno d'Africa raggiunge l'Arabia Saudita L'articolo Uccisioni di massa tra i profughi che provano a fuggire dall’Etiopia proviene

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Pagine Esteri, 6 luglio 2023. Un nuovo rapporto del Mixed Migration Center riporta uccisioni di massa, violenze deliberate e assassinii tra i profughi che provano a raggiungere l’Arabia Saudita.

Sono sempre più i migranti che tentano di lasciare il Corno d’Africa intraprendendo un lungo, difficile e pericoloso viaggio attraverso lo Yemen. Per la maggior parte provengono dall’Etiopia, dove due anni di guerra in Tigray hanno causato circa 500.000 vittime, 2 milioni di sfollati interni e una gravissima carestia.

Per fuggire ci si deve affidare a reti di trafficanti che riscuotono il proprio compenso attraverso il lavoro forzato, il traffico di droga e lo sfruttamento sessuale.

Nel mese di ottobre un rapporto dell’ONU ha rivelato che tra il 1° Gennaio e il 30 Aprile 2022 430 persone sono state uccise e 650 ferite lungo il confine tra lo Yemen e l’Arabia Saudita dall’artiglieria e dai fucili delle forze armate saudite. Erano quasi tutti rifugiati, richiedenti asilo che provenivano dall’Africa. Anche le milizie Youthi, secondo i rapporti di Human Rights Watch, si sono macchiate di pesanti crimini.

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La maggior parte delle persone uccise sono uomini ma il numero di donne e bambini massacrati sta crescendo in maniera allarmante: il 30% sono donne e il 7% bambini, secondo i dati ONU. Proprio per le donne il viaggio è particolarmente pericoloso: le testimonianze dei sopravvissuti e le notizie raccolte dalle organizzazioni internazionali, rivelano torture e stupri.

Le guardie di frontiera saudite utilizzano esplosivi pesanti per uccidere deliberatamente e in maniera indiscriminata i richiedenti asilo che si avvicinano al confine. Centri di tortura e detenzione non mancano lungo il percorso e un numero imprecisato di migranti muore di stenti a causa della mancanza di acqua.

L’Arabia Saudita ha rigettato le accuse e si è opposta all’apertura di un’inchiesta, dichiarando che non esistono prove sufficienti. Pagine Esteri

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L'articolo Uccisioni di massa tra i profughi che provano a fuggire dall’Etiopia proviene da Pagine Esteri.



In Cina e in Asia – Piogge torrenziali nel Sud della Cina fanno almeno 15 morti


In Cina e in Asia – Piogge torrenziali nel Sud della Cina fanno almeno 15 morti 8089053
I titoli di oggi: Le piogge torrenziali che hanno colpito il meridione cinese preoccupano Xi La Cina sospende due media online indipendenti Sale il tasso di suicidi dei giovani cinesi Arrestati altri quattro attivisti di Hong Kong La Corea del Sud modifica la legge sulla registrazione delle nascite, ma esclude i bambini stranieri Le piogge torrenziali che hanno colpito il ...

L'articolo In Cina e in Asia – Piogge torrenziali nel Sud della Cina fanno almeno 15 morti proviene da China Files.



PRIVACYDAILY


N. 158/2023 LE TRE NEWS DI OGGI: Mark Zuckerberg di Meta è in rotta di collisione con il governo del Regno Unito per i suoi continui piani di inserire la messaggistica super-sicura in tutte le sue app, nonostante esista una legge che potrebbe di fatto mettere fuori legge questa tecnologia. In tutto il mondo, i... Continue reading →


Salutiamo a pugno chiuso il compagno Marcello Colasurdo, artista che non ha mai smesso di stare dalla parte degli oppressi, degli sfruttati, dei poveri, degli e


Cosa ci guadagna Meta a "entrare nel Fediverso"? Nulla di economicamente rilevante, almeno nell'immediato. Il progetto è "soltanto" di natura strategica

@Che succede nel Fediverso?

Riportiamo per intero la nostra risposta a un thread comparso su feddit.it e in particolare all'osservazione di @Darjuz (È un’azienda è ovvio che cerca di inserirsi in un ambito che le sembra promettente per farsi i soldi…)

Non saprei. Il Fediverso non è facilmente monetizzabile e quella che sta facendo Meta non è un’operazione ad alto rendimento sebbene sia sicuramente un’operazione a bassissimo costo.

Quello che Facebook non può sopportare è il fatto che gli utenti socializzino al di fuori del suo giardino recintato, in cui le persone sono costrette a consumare nel baretto aziendale! Per il momento sono pochi utenti, ma la minaccia può essere devastante sul lungo termine.

Ora, in qualsiasi azienda, se esiste un rischio esistenziale, si cerca di di battersi fino in fondo per eliminarlo o mitigarne gli effetti. Come ultima soluzione ci si può assicurare contro quel rischio.

Siamo arrivati al nocciolo della questione: questa iniziativa di Meta, non è altro che un piccolo costo assicurativo.

Come funziona questa assicurazione? Mi sembra abbastanza chiaro: Meta si trova a muovere truppe in un terreno sconosciuto per portare, come direbbe un’altra simpatica realtà che abbiamo imparato a conoscere meglio in quest’ultimo anno e mezzo, un’operazione speciale per degratuitizzare il Fediverso.

Questa operazione presenta una grandissima possibilità di successo, considerando l’immensa sproporzione a favore di Meta. Inoltre, sempre per riprendere la metafora Ucraina, Zuckerberg confida nell’avidità di alcuni importanti amministratori di istanza: «questi amministratori hanno concentrato sulle proprie istanze la maggior parte degli utenti del Fediverso, quindi parlano la mia stessa lingua e quindi saranno alleati della mia impresa contro il temibile spettro della gratuità. Basterà far avere loro quattro spicci e un piatto di lenticchie»

Funzionerà questa strategia? Ci sono molti elementi che suggeriscono di sì. Esattamente come la Russia aveva sufficienti elementi per immaginare una conquista dell’Ucraina in tempi piuttosto rapidi, perché « Noi siamo una superpotenza e tutti i russofoni d’Ucraina ci saluteranno come liberatori e imbraceranno le armi contro il loro governo antirusso»

Naturalmente, Questa è l’unica cosa che insegni la storia, anche i piani ben studiati non per questo si concretizzano…

Ecco perché è importante dare seguito alla proposta di defederazione delle istanze di Zuckerberg: Il motivo è che non bisogna mai dare nulla per scontato!

PS: riportiamo anche le osservazioni completamente diverse di @Uriel Fanelli (no, molto probabilmente non lo troverete perché avrà bloccato voi o la vostra istanza... 🙃) che prevede la volontaria non federazione da parte di Meta.

Immagine ripresa dall'articolo di Pradeep Viswanathan su Big Tech Wire



è ovvio che cerca di inserirsi in un ambito che le sembra promettente per farsi i soldi


Non saprei. Il Fediverso non è facilmente monetizzabile e quella che sta facendo Meta non è un'operazione ad alto rendimento sebbene sia sicuramente un'operazione a bassissimo costo.

Quello che Facebook non può sopportare è il fatto che gli utenti socializzino al di fuori del suo giardino recintato, in cui le persone sono costrette a consumare nel baretto aziendale! Per il momento sono pochi utenti, ma la minaccia può essere devastante sul lungo termine.

Ora, in qualsiasi azienda, se esiste un rischio esistenziale, si cerca di di battersi fino in fondo per eliminarlo o mitigarne gli effetti. Come ultima soluzione ci si può assicurare contro quel rischio.

Siamo arrivati al nocciolo della questione: questa iniziativa di Meta, non è altro che un piccolo costo assicurativo.

