Tre indizi provano la natura moralista e manettara della sinistra
C’è un filo, ed è un filo rosso, che accomuna le reazioni delle sinistre alle tre notizie che in questi giorni si sono guadagnate le aperture di giornali e telegiornali. La chiave di lettura all’emendamento Costa che vieta la pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare, ai saluti romani di Acca Larentia e all’abrogazione dell’abuso d’ufficio è chiaramente moralistica e lo sbocco politico che ne discende è oggettivamente giustizialista. Panpenalistico, o, per dirla in volgare, manettaro.
A differenza di quanto sostenuto dal PD e dal Movimento 5 Stelle, l’emendamento Costa non rappresenta affatto un “bavaglio” alla libera informazione. Non vieta la pubblicazione delle notizie di reato, vieta solo la pubblicazione integrale o per stralci delle ordinanze di custodia cautelare scritte dai pm. Un modo per provare, almeno provare, a garantire il principio della parità tra accusa e difesa su cui si fonda lo Stato di diritto. La levata di scudi delle sinistre dimostra che tale principio è oggettivamente estraneo alla loro cultura.
Più che comprensibile l’orrore provato da molti per i saluti romani di Acca Larentia, ma si tratta della libera manifestazione del pensiero tutelata dall’articolo 21 della Costituzione. Principio che più d’una sentenza della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione ha sancito proprio in materia di saluti romani. Per la nostra Costituzione, che vieta la ricostituzione del Partito fascista, ma anche per la legge Scelba del ‘52 e per la legge Mancino del ‘93 salutare romanamente ad una commemorazione funebre non costituisce reato. Le sinistre, invece, invocano le manette.
Quanto all’abuso d’ufficio, divenuto reato per volontà di Mussolini, è una fattispecie talmente generica e fumosa da rappresentare una pistola carica nelle mani di un qualsiasi pubblico ministero. Una pistola che, per quanto caricata a salve, scoraggia gli amministratori pubblici dall’assumere qualsivoglia iniziativa. Non lo sostiene solo il governo, lo sostengono quasi tutti i sindaci in carica, anche e soprattutto quelli del Partito democratico. I dati confermano il giudizio: nel 2021 ci sono stati 5418 indagati per abuso d’ufficio, le condanne sono state solo 27. Eppure, l’abrogazione del reato non viene letta come una garanzia dei diritti individuali e/o della funzionalità delle pubbliche amministrazioni, ma come un lasciapassare per corrotti e delinquenti.
Si grida allo scandalo, si evoca il fascismo, si prospetta l’impunità, si invocano sanzioni penali esemplari. Il moralismo come ripiego della morale perduta, il panpenalismo come succedaneo della violenza politica.
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Usa e Cina riprendono i colloqui di militari. Ecco perché è una buona notizia
I funzionari militari americani e cinesi si sono incontrati questa settimana a Washington per discutere insieme delle principali questioni di politica militare e di difesa che legano le due superpotenze, riprendendo un appuntamento annuale cancellato da Pechino nel 2022. I Defense policy coordination talks (Dpct) si tenevano di solito a rotazione tra Washington e Pechino, ma le tensioni tra le due potenze avevano portato la Repubblica popolare a cancellare l’incontro dello scorso anno, parte di un generale congelamento di tutte le comunicazioni militari con le loro controparti americane. La ripresa odierna del dialogo rappresenta dunque un passo importante per la ripresa complessiva delle comunicazioni con Pechino. Il team statunitense è stato guidato dal vice segretario alla Difesa per Cina, Taiwan e Mongolia Michael Chase, mentre la delegazione cinese era guidata dal generale Song Yanchao, vice direttore dell’Ufficio per la cooperazione militare internazionale della Commissione militare centrale, l’istituzione gemella del Partito e dell’Assemblea nazionale del popolo responsabile della direzione militare della Cina.
L’incontro a Washington
Secondo quanto riportato dal Pentagono, “le due parti hanno discusso delle relazioni tra Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese in materia di difesa”. In particolare il vice segretario Chase “ha sottolineato l’importanza di mantenere aperte le linee di comunicazione militari per evitare che la competizione sfoci in conflitto”. Secondo la fonte Usa, il funzionario del Pentagono avrebbe anche “discusso dell’importanza della sicurezza operativa nella regione indo-pacifica” ribadendo “che gli Stati Uniti continueranno a volare, navigare e operare in modo sicuro e responsabile ovunque il diritto internazionale lo consenta” e sottolineando come “l’impegno degli Stati Uniti nei confronti dei nostri alleati nell’indo-pacifico e a livello globale rimane saldo”. Non sono mancanti punti in agenda delicati, con la parte statunitense che ha protestato contro “ripetute molestie della Repubblica Popolare Cinese” nei confronti delle navi filippine nel mar Cinese meridionale, ribadendo come gli Usa “rimangono impegnati nella politica di una sola Cina”.
I pregressi
Ad interrompere i rapporti tra le due superpotenze era stato il caso della visita di Nancy Pelosi a Taipei, ma Pechino aveva rinfacciato a Washington anche altri dossier delicati, come la vendita di armi statunitensi a Taiwan, le tensioni nel Mar Cinese Meridionale e l’abbattimento di un pallone spia cinese da parte degli Stati Uniti al largo della costa orientale a febbraio. Il dialogo military-to-military era stato il segmento che aveva risentito di più del gelo diplomatico. Dopo il summit in California a novembre, dove il presidente Joe Biden e il leader cinese Xi Jinping sembravano orientati verso un miglioramento delle relazioni tra le due potenze, è stata annunciata l’intenzione di riprendere i rapporti militari di alto livello — dopo che vari incontri diplomatici erano ripresi nei mesi precedenti. A dicembre, poi, si erano incontrati i capi di Stato della Difesa di Usa e Cina, rispettivamente CQ Brown e Liu Zhenli, un segnale interpretato come un fondamentale passo avanti per rafforzare le relazioni tra Washington e Pechino.
Le tensioni nel Pacifico
I funzionari della difesa Usa hanno più volte ribadito l’importanza di mantenere aperte le comunicazioni, non solo per evitare la possibilità che piccoli incidenti, come incontri di navi o aerei in zone contese dei mari cinesi, possano scatenare una spirale fuori controllo verso l’escalation, ma anche alla luce delle ambizioni, espresse dalla Cina e dal presidente Xi Jinping, di voler riunificare l’isola di Taiwan – considerata da Pechino una provincia ribelle – al resto del Paese. Le dichiarazioni del presidente Usa Joe Biden che hanno chiarito come, in caso di invasione, gli Stati Uniti siano pronti a difendere Taipei, oltre che un messaggio per Pechino sono state un segnale anche per il Dipartimento della Difesa a stelle e strisce, che è impegnato da tempo nel potenziamento e modernizzazione delle Forze armate Usa in ottica di mantenere il vantaggio sulla minaccia rappresentata dall’Esercito popolare di liberazione. Tuttavia, il Pentagono ha anche voluto minimizzare i recenti commenti di Xi sulle rivendicazioni cinesi su Taiwan, sottolineando che il conflitto non è né imminente, né inevitabile. Per Washington, il punto fondamentale resta quello di continuare a lavorare per mantenere aperte le linee di comunicazione con Pechino, sono importanti per evitare che la competizione sfoci in un conflitto.
