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Il commerciante di indirizzi fa causa alla DPA tedesca per impedire l'accesso ai file da parte della Noyb noyb ha chiesto all'autorità dell'Assia l'accesso al fascicolo della denuncia di Acxiom. Il commerciante di indirizzi ha presentato un'ingiunzione provvisoria contro l'autorità Acxiom Header


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Il commissario risponderà finalmente alle domande sul ChatControl? È all'ordine del giorno della commissione Libe il 25.

A novembre si terrà una sessione speciale sulla privacy con rappresentanti della Corte di giustizia europea e della CEDU.

@Privacy Pride



Abbiamo ricevuto oggi una lettera del Consiglio Politico del Partito "Unione delle Forze di Sinistra - per il Nuovo Socialismo" sulla persecuzione che colpisce


di Paolo Ferrero - La considerazione avanzata dal presidente della Nazioni Unite Antonio Guterres al vertice egiziano quando ha detto che “la sola realisti


Argentina: al primo turno il turboliberista Milei solo secondo


In Argentina il centrosinistra si impone sul turboliberista di estrema destra Javier Milei. Il secondo turno però si annuncia tutto in salita L'articolo Argentina: al primo turno il turboliberista Milei solo secondo proviene da Pagine Esteri. https://pa

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di Redazione

Pagine Esteri, 23 ottobre 2023 – Per conoscere il nome del futuro presidente dell’Argentina bisognerà attendere il ballottaggio del 19 novembre. Ma contrariamente ai pronostici sarà il candidato del centrosinistra Sergio Massa l’uomo “da battere”. L’attuale ministro dell’Economia ha infatti ottenuto il 36,7 per cento dei voti, staccando di quasi sette punti percentuali l’economista di estrema destra e turbo liberista Javier Milei, che pure aveva vinto le cosiddette “primarie” di agosto.
Le forze che sostengono l’attuale governo riunite nella coalizione Unión por la Patria, a partire dai peronisti progressisti, tirano un sospiro di sollievo di fronte alla ventilata ipotesi di un boom dell’estrema destra già al primo turno. Massa, che alle primarie di agosto aveva ottenuto poco più di 5,2 milioni di voti, ieri ne la portati a casa oltre 9,6 milioni.

Ma la corsa verso il ballottaggio si presenta tutta in salita perché il leader della destra radicale potrebbe convincere la maggior parte dell’elettorato che ieri ha votato per la candidata arrivata in terza posizione con il 23,8% – la rappresentante della destra moderata Patricia Bullrich – a scegliere lui. La coalizione di sinistra si è invece fermata al 2,7%.

Se finora Milei ha indicato come suo nemico giurato la classe politica in quanto tale, all’insegna dello slogan “casta o libertà”, oggi punta a “mettere una volta per sempre fine al peronismo”, più precisamente al dominio della famiglia politica legata agli ex presidenti Nestor e Cristina Kirchner, obiettivo che potrebbe mobilitare una parte importante dell’elettorato di centrodestra.
L’Argentina vive la crisi economica più grave degli ultimi decenni ed è alle prese con un’inflazione giunta al 138%, che ha provocato un generalizzato aumento della povertà che interessa ormai il 40% della popolazione. Il risentimento popolare nei confronti del governo attuale è quindi molto diffuso e spesso sceglie i toni esasperati e “antisistema” del candidato dell’estrema destra, che promette di dollarizzare l’economia del paese, di abbassare le tasse e di dare una stretta all’immigrazione.
“Due terzi degli argentini hanno votato per il cambiamento, per un’alternativa a questo governo di delinquenti che vogliono ipotecare il nostro futuro”, ha detto Milei.
Occorrerà vedere se l’ex ministra della Sicurezza del governo dell’ex presidente Mauricio Macri darà una esplicita indicazione di voto per il “Bolsonaro argentino”. Comunque dopo il risultato del primo turno Bullrich ha immediatamente ricordato che non «sarà mai complice del populismo e delle mafie che hanno distrutto il Paese», il che lascia intendere una convergenza con “La Libertad Avanza” di Javier Milei.
Dall’abbraccio potrebbe però smarcarsi l’ala più moderata del centrodestra, quella rappresentata dall’Unione Civica Radicale, che fa riferimento al sindaco uscente di Buenos Aires, Horacio Larreta e che potrebbe preferire l’ipotesi di un «governo di unità nazionale dei migliori» citata da Massa.
Durante la campagna elettorale Milei e i suoi hanno esasperato i toni, suscitando allarme anche in alcuni ambienti non certo progressisti. L’ideologo di “La libertad avanza”, Alberto Bebegas Lynch, ha ad esempio alluso ad una possibile rottura dei rapporti con il Vaticano, ennesima presa di posizione contro un pontefice definito spesso “comunista”.
Invece Lilia Lemoine, accesa sostenitrice di Milei, ha rilanciato le posizioni anti abortiste del candidato alla presidenza con parole che hanno irritato molti elettori: se le madri possono “uccidere” i loro figli, i padri possono rinunciare alla paternità, ha detto.
Un’altra incognita è legata all’entità della partecipazione al secondo turno da parte di un elettorato sempre più scettico e disilluso. In Argentina il voto è obbligatorio e chi non ottempera rischia una multa, ma ieri alle urne sono andati solo il 74% degli aventi diritto, l’affluenza più bassa dalle presidenziali del 1983, quando si votò per la prima volta dopo la fine della dittatura militare fascista imposta nel 1976. – Pagine Esteri

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Via libera dal Consiglio dei Ministri al disegno di legge di promozione delle zone montane che disciplina, tra l'altro, una serie di agevolazioni per i docenti che prestano servizio presso le scuole di montagna.

Qui tutti i dettagli ▶️ https://www.



Le vittime civili non sono tutte uguali


Nella primavera del 1999, sotto il comando della Nato, ma senza il via libera dell’Onu, l’Italia mosse guerra alla Repubblica Federale Jugoslava di Serbia e Montenegro con l’obiettivo dichiarato di detronizzare il presidente Slobodan Milosevic. Capo del g

Nella primavera del 1999, sotto il comando della Nato, ma senza il via libera dell’Onu, l’Italia mosse guerra alla Repubblica Federale Jugoslava di Serbia e Montenegro con l’obiettivo dichiarato di detronizzare il presidente Slobodan Milosevic. Capo del governo era il post comunista Massimo D’Alema, cui Francesco Cossiga non smise mai di ricordare che i bombardamenti italiani sulla città di Belgrado provocarono “535 morti civili tra vecchi, donne e bambini”. Non lo faceva solo per il gusto della provocazione, Cossiga. Lo faceva per ricondurre a verità l’ipocrisia di una guerra ribattezzata “operazione di difesa integrata”. Lo faceva per realismo, dunque. Per ricordare, cioè, che, al netto dei contorcimenti lessicali politicamente corretti, la guerra è uno strumento della politica e la politica ha a che fare con la vita e con la morte. Anche con la morte dei civili.

Morti civili, in guerra, ci sono sempre stati. L’apice fu raggiunto nel 1945 con la distruzione della città tedesca di Dresda per mezzo di bombe al fosforo (135mila vittime) e con le atomiche sganciate sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki (250mila vittime). Morti civili, in guerra, ci sono sempre stati, ma con il progresso della civiltà il loro numero è vertiginosamente aumentato: le democrazie faticano a giustificare la morte dei propri soldati mandati a combattere sul campo, preferendo di conseguenza fiaccare il nemico decimandone dall’alto il morale e la popolazione possibilmente grazie all’uso di droni, che consentono di non mettere a repentaglio neanche la vita di un pilota.

Danni collaterali, li chiamano spesso. E si tratta, chiaramente, di un’ipocrisia. Ipocrisia svelata, quando ci sono, dalle immagini video. La stessa ipocrisia che, come era solito denunciare ancora una volta Francesco Cossiga, ci induce da tempo a qualificare “operazioni di pace” quelle che a tutti gli effetti sono operazioni di guerra. Una questione di pudore, ma anche un grande equivoco: come se il fine della guerra fosse la guerra in sè piuttosto che la pace.

E allora, questo o quello per noi pari sono? I bambini israeliani sgozzati dai carnefici di Hamas sono pari ai bambini palestinesi morti sotto i bombardamenti israeliani? No, no davvero. E negarlo non è ipocrisia, è semplicemente realismo; quel realismo caro a Francesco Cossiga. È realismo dire che i bambini sgozzati da Hamas sono un orrore di cui nessun soldato israeliano sarebbe capace. È realismo dire che semmai fossero stati scoperti fatti analoghi a parti invertite questo avrebbe rappresentato un’onta irreparabile per lo Stato (democratico) di Israele. È realismo dire che uccidendo i civili israeliani Hamas non può illudersi di battere Israele, mentre uccidendo civili palestinesi Israele può illudersi di battere Hamas. È realismo dire che i morti civili fanno tutti orrore, ma i morti per mano israeliana fanno meno orrore degli altri perché, parafrasando la celebre battuta del presidente statunitense Roosevelt riferita al dittatore nicaraguense Somoza, “può essere che Israele sia un bastardo, ma è il nostro bastardo”. Affermazione brutale, così traducibile: può darsi che Israele stia abusando della forza, ma Israele è una democrazia filo occidentale che uccide i civili per difendersi, mentre Hamas è un’organizzazione terroristica che uccide i civili per distruggere Israele e insidiare l’Occidente. Perciò noi, piaccia o non piaccia, non possiamo far altro che stare con Israele. È una questione di realismo, direbbe Cossiga.

Formiche.net

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Tunisia: ong rifiutano finanziamenti da “donatori filoisraeliani”


Alcune Ong tunisine hanno deciso di rifiutare i fondi provenienti da donatori occidentali che sostengono Israele. Massicce manifestazioni per la Palestina in tutto il paese L'articolo Tunisia: ong rifiutano finanziamenti da “donatori filoisraeliani” prov

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di Redazione

Pagine Esteri, 23 ottobre 2023 – Alcune organizzazioni non governative della Tunisia hanno deciso di boicottare i propri finanziatori occidentali che si sono schierati con Israele. Ad esempio “I Watch”, una Ong tunisina che combatte la corruzione e si batte per la trasparenza nella pubblica amministrazione, ha deciso di rifiutare da ora in avanti fondi provenienti dagli Stati Uniti dopo che Washington ha annunciato l’invio di armi a Israele e ha posto il veto su una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che prevedeva una pausa umanitaria dei bombardamenti su Gaza per permettere l’invio massiccio di aiuti umanitari alla popolazione palestinese.
Altre importanti ong progressiste e di sinistra – ad esempio OSAE, FTDES e Cartographie Citoyenne – stanno invece boicottando la fondazione tedesca “Rosa Luxemburg” a causa di una “retorica sui due stati per due popoli” accusata di mettere sullo stesso piano le responsabilità israeliane e palestinesi e di non tener conto del fatto che l’occupazione e l’apartheid impediscono la nascita di uno stato palestinese. In generale molte ong tunisine denunciano “il doppio standard” dei Paesi occidentali in merito al conflitto in Medio Oriente.

Lo scorso 18 ottobre almeno ventimila persone hanno manifestato nel centro di Tunisi contro i bombardamenti israeliani su Gaza ed esprimere solidarietà al popolo palestinese. Grandi manifestazioni si sono svolte in contemporanea anche a Sfax, Gafsa e Medenine.

La presa di posizione delle ong tunisine contro alcuni dei loro finanziatori internazionali avviene in un contesto in cui il regime di Tunisi guidato dal presidente Saied prova a varare una stretta legislativa contro le organizzazioni non governative per sottoporle ad un crescente controllo. – Pagine Esteri

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Dic 13
Dua renkontiĝo
Mer 14:30 - 16:00
Verda Majorano
Jus antaŭ la Zamenhofa Tago, aŭ Tago de la Esperanto-libro, kiu okazos la 15-a de decembro. Ni babilos pri libroj!