Come funziona questa assicurazione? Mi sembra abbastanza chiaro: Meta si trova a muovere truppe in un terreno sconosciuto per portare, come direbbe un'altra simpatica realtà che abbiamo imparato a conoscere meglio in quest'ultimo anno e mezzo, un'operazione speciale per degratuitizzare il Fediverso.

Questa operazione presenta una grandissima possibilità di successo, considerando l'immensa sproporzione a favore di Meta. Inoltre, sempre per riprendere la metafora Ucraina, Zuckerberg confida nell'avidità di alcuni importanti amministratori di istanza: «questi amministratori hanno concentrato sulle proprie istanze la maggior parte degli utenti del Fediverso, quindi parlano la mia stessa lingua e quindi saranno alleati della mia impresa contro il temibile spettro della gratuità. Basterà far avere loro quattro spicci e un piatto di lenticchie»

Funzionerà questa strategia? Ci sono molti elementi che suggeriscono di sì. Esattamente come la Russia aveva sufficienti elementi per immaginare una conquista dell'Ucraina in tempi piuttosto rapidi, perché « Noi siamo una superpotenza e tutti i russofoni d'Ucraina ci saluteranno come liberatori e imbraceranno le armi contro il loro governo antirusso»

Naturalmente, Questa è l'unica cosa che insegni la storia, anche i piani ben studiati non per questo si concretizzano...

Ecco perché è importante dare seguito alla proposta di defederazione delle istanze di Zuckerberg: Il motivo è che non bisogna mai dare nulla per scontato!


in reply to La Scimmia di Mare

Se hai però tutte le impostazioni buone e corrette (DMARC e compagnia) non esiste per ora questo problema in realtà. Uso un dominio personale su Proton da tempo e non è mai finito in spam da nessuna parte, nemmeno da Google.
Questa voce è stata modificata (2 anni fa)
in reply to skariko

Io ho avuto esperienza opposta, ma confesso in pochi casi (e per poco tempo)


“Privacy a 5 anni dall’entrata in vigore del GDPR, la tutela dei dati personali da Occidente ad oriente”


E’ stato un piacere partecipare all’incontro dedicato ai 5 anni dall’entrata in vigore del GDPR e alla tutela dei dati personali da Occidente ad Oriente


guidoscorza.it/privacy-a-5-ann…



I tre giorni di attacco dell'esercito israeliano a Jenin, con 12 morti e migliaia di palestinesi cacciati dalle loro case, sono l'ennesimo atto di terrorismo da


Europee, la differenza la retorica e la realtà


Nel garbuglio delle dichiarazioni più o meno conflittuali dei leader del centrodestra in vista delle prossime elezioni europee si intravedono almeno due bluff. Il primo è quello di Matteo Salvini. Il leader leghista cerca come meglio può di erodere i cons

Nel garbuglio delle dichiarazioni più o meno conflittuali dei leader del centrodestra in vista delle prossime elezioni europee si intravedono almeno due bluff. Il primo è quello di Matteo Salvini.

Il leader leghista cerca come meglio può di erodere i consensi di Giorgia Meloni e per farlo dà libero sfogo a quel sentimento antieuropeista che fino alle scorse Politiche caratterizzava anche Fratelli d’Italia. È una strategia spregiudicata, che compromette l’immagine dell’Italia come Paese affidabile agli occhi delle istituzioni europee e dei mercati finanziari. Ma quando Salvini invoca una maggioranza organica di centrodestra in Europa analoga a quella che governa l’Italia sa di chiedere l’impossibile. Così come i gollisti francesi non concepiscono alcun accordo politico con il Fronte nazionale di Marine Le Pen, i Cristiano democratici tedeschi non lo concepiscono con i neonazisti di Alternativa per la Germania (AfD). Nel negare tale prospettiva (“con Salvini è senz’altro possibile un’alleanza in Europa, il problema sono a AfD e Le Pen, che sono antieuropeisti”) Antonio Tajani ha dunque detto quel che tutti sanno. Anche Salvini. Il quale si arrocca di conseguenza nel gruppo europeo di Identità e democrazia assieme a Le Pen e AfD senza avere alcuna concreta possibilità di uscirne. Un bluff ai limiti del masochismo politico.

Ma è, tutto sommato, un bluff anche quello di Giorgia Meloni, che teorizza un’alleanza tra il Ppe e i Conservatori fingendo di non sapere che ad oggi tale alleanza non avrebbe i numeri per costituire una maggioranza all’Europarlamento. Come ha ricordato Giovanni Orsina sulla Stampa, a Bruxelles la maggioranza necessaria per eleggere il presidente della Commissione conta infatti 353 europarlamentari, ma per una navigazione politica vagamente serena ne occorrerebbero 400. Se il prossimo anno gli attuali sondaggi verranno confermati dal voto dei cittadini, i Conservatori saranno 83: troppo pochi per dar vita ad un’alleanza di governo con i soli popolari (la somma dei due partiti darebbe 248 parlamentari) senza Identità e democrazia. Ad oggi, pertanto, una coalizione su modello di quella che nel 2019 elesse Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione europea appare l’unica prospettiva realistica, dal momento che i socialisti vengono accreditati dai sondaggi di ben 142 parlamentari.

È dunque cominciata la campagna elettorale per le europee. È cominciata con due bluff e con un conflitto interno alla maggioranza che può forse fare l’interesse di questo o quel leader, ma che ci certo non fa l’interesse dell’Italia.

L'articolo Europee, la differenza la retorica e la realtà proviene da Fondazione Luigi Einaudi.



Bisogna aumentare la produzione di munizioni. Il punto del gen. Portolano


L’attuale modello produttivo del munizionamento può sembrare vantaggioso in tempo di pace, ma espone i suoi limiti in situazioni di crisi, quando la domanda aumenta in maniera inaspettata. È questo il nodo centrale espresso dal segretario generale della D

L’attuale modello produttivo del munizionamento può sembrare vantaggioso in tempo di pace, ma espone i suoi limiti in situazioni di crisi, quando la domanda aumenta in maniera inaspettata. È questo il nodo centrale espresso dal segretario generale della Difesa e direttore nazionale degli armamenti, generale Luciano Portolano, in audizione davanti alla commissione Esteri e Difesa del Senato, nell’ambito dell’analisi sulla legge a sostegno della produzione di munizioni. “Nel settore della produzione di armamenti abbiamo assistito a un cambiamento da un’economia strategica ad un’economia di mercato” ha detto il generale, sottolineando come tale approccio abbia “condotto a un sistema economico sempre più interconnesso che ha portato negli anni a preferire dinamiche di delocalizzazione e frammentazione dei processi produttivi con la conseguente perdita di alcune capacità produttive essenziali”.

L’efficienza nella produzione in tempo di crisi

In particolare, si è affermato secondo Portolano un modello di supply chain definito just in time “in cui la produzione è perfettamente allineata alla domanda e non si prevedono scorte di magazzino”. Tale modello just in time ha prodotto due effetti, secondo Portolano: “ha intaccato la sovranità tecnologica e l’autonomia strategica dei Paesi europei” dipendenti dall’estero per le materie prime, semilavorati e sottocomponenti. Tutto ciò “ha ridotto la flessibilità di adeguamento della produzione in caso di aumento inatteso della domanda”, una soluzione economicamente valida se in pace, ma assolutamente inadatta di fronte alle crisi.