Foto: Dipartimento della Difesa Usa
Senza difesa non può esserci pace. Il punto di Crosetto sugli aiuti militari a Kyiv
Il sostegno all’Ucraina deve continuare finché non cesseranno gli attacchi russi, e l’Italia intende proseguire con convinzione nel sostegno a Kyiv anche tramite l’invio di sistemi d’arma per la sua difesa: “Non esiste pace giusta se un popolo aggredito non ha la possibilità di difendersi”. Questo il cuore dell’intervento tenuto dal ministro della Difesa, Guido Crosetto, nel corso delle comunicazioni alla Camera dei deputati in materia di proroga dell’autorizzazione alla cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari in favore delle autorità governative dell’Ucraina, durante il quale il ministro ha fatto il punto sui quasi due anni di guerra, spiegando la necessità e le motivazioni che rendono necessario prorogare gli aiuti, militari e civili, fino al 31 dicembre 2024, come previsto dal decreto.
Gli aiuti
“La strada da percorrere è ancora lunga ma sarebbe un errore strategico e politico drammatico fare un passo indietro”, ha ribadito Crosetto, per il quale è necessario continuare “con convinzione” a sostenere l’Ucraina a fronte dell’aggressione russa, nonostante le difficoltà che questa decisione potrebbe creare. Come spiegato dall’inquilino di palazzo Baracchini, “dopo sette pacchetti di aiuti militari già formalizzati”, il governo ha dato il via libera a una ottava tranche di forniture a Kyiv. Nel corso della sua disamina, il ministro ha confermato che anche questo ottavo pacchetto “è costituito da sistemi d’arma volti a rafforzare solo le capacità difensive delle forze armate ucraine”. “Allo stato attuale – ha ulteriormente dettagliato Crosetto – pensiamo di fornire [all’Ucraina] sistemi d’arma già in nostro possesso, in linea con l’attuale quadro normativo”. Il ministro ha anche annunciato che, tra le varie azioni portate avanti dall’Italia, c’è anche la manifestazione di interesse a partecipare al progetto per lo sminamento del territorio ucraino promosso dalla Lituania della Demining coailition. “L’Intelligence ucraina stima in oltre otto milioni le mine impiegate dai russi a protezione delle loro posizioni” ha spiegato Crosetto, sottolineando come le difficoltà ucraine sul campo siano anche “da imputare alla presenza di vasti campi minati”.
La situazione strategica
Come sottolineato ancora da Crosetto, “il nostro sostegno deve continuare finché non cesseranno gli attacchi russi”. Analizzando il contesto del conflitto, infatti, il ministro ha ribadito come ci sia “una nazione che ogni giorno, ogni mattina, ogni pomeriggio, ogni sera è attaccata e si deve difendere da centinaia di bombe che cadono su obiettivi civili e militari, da quasi due anni”, una situazione che ha portato al peggioramento delle condizioni di sicurezza non solo in Europa, ma anche nel globale. “Nella guerra tra Russia e Ucraina – ha detto ancora Crosetto – esiste un aggredito e un aggressore, esiste una nazione che ogni giorno bombarda obiettivi militari e civili di un’altra nazione” aggiungendo come “in questi due anni i pacchetti di aiuti militari hanno permesso di salvare decine di migliaia di vite ucraine”.
Il percorso diplomatico
Parlando delle possibilità di un percorso diplomatico verso la pace, il ministro ha voluto sottolineare come solo “quando passeranno ventiquattrore” senza attacchi e bombardamenti russi su “asili, ospedali” e altri obiettivi civili e militari, allora si potrà parlare di pace, ma “in attesa che questo accada dobbiamo impedire a quelle bombe di cadere”. Di fronte a questo scenario, “se il consesso delle nazioni decide di girarsi dall’altra parte”, allora “perderemo spazi di libertà, di democrazia e sicurezza”. “La Russia non sembra dare segni di cedimento – ha detto il ministro – e siamo consapevoli che la strada è ancora lunga e la situazione difficile ma sarebbe un errore drammatico fare un passo indietro adesso”.
L’approccio italiano verso la pace
Per questo, però l’Italia intende portare avanti “un approccio diverso”, diventando “una delle prime nazioni come quantità e qualità di aiuti” ma anche uno dei primi Paesi che ribadisce la possibilità di costruire “una strada diplomatica” per arrivare alla fine del conflitto. Per Crosetto, infatti, potrebbe essere giunto il momento “per un’incisiva azione diplomatica che affianchi gli aiuti che stiamo portando avanti perché si rilevano una serie di segnali importanti che giungono da entrambe le parti in causa” con “le dichiarazioni di diversi interlocutori russi evidenziano una lenta e progressiva maturazione di una disponibilità al dialogo per porre fine alla guerra”. Per il ministro, “il supporto della Difesa italiana, al pari di quelle di tutti gli altri paesi europei, dovrà essere da traino e sprone per l’Unione europea per creare le condizioni per avviare interlocuzioni con Mosca nella piena consapevolezza che quello in Ucraina è un conflitto sul territorio europeo”. “Ogni giorno questa guerra ci ricorda che abbiamo il dovere di difendere la libertà delle nazioni e il diritto internazionale. Ogni possibile trattativa di pace non può che partire da qui”.
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In Cina e Asia – Alto funzionario del Pcc negli Usa, mentre prosegue il dialogo militare
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Il Marocco chiede la presidenza del Consiglio dei Diritti Umani. Proteste nei territori occupati del Sahara Occidentale
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di Alessandra Mincone
Pagine Esteri, 10 gennaio 2024. Nel mese di Gennaio 2024 si svolgeranno le elezioni delle Nazioni Unite per la Presidenza del Consiglio dei diritti umani. La candidatura del Marocco ha sollevato polemiche, soprattutto da parte di Oubi Bouchraya Bachir, rappresentante in Svizzera e per le Nazioni Unite del Fronte Polisario, l’organizzazione di liberazione popolare dei territori del Sahara Occidentale. Bachir ha riportato all’attenzione i crimini che l’esercito marocchino perpetra dal ’75, vale a dire l’occupazione e l’amministrazione illegale di una parte dei territori saharawi, e le detenzioni arbitrarie cui fanno seguito torture e sparizioni forzate contro attivisti, giornalisti e in generale dissidenti. Facendo presente che anche all’interno dei confini marocchini il governo reprime la libertà di espressione, discrimina le donne e le minoranze, Bachir ha poi concluso evidenziando che il Marocco impedisce alle stesse missioni delle Nazioni Unite di accedere alle aree occupate, negando di fatto il monitoraggio sulla situazione dei diritti umani, per cui l’elezione del Marocco rappresenterebbe “un’ulteriore prova della disfunzione strutturale delle istituzioni internazionali”. Infine Bachir ha ricordato che il Marocco è l’unico paese che non ha ratificato la Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli.