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Resilienza delle infrastrutture critiche, così la Nato si prepara alla sfida. Parla Peronaci


Lo sguardo della Nato di fronte alle sfide del futuro intende essere davvero a 360°, estendendosi non solo all’aspetto geografico, ma anche di altri ambiti strategici, a partire dalla protezione delle strutture alla base del benessere e della stabilità de

Lo sguardo della Nato di fronte alle sfide del futuro intende essere davvero a 360°, estendendosi non solo all’aspetto geografico, ma anche di altri ambiti strategici, a partire dalla protezione delle strutture alla base del benessere e della stabilità delle società, tra cui spiccano le infrastrutture strategiche. Sul tema, Airpress ha intervistato il rappresentante permanente d’Italia presso il Consiglio atlantico, Marco Peronaci.

Ambasciatore, spesso si sente parlare di “resilienza” dei sistemi, che devono essere in grado di assorbire gli shock senza venirne travolti. Come declina la Nato questo concetto?

Per comprendere la portata e la rilevanza della “resilienza” in ambito Nato è necessario innanzitutto fare chiarezza sul concetto stesso di resilienza: un termine che da oltre un decennio si è diffuso anche in Italia divenendo parte del linguaggio comune, ma il cui uso ha ampliato sia il ventaglio dei settori in cui la parola è utilizzata, dall’originario ambito tecnologico (la proprietà dei materiali di resistere agli urti senza spezzarsi) alla psicologia, ai settori sociale, economico e politico, sia le sfumature del significato stesso di resilienza, che talvolta ha perso concretezza.

Concretezza e operatività che, invece, sono centrali nel concetto di resilienza per la Nato e per gli Alleati. Radicata nell’articolo 3 del Trattato dell’Atlantico del Nord, ossia dall’istituzione dell’Alleanza Atlantica nel 1948, la resilienza assume una funzione essenziale per l’Alleanza, tanto in tempo di pace come in caso di crisi o di conflitto: ossia, la capacità dei singoli Alleati e collettiva di essere preparati e, ove necessario, resistere, rispondere e riprendersi rapidamente da gravi shock, siano essi causati da disastri naturali, interruzioni delle infrastrutture critiche o attacchi ibridi o armati.

In che modo, allora, agisce la Nato di fronte a queste minacce?

Rispetto a questa essenziale esigenza di protezione delle nostre società da eventi dirompenti, l’evoluzione del contesto di sicurezza, delle attività della Nato e il sempre maggiore controllo privato anziché governativo delle infrastrutture critiche hanno indotto l’Alleanza al progressivo consolidamento di una vera e propria dottrina della resilienza. I Vertici Nato di Varsavia nel 2016, Bruxelles nel 2021, Madrid del 2022 e infine Vilnius nel 2023 hanno sviluppato e rafforzato la resilienza quale fattore abilitante per l’efficace raggiungimento di ciascuna delle tre funzioni essenziali dell’Alleanza Atlantica: deterrenza e difesa, prevenzione e gestione dei conflitti, sicurezza cooperativa. E, di conseguenza, anche per l’efficacia della sua postura. Se volessimo semplificare, sarebbe possibile immaginare la resilienza quale la “prima linea” di deterrenza e difesa dell’intera Alleanza Atlantica.

Quali sono le principali minacce all’orizzonte?

La pandemia e le conseguenze globali dell’aggressione russa contro l’Ucraina in primis, le crisi energetica e di sicurezza alimentare, hanno reso evidenti e concreti nella percezione pubblica le vulnerabilità dei sistemi socioeconomici e, con esse, gli enormi rischi e costi causati da simili shock, che potrebbero accadere anche nel futuro, rendendo al contempo ancora più nitida la necessità di prevenzione e preparazione.

Qual è stata, allora, la risposta della Nato?

A fronte delle minacce e delle sfide globali la “Nato del futuro” descritta dal nuovo Concetto strategico del 2022 ha ampliato il campo dei settori le cui vulnerabilità possono avere effetti, diretti o indiretti, sulla sicurezza collettiva e da cui dipende l’efficacia dell’Alleanza. Ne sono esempi concreti le catene di approvvigionamento, le infrastrutture critiche, le materie rare, ma anche l’esposizione alla disinformazione e gli attacchi ibridi e cyber. Un allargamento concettuale e pratico che, è bene precisarlo, rimane comunque ancorato ai principi del Trattato di Washington che attribuiscono alla responsabilità nazionale la traduzione pratica della difesa rispetto alle nuove e vecchie minacce.

Cioè?

Per esempio, nel caso italiano così come della maggior parte degli Alleati, ricadono in numerosi ambiti nelle competenze dell’Unione europea, rendendo pertanto la cooperazione tra Nato e Ue una necessità strategica e, al contempo, un’opportunità per sinergie nell’indirizzo delle risorse finanziare comunitarie, ad esempio in ambiti quali mobilità, energia e infrastrutture.

Quali sono, in questo senso, le priorità d’azione dell’Alleanza?

Ricomprendendo l’intero spettro delle minacce, la Nato ha identificato per la resilienza la necessità di assicurare tre funzioni essenziali (continuità di governo; continuità dei servizi essenziali; sostegno civile al settore militare) suddivise in sette esigenze di base (continuità di governo e dei servizi pubblici critici; forniture energetiche; capacità di gestire efficacemente i movimenti incontrollati di persone; risorse alimentari e idriche; capacità di gestire gravi crisi sanitarie; sistemi di comunicazione civile; sistemi di trasporto civile).

Quando si parla di resilienza dei sistemi, un argomento centrale del tema è la protezione delle cosiddette infrastrutture critiche…

È un settore di crescente rilevanza, anche nel quadro della cooperazione con il settore privato e industriale. Trattandosi di strutture-chiave per la fornitura di servizi essenziali ai cittadini tanto quanto alle Forze armate: cavi sottomarini, oleodotti e gasdotti necessitano di particolare prevenzione e protezione. Secondo stime Nato, le infrastrutture sottomarine trasportano ogni giorno circa dieci trilioni di dollari in valore, inclusi i vitali approvvigionamenti energetici, mentre il 95% dei flussi globali di dati è trasmesso attraverso cavi sottomarini. Non a caso, a seguito del sabotaggio del gasdotto Nord Stream, la Nato ha creato una Cellula di coordinamento per le infrastrutture critiche sottomarine. E proprio in questi giorni è al centro dell’attenzione il Balticconnector, che collega Finlandia ed Estonia. È evidente che la geografia italiana, nel cuore del Mediterraneo, rende tale dimensione della resilienza cruciale per il nostro Paese.

Quali sono, in questo senso, le iniziative della Nato

Come detto, in ambito Nato, la resilienza ha una natura molto concreta. Prova ne è che, dopo aver concordato gli obiettivi collettivi al Vertice di Vilnius del luglio 2023 gli Alleati, Italia compresa, sono chiamati ad adottare i propri Obiettivi di resilienza e Piani di attuazione nazionale, dando ulteriore concretezza agli impegni assunti in ambito Nato. In definitiva, il concetto di resilienza per la Nato è strettamente connesso a quello di vulnerabilità, ma affrontare le proprie vulnerabilità significa anche cogliere l’opportunità di rafforzare le nostre società per affrontare più serenamente il futuro e le sfide, tanto più se possiamo farlo collettivamente nel quadro di riferimento securitario e valoriale euro-atlantico cui apparteniamo. Di resilienza discuteranno i Senior Policy Officer dei Paesi dell’Alleanza il prossimo 7 novembre.

E per quanto riguarda l’Italia?

Il nostro Paese è già al lavoro per fare la sua parte, in stretto raccordo con la Nato. A giorni si terrà a Roma una riunione bilaterale di alto livello con funzionari Nato proprio sulla resilienza. Occorrerà operare con oculatezza, in coerenza con il nostro profilo di rischio nazionale e dando conseguente priorità a settori maggiormente esposti ai rischi, inclusi i servizi critici, le catene di approvvigionamento sostenibili e diversificate, le infrastrutture critiche. Sarà inoltre fondamentale evitare nuove dipendenze, siano esse legate alla dimensione energetica o tecnologica ovvero alla disponibilità di materie rare.


formiche.net/2023/10/nato-resi…


in reply to Fulvio Malfatto

Grazie! come faccio ad aggiornare le info nell'elenco globale? Riporta ancora i vecchi dati ed una versione obsoleta, mentre ho reinstallato ex novo con l'ultima versione. Grazie
in reply to Fmal @privato

@fmal @Fulvio Malfatto non puoi farci niente perché non dipende da te: solitamente c'è bisogno di un po' di tempo, dove l'espressione un po' va intesa come un tempo non precisamente definito e che dipende soprattutto dalla frequenza con cui il sistema di rilevamento raccoglie i dati... 😁
in reply to Fulvio Malfatto

Lo immaginavo, grazie per la conferma, era solo per essere sicuro di avere installato correttamente.


Ecco come Russia e Cina si preparano alle guerre del futuro. Report Isw


Nei loro progetti di revisione dell’ordine internazionale, tanto la Russi quanto la Cina assegnano un ruolo fondamentale all’utilizzo del proprio strumento militare, il cui impiego viene considerato come necessario per il raggiungimento dei propri obietti

Nei loro progetti di revisione dell’ordine internazionale, tanto la Russi quanto la Cina assegnano un ruolo fondamentale all’utilizzo del proprio strumento militare, il cui impiego viene considerato come necessario per il raggiungimento dei propri obiettivi. Proprio per questo entrambi i Paesi portano avanti progetti di modernizzazione delle proprie forze armate con l’intento di farle trovare pronte alle sfide belliche del futuro. I diversi approcci seguiti in questo senso da Mosca e da Pechino sono stati oggetto di uno studio dell’Institute for the Study of War, che ha da poco pubblicato un report al riguardo.

L’esercito russo e quello cinese provengono da due storie differenti, hanno differenti punti di forza e di debolezza, così come differenti priorità. Entrambi però vedono nel raggiungimento della dominance all’interno del processo di decision-making la chiave dei conflitti futuri, dominance che può essere raggiunta attraverso una combinazione di potenziamento del proprio apparato decisionale e di deterioramento di quello avversario.

L’approccio russo di Mosca si incentra sul concetto di “superiorità gestionale”, caratterizzato da una maggiore velocità e da una maggiore qualità nel proprio processo decisionale, al fine di costringere l’avversario a compiere scelte come “reazioni” alle azioni delle proprie forze armate, limitandone quindi la libertà d’azione. Dal più alto livello di grand strategy al più immediato e semplice movimento tattico sul campo di battaglia. In contrapposizione con la dottrina occidentale: mentre gli Stati Uniti e la Nato in generale tendono a concepire separatamente le operazioni cinetiche e quelle di informative, in Russia le due dimensioni sono profondamente intrecciate (secondo i dettami dell’hybrid warfare).

Tuttavia, l’esperienza in Ucraina ha dimostrato come le carenze delle forze armate russe nelle dimensioni dell’addestramento, del personale e della leadership non permettano al Cremlino di raggiungere la strategic dominance desiderata. Mosca non è stata in grado di sfruttare la preziosa esperienza siriana (dove le sue truppe si sono cimentate in operazioni di combattimento reale) per avviare un processo di aggiustamento della propria struttura militare, facendo sì che permanessero al suo interno problematiche preesistenti capaci di inficiare futuri trasformazioni dello strumento militare russo.

Per Pechino, la situazione è diversa. Il percorso di modernizzazione militare cinese è di più largo respiro rispetto a quello russo, e si articola intorno a tre principali direttrici: ideologia, addestramento e nuove tecnologie. Puntando su queste tre dimensioni, l’Esercito popolare di liberazione intende raggiungere una superiorità “sistemica” rispetto all’avversario americano, ancora troppo ancorato alla logica dei domain. Grazie all’indottrinamento dei soldati garantito dalla presenza dei commissari politici e ai processi di informatization e di intelligentization (nel primo caso integrazione di sistemi informatici nelle strutture e nei sistemi d’arma, dell’Intelligenza artificiale nel secondo), entro il 2049 la leadership cinese mira a ottenere la parità, o addirittura la superiorità, rispetto all’avversario americano.