Le lezioni ucraine

Ovviamente, la guerra in Ucraina è un momento di crisi per l’intero Occidente. Alla guerra scatenata dal Cremlino, l’Europa ha risposto supportando Kiev “attingendo alle proprie scorte di armamenti e munizioni”, che tuttavia “si stanno dimostrando non adeguate a sostenere lo sforzo ucraino intenso e prolungato”. Di fronte a questa realizzazione i Paesi hanno cercato di aumentare la produzione, ma il tentativo ha fatto emergere ulteriori due aspetti: “il sottodimensionamento della capacità produttiva, tarata per sostenere la domanda tipica del tempo di pace, e la presenza di numerose vulnerabilità nella catena di approvvigionamento”. Ci troviamo, per il generale, nel paradosso per cui l’Occidente “sta supportando un Paese in guerra con una logica del tempo di pace”, una sfida “a cui non eravamo preparati”.

Gli opifici nazionali

Per il generale, l’obbiettivo è chiaro, incrementare la produzione: “La necessità del ramp up si applica allo stesso modo sia alla produzione di munizioni e missili sia a quella di nuovi sistemi d’arma”, con un focus speciale, dettato dall’urgenza, sulle munizioni, “perché se non saremo in grado di assicurare un adeguato livello di disponibilità in tempi rapidi potremmo mettere a rischio la possibilità di successo dello sforzo ucraino”. Senza le munizioni, infatti, anche i sistemi più all’avanguardia non funzionano. La soluzione? Per il generale è investire “sugli opifici nazionali, anche beneficiando dei finanziamenti dell’Ue” un modo per dare più flessibilità al sistema, conferendo “maggiore autonomia nella gestione dei processi produttivi, garantendo flessibilità al sistema di difesa nazionale, che acquisirebbe la capacità di modulare la produzione in funzione delle esigenze” oltre ad assicurare una maggiore “indipendenza da attori esterni, autonomia strategica e resilienza nazionale”.


formiche.net/2023/07/produzion…



Threads e il Fediverso. Alcune considerazioni sul nuovo social di Meta e la federazione con le altre istanze ActivityPub

@Che succede nel Fediverso?

C'e' una certa eccitazione nel Fediverso (o "Mastodon" per i cefalopodi) per via della notizia che "Threads" abbia un'interfaccia ActivityPub, ovvero sarebbe capace di federarsi con il Fediverso, cioe' con qualsiasi altra cosa parli ActivityPub. Ci sono gia' le petizioni dei sysadmin , che rifiutano a priori di federarsi. E che a mio avviso sono tempo perso.

Ci sono molte ragioni per cui lo dico.

Krusty doesn't like this.

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in reply to Poliverso - notizie dal Fediverso ⁂

Tagliamo i ponti. Chiunque deve avere 10 30 50 milioni di coscritti per sentirsi a suo agio in una comunità può farsi un secondo account e provarselo da lì. E da pazzi dare accesso ad una comunità indipendente al MAGNAte di Facebook. Tanto valeva restare su Twitter.
Questa voce è stata modificata (2 anni fa)


Etiopia, situazione fuori controllo nel campo per sfollati di Abiy Addi, Tigray


Sono passati 8 mesi dall’accordo di cessazione ostilità firmato a Pretoria il 2 novembre 2022 tra governo federale etiope e TPLF – Tigray People’s Liberation Front, rappresentanti dello stato regionale del Tigray. Accordo di tregua dopo 2 anni di guerra d

Sono passati 8 mesi dall’accordo di cessazione ostilità firmato a Pretoria il 2 novembre 2022 tra governo federale etiope e TPLF – Tigray People’s Liberation Front, rappresentanti dello stato regionale del Tigray.

Accordo di tregua dopo 2 anni di guerra dai risvolti etnici e genocidi, guerra considerata la più atroce degli ultimi tempi: si stima un minimo di 600.000 vittime tra i civili, crimini di guerra, repressione politica, massacri e atrocità (stupri per vendetta, arresti e detenzioni arbitrarie di massa, 90% del sistema sanitario regionale distrutto, campi, raccolti saccheggiati e incendiati, bestiame rubato o macellato e blocco degli aiuti alimentari umanitari come armi da guerra) legittimate e mascherate da “guerra al terrorismo”.

Arriva oggi, 5 luglio, l’aggiornamento condiviso da Jan Nyssen, professore dell’Università di Ghent (che col suo team ha prodotto le stime sul numero di vittime prodotte dalla guerra genocida in Tigray)


Un amico di Abiy Addi ha avuto l’opportunità di entrare nel campo per sfollati di Abiy Addi e di parlare con la gente; mi ha inviato questo rapporto di testimone oculare il 4 luglio.

È molto doloroso visitare il centro per sfollati di Abiy Addi. La gente correva da me aspettandosi che io stessi molto meglio di loro, visto che vedevano che riuscivo almeno a sopravvivere.

Tra i circa 53.000 sfollati, 841 sono disabili e soffrono per la scarsità di cibo. Finora sono morti 26 sfollati. Ci sono anche minori non accompagnati che soffrono.

Un conteggio del centro sanitario di Abiy Addi indica che 676 persone sono sul punto di morire nel campo per sfollati.

Nel campo ci sono 2200 sopravvissuti alla violenza sessuale correlata al conflitto (Conflict- Related Sexual Violence – CRSV), di cui 500 non ricevono alcun aiuto. Molti di loro hanno malattie croniche.

Ci sono 891 donne in condizioni critiche nel campo.

Il centro per sfollati è in una TVET (Vocational Education and Training – scuola di formazione tecnico-professionale), ma non c’è posto per tutti. Più di 4000 persone sono senza riparo.

Generalmente, le persone nel centro per sfollati hanno deciso che stanno solo aspettando la morte entro domani o dopodomani.

La maggior parte degli sfollati proviene dalla zona occidentale del Tigray, in particolare Humera e Maykadra.

Gli sfollati avevano la speranza di tornare a casa quando lo scorso novembre è stata annunciata la cessazione delle ostilità; ma ora, 2 anni e mezzo dopo essere stati espulsi dal loro posto, si rendono conto che non ci sarà ritorno a casa ma che preferiranno morire qui. Vanno a mendicare ovunque in città, ma ricevono pochissimo sostegno dalla comunità ospitante perché anche queste persone non hanno reddito e non ci sono più aiuti alimentari nemmeno per loro. Da tutti questi anni, le persone non hanno comprato vestiti. Molti sono nudi, i bambini camminano a piedi nudi. Non c’è nemmeno istruzione per i bambini nel centro per sfollati.

Gli sfollati hanno bisogno di sostegno alimentare, hanno bisogno di tornare a casa. Formalmente, ad Abiy Addi è stato istituito un comitato di protezione per gli sfollati.

Sono presenti diverse ONG internazionali, ma con pochi mezzi. Assistono alcune migliaia di famiglie con farina, olio e sale. Forniscono acqua pulita e organizzano la pulizia dell’ambiente da parte di volontari. 670 donne hanno ricevuto kit di dignità [sanitario e nutrizionale]. Alcuni sopravvissuti alla violenza di genere ricevono sostegno in denaro e formazione per proteggersi.

La mia impressione generale è che la situazione nel centro per sfollati di Abiy Addi sia fuori controllo – letteralmente dal tigrino: “oltre la capacità di gestione”.


Considerazioni finali


Il Professor Jan Nyssen in chiusura alla testimonianza condivisa aggiunge che:

Numerose persone nel campo per sfollati interni (IDP) di Abiy Addi nel Tigray centrale (circa 100 chilometri a ovest di Mekelle in linea d’aria) sono purtroppo morte a causa di problemi legati alla fame. Questi campi per sfollati servono come vivido promemoria delle terribili condizioni che continuano ad affliggere la popolazione del Tigray, con centinaia di migliaia di persone che cercano sicurezza all’interno dei suoi confini. La fine del 2020 e l’inizio del 2021 hanno visto la maggior parte degli sfollati espulsi dal Tigray occidentale dalle forze militari della regione di Amhara che ancora occupano la zona occidentale del Tigray.