In merito alla candidatura ad una carica così significativa, non sono mancati i tentativi di protesta nei territori occupati del Sahara, nella città di El Aaiún, dove è stato dispiegato un quantitativo ingente di militari, soprattutto nel quartiere di Maatala (considerato il concentramento della manifestazione), per impedire fisicamente agli abitanti saharawi di uscire di casa per l’occasione. Alcuni video fatti circolare sui canali di informazione saharawi testimoniano che le forze dell’ordine marocchine hanno aggredito i manifestanti e preso di mira Khadijatou Doeih, vice-presidente del Collettivo dei difensori dei diritti umani saharawi (CODESA) e dei suoi colleghi.
Agli inizi di Ottobre 2023, mentre l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite riconfermava la carica di membro al Consiglio dei diritti umani al Marocco per altri tre anni, il CODESA si univa al grido di giustizia del Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria (WGAD) che dichiarava illegale la prigionia di un gruppo di attivisti saharawi arrestati nel novembre 2010. Noti come i prigionieri di Gdeim Izik, gli attivisti furono portati in carcere a seguito dell’operazione di sgombero dell’accampamento di Gdeim Izik, a sud della città di El Aaiún. Più di una ventina di attivisti e difensori dei diritti umani si erano stanziati in quel campo in segno di protesta pacifica per denunciare la discriminazione sociale, l’occupazione marocchina e per difendere il diritto all’auto determinazione della popolazione saharawi. Hassana Aalia era uno degli attivisti che prese parte alle mobilitazioni: “L’accampamento della dignità è stata un’azione nonviolenta, pacifica che ha riunito tra i 20 e i 30mila saharawi di tutte le età. Lasciammo le nostre città, le nostre case, per andare nel deserto con le nostre tende e rimanervi fino a ottenere il diritto di vivere liberamente nei nostri territori. Montammo più di 8mila tende, mandammo al Marocco un messaggio chiaro: siamo un popolo ben organizzato. Fu incredibile vedere i tanti volti felici dei saharawi, perché era la prima volta che vivevamo insieme, uniti, in libertà. Per 28 giorni non vedemmo coloni. Eravamo liberi dai nostri oppressori.”
Alla violenza dell’esercito per mettere fine alla manifestazione, seguirono violente proteste prima interne al campo e poi estese a tutta la città, con un bilancio di undici guardie marocchine e due civili saharawi rimasti uccisi. “La repressione fu inaspettata e brutale. Bruciarono, spararono, da veicoli e da elicotteri. Già il 24 ottobre assassinarono un ragazzino di 14 anni mentre cercava di entrare nell’accampamento (…) Quel risveglio all’alba dell’8 di novembre fu uno shock. Famiglie che non respiravano, gente che correva, cadeva, aveva paura. Distrussero tutto. Da El Aaiún si vedeva il fumo, la gente si incamminò verso la città, con le poche cose che era riuscita a mettere in salvo. Quel giorno si manifestò in città fino a mezzogiorno. La polizia e l’esercito cercarono di fermarci, ma eravamo tanti. Allora la polizia chiamò i coloni a scendere in piazza contro di noi. La repressione che seguì fu brutale. In dicembre fui arrestato anch’io. Ricordo una delle sale dove torturavano, c’era sangue sui muri, dappertutto.”
Nel febbraio 2013 gli attivisti furono condannati prima dal Tribunale militare di Rabat con una sentenza poi revocata. Uno degli avvocati dei prigionieri, dichiarò che “l’annullazione della sentenza del tribunale militare riafferma che le imputazioni non sono state giustificate per omicidio e complicità” e che ci fossero tutte le condizioni per considerare quel processo “politico”. Nel 2017, dopo ormai 13 anni di carcere, il maxiprocesso si concluse nella Corte d’Appello di Salé che giudicò le imputazioni per “la formazione di organizzazione criminale, violenza contro la forza pubblica con esito mortale e mutilazione di cadaveri”. Furono condannati all’ergastolo il co-fondatore della Lega saharawi per la protezione dei prigionieri politici nelle carceri marocchine, il Presidente del Comitato per la protezione delle risorse naturali del Sahara occidentale (CSPRON) e il Presidente del Centro per la conservazione della memoria collettiva saharawi. Tutti gli altri, in prevalenza attivisti e giornalisti, furono condannati a scontare dai 25 ai 30 anni di carcere. Il gruppo di prigionieri, a novembre ha indetto due giornate di sciopero della fame a seguito della richiesta di rilascio da parte della WGAD e in solidarietà con uno dei prigionieri rimasto in isolamento per circa 20 giorni. Ad oggi il Governo non ha ancora assicurato la liberazione per tutti i prigionieri.
A dicembre 2023, anche il Segretario Generale dell’Unione dei giornalisti e degli scrittori Saharawi, Nafi Ahmed Mohamed, ha messo in guardia l’ONU sui crimini contro i professionisti della comunicazione, vittime di persecuzioni sistemiche come i pedinamenti, gli accerchiamenti militari nelle abitazioni, lo spionaggio dei dispositivi elettronici e dei social network, fino alle detenzioni arbitrarie nell’obiettivo di “minare il morale degli saharawi e attaccarne l’identità in una guerra psicologica”.
Neanche l’interesse a ricoprire un ruolo di primo ordine in materia di diritti umani pare aver allentato la morsa della repressione contro gli attivisti per la causa saharawi. Aminetu Haidar, definita anche “ la Ghandi del Sahara” per la sua vocazione non violenta, dagli anni ’80 è impegnata nella lotta per l’indipendenza e la liberazione dei prigionieri politici nelle carceri marocchine. Nell’87 fu arrestata per la prima volta, risultò “scomparsa” ai familiari per 4 anni in cui venne tenuta prigioniera senza alcun capo d’accusa. “Mi mettevano dei prodotti chimici urticanti in bocca, nel naso e negli occhi e mi percuotevano continuamente con bastonate. Poi c’erano le scariche elettriche. Perdevo i sensi tutte le volte. Per tutti e quattro gli anni avevo gli occhi bendati notte e giorno. Volevano farmi perdere la nozione del tempo e dello spazio”. È in carcere che si ammalò di epilessia e gastrite senza mai ricevere cure. Dopo il secondo arresto e dopo un nuovo calvario di torture, ricevette l’appoggio e la solidarietà di molti personaggi di spicco della comunità internazionale come Josè Saramago, Adolfo Pérez Esquivel, Ken Loach e Paul Laverty. Ma in realtà, come denunciato più volte, lei e la sua famiglia sono ancora controllati dall’intelligence marocchina vittime di aggressioni e discriminazioni dalle forze armate. Agli inizi di gennaio, dopo aver vissuto molti anni in Spagna, dove emigrò per poter accedere a delle cure medicali, è stata espulsa per degli errori di trascrizione nella compilazione del suo permesso di soggiorno per rifugiata, costretta a far rientro nel mirino del regime marocchino.