Al contrario della Russia, la Cina non si impegna in un’operazione militare dal 1979, e questa carenza di esperienza diretta pesa sull’apparato bellico di Pechino, poiché non permette di mettere alla prova in una situazione reale gli sviluppi teorici conseguiti. Per sopperire a questa carenza, l’Esercito popolare di liberazione ricorre in modo sempre più estensivo a simulazioni videoludiche, che però non possono assolutamente sostituire la complessità di un vero campo di battaglia.

Cosa devono dunque fare gli Stati Uniti per rimanere la potenza militare egemone? Secondo gli esperti dell’Isw, è fondamentale puntare sulle proprie peculiarità rispetto agli avversari. Peculiarità che spaziano dall’aspetto del personale (né la Russia né la Cina dispongono di una classe di non-commisioned officer, intercapedine fondamentale nel sistema di command and control) a quello economico (il relativo controllo sulla supply chain mondiale rispetto ai due Paesi avversari). Puntare su queste leve potrebbe rivelarsi la mossa giusta per mantenere la superiorità rispetto agli avversari nelle guerre die decenni a venire.


formiche.net/2023/10/isw-repor…



Crosetto in Libano, la presenza italiana è un fattore di pacificazione


Lavorare affinché il domani sia meglio dell’oggi, impegnandosi affinché il conflitto, che nessuno vuole, non si estenda ulteriormente. È questo il cuore del messaggio lanciato dal ministro della Difesa, Guido Crosetto, nel corso della sua visita al contin

Lavorare affinché il domani sia meglio dell’oggi, impegnandosi affinché il conflitto, che nessuno vuole, non si estenda ulteriormente. È questo il cuore del messaggio lanciato dal ministro della Difesa, Guido Crosetto, nel corso della sua visita al contingente italiano in Libano, parte della missione Unifil delle Nazioni Unite. Attualmente, i militari italiani dell’operazione Leonte XXXIV, strutturati sulla base della brigata meccanizzata Granatieri di Sardegna, sono presenti nella base militare di Shama, nel sud del Libano, parte dello sforzo Onu per assicurare la stabilità del volatile confine con Israele. La complessità dello scenario è stata dimostrata dal missile, deviato, che ha colpito senza nessuna conseguenza il quartier generale della missione Unifil a Naqoura, undici chilometri più a sud rispetto alla base italiana.

Nessuno vuole un’escalation

Come ricordato dallo stesso ministro, la sua visita in Libano segue quelle in Arabia Saudita e in Qatar, oltre ai viaggi del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in Egitto e in Israele (dov’è stato anche il ministro degli Esteri, Antonio Tajani), “perché l’Italia sta cercando di giocare un ruolo per evitare un’escalation, per non tornare a una guerra tra Islam e Occidente, tra mondo arabo e occidentale. Non lo vogliamo noi, non lo vogliono i Paesi arabi, non lo vuole nessuno”. Per il ministro, infatti, lo scopo e il lavoro dell’impegno italiano nella regione è quello di “buttare acqua sul fuoco”, contrastando chi invece vorrebbe infiammare il Medio Oriente “cancellando dalle cartine geografiche Israele e la civiltà occidentale”. Il ministro, però, ha sottolineato come questo tentativo sia avversato tanto dai Paesi occidentali, quanto dagli stessi Paesi arabi. “È una situazione difficile, e tutti stiamo lavorando perché si trovi una soluzione, la meno pesante e più accettabile possibile, distinguendo il destino del popolo palestinese da quello dei terroristi di Hamas”. Su un punto, ha infatti precisato Crosetto, “ci troviamo tutti d’accordo, un conto e Hamas, che è un’organizzazione terroristica che come unico scopo la distruzione di Israele, un altro è il destino del popolo palestinese, che è tutt’altra cosa”.

Il ruolo di Unifil

Il conflitto a Israele, tuttavia, se da un lato ha costretto il contingente Unifil a misure di sicurezza più stringenti, non ha ridotto l’impegno e il lavoro dei Caschi blu presenti. Del resto, come annota lo stesso Crosetto “le scaramucce tra Hamas e Israele non sono mai terminate, in questo momento si sono intensificate e i nostri militari devono proteggersi. Tuttavia, il loro ruolo e semmai ancora più importante, dal momento che “fanno vedere che tutto il mondo crede nella Pace di questa parte di globo”. La missione Unifil, infatti “non è Nato, non è bilaterale, ma Onu. Ci sono 49 nazioni che hanno i loro militari qui e il cui scopo e preservare la pace” del Libano e tra il Paese e il suo vicino meridionale. Diventa, ha proseguito il ministro “ancora più fondamentale e importante preservare questa presenza”. In questo momento, però, è anche importante ricordare come i militari presenti sono lì in veste di “portatori di pace, sicurezza e dialogo” con “regole di ingaggio diverse rispetto a quelle dei contingenti in Afghanistan” e non sono “pronti per combattere, come successo per altre zone in altri tempi”.

L’importanza della presenza italiana

In tutto questo scenario, il nostro Paese può giocare un ruolo importante, grazie soprattutto al suo impegno per missioni come Unifil e alla sua costante presenza nella regione. Come sottolineato da Crosetto “l’Italia riesce ad avere un dialogo anche con alcune parti del mondo tra le più difficili” grazie al “rispetto di cui godono le istituzioni italiane, frutto non delle persone che le interpretano pro tempore, ma delle migliaia di soldati che con il loro atteggiamento e il loro modo di supportare le popolazioni hanno fatto guadagnare stima al loro Paese, oltre che a loro stessi”.


formiche.net/2023/10/crosetto-…



#NotiziePerLaScuola

È disponibile il nuovo numero della newsletter del Ministero dell’Istruzione e del Merito.

🔶Il MIM alla quarantesima assemblea ANCI a Genova. Dal 24 al 26 ottobre con uno spazio informativo e pubblicazioni aggiornate.



📣 Dal 24 al 26 ottobre, presso la Fiera di Genova, è in programma la 40ª edizione dell’Assemblea nazionale dell’ANCI, l’Associazione Nazionale Comuni Italiani.
“Tre colori sul cuore”, è il titolo dell’iniziativa di quest’anno.


LIVE. GAZA/ISRAELE. Giorno 17. Si intensificano i bombardamenti sulla Striscia. Evacuate aree israeliane al confine con il Libano


Secondo il Ministero della Sanità palestinese, i bombardamenti delle ultime 24 ore hanno ucciso più di 400 persone nella Striscia di Gaza. Israele ha comunicato di aver colpito 320 obiettivi, per eliminare possibili minacce durante l'invasione di terra L

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della redazione –

Pagine Esteri, 23 ottobre 2023. Secondo il Ministero della Sanità palestinese, i bombardamenti israeliani delle ultime 24 ore hanno ucciso più di 400 persone nella Striscia di Gaza. Durante la notte appena trascorsa gli attacchi aerei sono stati particolarmente numerosi, soprattutto sul campo profughi di Jabalia dove, secondo la protezione civile di Gaza, sono state uccise 30 persone. Jabalia è il più grande degli otto campi profughi della Striscia di Gaza. Il bilancio totale delle vittime nella Striscia è salito, secondo il Ministero della Salute, a 4.651.

Le autorità israeliane hanno comunicato di aver colpito, nelle ultime 24 ore, 320 obiettivi militari a Gaza, per eliminare le possibili minacce che i soldati potrebbero trovare durante l’invasione di terra, che si sta annunciando come imminente ormai da giorni.

La situazione degli ospedali è sempre più disperata. I medici di diverse strutture hanno fatto sapere di non avere i mezzi per affrontare l’enorme numero di feriti, tra i quali moltissimi bambini, che riportano ferite gravi e ustioni permanenti. Nel nord della Striscia l’ospedale indonesiano ha comunicato che non potranno più essere effettuati interventi chirurgici se non arriverà presto del carburante. Israele continua ad ordinare l’evacuazione delle strutture ospedaliere.

Nella notte l’esercito israeliano ha fatto irruzione nel campo profughi di Jalazone, vicino Ramallah, uccidendo due palestinesi. Le incursioni israeliane sono avvenute in diversi luoghi della Cisgiordania occupata, portando all’arresto di decine di palestinesi a Betlemme, Ramallah, Jenin, Nablus e in altre zone.

Secondo le autorità palestinesi dall’attacco di Hamas dello scorso 7 ottobre, che ha causato la morte di più di 1.400 israeliani, sono stati arrestati in Cisgiordania circa 1.200 palestinesi.

È terminata ieri l’evacuazione di 14 aree israeliane vicine al confine con il Libano, dove continua lo scambio a fuoco tra esercito ed Hezbollah.

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In Cina e Asia – Avviate indagini sulla Foxconn: possibile impatto su Taiwan e Usa


In Cina e Asia – Avviate indagini sulla Foxconn: possibile impatto su Taiwan e Usa 9930821
I titoli di oggi:

-Cina, indagini sulla Foxconn: possibile impatto su Taiwan e Usa
-Collisioni tra navi filippine e cinesi nel Mar cinese meridionale
-Summit Usa-Ue, la Cina tra i temi più discussi del vertice
-Pechino studia le sanzioni Usa contro la Russia negli scenari sull'invasione di Taiwan
-Nato, la relazione Cina-Russia è un "rischio per la sicurezza dell'Artico"
-La Cina estende le restrizioni all'esportazione di grafite
-Sicurezza alimentare, la Cina apre alla coltivazione di nuove varietà OGM di mais e soia
-Indonesia, Prabowo sceglie il figlio di Widodo come candidato alla vicepresidenza
-Corea del Sud, a un anno dalla strage di Itaewon ancora dubbi sui festeggiamenti di Halloween 2023

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N. 191/2023 LE TRE NEWS DI OGGI: Questa settimana, il governo dello Yukon ha pubblicato nuove norme che aumentano i poteri del RCMP. Prima dell’entrata in vigore della legge sulle persone scomparse, la polizia non poteva obbligare qualcuno o un’organizzazione a rilasciare informazioni personali su una persona scomparsa. Ora la legge consente esattamente questo. “Credo...


Alla moschea di Taipei, solidarietà con il popolo palestinese


Alla moschea di Taipei, solidarietà con il popolo palestinese 9929588
L'iniziativa dal basso. Il governo di Taiwan schierato con decisione con Tel Aviv. Gli organizzatori: "Hamas non rappresenta tutti i musulmani, né tutti i palestinesi". Il racconto da Taipei

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Quanto impegno e quanto costo comporta un’istanza di Mastodon?


Il Fediverso è un'alternativa aperta, gratuita e non commerciale alle piattaforme convenzionali. Ma i server devono essere pagati, i post moderati e la tecnologia deve essere mantenuta in funzione. Quanto costa effettivamente e quanto tempo dedicano gli o

Riportiamo l’articolo di Markus Reuter, pubblicato il 15 ottobre 2023 su Netzpolitik Il Fediverso è un’alternativa aperta, gratuita e non commerciale alle piattaforme convenzionali. Ma i server devono essere pagati, i post moderati e la tecnologia deve essere mantenuta in funzione. Quanto costa effettivamente e quanto tempo dedicano gli operatori alle loro istanze Mastodon? Da quando Elon Musk ha...

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Il Fediverso è un’alternativa aperta, gratuita e non commerciale alle piattaforme convenzionali. Ma i server devono essere pagati, i post moderati e la tecnologia deve essere mantenuta in funzione. Quanto costa effettivamente e quanto tempo dedicano gli operatori alle loro istanze Mastodon?

informapirata.it/2023/10/22/qu…






Three stories that all relate to governance, in their own different ways. Mbin is a new fork of Kbin, due to governance issues at Kbin. A research paper on that gives some structure to how different Mastodon servers organise their rules.


Sudan. Guerra civile sei mesi dopo, avanzano i miliziani delle RSF


Le RSF, accusate di atrocità sui civili, starebbero tentando di spostarsi a sud, verso lo stato di Gezira, e la scorsa settimana hanno preso il controllo di Ailafoun L'articolo Sudan. Guerra civile sei mesi dopo, avanzano i miliziani delle RSF proviene d

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della redazione

Pagine Esteri, 22 ottobre 2023 – Le Forze di supporto rapido (RSF), la milizia paramilitare che combatte l’esercito regolare sudanese dallo scorso 15 aprile, negli ultimi sei mesi sono avanzate e hanno consolidato la loro presenza a Khartoum, riferiscono fonti locali.