Gli aiuti alimentari sono stati sospesi dal PAM e dall’USAID a causa dei diffusi furti organizzati ai massimi livelli in Etiopia. Abbiamo scritto un articolo di opinione su questa sospensione degli aiuti alimentari con André Crismer e lo abbiamo pubblicato sul quotidiano belga “La Libre”: Nel Tigray, ancora afflitto dalla carestia, gli aiuti alimentari sono stati sospesi.


Approfondimenti:



Archivio:



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L’adesione alla Nato divide l’Irlanda


In Irlanda il governo di centrodestra spinge per l'ingresso nella Nato, ma di fronte all'opposizione dell'opinione pubblica e di varie forze politiche sembra optare per una strategia più graduale di integrazione nei meccanismi militari dell'Alleanza Atlan

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di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 5 luglio 2023 – L’invasione russa dell’Ucraina ha rafforzato le argomentazioni degli ambienti politici e militari che perorano l’ingresso nell’Alleanza Atlantica dei paesi finora rimasti fuori. È accaduto principalmente nei paesi scandinavi, con la Finlandiaentrata nella NATO in tempi record e la Svezia che dovrà attendere il via libera della Turchia (in cambio dell’abbandono della protezione finora concessa ai movimenti curdi).

Anche in Irlanda gli ambienti atlantisti stanno cercando di approfittare dei timori suscitati nell’opinione pubblica dall’operazione bellica di Mosca per avvicinare il paese all’alleanza militare guidata da Washington, ponendo fine alla tradizionale neutralità del paese celtico.

Aderire alla Nato, anzi no
A premere per la storica svolta sono in particolare i leader della coalizione politica che governa il paese dal 2020, formata dai partiti di centrodestra Fianna Fáil e Fine Gael e dai Verdi.
«Non abbiamo bisogno di un referendum per entrare nella Nato. È una decisione politica del governo. La brutale aggressione e invasione russa dell’Ucraina illustra l’entità della minaccia al multilateralismo» aveva perentoriamente affermato l’allora Taoiseach (Primo Ministro) e leader del Fianna Fáil Micheál Martin nel giugno del 2022, riaprendo il dibattito sulla questione dopo i primi timidi tentativi degli anni precedenti. A dargli manforte quello che all’epoca era il Tánaiste (“il secondo”, cioè vicepremier) e leader del Fine Gael Leo Varadkar, che in base a un accordo tra le formazioni che compongono la maggioranza il 17 dicembre del 2022 ne ha preso il posto alla guida dell’esecutivo, mentre Martin ha assunto la carica di Ministro degli Esteri e della Difesa.

L’iter intrapreso, però, si è dimostrato assai più accidentato di quanto previsto, nonostante il sostegno espresso dal presidente statunitense Joe Biden (che può vantare le sue ascendenze irlandesi) in visita a Dublino nell’aprile scorso.
I molti no e i dubbi espressi anche da vari esponenti dei propri stessi partiti hanno convinto i leader dell’esecutivo ad ammorbidire i toni, negando addirittura recentemente di aver mai proposto l’ingresso di Dublino nel Patto Atlantico.

«Non si tratta di aderire alla NATO o di cambiare la nostra politica di neutralità militare di lunga data (ma) la nostra sicurezza e il nostro benessere economico vengono messi alla prova in modi nuovi e più impegnativi», ha detto Varadkar, provando a rettificare il tiro.

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Il presidente Higgins

Le accuse del Presidente della Repubblica
Ma le polemiche non si sono placate. Contro le argomentazioni di Martin e Varadkar è intervenuto anche il Presidente della Repubblica Michael Higgins affermando, in un’intervista pubblicata il 18 giugno dal quotidiano Business Post che i ministri «stanno giocando con il fuoco», dicendosi preoccupato per la «deriva» verso la NATO della politica estera del paese. L’Irlanda deve evitare di «farsi seppellire dalle agende» e dagli interessi di paesi terzi, ha spiegato il popolare e storico esponente del Partito Laburista, eletto per due volte consecutive – nel 2011 e poi nel 2018 – alla presidenza. Poi ha rincarato la dose, avvisando che l’isola deve evitare di «pavoneggiarsi e battere il petto» e di seguire coloro che vorrebbero che Dublino «marciasse in prima fila» in alleanze militari come la NATO. Higgins ha anche criticato il presidente francese Macron e il suo obiettivo di trasformare l’Europa in un pilastro dell’Alleanza Atlantica. L’Irlanda, attraverso la sua politica estera, dovrebbe impegnarsi in «una [politica estera] più inclusiva, più profonda, più ampia, più sicura di sé, non solo in consultazione con le potenze imperiali in via di estinzione, ma con le popolazioni emergenti del mondo» ha spiegato.
L’anziano esponente politico (nonché poeta e scrittore) si è infine scagliato contro la decisione del governo di promuovere una serie di Forum consultivi sulla politica di sicurezza internazionale, incontri che si sono tenuti nel mese di giugno allo scopo di approfondire ed estendere il dibattito su quelli che sono stati presentati come i necessari cambiamenti da apportare alla politica estera irlandese in virtù dei nuovi scenari. Higgins ha esplicitamente criticato la faziosità dei panel di “esperti” predisposti dal governo per condurre il dibattito, composti per lo più da personaggi – comandanti militari, docenti ed esponenti politici, oltre a funzionari stranieri – favorevoli all’avvicinamento alla NATO. Il Presidente si è chiesto come mai non siano stati invitati anche rappresentanti dei paesi europei che vogliono rimanere neutrali come l’Austria o Malta.

Il ricatto della “minaccia esterna”
Il capo dello stato, che nell’ordinamento irlandese ha esclusivamente compiti di rappresentanza e garanzia, è stato fortemente criticato. Ma il vicepremier Martin subito dopo ha dovuto chiarire che i forum consultivi promossi – simili a quelli organizzati in passato per introdurre cambiamenti legislativi storici come la depenalizzazione dell’aborto o la legalizzazione dei matrimoni omosessuali – non intendono imporre «una discussione binaria sulla neutralità» e che il governo «non intende cambiare la politica irlandese di neutralità militare».

«In 20 anni di lavoro al quartier generale della NATO di Bruxelles la questione dell’adesione dell’Irlanda non è mai stata discussa nemmeno una volta» ha inoltre detto James Mackey, un alto funzionario dell’Alleanza Atlantica invitato a intervenire in uno dei forum.

Eppure i massimi esponenti del governo insistono sul fatto che l’invasione russa dell’Ucraina costringe Dublino a mettere in discussione le vecchie certezze. I settori atlantisti (così come i dirigenti della NATO) evidenziano la scarsa preparazione militare e tecnologica del paese di fronte all’incremento della guerra ibrida da parte di Mosca. I timori sono cresciuti dopo che nel 2021 un attacco di hacker presumibilmente russi ha a lungo paralizzato il servizio sanitario pubblico dell’isola.
Recentemente, poi, Mosca avrebbe inviato delle navi militari al largo delle coste irlandesi per mappare i cavi in fibra ottica che collegano l’isola con gli Stati Uniti. Per contrastare proteggere le proprie infrastrutture – ad esempio i gasdotti con la Scozia – Dublino disporrebbe attualmente soltanto di sei pattugliatori e di due aerei, e avrebbe quindi la necessità di rivolgersi ai propri alleati dell’UE e della Nato. Non a caso nelle scorse settimane alcuni funzionari del governo irlandese hanno espresso la volontà di collaborare con il neonato Centro di coordinamento delle infrastrutture sottomarine critiche del Patto Atlantico, affidato al generale Hans-Werner Wiermann.
Non è neanche un caso che i forum consultivi aperti al pubblico e promossi dal governo irlandese siano stati incentrati proprio sulla vulnerabilità dell’isola (vera o presunta), un argomento che preoccupa molti cittadini.