Contro le violazioni del Marocco, pesanti denunce sono arrivate anche dall’Osservatorio dei diritti umani della Mauritania, che proprio il 9 gennaio ha evidenziato a mezzo stampa l’aumento delle vittime nei continui raid aerei provocati dalle forze marocchine, indirizzati nelle aree liberate del Sahara dal Fronte Polisario. Anche l’Ufficio Saharawi per il coordinamento delle attività minerarie (SMACO), in una riunione del 7 gennaio ha stimato che dalla fine del cessate il fuoco tra i militari del polisario e dell’esercito marocchino, siano morti almeno 66 civili mauritani e 3 algerini, oltre a quasi 100 saharawi disarmati, di cui la gran parte lavoratori delle miniere e allevatori di bestiame. Lo stesso giorno, il 7 gennaio, in risposta a un attacco con droni di fabbricazione marocchina del 1 Gennaio che hanno causato la morte di dieci civili mauritani, il Governo mauritano ha risposto con un aumento del 171% delle tasse doganali per il transito delle merci nell’area di El Guerguerat, zona cuscinetto e d’interesse strategico per il Marocco verso le regioni dell’ECOWAS. Secondo la stampa mauritana, diversi trasportatori facente capo a società marocchine, hanno rifiutato di pagare la nuova tassa e sono rimasti bloccati in questa striscia di confine tra Marocco e Mauritania, provocando un impatto negativo sulla distribuzione dei prodotti freschi come frutta e verdura. Alcuni video che circolano in rete, mostrano anche alcuni camion di società di trasporto merci marocchine che bruciano, poiché considerati carichi di risorse rubate al territorio saharawi. È proprio a El Guerguerat che dal Novembre 2020 sono ripresi gli scontri tra l’esercito del Fronte Polisario e quello marocchino, in risposta alle violazioni del divieto di accesso sancito dalle Nazioni Unite per il traffico commerciale.
La tassazione improvvisa imposta dalla Mauritania ad oggi potrebbe rappresentare un motivo di tensione tra i due governi, per la contesa di uno sbocco commerciale in un territorio già martorizzato dalla depredazione delle sue risorse oltre che dal fallimento della sua decolonizzazione. La politica di repressione marocchina contro la popolazione saharawi e la volontà di annessione del territorio desertico, trova le sue basi nelle innumerevoli attività estrattive a cui può attingere il Marocco: basti pensare che il Regno marocchino ad oggi è il secondo produttore e il primo esportatore al mondo di fosfato grezzo e di acido fosforico, oltre a essere ai primi posti per l’esportazione di concimi fosfatici attraverso la Office chérifien des phosphates, società tra le più importanti a livello mondiale nella produzione di fertilizzanti, visto che si rifocilla proprio da Sahara, territorio detentore del 70% delle riserve di fosfato mondiali ; inoltre gestisce con numerose aziende di materiali di costruzione europee la compravendita di migliaia di tonnellate di sabbia del Sahara; non per ultimo, si interessa sempre di più alla ricerca e all’estrazione di petrolio in diversi punti del Sahara occupato e non. Esiste anche una lunga tradizione di attività di pesca sulle coste del Sahara che oggi può essere sintetizzata nell’accordo tra Unione Europea e Regno del Marocco scaduto a Luglio 2023. L’accordo attribuiva all’UE “la possibilità di pesca in cambio di una contropartita finanziaria complessiva pari a 208 milioni di EUR”, comprendendo a prezzi vantaggiosi anche le attività nelle aree marittime del Sahara Occidentale. Poi nel 2021, una sentenza del Tribunale dell’Unione Europea, accogliendo le istanze del Fronte Polisario, ha sancito l’illegalità dell’accordo perché stipulato contro il consenso delle istituzioni saharawi.
Oggi il Presidente Ghali del Sahara rinnova l’invito all’Unione europea ad aderire al diritto internazionale e ad astenersi dal firmare qualsiasi accordo con il Regno del Marocco, sia che riguardi terre, spazio aereo o acque del Sahara. Mentre nell’attesa di un percorso istituzionale, sembra che si stiano intensificando gli attacchi operati dai militari del Fronte Polisario contro obiettivi militari marocchini. e, in un comunicato stampo del 9 Gennaio, si legge: “il popolo saharawi è pienamente impegnato in questo sacro diritto ed è pronto a difenderlo con tutti i mezzi legittimi garantiti dalla legittimità internazionale, compresa la lotta armata”. Forse anche senza considerare la convocazione di fine anno 2023 dei Paesi del Sahel a Marrakech per discutere di alleanze nuove geostrategiche, non è da escludere che a un maggiore livello di tensione possa coincidere una nuova escalation militare nel mondo arabo e nord africano.
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Weekly Chronicles #60
Questo è il numero #60 delle Cronache settimanali di Privacy Chronicles, la newsletter che parla di sorveglianza di massa, crypto-anarchia, privacy e sicurezza dei dati.
Cronache
- Un teologo nella commissione governativa sull’IA
- Vanguard, il nuovo sistema anti-cheater di League of Legends
Lettere Libertarie
- Anarco-capitalismo e Crypto-anarchia: due facce della stessa medaglia?
Rubrica OpSec
- Burner phones per tutti, non solo per Jason Bourne
Un teologo nella commissione IA governativa
La notizia italiana della settimana è che il governo ha messo un presbitero francescano a capo della commissione governativa sull’intelligenza artificiale nell’editoria. La nomina arriva dopo le dimissioni di Giuliano Amato, che non si sa neanche come ci fosse finito in primo luogo.
Il soggetto in questione si chiama Paolo Benanti, che dal 2008 insegna teologia morale ed etica delle tecnologie alla Pontificia Università Gregoriana.
La nomina di Benanti ha ovviamente fatto schiumare (termine tecnico) più o meno tutti i benpensanti progressisti. C’è chi ha gridato all’oltraggio e chi ovviamente non ha mancato di sottolineare come sia ridicolo che nel 2024 si possa mettere a capo di una commissione per l’IA un frate: servono tecnici e scienziati.