Le RSF starebbero tentando di spostarsi verso sud, verso lo stato di Gezira, un’area agricola chiave, e la scorsa settimana hanno preso il controllo di Ailafoun, una delle principali città su una delle rotte per Madani. Testimoni hanno parlato di saccheggi e violenze compiute dai miliziani. Le RSF hanno inoltre lanciato attacchi contro Nyala ed El Obeid, a ovest della capitale. L’esercito afferma che i suoi soldati, e in particolare le unità delle forze speciali, stanno combattendo l’avanzata. All’interno di Khartoum, i miliziani ha lanciato attacchi contro diverse basi dell’esercito, tra cui il quartier generale e la base del corpo corazzato.

Secondo fonti locali le RSF hanno avviato un’altra avanzata contro una base militare a sud di Khartoum, nella zona di Jebel Awlia, uccidendo 45 persone questo mese, ha detto un gruppo di avvocati che non ha incolpato nessuna delle parti.

Mesi dopo che i mediatori hanno sospeso i negoziati, non sembra esserci all’orizzonte una fine della guerra civile che ha sfollato più di 5,75 milioni di persone, ucciso migliaia di civili e devastato le principali città. Pagine Esteri

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Budget della Difesa, cosa succede in Europa? L’analisi di Braghini


Con la pubblicazione da parte del Governo della relazione annuale al Parlamento, nel Documento programmatico pluriennale 2023 – 2025 viene fornita una dettagliata e aggiornata analisi circa dottrina e postura della Difesa nazionale e informazioni e previs

Con la pubblicazione da parte del Governo della relazione annuale al Parlamento, nel Documento programmatico pluriennale 2023 – 2025 viene fornita una dettagliata e aggiornata analisi circa dottrina e postura della Difesa nazionale e informazioni e previsioni sulle “risorse ricomprese nel ministero della Difesa e di quelle iscritte in altri dicasteri impiegate per lo sviluppo di programmi di interesse del ministero Difesa” in un arco sessennale. Il Dpp fa riferimento alla legge di bilancio 2023, in attesa delle decisioni del Parlamento e delle prossime leggi finanziarie circa l’approvazione degli stanziamenti previsionali.
Viene confermato l’impegno del Governo a promuovere e sostenere il settore della Difesa, inquadrato in una visione di lungo termine, e in linea con gli impegni assunti in sede Nato partecipando insieme con gli altri Paesi europei al trend di incremento degli investimenti per la difesa. Al riguardo, considerando in unico blocco i Paesi Ue, Regno Unito, Norvegia e Turchia, si evidenziano maggiori investimenti per gli equipaggiamenti di circa 28 miliardi di euro tra il 2022 e il 2023, raggiungendo il livello di cento miliardi.

Ragioni, necessità e accelerazioni comuni. L’impegno nazionale
Le nuove e crescenti tensioni che caratterizzano l’attuale quadro securitario hanno e stanno comportando l’esigenza da parte dei Paesi di adeguare le capacità di deterrenza per fronteggiare le minacce. La tendenza all’incremento degli investimenti per la difesa si era già avviata anche in Europa, dove il calo strutturale delle spese o sottocapitalizzazione in molti anni ha creato un divario capacitivo con le conseguenti debolezze e vulnerabilità nazionali. Ma l’accelerazione degli eventi conflittuali ad alta intensità e di tensioni geopolitiche con un cambio di paradigma per la sicurezza europea ha fatto emergere l’urgenza di colmare le carenze comuni, compensandole con nuovi investimenti. Oggi l’aumento in corso e prospettico degli investimenti per la difesa è consolidato e diffuso nella maggior parte dei Paesi Nato, più ampio negli Usa, in Cina e Russia.
Anche in Italia negli anni recenti si è registrata una più sentita consapevolezza sul ruolo e l’importanza della sicurezza, con l’assegnazione da parte del Parlamento di risorse per la difesa in progressivo incremento.
Il nuovo Documento di programmatico pluriennale evidenzia una progressione degli investimenti del ministero della Difesa e del ministero delle Imprese e Made in Italy, integrati dai fondi del ministero dell’Economia e finanze, che è stata avviata nel 2021.
Oggi gli investimenti si situano a un livello di tutto rispetto intorno a otto milioni, con previsioni incrementali che saranno oggetto di dibattito nelle prossime leggi di bilancio.
Si denotano altresì, rispetto al precedente Dpp 2022 – 2024, previsioni più consistenti per il prossimo triennio. Questo aspetto programmatico è rilevante in particolare oggi con l’avvio o prossimo avvio di importanti collaborazioni europee e internazionali che caratterizzeranno la domanda e l’offerta del comparto difesa nei prossimi decenni. L’Italia potrà così essere in grado di tutelare e rafforzare i propri presidi tecnologici, e svolgere un ruolo e rango credibili come partner sostenuto dal Governo e da risorse finanziarie adeguate, certe e stabili nel lungo periodo.
Merita anche notare il riferimento circa gli aspetti tecnico-finanziari in relazione all’andamento delle disponibilità finanziarie. Negli ultimi anni l’andamento ha registrato variazioni in parte dovute a rifinanziamenti, effetti delle precedenti leggi di bilancio, adeguamenti contabili e riprogrammazioni, che mostrano la complessità dell’attuale quadro normativo aggiornato con nuove misure nel corso degli anni.
Per l’esercizio, c’è una certa progressione partendo da un livello inferiore rispetto alla media Nato, rimanendo peraltro insufficiente per sopperire alle necessità operative.

Un quadro incerto per tutti
Tuttavia, le previsioni dei Paesi europei, inclusa l’Italia, non potevano considerare il succedersi di emergenze e di fattori critici emersi, quali gli effetti dell’impennata dell’inflazione e l’urgenza di accelerare le acquisizioni di equipaggiamenti per adeguare le capacità di deterrenza e mantenere sufficienti riserve. A complicare l’equazione e l’incertezza, che peraltro sono comuni nella Ue, si aggiungono la necessità di trovare un equilibro tra sostenibilità delle risorse pubbliche, vincoli di bilancio europei, le emergenze nell’energia, transizione ecologica, sicurezza degli approvvigionamenti, immigrazione, competizione economica e tecnologica tra Usa, Cina e Ue.
È quindi necessario che la politica nazionale di sicurezza e difesa sia confermata tra le priorità del Governo e del Parlamento, possa usufruire di risorse adeguate in termini reali proseguendo la tendenza incrementale già avviata, consenta di partecipare alla crescita delle spese difesa verso l’obiettivo Nato del 2% del Pil.

Le spese in altri Paesi europei
Oggi l’impegno confermato dal Governo per gli investimenti nella difesa ha consentito di raggiungere una dimensione di tutto rispetto, mentre in alcuni Paesi della Nato ambizioni, minacce, capacità finanziarie e fiscali sono su livelli più elevati, anche per la vicinanza con il confine orientale della Nato e la percezione della minaccia russa. Alcuni esempi in Europa possono dare l’idea dell’impegno all’aumento delle capacità di difesa, dove le esigenze capacitive e tecnologiche sono comparabili e condivise tra i Paesi Nato.

Le spese di Londra, fuori dai vincoli Ue
Nel Regno Unito, potenza nucleare svincolata dai legami europei, la spesa per la difesa si caratterizza per un andamento non costante con variazioni annue, cambiamenti di programmi, fondi supplementari, discesa percentuale del Pil, che rimane in ogni caso superiore alla media. Per il 2022-2023 il MoD Annual report and accounts di marzo 2023 riporta nel corrente anno un budget difesa di 52,8 miliardi di sterline in crescita annua nominale di sei miliardi. Gli investimenti ammontano a 18,3 miliardi, ripartiti 8,5 per procurement, 7,7 supporto e 2,2 in ricerca e sviluppo. È il risultato della Spending review 2020 che ha stanziato 16,5 miliardi addizionali nel periodo 2020-2024. Più recentemente il Primo ministro ha annunciato un aggiornamento dell’Integrated review del 2021 prevedendo un “ramp up a fronte delle sfide in un mondo crescentemente volatile e complicato”. Con il 2023 l’Integrated review refresh e lo Spring budget hanno confermato cinque miliardi addizionali per il prossimo biennio, e ulteriori due all’anno nel quinquennio, per un totale di undici miliardi.

Le ambizioni di Parigi
La Francia, potenza nucleare con velleità di leadership europea, è dotata del più ampio e strutturato dispositivo finanziario e industriale per la difesa nel Vecchio continente. Le disponibilità delle Leggi pluriennali militari (Lpm) sono fortemente incrementate, passando da 295 a 413 miliardi di euro nel quinquennio 2024-2030, giustificate dalla “diversificazione dei rischi e delle minacce in un’era di rinnovata competizione tra potenze”. Significativo è l’impegno per gli investimenti nucleari e convenzionali (da 172 a 268 miliardi), che nel 2023 si situa tra 23 e 27 miliardi. Molto elevata la spesa in ricerca e sviluppo con sei miliardi di cui uno per l’innovazione. Il Governo, nel cui ambito il Presidente ha poteri decisionali di ultima istanza, ha sempre rispettato la traiettoria di aumento della spesa per la difesa. Oggi il rischio di una procedura di infrazione per deficit eccessivo non intacca la decisa volontà del Governo a sostenere la difesa. Vale sempre il richiamo a De Gaulle “la défense est la première raison d’être de l’Etat”. La priorità data alla Difesa, quale strumento di una dinamica politica estera perseguita da tutti i Governi, è figlia di una cultura e di un pensiero strategico e sofisticato che è unico in Europa.

Il cambio di rotta di Berlino
In Germania, dopo anni di disinvestimenti nella difesa dove la stessa è sottorappresentata rispetto alla forza economica del Paese, con conseguenti criticità e inefficienze nel dispositivo di difesa nazionale, a sorpresa Scholz nel febbraio 2022, tre giorni dopo l’invasione dell’Ucraina, ha annunciato un cambio radicale di passo per la postura e il modello economico del Paese, la Zeitenwelde. L’approccio di “sicurezza integrata” include una riforma complessiva dell’economia tra Ucraina, diversificazione energetica, stop al gas russo, dove la difesa ha il profilo maggiore. È previsto un Sondervermogen, un fondo speciale debito fino a cento miliardi per nuovi equipaggiamenti della Bundeswehr. Si passa dall’inerzia alla trasformazione, che non appare ancora come il frutto di una cultura strategica bensì di una riflessione su come utilizzare i fondi disponibili. Il Fondo contribuisce al bilancio difesa con 8,5 miliardi (2023), 19,2 con una forte crescita di sistemi non europei (2024) e terminerà nel 2026, conseguendo il target del 2% del Pil; nel 2027, anno elettorale, si porrà la questione del suo mantenimento. Nel complesso, il budget difesa sale da 28 miliardi nel 2023 a 71 nel 2024; il procurement 2022-2024 rispettivamente 9,8 – 16 – 22 miliardi, il supporto 4,6 – 4,9 – 6,4 miliardi. E il Paese è in recessione.


formiche.net/2023/10/budget-de…



#laFLEalMassimo – Episodio 104: Hamas Israele e l’ipocrisia dei sostenitori occidentali


Per oltre un anno e mezzo aprendo questa rubrica ho ritenuto doveroso ricordare gli orrori del conflitto che ancora perdura a causa della follia espansionista di Putin. Purtroppo, oggi mi trovo a parlare di altri orrori, di altre vittime innocenti di una

Per oltre un anno e mezzo aprendo questa rubrica ho ritenuto doveroso ricordare gli orrori del conflitto che ancora perdura a causa della follia espansionista di Putin. Purtroppo, oggi mi trovo a parlare di altri orrori, di altre vittime innocenti di una diversa follia genocida, quella di Hamas.

A tal proposito, l’ipocrisia di una parte dell’occidente e l’ottuso fanatismo ideologico di quelli che con la loro attività di disinformazione e mistificazione comunicativa, si rendono complici di veri e propri crimini contro l’umanità, ha superato le vette raggiunte per la guerra in Ucraina.