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Protesta contro la Nato a Dublino

Manifestazioni e contestazioni
Ma la strategia di Varadkar e Martin non ha impedito che i forum fossero oggetto di una capillare contestazione. In particolare il primo incontro, organizzato presso l’University College di Cork il 22 giugno, ha visto un gruppo di giovani attivisti del Connolly Youth Movement (un’organizzazione comunista e repubblicana) interrompere l’intervento del Tánaiste Martin esponendo uno striscione che recitava «Guerre della Nato, milioni di morti». All’esterno un centinaio di persone di vari collettivi protestavano con slogan come «Resta neutrale, opponiti alla guerra» e «combatti la guerra non le guerre». Anche i forum di Galway e di Dublino sono stati oggetto di contestazioni.

«Non possiamo permettere che la neutralità venga riformulata e descritta come una debolezza da coloro che vorrebbero che ci allineassimo ulteriormente alla NATO» ha affermato il responsabile esteri del partito repubblicano di sinistra Sinn Fein, Matt Carthy. Durante il forum di Cork, il deputato ha affermato che «l’Irlanda dovrebbe concentrarsi sulla fine del conflitto piuttosto che sulla sua partecipazione alla guerra» e che finora «la neutralità dell’Irlanda ha servito bene il paese». «Vogliamo difendere la neutralità irlandese e vogliamo vederla sancita nella nostra costituzione» ha invece spiegato a EURACTIV l’eurodeputato repubblicano Chris MacManus, che ha accusato il governo irlandese di voler manipolare l’opinione pubblica attraverso un dibattito fortemente sbilanciato.

La formazione, che i sondaggi danno in testa alle intenzioni di voto, ha condannato l’invasione russa dell’Ucraina e difeso la strategia occidentale di sostegno a Kiev, chiedendo però a Dublino un maggiore protagonismo nella ricerca di una mediazione per giungere quanto prima al cessate il fuoco.

«Una politica estera irlandese indipendente, con al centro l’uguaglianza e l’umanitarismo, la costruzione della pace e la cooperazione, può svolgere un ruolo importante in un mondo sempre più teso (…) La neutralità non è una politica di indifferenza o isolazionismo (…). Neutralità positiva significa svolgere un ruolo costruttivo nella promozione dei diritti umani e della libertà, difendere le persone dall’oppressione, sostenere la pace e partecipare come forze di pace agli sforzi delle Nazioni Unite» ha scritto Gerry Adams.

Riferendosi all’operato dell’esecutivo irlandese, poi, l’ex leader repubblicano ha aggiunto: «Invece di perseguire una strategia di politica estera indipendente, ad esempio sul sostegno ai diritti dei palestinesi, hanno ammanettato lo stato a un’agenda di politica estera dell’UE che rifiuta di sfidare il regime di apartheid di Israele. Hanno anche sostenuto misure come la fine delle operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo che hanno salvato migliaia di vite in passato».

Altre formazioni di sinistra come People Before Profit (PBP) e anche il più moderato Labour accusano l’esecutivo di Dublino di voler portare l’Irlanda nella NATO attraverso un iter truffaldino e poco trasparente, “di nascosto”, e denunciano le crescenti politiche di militarizzazione.
Intanto i sondaggi rilevano un atteggiamento ambivalente da parte dell’opinione pubblica irlandese. Secondo una rilevazione realizzata a giugno da Ipsos per conto del quotidiano “Irish Times”, il 61% dei sondati sostiene la neutralità dell’Irlanda e solo un quarto è a favore di un cambiamento, ma il 55% appoggia comunque un “aumento significativo” delle capacità militari del paese.

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Militari irlandesi

Dublino opta per il giro largo
Una strada già intrapresa dell’esecutivo, che entro il 2028 vuole portare la spesa militare da 1,1 a 1,5 miliardi. Si tratta di un aumento record del bilancio della Difesa per un paese che fino al 2022 ha destinato a questo capitolo solo lo 0,3% del proprio Pil e che, anche in virtù della neutralità militare inaugurata subito dopo l’indipendenza dal Regno Unito, può contare su un esercito composto da appena 8.500 unità e che può utilizzare all’estero solo in missioni di pace approvate dalle Nazioni Unite.

Vista la diffusa e trasversale opposizione, probabilmente Dublino dovrà rinunciare, almeno per ora, ad un’adesione formale all’Alleanza Atlantica, ma l’attuale esecutivo sta già facendo dei passi per portare il paese all’interno dei meccanismi di integrazione militare della Natoe dell’Unione Europea.
A febbraio l’Irlanda ha deciso di partecipare alla missione di assistenza militare dell’UE in Ucraina, fornendo 30 membri delle forze di difesa irlandesi per addestrare le forze armate ucraine. Inoltre, a settembre del 2022, Dublino ha fornito a Kiev aiuti militari “non letali” per 55 milioni di euro attraverso il Fondo Europeo per la Pace (EPF).
Fin dal 2001, poi, l’aeroporto di Shannon è a disposizione dell’aviazione militare degli Stati Uniti e della Nato, nonostante le periodiche manifestazioni pacifiste e antimilitariste.

Prima ancora, nel 1999 Dublino ha aderito al programma “Nato Partnership for Peace” (PfP), una sorta di anello esterno dell’Alleanza Atlantica, mentre lo scorso anno l’esecutivo di centrodestra ha aderito alla struttura di cooperazione strutturata permanente (PESCO) dell’UE che persegue l’integrazione delle forze armate del continente.

Questi passi potrebbero rivelarsi sostanzialmente irreversibili, visto che i nuovi dirigenti del Sinn Fein, in vista di un possibile ingresso nel governo della Repubblica dopo le prossime elezioni, potrebbero rinunciare alla rottura con questi meccanismi di integrazione militare, come il PfP e la PESCO. – Pagine Esteri

8073564* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.

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Minimalìa


Anche sul salario minimo si rischia l’ennesima malìa, fra magica aspettativa e inutile seduzione. L’ennesima sfida fra sbandieratori, non troppo attenti al significato dei vessilli che sventolano. Lo strumento è così vario che, al contrario del purgante c

Anche sul salario minimo si rischia l’ennesima malìa, fra magica aspettativa e inutile seduzione. L’ennesima sfida fra sbandieratori, non troppo attenti al significato dei vessilli che sventolano. Lo strumento è così vario che, al contrario del purgante che conoscemmo con Carosello, non <<basta la parola>>.

La prima questione è già equivoca in sé, ovvero dovere stabilire se quel minimo lo si iscrive in una legge o lo si regola con i contratti. L’opposizione e la Cgil, vorrebbero la prima cosa, mentre il governo, Cisl e Uil la seconda. Messa così non ha senso, perché i contratti collettivi esistenti hanno già un minimo retributivo applicabile, mentre ha senso parlare di salario minimo generale solo se la legge lo impone quale punto di partenza di ogni altra contrattazione. Quindi: a. in Italia esiste già per circa l’85% dei lavoratori dipendenti, assunti con contratti collettivi; b. se lo si vuole fissare per tutti occorre usare la legge. Solo che si usa “salario minimo” avendo ciascuno in mente ipotesi e rappresentazioni diverse.