Eppure la nomina di Paolo Benanti piuttosto dell’ennesimo capoccione col PhD mi fa ben sperare. Proprio qualche giorno prima della notizia della nomina scrivevo su X una delle mie riflessioni:
L'evoluzione tecnologia porta inevitabilmente alla teologia
Non sono ovviamente un esperto di teologia, ma credo che il progresso tecnologico, soprattutto per le tecnologie dell’informazione, non sia altro che un viaggio spirituale dell’essere umano per riscoprire se stesso e la propria spiritualità.
Senza una nuova riscoperta della spiritualità umana, la tecnologia dell’informazione rischia di schiacciarci. Eppure, è un viaggio inevitabile — che siamo tutti chiamati a intraprendere, consapevolmente o meno. All’orizzonte si intravedono scenari trans-umani e post-umani; luoghi futuri in cui la distinzione tra uomo e macchina sarà sempre più sfumata (lo percepiamo già dalle timide sperimentazioni sui chip neurali).
Se non sapremo riconciliare una dimensione individuale, umana e spirituale con questi scenari, allora tutto sarà perduto. Come scriveva anche Benanti nel 20191:
I profondi cambiamenti indotti dall’irruzione dell’informazione e dagli artefatti biotecnologici suscitano nuove domande sull’uomo e sulla sua identità: la questione antropologica diventa un luogo chiave dove la filosofia e la teologia si devono confrontare con nuove visioni e inedite sfide.
Suggerirei quindi ai benpensanti atei e progressisti col PhD di ridere meno, e iniziare invece a interrogarsi seriamente sul loro posto nell’universo. Sia chiaro: questa commissione sull’IA non produrrà alcun risultato utile in merito a questi aspetti (non è neanche nel suo scopo), ma anche solo parlare di tecnologia e teologia è un segno dei tempi, che non deve essere ignorato.
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Vanguard, il nuovo sistema anti-cheater di League of Legends
Riot Games ha da poco annunciato che League of Legends, il loro ormai famosissimo MOBA (Multiplayer Online Battle Arena) sarà protetto da un nuovo tipo di sistema anti-cheater chiamato Vanguard2.
ECUADOR. Stato di guerra. Si spara nelle strade
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di Davide Matrone – Pagine Esteri, 9 gennaio 2024. Gruppi armati sono entrati in studi televisivi e nelle università e nei supermercati in risposta allo “stato di emergenza” emanato ieri. Nelle strade si spara e il governo ha decretato lo “stato di guerra”. Davide Matrone, da Quito, ci aggiorna sulla situazione. widget.spreaker.com/player?epi… L’8 gennaio, in Ecuador si sono sollevati i detenuti in alcuni centri penitenziari del Paese. Hanno preso in ostaggio le guardie carcerarie e hanno minacciato il Presidente della Repubblica Noboa intimandogli di non intervenire militarmente nelle carceri perché, in caso contrario, ci sarebbe stata una carneficina. Evaso Adolfo Macías, noto come “Fito”, leader del principale gruppo criminale del paese.
Le immagini circolate sulle reti social mostrano bande di uomini incappucciati che agitano enormi coltelli e grossi maceti alle spalle delle guardie carcerarie prese in ostaggio. Tutti i poliziotti sono a terra e sotto minaccia mentre un loro rappresentante legge il comunicato delle bande criminali.
Durante la giornata, inoltre, si sono registrati ammutinamenti nei centri penitenziari del paese: Guayaquil, Quito, Cuenca, Riobamba e Latacunga. L’esercito è intervenuto a fatica per sedare le proteste, dato che all’interno delle galere le guardie carcerarie erano tenute sotto ostaggio.
Nella serata, il presidente ha decretato il suo primo Stato d’Emergenza dalle 23 alle 5:30 in tutto il Paese, trasferendo poteri eccezionali all’esercito per controllare la situazione.
Non è la prima volta che si decreta lo stato d’emergenza in Ecuador. Durante il governo Lasso, dal maggio 2021 al novembre 2023, furono decretati ben 11 stati d’emergenza, dieci dei quali per l’insicurezza nel Paese.
L’insicurezza non fu debellata, anzi. L’Ecuador ha chiuso il 2023 come il Paese più violento d’America Latina. Ora Noboa, a soli 45 giorni dall’insediamento, si trova a gestire incandescente e a dichiarare il suo primo, e speriamo ultimo, stato d’emergenza. Pagine Esteri
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Due facce
Più di 4 miliardi di elettori saranno chiamati alle urne nel 2024. Sempre pronti a raccontarne la crisi, pare che a molti sfugga il trionfo delle democrazie. Quei 4 miliardi non sono un’eccezione, semmai una coincidenza perché comunque – ogni anno – miliardi di cittadini hanno la possibilità di recarsi alle urne. L’Occidente, che questa epidemia democratica ha innescato, oltre a esserne orgoglioso farebbe bene a meditarla, anche perché c’è il risvolto della medaglia.
La prima cosa da osservare è che in quei 4 miliardi sono compresi i cittadini russi o iraniani, che vivono senza democrazia e per i quali il voto è una farsa. Allora, per quale ragione un despota come Putin, che gli avversari li ha fatti ammazzare o internare nei lager, sente il bisogno della farsa? Perché hanno vinto le democrazie e, nel secolo scorso, hanno perso le dittature ideologiche e i sistemi a pretesa discendenza divina. Non sono più credibili, sopravvivendo in barzellette pazzotiche come la Corea del Nord. È enormemente cresciuta l’area in cui si riconosce al popolo la sovranità e si utilizzano le elezioni per effettuarne la delega a legiferare e governare. Un sistema che si pretende essere sempre debole e che, invece, è talmente forte da avere attirato a sé anche i despoti che lo detestano ma che ne hanno bisogno per provare a legittimare il proprio dispotismo. Abbiamo vinto noi, anche se ci imbarazza vestire i panni dei vincitori.
Naturalmente non basta votare perché ci sia democrazia: occorre anche che si voti all’interno di uno Stato di diritto e che siano riconosciuti i diritti di minoranze e oppositori. Così non è in Russia o in Iran, quindi la loro è soltanto una patetica imitazione del sistema cui essi stessi si piegano perché vincente.
Questo ha però un risvolto dove le democrazie sono vere (perfette non lo saranno mai, fortunatamente): così come il voto è la sola forma di legittimazione del potere, lo strumento di delegittimazione – una volta conquistatolo – si trova nei palazzi di giustizia. Il voto rende legittimo l’esercizio del potere, ma è la giustizia a potere poi revocare quella legittimità. Lo Stato di diritto è il normale alveo delle democrazie, ma ha regole che possono contrastarne gli esiti democratici. In una normale dialettica, ci sta. Tanto è vero che esistono strumenti messi a punto da secoli, come l’indipendenza del giudicante e l’immunità parlamentare. Ma le cose cambiano.