Non è questa la sede per parlare del complesso rapporto tra israeliani e palestinesi, di come si è evoluto nella storia e di come si sono realizzate la condizione per il terribile attacco terrorista al quale abbiamo assistito due settimane fa.

Tuttavia, ogni individuo dotato di una coscienza ha il dovere morale di condannare i crimini efferati e l’infame aggressione ai danni di innocenti compiuta da Hamas. Anche la sola menzione di possibili ragioni alla base di queste azioni, così come il confronto con altre lutti e sofferenze patite dal popolo palestinese, costituisce un inaccettabile principio di giustificazione. Si tratta del punto di partenza ideologico da cui comincia la strada che porta ai campi di concentramento e allo sterminio di massa.

Non ci può essere dialogo con chi si rende colpevole di massacri e crimini efferati, la barbarie va condannata senza appello dalle popolazioni civili e va contrastata sul campo con tutti i mezzi necessari a tutelare l’incolumità della popolazione civile.

Ci saranno lunge e complesse trattative diplomatiche quando finalmente i combattimenti saranno cessati e possiamo come esseri umani solo augurarci che questo avvenga prima possibile e con il minor numero di vittime innocenti. Ma prima di discutere con chi si presenterà come interlocutore credibile, è necessario combattere sul campo tanto l’invasore russo quanto il terrorista di Hamas. Chi alimenta ambiguità su questo profilo si rende complice dei massacri che siamo putroppo costretti ad osservare tutti i giorni.

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Ho ricevuto da Francesca Bettini dell'associazione Gazzella Onlus un nuovo file audio inviato stamattina dalla cooperante italiana Giuditta Brattini. All'inizi


Francia: due sindacalisti della CGT arrestati per un comunicato sulla Palestina


In Francia due sindacalisti dellla CGT sono stati arrestati dopo la pubblicazione di un comunicato di solidarietà con il popolo palestinese L'articolo Francia: due sindacalisti della CGT arrestati per un comunicato sulla Palestina proviene da Pagine Este

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di Redazione

Pagine Esteri, 21 ottobre 2023 – Sta arrivando a livelli parossistici il livello di repressione in Europa contro le manifestazioni di solidarietà nei confronti del popolo palestinese.
All’alba di venerdì gli agenti della polizia francese si sono presentati a casa di due sindacalisti della Confédération générale du travail (CGT), la principale organizzazione sindacale francese, e li hanno arrestati perché accusati di “apologia del terrorismo” e “incitamento all’odio”.
Da Valenciennes il segretario generale della CGT del Nord, Jean-Paul Delescaut, e un dipendente del sindacato che lavora come amministratore della federazione territoriale, sono stati condotti nel commissariato centrale di Lille.

L’ordine di arresto è scattato dopo la diffusione, da parte della sezione locale del sindacato, di un comunicato nel quale la CGT regionale esprimeva «tutto il proprio sostegno al popolo palestinese in lotta contro lo stato coloniale d’Israele», considerato che «gli orrori dell’occupazione illegale si sono accumulati» e che «i nostri valori internazionalisti di fratellanza tra i popoli e di lotta anticoloniale ci portano a non rimanere neutrali».

Tanto è bastato al prefetto – che nei giorni scorsi ha già vietato tre manifestazioni di solidarietà con il popolo palestinese, compresa quella convocata dal sindacato – per ordinare l’arresto dei due militanti sindacali.
La CGT si è subito mobilitata chiedendo l’immediato rilascio dei due militanti e ha indetto una manifestazione davanti alla stazione di polizia dove erano reclusi. L’organizzazione sindacale ha denunciato che l’operazione di polizia ha utilizzato mezzi del tutto sproporzionati – una dozzina di agenti armati e in alcuni casi incappucciati, accompagnati da diverse camionette – per condurre degli arresti del tutto ingiustificati che violano la libertà di espressione.

Dura anche la reazione del leader di France Insoumise – la principale organizzazione di sinistra francese – Jean-Luc Mélenchon.

I due militanti sindacali sono stati rilasciati dopo alcune ore di detenzione ma su di loro pendono ora delle denunce penali. – Pagine Esteri

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LIVE. GAZA/ISRAELE. Giorno 15. Liberati due ostaggi, aperto il valico di Rafah per gli aiuti umanitari


I primi venti camion carichi di aiuti umanitari dall'Egitto hanno fatto ingresso, pochi minuti dopo le 9 italiane. L'articolo LIVE. GAZA/ISRAELE. Giorno 15. Liberati due ostaggi, aperto il valico di Rafah per gli aiuti umanitari proviene da Pagine Esteri

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della redazione

Pagine Esteri, 21 ottobre 2023I primi venti camion carichi di aiuti umanitari dall’Egitto hanno fatto ingresso, pochi minuti dopo le 9 italiane, nella Striscia di Gaza attraverso il valico di Rafah. Il transito sarebbe stato richiuso poco dopo il passaggio degli autocarri. Lo riferiscono i media egiziani. A quanto si apprende, i camion sono entrati per un chilometro fino ad una “area sicura” dove il loro carico è stato trasferito su autocarri palestinesi e da lì, dopo i controlli effettuati dal personale delle Nazioni Unite, portato ai centri di distribuzione della Mezzaluna Rossa palestinese per soddisfare le richieste più urgenti.

Al momento non è noto se al valico siano in corso le procedure per consentire l’uscita da Gaza di alcune centinaia di cittadini stranieri, in prevalenza americani.

Israele ha continuato nella notte a bombardare tutta Gaza. I media palestinesi hanno riferito che aerei israeliani hanno colpito sei case nel nord di Gaza uccidendo almeno 19 persone e ferendone dozzine. Gli attacchi aerei di ritorsione di Israele – per l’attacco di Hamas del 7 ottobre (1400 israeliani morti) – hanno ucciso sino ad oggi almeno 4.137 palestinesi, metà dei quali minori secondo fonti locali. Stamattina sono stati lanciati razzi da Gaza verso la città portuale israeliana di Ashdod e altre località del sud del paese.

Il primo ministro Netanyahu ha “promesso” di “combattere fino alla vittoria” in seguito al rilascio ieri dei primi due ostaggi da parte di Hamas (che avrebbe altri 201 ostaggi, in maggioranza israeliani). “Due dei nostri rapiti sono a casa. Non rinunceremo allo sforzo di restituire tutte le persone rapite e scomparse. Allo stesso tempo, continueremo a lottare fino alla vittoria”, ha detto Netanyahu in una dichiarazione rilasciata ieri sera tardi. Israele ha ammassato carri armati e truppe a ridosso di Gaza per un’invasione di terra pianificata con l’obiettivo di annientare Hamas, dopo diverse guerre inconcludenti risalenti alla sua presa del potere a Gaza nel 2007. Pagine Esteri

[1/9] Judith Tai Raanan e sua figlia Natalie Shoshana Raanan, cittadine statunitensi prese in ostaggio dai militanti palestinesi di Hamas, camminano tenendo per mano il generale di brigata. (In pensione) Gal Hirsch, coordinatore israeliano per i prigionieri e i dispersi, dopo che furono rilasciati dai militanti, in… Acquisire i diritti di licenza Per saperne di più

Ha aggiunto che la fase successiva sarà più lunga, ma mira a raggiungere “una situazione di sicurezza completamente diversa” senza alcuna minaccia per Israele da parte di Gaza. “Non è un giorno, non è una settimana e sfortunatamente non è un mese”, ha detto.

BOMBARDAMENTO PESANTE


Il Patriarcato ortodosso di Gerusalemme, la principale denominazione cristiana palestinese, ha affermato che le forze israeliane hanno colpito la chiesa di San Porfirio a Gaza City , dove avevano cercato rifugio centinaia di cristiani e musulmani.

L’esercito israeliano ha detto che parte della chiesa è stata danneggiata in un attacco contro un vicino centro di comando militante.

Israele ha già detto a tutti i civili di evacuare la metà settentrionale della Striscia di Gaza, che comprende Gaza City. Molte persone devono ancora andarsene dicendo che temono di perdere tutto e di non avere un posto sicuro dove andare, visto che anche le aree meridionali sono sotto attacco.

Alla domanda se Israele avesse finora seguito le leggi di guerra nella sua risposta, il segretario di Stato americano Antony Blinken ha ribadito venerdì che Israele ha il diritto di difendersi e di assicurarsi che Hamas, sostenuto dall’Iran, non sia in grado di lanciare nuovamente attacchi.

“È importante che le operazioni siano condotte in conformità con il diritto internazionale, il diritto umanitario e il diritto di guerra”, ha affermato.

L’Ufficio per gli affari umanitari delle Nazioni Unite ha affermato che più di 140.000 case – quasi un terzo di tutte le case di Gaza – sono state danneggiate, di cui quasi 13.000 completamente distrutte.

L’attenzione internazionale si è concentrata sull’arrivo degli aiuti a Gaza attraverso l’unico punto di accesso non controllato da Israele, il valico di Rafah verso l’Egitto.

Biden, che ha visitato Israele mercoledì, ha affermato di ritenere che i camion che trasportano aiuti arriveranno nelle prossime 24-48 ore.

Venerdì il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha visitato il checkpoint dalla parte egiziana e ha chiesto che un numero significativo di camion entri a Gaza ogni giorno e che i controlli – su cui Israele insiste per impedire che gli aiuti raggiungano Hamas – siano rapidi e pragmatici.

Finora i leader occidentali hanno per lo più offerto sostegno alla campagna israeliana contro Hamas, sebbene vi sia un crescente disagio per la difficile situazione dei civili a Gaza.

Molti stati musulmani, tuttavia, hanno chiesto un cessate il fuoco immediato e venerdì nelle città di tutto il mondo islamico si sono svolte proteste per chiedere la fine dei bombardamenti.

Nella Cisgiordania occupata, dove la violenza è aumentata da quando Israele ha iniziato a bombardare Gaza, le truppe israeliane hanno ucciso un adolescente palestinese durante gli scontri vicino alla città di Gerico.

Dallo scoppio della guerra tra Israele e Hamas, anche le zone di confine tra il sud del Libano e il nord di Israele sono state teatro di scontri costanti, ma finora limitati, tra l’esercito israeliano e i combattenti del gruppo islamico sciita libanese Hezbollah.

L’esercito israeliano ha detto sabato che un soldato è stato ucciso da un attacco missilistico al confine libanese, in una dichiarazione che non ha fornito dettagli sull’ora esatta o sul luogo.

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La Fiera del libro di Francoforte cancella la premiazione della scrittrice palestinese: “più spazio a voci israeliane”


Adania Shibli avrebbe dovuto ricevere il premio LiBeraturpreis il prossimo venerdì. Gli organizzatori: "Stiamo cercando un format adatto per la cerimonia" L'articolo La Fiera del libro di Francoforte cancella la premiazione della scrittrice palestinese:

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di Eliana Riva

Era stato assegnato alla scrittrice palestinese Adania Shibli, per il suo libro “Un dettaglio minore“, il prestigioso premio letterario LiBeraturpreis, riservato ad autori e autrici del Medio Oriente, dell’Africa e dell’Asia. L’agenzia letteraria Litprom, aveva deciso di consegnarle il premio il 20 ottobre, durante la prestigiosissima Fiera del libro di Francoforte, che ogni anno organizza insieme ad altri attori. La giuria ha scelto proprio lei perché, “crea un’opera d’arte composta formalmente e linguisticamente in modo rigoroso che racconta il potere dei confini e ciò che i conflitti violenti causano alle e con le persone. Con grande attenzione, dirige lo sguardo verso i piccoli dettagli, le banalità che ci permettono di intravedere le vecchie ferite e cicatrici che si trovano dietro la superficie“.

Ieri l’agenzia ha fatto sapere che il premio non le verrà più consegnato. La motivazione? “La guerra in Israele”. Il direttore della Fiera di Francoforte, Juergen Boos, ha precisato di voler “rendere le voci ebraiche e israeliane particolarmente visibili alla fiera del libro”. Venerdì, oltre alle 1.300 vittime israeliane fino a quel momento accertate, erano stati già 1.900 i palestinesi uccisi nella Striscia di Gaza, tra i quali 614 bambini. Un bilancio purtroppo destinato nei giorni successivi a salire fino a raggiungere, oggi, domenica 15, tra le 1.400-1.500 vittime israeliane e 2.228 morti palestinesi a Gaza.