Una cosa è la retribuzione minima consentita per ogni ora lavorata, altra la retribuzione minima consentita tenendo conto anche della tredicesima, del trattamento fine rapporto e di altri premi. Nel secondo caso la legge diventa uno strumento troppo rigido e non si può che cedere il passo alla contrattazione. Il che porta dritto allo stabilire il livello cui fissarlo. Mi pare ci si orienti sui 9 euro, ma anche questo significa poco se non si capisce cosa è compreso e cosa escluso. Dentro il mercato unico europeo, tanto per capirsi, si adottano salari minimi nazionali che vanno da circa 2 euro a poco più di 13. E ci vuole fantasia per supporre che si stia parlando delle stesse cose.

Sono diverse le regolamentazioni nazionali, ma anche il potere d’acquisto e il tasso d’inflazione. E questo vale anche dentro i nostri confini, sicché un salario minimo fissato a X sarà più alto dove il costo della vita è più basso e viceversa. Quindi non sarebbe uguale neanche fra due lavoratori italiani. Con uno strambo risultato: sembrerebbero favoriti gli italiani delle aree meno sviluppate, mentre buona parte di quelle tipologie salariali si concentra nei servizi, che si trovano prevalentemente nelle aree più sviluppate; mentre il lavoro in condizioni di sostanziale schiavitù, soprattutto nei campi, è e resterà in nero, quindi immune dal minimo codificato.

In queste condizioni supporre che il salario minimo cancelli il lavoro povero ha l’aria d’essere una pia illusione, rischiando, in alcune aree e settori di cancellare il lavoro, spingendo l’impresa fuori mercato. Tutto questo non significa né che le cose vadano bene come vanno, né che ci si debba rassegnare a che vadano male, significa, però, che portare il lavoro povero ad essere prima dignitosamente e poi lautamente retribuito non è una questione che si risolva tondeggiando le parole con cui compitare l’ennesimo decreto, destinato a sempiterna attesa della propria attuazione, bensì lavorando sulle ragioni profonde di quella condizione: 1. scarsa formazione del lavoratore, rimediabile, specie per i giovani, con il far funzionare non solo le scuole, ma anche gli aggiornamenti continui; 2. scarsa meritocrazia retributiva, che si rimedia con maggiore competizione ed elasticità del mercato del lavoro (che aiuterebbe anche il sindacato ad avere un ruolo più attivo nel lavoro e nel sottrarsi alla sorte presente, di rappresentare più che altro pensionati).

Perché la discussione abbia un senso è necessario, almeno, che si scriva sulla lavagna il significato delle parole, di modo da cogliere non solo le evocazioni sentimentali, ma le conseguenze fattuali delle posizioni di ciascuno. Altrimenti ci si muove nel solito “significante” lacaniano, il cui lato divertente è che quasi nessuno capisce quel che legge e dice, mentre quelli che dicono di capirlo o sono fra i re degli allocchi o concorrono per la corona degli imbonitori. La malìa non aiuta, fosse anche mini.

La Ragione

L'articolo Minimalìa proviene da Fondazione Luigi Einaudi.



I talebani vietano i saloni di bellezza: “miglioriamo la vita delle donne”


I centri estetici hanno un mese di tempo per chiudere i battenti in tutto il Paese. Secondo il leader supremo si tratta di misure che migliorano la vita delle donne L'articolo I talebani vietano i saloni di bellezza: “miglioriamo la vita delle donne” pro

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Pagine Esteri, 5 luglio 2023. La notizia circolava già da qualche giorno ma la conferma è arrivata nella giornata di oggi. Fonti governative hanno annunciato l’ordine di chiusura di tutti i saloni di bellezza.

Gli esercizi commerciali hanno un mese di tempo, a partire da oggi, per dismettere ogni attività e comunicare l’avvenuta chiusura. L’ordine, spiegano, viene dato in base a “istruzioni orali rilasciare del leader supremo”, Haibatullah Akhunzada, il quale ha affermato che il suo governo sta prendendo le misure necessarie per il miglioramento della vita delle donne in Afghanistan.

Le motivazioni non si conoscono, o per meglio dire non sono state ancora comunicate ufficialmente. “Condivideremo con i media i motivi della decisione una volta che i saloni saranno chiusi”, ha dichiarato all’AFP Mohammad Sadeq Akif Muhajir, portavoce del Ministero per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio.

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È solo l’ultimo di una serie di divieti che allontanano le donne dalla vita pubblica e sociale, impedendone l’istruzione, il lavoro, separandole dagli spazi pubblici come parchi e palestre. Nonostante i talebani avessero promesso, una volta tornati al potere, di optare per misure meno restrittive rispetto a quelle adottate negli anni ’90, le condizioni di vita delle donne afghane continuano a peggiorare.

L’obiettivo ultimo è chiaramente quello di imprigionarle negli unici ambiti che, secondo i talebani, sono loro congeniali: famiglia, casa, matrimonio, riproduzione, accudimento. Pagine Esteri

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In Cina e Asia – Ue-Cina, dialogo sul Clima. Ma Pechino cancella la visita di Borrell


In Cina e Asia – Ue-Cina, dialogo sul Clima. Ma Pechino cancella la visita di Borrell asean
I titoli di oggi:
Clima, Ue e Cina cercano un dialogo. Ma Pechino cancella la visita di Borrell
Meta tenta il rientro in Cina, ma non sarà semplice
Cina, He promette di mutare i geni per prevenire l'Alzheimer
Ucraina, le esercitazioni della Pla fanno luce sulle preoccupazioni cinesi
Thailandia, arriva l'accordo sul presidente della Camera

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Investimenti, tecnologia e export. Le necessità della Difesa per l’Aiad


Sulla Difesa, non possiamo sprecare né risorse, né tempo, il Paese non può permetterselo. A dirlo è stato il ministro della Difesa, Guido Crosetto, intervenendo all’assemblea dell’Aiad, la Federazione aziende italiane per l’aerospazio, la difesa e la sicu

Sulla Difesa, non possiamo sprecare né risorse, né tempo, il Paese non può permetterselo. A dirlo è stato il ministro della Difesa, Guido Crosetto, intervenendo all’assemblea dell’Aiad, la Federazione aziende italiane per l’aerospazio, la difesa e la sicurezza, svoltasi a Roma, ospitata del Centro alti studi della Difesa (Casd) guidato dall’ammiraglio Giacinto Ottaviani. Per il ministro “i soldi pubblici sono troppo importanti per essere sprecati” e per questo sarà necessaria una cooperazione tra industria e Difesa costante e quotidiana. “Dalle vostre capacità dipende il futuro delle Forze armate – ha continuato Crosetto rivolgendosi alle aziende – dal vostro lavoro dipende il fatto che i soldati che difendono il Paese siano i più sicuri al mondo”. Una questione da cui dipende la stessa sicurezza della nazione “perché è la deterrenza ciò che ci salva dal conflitto, deterrenza che dipende dalla tecnologia, che a sua volta dipende dalle capacità espresse dal settore industriale della Difesa e dell’aerospazio”.

Una politica industriale della Difesa

Per il capo di Stato maggiore della Difesa, ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, “i tempi sono maturi per una politica industriale della Difesa e dell’aerospazio”. Secondo l’ammiraglio, “l’industria deve essere messa in grado di produrre le capacità necessarie ai bisogni delle Forze armate”. In questo senso, i piani strategici messi in campo dal ministero della Difesa, possono fornire “l’architrave per una politica industriale” realistica, che punti all’ammodernamento delle forze, mantenendo al contempo la sovranità tecnologica nazionale. Per migliorare l’ecosistema industriale, ha continuato l’ammiraglio, bisogna mettere in campo alcune misure che “aumentino la trasparenza delle misure amministrativi, con i processi autorizzativi che devono essere intellegibili anche alle aziende per permettere la strutturazione della loro programmazione”. Per il capo di Stato maggiore, inoltre, il tempo sarà un fattore-chiave, e l’attuale finestra temporale è positiva e va colta. “abbiamo un governo con un’ampia solidità, un ministro profondo conoscitore del settore, e risorse adeguate”, a cui si aggiunge il fatto che la guerra in Ucraina “ha squarciato la coltre di negatività e mistificazione che avvolgeva l’importanza della Difesa e le necessità di uno strumento militare all’altezza”.