Troppo spesso i perdenti elettorali pensano di potere avere la rivincita in tribunale e troppo spesso il vincitore elettorale pensa di doversi togliere dai piedi il tribunale. Da Trump a Orbán, passando per Netanyahu, il vincitore prova ad allungare le mani sulla magistratura, accusandola d’essere eversiva se si mette a sindacare l’agire del potere. Ma è anche vero che la magistratura talora interpreta un ruolo che sembra più destinato a giudicare le politiche che non le persone sulla base di leggi e reati. E tutto ciò porta male, alla salute democratica.
I due princìpi da tenere in equilibrio prevedono che nessuno può sottrarsi al sindacato della giustizia – semmai se ne può rimandare il corso, ove questo metta in dubbio la capacità di adempiere ai doveri dell’ufficio e manchi un voto parlamentare che destituisca il gestore del potere – ma, dall’altra parte, è insana l’idea di sconfiggere in una Corte l’avversario politico che non si riesce a sconfiggere nelle urne, pensando con la cancellazione del sintomo di avere eliminato il male. In Russia e Iran manco sanno di che stiamo parlando, ma per noi è vitale.
La Ragione
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Taiwan Files – Il falso allarme missile
Qualche appunto qui su quanto accaduto a meno di quattro giorni dalle elezioni presidenziali e legislative della Repubblica di Cina (Taiwan)
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Robot saldatori. Ecco il piano di Fincantieri per le fregate Usa
Fincantieri è pronta ad accelerare nella produzione delle fregate per la Marina Usa grazie all’aiuto dei robot saldatori. La notizia arriva d’oltreoceano e l’obiettivo dell’azienda è quello di triplicare la produttività dei propri cantieri americani grazie all’automazione. La società triestina, infatti, è impegnata nella realizzazione della nuova classe di fregate a stelle e strisce Constellation grazie alla sua controllata del Wisconsin, Marinette Marine. L’obiettivo è arrivare a produrre due fregate all’anno, un’accelerata notevole rispetto all’attuale piano di tre ogni due anni. Come detto dall’amministratore delegato di Fincantieri, Pierroberto Folgiero, citato da DefenseNews, “La saldatura è una delle competenze più difficili da trovare, mentre la saldatura robotizzata che intendiamo introdurre, triplica la produttività e aumenta la qualità”.
Il contratto per le fregate Usa
La realizzazione della prima fregata è iniziata alla fine di agosto del 2022, con consegna pervista nel 2026. A maggio del 2023, un ulteriore contatto del Dipartimento della Difesa statunitense ha assegnato a Fincantieri la costruzione di una quarta fregata, con un valore di circa 526 milioni di dollari. Complessivamente, il programma navale statunitense ha un valore complessivo di cinque miliardi e mezzo di dollari. Già a maggio, in occasione del contratto per la quarta unità, Folgiero aveva posto l’accento sull’importanza dell’innovazione tecnologica. “Il nostro impegno – aveva detto l’ad – è di supportare la più grande Marina al mondo con una nave che rappresenti il massimo grado possibile di innovazione”.
I robot di Fincantieri
A luglio Fincantieri ha presentato MR4Weld (Mobile robot for weld), un robot saldatore sviluppato in collaborazione con l’azienda italiana Comau. Dotato degli strumenti per effettuare la saldatura, il robot h anche di un sistema video in grado di identificare autonomamente i giunti o di farsi indicare da un operatore umano dove saldare. Ed è proprio grazie a questi robot che Fincantieri intende accelerare la produzione delle fregate. “Stiamo facendo ordini per iniziare a usare il robot su larga scala in Italia e vogliamo esportarlo il prima possibile negli Stati Uniti”, ha detto ancora Folgiero a DefenseNews, aggiungendo che “questa è la grande priorità, dato che abbiamo difficoltà a trovare saldatori negli Stati Uniti”.
Fregate Constellation
Il programma Constellation è particolarmente significativo per la Marina Usa, come testimonia anche la denominazione scelta per le unità della classe, che ricalca i nomi delle “sei fregate originali” del 1794, le primissime della allora neonata US Navy. In totale, il Pentagono prevede di realizzare una ventina di vascelli, e il programma punta a formare la prossima generazione di fregate missilistiche multiruolo, con una richiesta iniziale di dieci unità, aumentabile fino a venti, per affrontare gli scenari del futuro. Fincantieri è stata selezionata nel 2020 per progettare e costruire l’unità capoclasse, con l’ulteriore opzione per altre nove navi, esercitata già per tre unità; oltre a provvedere anche al supporto successivo alla costruzione e all’addestramento degli equipaggi, per un valore complessivo di circa cinque miliardi e mezzo di dollari per Fincantieri. La scelta di Fincantieri per la realizzazione del programma Constellation si è basata sul progetto presentato dalla società, giudicato il più avanzato e innovativo, e strutturato sulla piattaforma delle fregate Fremm, ritenute le migliori al mondo sotto il profilo tecnologico, già nella flotta sotto le insegne italiane.
Intelligenza artificiale. Quali regole?
In questo lavoro, scritto per tutti, e non soltanto per i giuristi e gli informatici, naturali destinatari del tema, ho cercato di indicare le coordinate di una riflessione sulle regole per normare l’intelligenza artificiale.
Spesso, infatti, si invocano nuove regole, ma occorre chiedersi quali regole siano davvero necessarie, e a quale livello, nazionale o internazionale. Per questo la riflessione muove da una prospettiva culturale sul tema, che comprende le nostre paure e i nostri pregiudizi, per poi soffermarsi sulle parole utilizzate dalla nuova narrativa sull’intelligenza artificiale e dalla retorica che la circonda. Basti pensare a tuta la cinematografia sull’argomento, ai termini “oracolo” o “incantesimi”, che spesso sono utilizzati e all’antropomorfizzazione del’IA.
Esamino poi alcune possibili scelte regolatorie e alcune questioni giuridiche specifiche, quali la responsabilità per i danni cagionati dall’intelligenza artificiale, l’autorialità delle opere da essa create, e la gestione dei dati personali di cui l’IA si nutre. Infine, il volume si conclude con una riflessione sullo scenario geopolitico e sulle scelte effettuate già da altri Paesi, come la Cina e gli Stati Uniti, mentre in Europa si attende il Regolamento sull’intelligenza artificiale.
Non c’è dubbio che le norme in questa materia, per essere efficaci, dovranno necessariamente essere il risultato di un coordinamento internazionale, certamente non facile, ma necessario.
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Darcey Bell – Un piccolo favore
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Appena rilasciata la versione 2.0.0 del plugin ActivityPub per WordPress (il rilascio di WordPress.com è previsto per domani).