Dopo le proteste degli editori arabi e delle associazioni che li rappresentano, che hanno comunicato che non parteciperanno alla Fiera del libro di Francoforte, l’agenzia Litprom ha fatto un passo indietro, specificando che la cerimonia di assegnazione si farà ma in seguito, quando riusciranno “a trovare un format e un’impostazione adatti per l’evento”. Questo può vuol dire, come altre volte è accaduto, che la presentazione del libro non sarà consentita con la presenza della sola autrice ma che proveranno a imporle, pena la cancellazione definitiva della cerimonia, una presenza israeliana, cosa che trasformerebbe l’evento letterario in una sorta di dibattito politico, facendone perdere il significato. Dalle dichiarazioni del direttore Juergen Boos non pare che questa singolare “par condicio culturale” valga anche per gli eventi che, in misura consistente, ospiteranno autori israeliani.

La scrittrice palestinese Adania Shibli aveva già ricevuto due nomination per il National Book Award, nel 2020, e per l’International Booker Prize nel 2021. Il suo romanzo, Un dettaglio minore, tradotto dall’arabo al tedesco nel 2020 ed edito in Italia da La nave di Teseo, parte dal racconto della storia vera di una giovane beduina palestinese violentata e uccisa dai soldati israeliani nel 1949.

Di seguito l’articolo scritto per Pagine Esteri dopo la pubblicazione della traduzione italiana.


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È dei particolari che raramente si parla quando si affronta la condizione dei palestinesi in Israele, nei Territori Occupati e a Gaza.

Eppure, i dettagli sono essenziali per capire cosa significhi vivere sotto occupazione, farsi un’idea chiara del livello di fallimento dei negoziati di pace, per leggere intero il quadro ideato e pianificato dall’occupante.

Solo i particolari possono mostrare a noi, lontani, quello che è più difficile da capire: come avviene che la straordinarietà si converta in quotidianità, come accade che il modo di vivere e persino quello di pensare siano trasformati, piegati giorno dopo giorno alla consuetudine della sopraffazione, delle ingiustizie e della violenza.

Adania Shibli con “Un dettaglio minore”, finalista al National Book Awards 2020, ci mostra questi particolari, portandoci a spasso tra il passato e il presente, tra i luoghi che esistevano e non ci sono più, cancellati persino i nomi e chiuse da cubi di cemento le strade di ingresso. Tutto comincia da una storia del 1949 nel Negev, quando alcuni soldati israeliani si trasferiscono tra le dune del deserto ossessionati dalla missione di scovare e uccidere gli arabi rimasti nella zona sud-occidentale. Giornate e chilometri passati a girare in tondo e a perlustrare il nulla, fino a quando qualcosa trovano. Qualcuno, anzi. I beduini del deserto. Tutti uccisi tranne una ragazza. La storia terribile di questa ragazza e la sua tragica fine si legheranno all’esistenza di una giovane donna di Ramallah che tenterà molti anni dopo di scoprire la verità su ciò che accadde 25 anni prima che lei nascesse. In una Palestina cambiata, ingabbiata dai checkpoint, divisa in zone e in abitanti di serie A, B, C, con diversi diritti, diverse possibilità e diversi documenti, la donna di Ramallah inizia un viaggio pericoloso, vincendo l’abitudinarietà e le sue paure, con una macchina a noleggio, una carta d’identità prestata da una collega e due cartine geografiche: Israele oggi, la Palestina ieri.

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L’attenzione ossessiva ai dettagli è ciò che la spinge a muoversi, l’incapacità di definire i contorni, i limiti tra una cosa e l’altra, forse per sfuggire alla realtà globale e al dramma collettivo che la circonda, fatti, appunto, di limiti e limitazioni da rispettare rigorosamente per prevenire conseguenze spiacevoli. Ma lei non riesce bene a muoversi tra quei limiti, non controlla le sue emozioni, le sue ansie e preferisce chiudersi in una solitudine consuetudinaria, che la rassicura e non le crea difficoltà. Un giorno, ad esempio, riesce miracolosamente a raggiungere l’ufficio nonostante la zona fosse stata posta sotto coprifuoco dall’esercito israeliano: malgrado l’ansia e la paura la avvolgano, ha imparato che è fondamentale dimostrarsi calma e decisa e che è necessario, a volte, scavalcare muri e barriere. In ufficio un collega entra nella sua stanza e spalanca la finestra. È per evitare che i vetri esplodano: l’esercito ha avvertito che colpiranno e distruggeranno un edificio lì vicino, perché vi si sono barricati tre ragazzi. L’edificio esplode, il boato è spaventoso, i ragazzi muoiono, le pareti dell’ufficio tremano e una nuvola di polvere invade la sua stanza. L’unico dettaglio su cui riesce a soffermarsi è quella polvere e con calma e pazienza ripulisce tutto prima di rimettersi semplicemente a lavorare.

Il viaggio verso l’accampamento dei coloni nel Negev la porta su una strada conosciuta, che non percorre però da anni. Il tempo sufficiente per non riuscire più a riconoscere quei luoghi, cambiati, trasformati con la forza degli espropri e delle colonie, paesaggi stravolti, storie cancellate. La cartina palestinese riporta i nomi dei villaggi che esistevano prima del 1948, anno della Catastrofe palestinese, della nascita dello Stato ebraico. Tanti nomi. Conosce persone originarie di alcuni di quei villaggi tra Yafa e Askalan, di altri villaggi invece non sa nulla e mai nulla potrà sapere. Sulla cartina israeliana a inghiottirli tutti c’è una vastissima zona verde prima e un mare giallo e vuoto dopo, nient’altro. Di palestinese non è rimasto nulla. Né i nomi sui cartelli stradali né i cartelloni pubblicitari. Neanche i terreni sono più palestinesi. Gli insediamenti sono israeliani.

Al Museo di Storia dell’Esercito israeliano è possibile vedere le divise e le armi usate nel 1948 e seguire la storia cinematografica israeliana degli anni ’30-’40 che incoraggiava l’immigrazione ebraica. In una pellicola un gruppo di coloni costruisce strutture su una distesa prima desertica, ne nasce un insediamento e per festeggiarlo le persone si prendono per mano e ballano in cerchio. La donna di Ramallah riavvolge il nastro all’indietro e poi lo manda avanti: costruisce l’insediamento e poi lo smantella, lo ricostruisce e lo ri-smantella ancora, ancora e ancora.

Ormai vicino Gaza, sente da lontano il suono dei bombardamenti ma è un suono diverso da quello a cui è abituata, senza la polvere, senza il fragore: solo ciò che non sente e vede le fa comprendere quanto sia lontana da quello che le è familiare, da casa. Guarda da lontano Rafah, Gaza e tenta di riempirsene gli occhi, per spiegarlo a quei colleghi che da anni aspettano l’autorizzazione per poter rientrare.

I limiti da non superare, i confini stabiliti, il militare, il civile, l’accampamento, il campo fatto di lamiere e un pacchetto di gomme da masticare porteranno la donna di Ramallah a scoprire sul destino della ragazza beduina più di quanto avesse voluto.

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L'articolo La Fiera del libro di Francoforte cancella la premiazione della scrittrice palestinese: “più spazio a voci israeliane” proviene da Pagine Esteri.



Allarme nel Caucaso: l’Azerbaigian sta per invadere l’Armenia?


Si moltiplicano gli allarmi su una imminente invasione dell'Armenia da parte dell'Azerbaigian. Ma nessun paese si muove per difendere Erevan e impedire la saldatura tra Baku e Ankara L'articolo Allarme nel Caucaso: l’Azerbaigian sta per invadere l’Armeni

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di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 20 ottobre 2023La riconquista da parte dell’Azerbaigian del Nagorno-Karabakh, enclave armena che dopo 30 anni ha cessato di essere una repubblica di fatto indipendente da Baku lo scorso 20 settembre, non sembra aver riportato la calma nella regione, anzi.

Dagli USA voci di una imminente invasione
Secondo il quotidiano “Politico”, a inizio ottobre il segretario di Stato americano Antony Blinken avrebbe avvisato un piccolo gruppo di parlamentari sulla possibilità che l’Azerbaigian proceda presto ad un’invasione dell’Armenia. L’amministrazione Biden ha smentito, ma poi il portavoce del Dipartimento di Stato, Matthew Miller, ha avvisato Baku sulle «gravi conseguenze» derivanti la violazione dell’integrità territoriale armena.
Di nuovo, rispetto all’allarme lanciato da Blinken, c’è ora che il regime di Ilham Aliyev potrebbe approfittare della crisi mediorientale per portare a termine, impunito, un obiettivo strategico di Baku: l’occupazione del sud dell’Armenia.
In numerose occasioni lo stesso dittatore azero ha definito la provincia meridionale armena di Syunik come “Zangezur occidentale”, reclamandone la sovranità. Lo stesso ha fatto a proposito della capitale armena Erevan, definita in realtà «una città storicamente azera».

Aliyev issa la bandiera azera sull’Artsakh
Dopo che le sue truppe hanno sbaragliato le difese della Repubblica di Artsakh in appena 24 ore, decretando la fine della plurisecolare presenza armena nella regione e la precipitosa fuga di più di 100 mila abitanti terrorizzati dalla possibile pulizie etnica, il 15 ottobre il leader azero si è recato a Stepanakert, l’ex capitale del Nagorno-Karabakh ridotta ormai a città fantasma. Nella ribattezzata Khankendi, Aliyev ha issato la bandiera azera e calpestato quella armena, radioso per la vittoria che, ha spiegato, ha esaudito un desiderio coltivato per 20 anni, cioè da quando sostituì il padre Heydar alla guida del regime.

Una “grande Turchia” dal Mediterraneo alla Cina
Ora Baku sembrerebbe voler approfittare del contesto internazionale e dell’estrema debolezza dell’Armenia per invaderla, occupandone i territori meridionali; otterrebbe così la continuità territoriale con il Nakhchivan, provincia azera che sorge ad ovest del territorio armeno, per raggiungere il quale da decenni i convogli in partenza da Baku devono attraversare il nord dell’Iran, paese con il quale l’Azerbaigian ha rapporti non proprio idilliaci.
L’Iraninfatti, che pure si è tenuta fuori dal conflitto azero-armeno, teme assai la possibile continuità territoriale che proietterebbe l’influenza economica, politica e militare turca fino all’Asia centrale costellata di ex repubbliche sovietiche turcofone e fino al cosiddetto “Turkestan orientale”, cioè la regione cinese dello Xinjiang abitata dagli Uiguri musulmani, bypassando completamente Russia e Iran.
Inoltre Teheran rimprovera ad Aliyev la sua alleanza con Israele e la concessione a Tel Aviv di alcune basi, in territorio azero, dalle quali gli israeliani spiano l’Iran. Da tempo Israele fornisce quasi il 70% delle armi acquistate dall’Azerbaigian, che in cambio fornisce a Tel Aviv il 40% degli idrocarburi importati. Nel frattempo Baku caldeggia un avvicinamento ulteriore tra la Turchia – il principale sponsor dell’espansionismo azerbaigiano – e Israele, che però proprio in questi giorni il massacro dei palestinesi di Gaza da parte di Tsahal mette a dura prova.
Per tentare di dissuadere Aliyev dall’aggredire Erevan, Teheran negli ultimi mesi ha tentato di intavolare con Baku una trattativa per la normalizzazione quantomeno delle relazioni commerciali, promettendo una via più rapida per le merci e gli idrocarburi azeri nel loro transito verso ovest attraverso il territorio iraniano. Aliyev non sembra tirarsi indietro.