L’export della Difesa

Di fondamentale importanza, ha sottolineato sempre il ministro, l’aspetto delle esportazioni della Difesa, fonte fondamentale di finanziamento per le società del settore. Per questo, per il ministro, uno degli obiettivi del comparto sarà anche quello di realizzare prodotti “che hanno un mercato internazionale”, un orizzonte senza il quale non sarebbero sostenibili nel lungo periodo. Quello delle esportazioni è stato un tema toccato anche dal segretario generale di Aiad, Carlo Festucci, che ha presieduto l’iniziativa insieme al presidente della Federazione, Giuseppe Cossiga, che sul tema ha voluto sottolineare “i limiti della legge 185” sulle esportazioni di materiale d’armamento e la necessità di una “banca completamente dedicata a sostenere le esportazioni, e in particolare l’export della Difesa”. L’obiettivo, per Festucci, è riuscire a mettere tutti i fattori nazionali a sistema per essere competitivi a livello internazionale: “La competitività è una esigenza europea – ha sottolineato il segretario generale – e dobbiamo presentarci all’estero come un blocco compatto; l’Aiad vuole essere un aggregatore di realtà”.

La competitività globale

“Abbiamo tutto l’interesse a che le nostre realtà abbiamo successo internazionale, perché oggi il 70% del fatturato industriale viene dall’export”, ha sottolineato anche il segretario generale della Difesa e direttore nazionale armamenti, generale Luciano Portolano. “C’è una consapevolezza internazionale della necessità di colmare i gap tecnologico, cosa che espone il sistema a dinamiche di mercato competitive”. Da una parte, ha spiegato ancora il generale Portolano, cìè la tendenza a rifornirsi da piattaforme off-the-shelf, dall’all’altra una difesa dell’autonomia strategica e sovranità tecnologica europea. “Le soluzioni più idonee – per il generale – non sono quelle più estreme”. Serve invece una strategia che faccia convergere le esigenze di sviluppo militare con obiettivi di crescita e competitività delle industrie. Le strade da percorrere per raggiungere tale obiettivo sono tre, gli accordi government-to-government (G2G); quelli government-to-business (G2B) e infine quelli business-to-business (B2B). I primi “offrono soluzioni rapide off-the-shelf e per quei Paesi senza una struttura consolidata per il procurement; nelle situazioni dove esiste un processo competitivo è necessario spingere su iniziative G2B, mentre il B2B è valido con quelle nazioni che vogliono aumentare il proprio know how aziendale”, principi che possono valere anche quando si parla di procurement nazionale.

Parola all’industria

“Stiamo assistendo a due cambiamenti epocali”, ha detto l’amministratore delegato di Leonardo, Roberto Cingolani, nella sua prima uscita ufficiale da manager del gruppo di Piazza Monte Grappa. “Da un lato da Difesa è fatta da ‘bullet and byte’, dove i Paesi più forti sono quelli con una capacità di calcolo pro capite più alta, e dall’altro la Difesa sta inglobando sempre più nuovi concetti di sicurezza, delle infrastrutture, dell’energia, fino a quella alimentare”. Inoltre, la guerra in Ucraina, al di là della tragedia umana, ha anche dimostrato la necessità impellente di dotarsi di una Difesa adeguata. Come registrato dal presidente di Elt Group, Enzo Benigni, adesso “c’è un allineamento stellare tra il governo, un ministro che conosce i problemi della difesa profondamente, con il quale colloquiare”. Per il presidente di Fincantieri, Claudio Graziano, è necessario comprendere che le aziende della Difesa “lavorano sempre in un ambiente geopolitico” e che fanno parte “dei quattro poteri dello Stato, oltre a quello politico, militare e diplomatico”.

Lo spazio globale, tra l’altro, è fondamentale anche per quanto riguarda la supply chain, come ha ricordato l’amministratore delegato di Iveco Defence Vehicles, Claudio Catalano, “sempre più spesso abbiamo sofferto sospensioni o rallentamenti sui contratti per la ritardata o mancata autorizzazione all’esportazione da parte di un Paese fornitore”, una contingenza che ha portato l’azienda a sviluppare in Italia la maggior parte della propria catena del valore “elementi essenziali verso l’autonomia strategia e la sovranità tecnologica”. Ruolo-chiave lo giocheranno anche le piccole e medie imprese “la spina dorsale del Paese” come le ha definite Antonio Alunni, in rappresentanza delle Pmi all’assemblea Aiad. La collaborazione tra piccole e grandi imprese, allora, può essere la chiave verso un aumento di competitività che faccia posizionare il Paese al meglio nella competizione internazionale.


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Il futuro della Nato e il ruolo dell’Italia. Lo studio del Comitato atlantico


All’approssimarsi del vertice di Vilnius, che riunirà i capi di Stato e di governo dei Paesi Nato per fornire una nuova direzione strategica all’Alleanza, è giunto il momento di fare il punto sulle sfide che intraprenderà la Nato e le possibilità per il n

All’approssimarsi del vertice di Vilnius, che riunirà i capi di Stato e di governo dei Paesi Nato per fornire una nuova direzione strategica all’Alleanza, è giunto il momento di fare il punto sulle sfide che intraprenderà la Nato e le possibilità per il nostro Paese. Questi sono stati i temi al centro dell’evento “Il futuro della Nato e il ruolo dell’Italia”, organizzato dal Comitato atlantico italiano e promosso dal senatore Giulio Terzi di Sant’Agata, presidente della Commissione politiche dell’Ue. Un confronto volto a promuovere una riflessione sui futuri assetti geopolitici e strategici che la Comunità euro-atlantica, e più in generale l’Occidente, sono chiamati ad affrontare. Riflessione che prende vita nell’approfondita analisi redatta dal Comitato atlantico italiano, volta a individuare le strategie efficaci per tutelare e promuovere gli interessi nazionali in ambito euro-atlantico, con una particolare attenzione al Mediterraneo allargato.

Lo studio

È stata la Sala caduti di Nassirya del Senato a fare da sfondo alla presentazione del nuovo studio del Comitato (scaricabile al link) che raccoglie nelle sue 40 pagine elementi di riflessione e proposte destinate a rafforzare il ruolo dell’Italia nella Nato. “È più di un policy paper”, ha infatti raccontato Fabrizio W. Luciolli, presidente del Comitato atlantico italiano, che ha posto l’accento sullo “scenario di epocale complessità che attende il vertice di Vilnius e che richiede una riflessione profonda”, così come “una straordinaria capacità di adattare gli strumenti al mutare dello scenario di sicurezza”. Tra le molte sfide che attendono l’Alleanza, rientrano anche le strategie per sostenere una piena sinergia tra la Nato stessa e l’Ue, così come tra la Comunità euro-atlantica e altre organizzazioni internazionali like-minded. Per provvedere al meglio a tali esigenze di sicurezza, lo studio intende anche promuovere una comprensione più diffusa della necessità di destinare il 2% del Pil all’Alleanza atlantica, per poter far fronte ai suoi compiti di deterrenza e difesa. Sul punto, come ha osservato il vice presidente del Senato Maurizio Gasparri, siamo “in ritardo” sull’adeguamento della spesa militare al livello richiesto dall’Alleanza.