L'annuncio di pfefferle@mastodon.social
Caratteristica principale: Federazione completa dei commenti bedirezionali/thread 🎉Registro completo delle modifiche: github.com/Automattic/wordpres…
Grazie #Automattic @Matt Wiebe @Kan-Ru Chen @André Menrath @MediaFormat @Matthew Exon @Tom Anypuppies @sentynel@sentynel.com e @Jan Boddez per i vostri contributi
#wordpress #plugin #ActivitiyPubhttps://wordpress.org/plugins/activitypub/
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In Cina e Asia – Xi: "Fenomeno della corruzione ancora grave e complesso”
Xi: “Fenomeno della corruzione ancora grave e complesso” Cosco interrompe spedizioni verso Israele Cina: arresta presunta spia dei servizi britannici Presidente delle Maldive in Cina a caccia di investimenti Arrestato vicepresidente dell’unità NEV di Evergrande La Cina punta sull’ “economia dei dati” La Corea del Sud vieta il consumo di carne di cane Dopo 10 anni di sforzi, la Cina ...
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Giocattoli scadenti ed illeciti, privi del marchio CE
Scopri tutto qui! 👇
noblogo.org/cooperazione-inter…
Giocattoli scadenti e illeciti, un pericolo nei nostri mercati e nelle nostre case.
Una guida di #EUROPOL, disponibile anche in italiano, ci dice come difendere noi e i nostri bambini.
È partita per lo spazio la sonda cinese Einstein, che monitorerà il cosmo a raggi X l AstroSpace
"Einstein eseguirà un’indagine sistematica che porterà alla scoperta di raggi X provenienti da oggetti compatti, come buchi neri e stelle di neutroni. La sonda rileverà anche la luce proveniente da lampi di raggi gamma, supernovae, brillamenti di altre stelle ed eventi all’interno del Sistema Solare."
ECUADOR. Decretato lo stato d’emergenza
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Pagine Esteri, 9 gennaio 2024. Ieri, 8 gennaio, in Ecuador si sono sollevati i detenuti in alcuni centri penitenziari del Paese. Hanno preso in ostaggio le guardie carcerarie e hanno minacciato il Presidente della Repubblica Noboa intimandogli di non intervenire militarmente nelle carceri perché, in caso contrario, ci sarebbe stata una carneficina.
Le immagini circolate sulle reti social mostrano bande di uomini incappucciati che agitano enormi coltelli e grossi maceti alle spalle delle guardie carcerarie prese in ostaggio. Tutti i poliziotti sono a terra e sotto minaccia mentre un loro rappresentante legge il comunicato delle bande criminali.
Durante la giornata, inoltre, si sono registrati ammutinamenti nei centri penitenziari del paese: Guayaquil, Quito, Cuenca, Riobamba e Latacunga. L’esercito è intervenuto a fatica per sedare le proteste, dato che all’interno delle galere le guardie carcerarie erano tenute sotto ostaggio.
Nella serata, il presidente ha decretato il suo primo Stato d’Emergenza dalle 23 alle 5:30 in tutto il Paese, trasferendo poteri eccezionali all’esercito per controllare la situazione.
Non è la prima volta che si decreta lo stato d’emergenza in Ecuador. Durante il governo Lasso, dal maggio 2021 al novembre 2023, furono decretati ben 11 stati d’emergenza, dieci dei quali per l’insicurezza nel Paese.
L’insicurezza non fu debellata, anzi. L’Ecuador ha chiuso il 2023 come il Paese più violento d’America Latina. Ora Noboa, a soli 45 giorni dall’insediamento, si trova a gestire incandescente e a dichiarare il suo primo, e speriamo ultimo, stato d’emergenza. Pagine Esteri
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Mosca martella l’Ucraina e punta sul fattore tempo
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di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 9 gennaio 2024 – Come da attese, l’inverno ha portato all’ampliamento della controffensiva dal cielo di Mosca. Dopo il fallimento di quella ucraina, ora la Russia punta sul fattore tempo e tenta di utilizzare la superiorità della propria macchina bellica per mettere alle strette Kiev.
Tra domenica e lunedì, in coincidenza con il Natale ortodosso, le forze armate russe hanno lanciato l’ennesimo attacco missilistico contro sei diverse città ucraine. Missili da crociera e bombardieri strategici sono stati lanciati contro Dnipro e Zaporizhzhia (nella regione di Dnipropetrovsk), Kryvyi Rih, Khmelnytsky e Kharkiv, distruggendo vari obiettivi civili e militari e provocando alcune vittime.
Centinaia di missili e droni sulle città ucraine
Negli ultimi giorni del 2023 Mosca aveva già lanciato il più grande attacco contro le città ucraine dall’inizio dell’invasione, arrivando a scagliare diverse centinaia di missili e droni contro Kiev e altre regioni, distruggendo obiettivi militari, infrastrutture ed edifici civili. In particolare, gli attacchi russi si sono concentrati contro le basi aeree, i radar, le batterie della contraerea e gli impianti per la produzione di droni e munizioni.
L’Ucraina tenta invece di mettere in difficoltà la Russia attaccando la città russa di Belgorod e diverse località della Crimea. A Feodosia, nella penisola annessa da Mosca nel 2014, gli ucraini sono riusciti a distruggere la nave da trasporto e da sbarco russa Novocherkassk. Mosca continua a dimostrare un’elevata vulnerabilità agli attacchi ucraini sul proprio territorio e nella penisola che si allunga nel Mar Nero, dalla quale ha dovuto progressivamente spostare una parte importante della propria flotta.
Alcuni analisti segnalano che Mosca sta ammassando truppe e mezzi a ridosso della regione di Kharkiv, la seconda città del paese assediata a lungo ma invano dai russi nella primavera del 2022. Approfittando delle difficoltà dell’artiglieria ucraina, i russi potrebbero lanciare presto un’offensiva di terra in grande stile per ri-occupare Kupyansk. Le autorità locali dell’oblast settentrionale di Chernihiv, invece, denunciano che Mosca potrebbe aprire un ennesimo fronte di terra nel loro territorio, confinante con la Russia e con la regione di Kiev. La mossa obbligherebbe Kiev a sguarnire il fronte orientale permettendo a Mosca di occupare più agevolmente altri territori in Donbass e nelle regioni attigue.
Mosca conquista Marinka
A ridosso di capodanno le truppe russe hanno già conquistato ciò che rimane della cittadina di Marinka, nell’oblast di Donetsk, ormai disabitata e rasa al suolo dai bombardamenti del 2014, del 2022 e delle scorse settimane. Si tratta della vittoria più significativa per Mosca, per quanto poco più che simbolica, dopo la conquista di Bakhmut. Continuano invece i combattimenti nelle zone di Avdiivka, fulcro delle difese ucraine nella porzione della regione di Donetsk che ancora controllano, dove l’esercito russo avanza lentamente e a costo di un numero elevato di perdite.