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Ilham Aliyev e Recep Tayyip Erdogan

Continue minacce all’Armenia
Però al tempo stesso il regime azero continua a mandare messaggi aggressivi all’Armenia, accusata di ostacolare la continuità territoriale con il Nakhchivan e di continuare ad occupare 8 villaggi azeri, che si trovano in 5 piccole exclave azerbaigiane in territorio armeno.
In realtà l’Azerbaigian occupa 215 chilometri quadrati di territori strappati alla Repubblica di Armenia, per la maggior parte nell’aggressione militare condotta contro Erevan nel settembre 2022, quando si impossessò di alture strategiche che consentirebbero alle truppe di Baku di bersagliare obiettivi armeni anche a grande distanza.
Mentre a Baku, sostengono alcuni analisti che monitorano i cieli, continuano ad arrivare cargo israeliani carichi di armi di ultima generazione, le truppe armene dispongono di difese obsolete. Difficilmente la promessa di Macron di inviare armi a Erevan – ammesso che si concretizzi – cambierà di molto i rapporti di forza.

Erevan e Mosca sempre più distanti
Mosca, da parte sua, ha da tempo mollato l’Armenia, avamposto cristiano nel Caucaso islamico ormai abbandonata al suo destino in virtù di vari fattori. Da una parte la volontà di punire il governo di Nikol Pashinyan, filoccidentale e ulteriormente avvicinatosi a Washington e Bruxelles dopo che nel 2020 la Russia si era ben guardata dal bloccare l’aggressione militare azera che condusse alla perdita, da parte dell’Artsakh, della maggior parte dei territori conquistati negli anni ’90. Ora ci si è messa anche l’adesione alla Corte Penale Internazionale – che Pashinyan afferma di voler utilizzare per denunciare i crimini di guerra azeri – ad allontanare i due paesi. All’ultima riunione della CSI (la Confederazione degli Stati Indipendenti guidata da Mosca) Pashinyan non si è fatto vedere. Per tutta risposta la Russia blocca da settimane le merci armene dirette all’interno della Federazione e accampa scuse per non consegnare a Erevan armi che gli armeni hanno già pagato, per quanto a prezzo di favore, in quanto entrambi i paesi aderiscono al Trattato per la Sicurezza Collettiva dal quale però Pashinyan si è ormai di fatto ritirato visto l’immobilismo dell’alleanza militare nei confronti dell’aggressività azera.

L’alleanza tra Russia e Azerbaigian
Dissidi politici a parte, inoltre, Mosca non vuole inimicarsi la Turchia, con la quale negli ultimi anni ha intavolato una altalenante ma utile relazione che accentua la già consistente distanza tra Erdogan e l’Alleanza Atlantica. Per non parlare poi degli interessi economici e commerciali della Russia in Azerbaigian in un momento delicato come quello venutosi a creare dopo l’invasione dell’Ucraina. Pochi giorni prima che le truppe di Mosca violassero i confini di Kiev, Russia e Azerbaigian hanno firmato un importante trattato politico-militareallargato poi al fronte energetico: l’Azerbaigian acquista già ingenti quantità di gas russo – potendo così destinare all’esportazione quello estratto in patria – e presto farà lo stesso con il petrolio, consentendo a Mosca di aggirare l’embargo sugli idrocarburi decretato da UE e USA.

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Profughi armeni in fuga dal Nagorno-Karabakh

L’Armenia rischia il tracollo
Se davvero Aliyev decidesse di infliggere a Erevan un ulteriore colpo invadendo il paese e occupandone le regioni meridionali, l’Armenia potrebbe opporre davvero una flebile resistenza, non potendo contare né su ingenti risorse economiche utili a riempire gli arsenali né su alleati internazionali di peso disponibili a mettersi di traverso.
Nelle ultime settimane sia l’amministrazione Biden sia il governo francese sia i dirigenti delle istituzioni europee hanno aumentato la pressione su Baku affinché desista dai bellicosi propositi. Washington, ad esempio, ha sospeso il rinnovo della deroga che le consente di eludere il Freedom Support Act, provvedimento che impedirebbe di fornire aiuti militari all’Azerbaigian aggirato sistematicamente dal 2002.
Ma la finestra apertasi dopo la sconfitta dell’Artsakh e l’esplosione delle crisi in Ucraina e Palestina, potrebbe rappresentare un’occasione davvero troppo ghiotta per convincere Erdogan e Aliyev a rinunciare ad una vittoria che cambierebbe in maniera netta gli equilibri politici, economici e militari di tutto il Caucaso.
Sarebbe una catastrofe per l’Armenia che potrebbe addirittura collassare come paese. Ma anche per Putin, che pure negli ultimi anni non ha voluto e potuto intervenire per bloccare le pretese dell’alleato azero, si tratterebbe di un colpo significativo alla sua influenza nel Caucaso, dove l’egemonia di Turchia e Azerbaigian diventerebbe difficile da contrastare.

Per ora i vari attori internazionali fanno qualche timido passo: Parigi ha annunciato che aprirà presto un ufficio dell’addetto militare a Erevan e un consolato a Syunik, unendosi così a Iran e Russia. Ma nessun paese, da oriente a occidente, ha finora imposto sanzioni a Baku, anche se il parlamento europeo ha approvato nei giorni scorsi una risoluzione in tal senso.
Intanto le truppe azere, il 23 e 24 ottobre, hanno in programma esercitazioni congiunte con alcuni reparti dell’esercito turco in Nakhchivan e nel Nagorno-Karabakh. – Pagine Esteri

9894195* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.

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REPORTAGE. A Khan Younis, i civili palestinesi lottano per superare una crisi “insopportabile”


Le condizioni nella città meridionale stanno peggiorando, mentre lo spazio per i gazawi in fuga dal nord diminuisce e gli attacchi aerei persistono. Ma la gente del posto sta aiutando come può. L'articolo REPORTAGE. A Khan Younis, i civili palestinesi lo

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Di Ruwaida Kamal Amer* – +972

(foto Xinhua)

(traduzione di Federica Riccardi)

Gli effetti devastanti della guerra di Gaza su Khan Younis aumentano di giorno in giorno. Le persone care lasciano questa vita e migliaia di persone fuggono verso sud, aggravando la già terribile crisi umanitaria. I civili chiedono a gran voce di essere salvati da questa catastrofe – ma qualcuno ci sente?

Centinaia di migliaia di gazawi sono fuggiti verso sud da venerdì, quando l’esercito israeliano ha ordinato ai cittadini del nord di Gaza di evacuare. Centinaia di persone si sono rifugiate nelle scuole dell’UNRWA, altre nell’ospedale medico Nasser e altre ancora nelle case di amici e parenti. In pochi giorni, la popolazione di Khan Younis – la città più grande nella parte meridionale della Striscia – è aumentata drasticamente.

Khalid Al-Bura’y, un padre 35enne di Gaza City, è stato costretto a trasferire la sua famiglia più volte nell’ultima settimana e mezza. “Quando è iniziata la guerra, ci siamo rifugiati nella scuola dell’UNRWA [a Gaza City]”, ha detto. “Ma in seguito le scuole non erano più sicure, poiché molte di esse erano state gravemente danneggiate [dagli attacchi aerei israeliani]. Allora le forze di occupazione ci hanno ordinato di fuggire verso sud, ed è per questo che mi sono trasferito con la mia famiglia e quella di mio fratello in una scuola dell’UNRWA nella zona ovest di Khan Younis”.

Al-Bura’y ha sottolineato che le condizioni della scuola sono insostenibili. “La vita qui è estremamente difficile. Non c’è acqua potabile. Non c’è corrente e le comunicazioni con il mondo esterno sono quasi interrotte. Non possiamo sopportare questa situazione. Abbiamo bambini che vogliono mangiare e qui non c’è nulla di ciò di cui abbiamo bisogno. Il clima sta diventando sempre più freddo e non ci sono abbastanza coperte. I miei figli si ammaleranno”.

I rifugi sovraffollati possono portare a devastanti effetti secondari sulla salute pubblica, con segnalazioni già effettuate sulla diffusione di malattie infettive, tra cui il vaiolo. “Prima della guerra contro Gaza, il vaiolo si era diffuso nelle scuole tra gli studenti”, ha detto Suad Muhsen, una madre di 37 anni. “All’epoca stavo attenta ai miei figli, ma quando è iniziata la guerra e ci siamo rifugiati nelle scuole, ho notato [un’eruzione cutanea da vaiolo] su alcuni bambini e ho avuto paura che i miei figli si infettassero. La situazione medica e umanitaria delle scuole dell’UNRWA è estremamente grave. A causa della carenza d’acqua, è difficile mantenere l’igiene. Stiamo soffrendo cercando di sopravvivere in ogni modo possibile”.

Altri non sono riusciti nemmeno a trovare un riparo. A Khan Younis ci sono a malapena abbastanza posti letto per accogliere l’afflusso di persone in fuga dal nord di Gaza, e alcuni sono costretti a dormire per strada.

Mohammed Abu-Arar, originario di Khuza’a, una città a est di Khan Younis, dorme per strada con i suoi vicini e la sua famiglia dall’inizio della guerra. “Non sappiamo nulla delle nostre case, se sono state distrutte o meno”, ha detto. “Dormire per strada è terribile, ma non abbiamo altra scelta. Le scuole dell’UNRWA erano già affollate e lo sono diventate ancora di più a causa delle persone in fuga dal nord di Gaza. Resteremo in strada fino alla fine della guerra”. Se saranno colpiti dagli attacchi aerei israeliani, ha detto Abu-Arar, condivideranno semplicemente lo stesso destino di coloro che sono stati uccisi in questa guerra. “Le nostre vite non sono più preziose di quelle di tutte le vittime”.

“Hanno mirato alla sua casa”

Tutti a Gaza hanno perso persone che conoscevano. Il mio insegnante di chimica dell’undicesimo anno, Mahmoud Al-Masry, se n’è andato. Era un insegnante adorabile, brillante e gentile, che ci guidava in questa materia difficile. Viveva a Khan Younis, dove un’intera generazione di studenti ha pianto per la sua morte.

Isra’a Al-Najjar, 31 anni, ha raccontato i suoi ricordi di Al-Masry. “Mentre guardavo il telegiornale di lunedì [16 ottobre] sera, ho visto la foto del mio insegnante e sono rimasta scioccata”, ha detto. “Ricordo il suo sorriso timido e la sua tranquillità durante le lezioni, le parole che usava per incoraggiarci. Non ho mai pensato per un momento che avremmo perso questo prezioso insegnante. La nostra mente non può sopportare tutte le perdite di questa dolorosa guerra. Tutti i miei amici hanno pianto per la morte del nostro insegnante. Come potevamo immaginare che non l’avremmo più rivisto per le strade di Khan Younis?”.

“Gli aerei da guerra della forza di occupazione hanno attaccato i civili in questo modo selvaggio”, ha continuato Al-Najjar. “Hanno mirato alla sua casa. Era con i suoi figli e nipoti”. L’attacco aereo ha ucciso più di una dozzina di persone. Questa famiglia non c’è più.

“Martedì mattina alle 7, il giorno dopo l’uccisione del mio insegnante, ho sentito un’enorme esplosione vicino a casa mia, nel quartiere di Al-Fukhari. Siamo usciti tutti in strada per cercare di trovare i vicini, temendo altri missili. Abbiamo visto che l’attacco aereo aveva colpito la casa del nostro vicino, Bassam Abu Aker”. Bassam, sua moglie, i suoi cinque figli e sua nipote sono stati uccisi. Suo figlio Odeh, 12 anni, è l’unico sopravvissuto.

“Vogliamo sfamare tutti quelli che sono fuggiti”

Nonostante il loro dolore e le continue violenze, i residenti di Khan Younis cercano di fornire aiuto a coloro che sono fuggiti dal nord di Gaza. Jameel Abu Asi, ad esempio, cucina 2.000 pasti ogni giorno e li distribuisce in tutta la città a coloro che sono arrivati dal nord.

“Questa iniziativa è stata lanciata dalla mia famiglia dopo che gli aerei da guerra israeliani hanno bombardato il nostro ristorante” nel 2014, ha spiegato Abu Asi. “Non potevamo riparare i danni e riaprire il ristorante, così abbiamo deciso di cucinare i pasti e distribuirli alle persone in fuga nelle scuole dell’UNRWA. I residenti di Khan Younis mi portano gli ingredienti e io cucino. Lavoriamo dalle prime ore del mattino fino a sera.