Occhi puntati sul Dragone

Il summit si prepara dunque a essere storico per la Nato, anche in risposta alla sfida sistemica e valoriale della Cina e le instabilità del Sud. “La Cina è un alleato della Russia sul piano politico”, ha osservato Terzi, mentre “per l’Europa e l’Occidente è un Paese partner, ma anche un avversario sistemico”. Tuttavia, l’auspicio è che in futuro possa diventare sempre più un concorrente costruttivo. In tale contesto, le tensioni del quadrante Indo-Pacifico, e in particolare “ciò che avviene attorno a Taiwan, rappresenta una sfida a tutto il mondo ma soprattutto una sfida all’Occidente”, ha evidenziato ancora Terzi, parlando inoltre dell’indivisibilità della sicurezza, delle diverse infrastrutture della Nuova via della seta e facendo cenno al processo di trasformazione che vede Pechino fondere sempre più gli strumenti civili e militari.

Il ruolo italiano

Di fronte a una Nato che è ormai “cambiata totalmente”, come osservato dall’onorevole Lorenzo Cesa, presidente della delegazione italiana presso l’Assemblea parlamentare Nato, “è sempre più centrale occuparsi dell’Alleanza Atlantica” e “rafforzare il ruolo dell’Europa nella Nato”, e l’Italia può fare la sua parte. In quanto secondo Paese Nato contributore in termini di risorse umane e quinto sul piano finanziario, l’Italia è pronta quindi a giocare un ruolo da protagonista in seno all’Alleanza, soprattutto se guarderà sempre più al Mediterraneo allargato.


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PRIVACYDAILY


N. 157/2023 LE TRE NEWS DI OGGI: Martedì scorso Meta Platforms (META.O) ha perso la sua battaglia contro un ordine tedesco di restrizione dei dati che colpisce il fulcro del suo modello di business, in quanto la massima corte europea ha appoggiato il diritto dell’antitrust tedesco di indagare anche sulle violazioni della privacy.La sentenza della... Continue reading →


#37 / Pesca a strascico


Causa miliardaria contro OpenAI (chatGPT) / Le reti a strascico di Google / Twitter Files: sorveglianza e censura dalla FBI e intelligence Ucraina / Meme e citazione del giorno.

Causa miliardaria contro OpenAI (chatGP)


Dopo le peripezie italiche arrivano guai anche oltre oceano per OpenAI, l’azienda acquisita da Microsoft che sviluppa e gestisce chatGPT. Pare infatti che il 28 giugno un gruppo di persone abbiano intentato un’azione legale congiunta per chiedere a OpenAI un risarcimento danni di ben tre miliardi di dollari.

OpenAI è accusata di aver allenato il suo algoritmo usando dati acquisiti illegalmente dal web1 con la tecnica dello scraping. In italiano si potrebbe tradurre con raschiare o grattare, ed è quella tecnica automatizzata che permette di raccogliere a strascico dati disponibili pubblicamente su Internet — come ad esempio post e foto sui social network.

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I casi analoghi non mancano, come ad esempio quello di ClearViewAI che ha raccolto ben trenta miliardi di foto dal web per allenare i suoi algoritmi di riconoscimento facciale e poi vendere i servizi a polizia e intelligence statunitensi. In quel caso ci furono diverse sanzioni milionarie da parte delle autorità ma non mi risulta che l’azienda se ne sia curata più di tanto.

In almeno un caso la Federal Trade Commission ha intimato la distruzione di algoritmi allenati senza il consenso dei soggetti a cui facevano riferimento i dati. Se i giudici dovessero decidere che OpenAI ha allenato i suoi modelli in modo illecito, giungerebbero alla stessa decisione? Probabilmente no, dato che anche ClearViewAI è ancora in piedi.

Le reti a strascico di Google


Un recente aggiornamento alla privacy policy di Google lascia intendere che è ufficialmente iniziata una gara con OpenAI che sarà combattuta a suon di reti da pesca virtuali.

Nell’ultima versione dell’informativa si legge che l’azienda userà dati disponibili pubblicamente per allenare i suoi modelli di intelligenza artificiale come Google Translate, Bard (il competitor di ChatGPT) e altri servizi in Cloud2.

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“Se tu o le tue informazioni sono presenti su un sito web, potremmo indicizzarle ed esporle sui servizi Google”.

Sembra davvero non esserci scampo. Siamo tutti condannati ad essere cavie da laboratorio e fattori di produzione per i nuovi scintillanti strumenti di intelligenza artificiale che amiamo. Ora scusate ma vado a rinnovare l’abbonamento a ChatGPT, che mi è più simpatico di Bard.

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Alcuni documenti interni a Twitter mostrano che l’FBI ha collaborato con l’intelligence Ucraina (SBU - Security Service of Ukraine) per censurare alcuni account Twitter e ottenere informazioni personali sui proprietari.

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Non dovrebbe essere una novità per chi ha seguito le vicende dei Twitter Files, di cui fanno parte anche questi documenti più recenti, ma dovrebbe certamente ricordarci il livello di sorveglianza e censura costante a cui siamo assoggettati noi altri del mondo libero.

“Thank you very much for your time to discuss the assistance to Ukraine, I am including a list of accounts I received over a couple of weeks from the Security Service of Ukraine. These accounts are suspected by the SBU in spreading fear and disinformation. For your review and consideration.”


La lista è di circa 163 account, tra cui alcuni di giornalisti americani e canadesi colpevoli di aver espresso la loro opinione sulla guerra in Ucraina in termini non favorevoli alla propaganda occidentale.

Il referente interno, Yoel Roth, il dirigente che gestiva direttamente i rapporti con l’FBI, è stato licenziato a novembre 2022 da Elon Musk poco prima della diffusione dei Twitter Files.

Per chi avesse perso le puntate precedenti, consiglio questo breve ripasso:

Strike: news e trend topic di privacy


Per chi bazzica LinkedIn, ogni lunedì sera c’è STRIKE, un nuovo format video in cui insieme a due colleghi parlo di news e trend topic di privacy.

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Sono già usciti i primi due episodi, in cui abbiamo parlato della nuova stagione di Black Mirror (spoiler alert) e del nuovo sistema IT-Alert.

È probabile che nel prossimo futuro verrà proposto anche su altre piattaforme social, ma per ora è solo su LinkedIn. È una produzione di Privacy Week, la media company che si occupa di privacy, cybersecurity, nuove tecnologie e diritti umani.

Qui trovate i primi due episodi:


Meme del giorno


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Citazione del giorno

“On matters of style, swim with the current, on matters of principle, stand like a rock.”
Thomas Jefferson

Articolo consigliato


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redhotcyber.com/post/3-miliard…

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gizmodo.com/google-says-itll-s…



Summit Sco a distanza di sicurezza


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Si è svolto in formato virtuale il vertice annuale dei leader della Shanghai Cooperation Organization. Una scelta del paese ospitante, l'India, per evitare imbarazzi nel ricevere Vladimir Putin al primo intervento internazionale dopo la rivolta del Gruppo Wagner. Sotto traccia le frizioni tra Nuova Delhi e Pechino. L'Iran entra nel gruppo. Prosegue intanto la chip war con le restrizioni cinesi su gallio e germanio

L'articolo Summit Sco a distanza di sicurezza proviene da China Files.



Dante Alighieri - Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io


Immaginare di fare un viaggio in barca a vela con i due amici del cuore. Senza una meta precisa, in compagnia delle tre donne amate, passando il tempo a parlare(?!) di amore. Dante.


Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento
e messi in un vasel, ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio;

sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse ’l disio.

E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch’è sul numer de le trenta
con noi ponesse il buono incantatore:

e quivi ragionar sempre d’amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,
sì come i’ credo che saremmo noi