*Ruwaida Kamal Amer è una giornalista freelance di Khan Younis.

L’articolo originale può essere letto al link seguente:

972mag.com/khan-younis-humanit…

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N. 190/2023 LE TRE NEWS DI OGGI: Il Consiglio federale vuole dare un incentivo alla cartella clinica elettronica rivedendo completamente la legislazione in materia. I partiti politici e gli operatori sanitari si chiedono se non sia meglio affidare la gestione dei dati a un servizio centrale piuttosto che alle attuali otto società operative.Altri punti della...

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Allarme nel Caucaso: l’Azerbaigian sta per invadere l’Armenia?


Si moltiplicano gli allarmi su una imminente invasione dell'Armenia da parte dell'Azerbaigian. Ma nessun paese si muove per difendere Erevan e impedire la saldatura tra Baku e Ankara L'articolo Allarme nel Caucaso: l’Azerbaigian sta per invadere l’Armeni

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di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 20 ottobre 2023La riconquista da parte dell’Azerbaigian del Nagorno-Karabakh, enclave armena che dopo 30 anni ha cessato di essere una repubblica di fatto indipendente da Baku lo scorso 20 settembre, non sembra aver riportato la calma nella regione, anzi.

Dagli USA voci di una imminente invasione
Secondo il quotidiano “Politico”, a inizio ottobre il segretario di Stato americano Antony Blinken avrebbe avvisato un piccolo gruppo di parlamentari sulla possibilità che l’Azerbaigian proceda presto ad un’invasione dell’Armenia. L’amministrazione Biden ha smentito, ma poi il portavoce del Dipartimento di Stato, Matthew Miller, ha avvisato Baku sulle «gravi conseguenze» derivanti la violazione dell’integrità territoriale armena.
Di nuovo, rispetto all’allarme lanciato da Blinken, c’è ora che il regime di Ilham Aliyev potrebbe approfittare della crisi mediorientale per portare a termine, impunito, un obiettivo strategico di Baku: l’occupazione del sud dell’Armenia.
In numerose occasioni lo stesso dittatore azero ha definito la provincia meridionale armena di Syunik come “Zangezur occidentale”, reclamandone la sovranità. Lo stesso ha fatto a proposito della capitale armena Erevan, definita in realtà «una città storicamente azera».

Aliyev issa la bandiera azera sull’Artsakh
Dopo che le sue truppe hanno sbaragliato le difese della Repubblica di Artsakh in appena 24 ore, decretando la fine della plurisecolare presenza armena nella regione e la precipitosa fuga di più di 100 mila abitanti terrorizzati dalla possibile pulizie etnica, il 15 ottobre il leader azero si è recato a Stepanakert, l’ex capitale del Nagorno-Karabakh ridotta ormai a città fantasma. Nella ribattezzata Khankendi, Aliyev ha issato la bandiera azera e calpestato quella armena, radioso per la vittoria che, ha spiegato, ha esaudito un desiderio coltivato per 20 anni, cioè da quando sostituì il padre Heydar alla guida del regime.

Una “grande Turchia” dal Mediterraneo alla Cina
Ora Baku sembrerebbe voler approfittare del contesto internazionale e dell’estrema debolezza dell’Armenia per invaderla, occupandone i territori meridionali; otterrebbe così la continuità territoriale con il Nakhchivan, provincia azera che sorge ad ovest del territorio armeno, per raggiungere il quale da decenni i convogli in partenza da Baku devono attraversare il nord dell’Iran, paese con il quale l’Azerbaigian ha rapporti non proprio idilliaci.
L’Iraninfatti, che pure si è tenuta fuori dal conflitto azero-armeno, teme assai la possibile continuità territoriale che proietterebbe l’influenza economica, politica e militare turca fino all’Asia centrale costellata di ex repubbliche sovietiche turcofone e fino al cosiddetto “Turkestan orientale”, cioè la regione cinese dello Xinjiang abitata dagli Uiguri musulmani, bypassando completamente Russia e Iran.
Inoltre Teheran rimprovera ad Aliyev la sua alleanza con Israele e la concessione a Tel Aviv di alcune basi, in territorio azero, dalle quali gli israeliani spiano l’Iran. Da tempo Israele fornisce quasi il 70% delle armi acquistate dall’Azerbaigian, che in cambio fornisce a Tel Aviv il 40% degli idrocarburi importati. Nel frattempo Baku caldeggia un avvicinamento ulteriore tra la Turchia – il principale sponsor dell’espansionismo azerbaigiano – e Israele, che però proprio in questi giorni il massacro dei palestinesi di Gaza da parte di Tsahal mette a dura prova.
Per tentare di dissuadere Aliyev dall’aggredire Erevan, Teheran negli ultimi mesi ha tentato di intavolare con Baku una trattativa per la normalizzazione quantomeno delle relazioni commerciali, promettendo una via più rapida per le merci e gli idrocarburi azeri nel loro transito verso ovest attraverso il territorio iraniano. Aliyev non sembra tirarsi indietro.

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Ilham Aliyev e Recep Tayyip Erdogan

Continue minacce all’Armenia
Però al tempo stesso il regime azero continua a mandare messaggi aggressivi all’Armenia, accusata di ostacolare la continuità territoriale con il Nakhchivan e di continuare ad occupare 8 villaggi azeri, che si trovano in 5 piccole exclave azerbaigiane in territorio armeno.
In realtà l’Azerbaigian occupa 215 chilometri quadrati di territori strappati alla Repubblica di Armenia, per la maggior parte nell’aggressione militare condotta contro Erevan nel settembre 2022, quando si impossessò di alture strategiche che consentirebbero alle truppe di Baku di bersagliare obiettivi armeni anche a grande distanza.
Mentre a Baku, sostengono alcuni analisti che monitorano i cieli, continuano ad arrivare cargo israeliani carichi di armi di ultima generazione, le truppe armene dispongono di difese obsolete. Difficilmente la promessa di Macron di inviare armi a Erevan – ammesso che si concretizzi – cambierà di molto i rapporti di forza.

Erevan e Mosca sempre più distanti
Mosca, da parte sua, ha da tempo mollato l’Armenia, avamposto cristiano nel Caucaso islamico ormai abbandonata al suo destino in virtù di vari fattori. Da una parte la volontà di punire il governo di Nikol Pashinyan, filoccidentale e ulteriormente avvicinatosi a Washington e Bruxelles dopo che nel 2020 la Russia si era ben guardata dal bloccare l’aggressione militare azera che condusse alla perdita, da parte dell’Artsakh, della maggior parte dei territori conquistati negli anni ’90. Ora ci si è messa anche l’adesione alla Corte Penale Internazionale – che Pashinyan afferma di voler utilizzare per denunciare i crimini di guerra azeri – ad allontanare i due paesi. All’ultima riunione della CSI (la Confederazione degli Stati Indipendenti guidata da Mosca) Pashinyan non si è fatto vedere. Per tutta risposta la Russia blocca da settimane le merci armene dirette all’interno della Federazione e accampa scuse per non consegnare a Erevan armi che gli armeni hanno già pagato, per quanto a prezzo di favore, in quanto entrambi i paesi aderiscono al Trattato per la Sicurezza Collettiva dal quale però Pashinyan si è ormai di fatto ritirato visto l’immobilismo dell’alleanza militare nei confronti dell’aggressività azera.

L’alleanza tra Russia e Azerbaigian
Dissidi politici a parte, inoltre, Mosca non vuole inimicarsi la Turchia, con la quale negli ultimi anni ha intavolato una altalenante ma utile relazione che accentua la già consistente distanza tra Erdogan e l’Alleanza Atlantica. Per non parlare poi degli interessi economici e commerciali della Russia in Azerbaigian in un momento delicato come quello venutosi a creare dopo l’invasione dell’Ucraina. Pochi giorni prima che le truppe di Mosca violassero i confini di Kiev, Russia e Azerbaigian hanno firmato un importante trattato politico-militareallargato poi al fronte energetico: l’Azerbaigian acquista già ingenti quantità di gas russo – potendo così destinare all’esportazione quello estratto in patria – e presto farà lo stesso con il petrolio, consentendo a Mosca di aggirare l’embargo sugli idrocarburi decretato da UE e USA.

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Profughi armeni in fuga dal Nagorno-Karabakh

L’Armenia rischia il tracollo
Se davvero Aliyev decidesse di infliggere a Erevan un ulteriore colpo invadendo il paese e occupandone le regioni meridionali, l’Armenia potrebbe opporre davvero una flebile resistenza, non potendo contare né su ingenti risorse economiche utili a riempire gli arsenali né su alleati internazionali di peso disponibili a mettersi di traverso.
Nelle ultime settimane sia l’amministrazione Biden sia il governo francese sia i dirigenti delle istituzioni europee hanno aumentato la pressione su Baku affinché desista dai bellicosi propositi. Washington, ad esempio, ha sospeso il rinnovo della deroga che le consente di eludere il Freedom Support Act, provvedimento che impedirebbe di fornire aiuti militari all’Azerbaigian aggirato sistematicamente dal 2002.
Ma la finestra apertasi dopo la sconfitta dell’Artsakh e l’esplosione delle crisi in Ucraina e Palestina, potrebbe rappresentare un’occasione davvero troppo ghiotta per convincere Erdogan e Aliyev a rinunciare ad una vittoria che cambierebbe in maniera netta gli equilibri politici, economici e militari di tutto il Caucaso.
Sarebbe una catastrofe per l’Armenia che potrebbe addirittura collassare come paese. Ma anche per Putin, che pure negli ultimi anni non ha voluto e potuto intervenire per bloccare le pretese dell’alleato azero, si tratterebbe di un colpo significativo alla sua influenza nel Caucaso, dove l’egemonia di Turchia e Azerbaigian diventerebbe difficile da contrastare.

Per ora i vari attori internazionali fanno qualche timido passo: Parigi ha annunciato che aprirà presto un ufficio dell’addetto militare a Erevan e un consolato a Syunik, unendosi così a Iran e Russia. Ma nessun paese, da oriente a occidente, ha finora imposto sanzioni a Baku, anche se il parlamento europeo ha approvato nei giorni scorsi una risoluzione in tal senso.
Intanto le truppe azere, il 23 e 24 ottobre, hanno in programma esercitazioni congiunte con alcuni reparti dell’esercito turco in Nakhchivan e nel Nagorno-Karabakh. – Pagine Esteri

9893939* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria.

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Reblog via Pirati.io Il tweet pubblicato poco fa dal dipartimento diritti umani delle Nazioni Unite è la migliore risposta alle chiacchiere di Ylva…

Reblog via Pirati.io Il tweet pubblicato poco fa dal dipartimento diritti umani delle Nazioni Unite è la migliore risposta alle chiacchiere di Ylva Johansson @Privacy Pride «Strumenti e servizi crittografati end-to-end proteggono tutti noi dalla criminalità, dalla sorveglianza e da altre minacce. I governi dovrebbero promuoverne l’uso anziché imporre la scansione lato client e altre misure che...

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Reblog via Pirati.io

Il tweet pubblicato poco fa dal dipartimento diritti umani delle Nazioni Unite è la migliore risposta alle chiacchiere di Ylva Johansson @[url=https://peertube.uno/video-channels/privacypride]Privacy Pride[/url] «Strumenti e servizi crittografati end-to-end proteggono tutti noi dalla criminalità, dalla sorveglianza e da altre minacce. I governi dovrebbero promuoverne l’uso anziché imporre la […]

informapirata.it/2023/10/18/39…


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Voto sul chatcontrol rinviato: enorme successo in difesa della privacy digitale della corrispondenza!

La votazione per il regolamento #CSAR aka #Chatcontrol è stata ancora una volta posticipata. Gli stati🇪🇺 non hanno trovato un accordo che consenta di avere la maggioranza. 🇮🇹 non pervenuta nel dibattito.

@Privacy Pride

(grazie a @Pietro Biase :fedora: per la segnalazione)

pirati.io/2023/10/voto-sul-con…