Sarà da vedere se Mosca tenterà veramente di ottenere costose conquiste territoriali o si limiterà a mantenere alta la pressione sulle truppe ucraine continuando nel frattempo a martellare le infrastrutture industriali e militari di Kiev per fiaccarne le difese e il morale. In generale la situazione sul campo, nonostante i piccoli progressi russi e la superiorità bellica di Mosca per quanto riguarda la disponibilità di truppe e munizioni, è sostanzialmente di stallo. Difficilmente la vittoria arriverà dai risultati sui campi di battaglia.
Uno scorcio di Marinka
Putin pronto ad un cessate il fuoco?
Ma se Mosca continuerà a reggere meglio di Kiev, com’è avvenuto finora, alla lunga la Russia potrebbe riuscire ad imporsi costringendo l’Ucraina – e la Nato – a riconoscere lo status quo.
Alla fine di dicembre il New York Times ha scritto che Vladimir Putin avrebbe discretamente fatto sapere alle controparti di essere disponibile ad un cessate il fuoco che però riconosca le conquiste territoriali di Mosca. Il Cremlino sarebbe disponibile a cessare i combattimenti a condizione che l’attuale linea del fronte venga congelata, consentendo così alla Russia di mantenere il possesso del 19% del territorio ucraino.
Anche se il presidente russo ha confermato, nel discorso di Capodanno, gli obiettivi declamati all’inizio dell’invasione – la “denazificazione” e la “demilitarizzazione” dell’Ucraina – Vladimir Putin starebbe da mesi caldeggiando un accordo “alla coreana” (un armistizio permanente senza il raggiungimiento di un accordo globale di pace) entro le elezioni presidenziali di marzo. Ciò permetterebbe la leader di Russia Unita di presentarsi alle urne da vincitore.
Si tratta di uno scenario assai improbabile, soprattutto a causa della totale opposizione dell’attuale governo ucraino e di buona parte dei comandi militari, mentre nella Nato, alle prese con il rischio di un allargamento del conflitto in Medio Oriente, un congelamento della situazione ad est potrebbe non dispiacere. Per far fronte alla penuria di soldati Kiev potrebbe ordinare la mobilitazione di 500 mila uomini, rimpolpando le truppe sempre più stanche e demoralizzate. Ma la riforma dei criteri di coscrizione è stata più volte annunciata ma finora mai attuata, a causa del malcontento che la misura genererebbe soprattutto nelle regioni dell’Ucraina centro-occidentale dove la vita è tornata ad una quasi normalità (bombardamenti russi a parte) e dove il coinvolgimento nello sforzo bellico appare sempre meno prioritario e dovuto.
Le conseguenze di un bombardamento a Kiev
La crisi di Kiev
Se appare difficile che una svolta avvenga nei prossimi mesi è anche vero che i segnali di crisi a Kiev sono sempre più evidenti, a partire dalle divisioni tra il governo e l’esercito e all’interno di quest’ultimo. Per non parlare del calo drastico degli aiuti economici e bellici da parte degli sponsor di Kiev che rendono lo schieramento militare ucraino sempre più vulnerabile e diffondono il “disfattismo” (o realismo) nella società e tra i soldati.
Il generale Zaluzhny attende con ansia l’arrivo degli elicotteri e dei caccia promessi da olandesi, danesi, norvegesi e belgi, ma i tempi di consegna e quelli per l’addestramento dei piloti degli F16 si stanno dilatando e le nuove, vitali risorse saranno disponibili solo tra alcuni mesi.
Questo mentre gli aiuti da USA ed UE arrivano ormai con il contagocce. Al Senato di Washington l’opposizione repubblicana continua a bloccare il pacchetto da 60 miliardi di aiuti mentre si capirà nei prossimi giorni se i capi di stato e di governo dell’Unione Europea riusciranno a sbloccare i 50 miliardi destinati a Kiev sui quali, alla riunione di dicembre, il premier ungherese Orban ha posto il veto. Il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba, in un’intervista a “El País”, si è detto fiducioso, spiegando che in caso di blocco l’Ucraina «non ha un piano B».
Senza ingenti e continue iniezioni di risorse da parte degli alleati l’economia ucraina non è in grado di reggere a lungo mentre, nonostante le sanzioni, nel 2023 quella russa è cresciuta del 3% e Mosca ha saputo ri-orientare velocemente una parte importante della propria bilancia commerciale verso nuovi partner, soprattutto in Asia.
La penuria di munizioni
Inoltre, avvisa ancora il New York Times citando funzionari della Casa Bianca e del Pentagono, presto Washington non sarà più in grado di fornire armi e munizioni all’Ucraina e di mantenere una fornitura costante di missili Patriot, indispensabili contro gli attacchi aerei. Al contrario Mosca ha aumentato sensibilmente, negli ultimi mesi, la sua capacità di produrre missili e munizioni e ha incrementato le proprie scorte acquistando un gran numero di proiettili e droni dalla Corea del Nord, dall’Iran e da altri partner. Secondo una stima del “Wall Street Journal”, dall’estate scorsa il numero di colpi di artiglieria sparati quotidianamente dagli ucraini è crollato da 7 mila a 2 mila, mentre i russi hanno raddoppiato la propria potenza di fuoco passando da 5 a 10 mila.
Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky continua a diffondere messaggi contraddittori. Da una parte afferma che non è vero che la Russia stia vincendo la guerra e che anzi Mosca «può ancora essere sconfitta», definendo «investimento sulla libertà» i finanziamenti occidentali. Dall’altra però, in un’intervista al settimanale britannico “The Economist”, denuncia che l’occidente ha perso «la sensazione di urgenza» e che molti ucraini hanno perso «la sensazione di minaccia esistenziale». Nel frattempo le sue truppe scavano trincee ed erigono fortificazioni sulla linea del fronte, sperando che impediscano un sempre più temuto disastro. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria
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Il tricolore è sinonimo di democrazia e libertà
Come ogni anno Reggio Emilia celebra il primo tricolore italiano di uno Stato sovrano, quel vessillo che raccoglie insieme le speranze del popolo, la promessa di una stagione dei diritti e della libertà, il sentimento di un’unità statuale fondata non più su ragioni dinastiche o pretese militari ma sui valori di giustizia e di fratellanza, per tutti. Passeranno 64 anni dal giorno in cui il bianco, il rosso e il verde si sono uniti nel vessillo della Repubblica Cispadana, fino alla proclamazione del Regno d’Italia nel cortile di palazzo Carignano a Torino, perché l’aula del parlamento subalpino era diventata troppo piccola per ospitare i deputati della Camera, raddoppiati nel numero dai plebisciti di annessione. Sporgendosi dalle balconate dove i tricolori erano esposti a coppie, in omaggio alla storia che si realizzava sotto i suoi occhi, la popolazione poteva vedere Camillo Cavour in terza fila, Alessandro Manzoni in seconda, Urbano Rattazzi più in fondo, Giuseppe Garibaldi seduto in
quarta fila, proprio dietro Massimo d’Azeglio.
Tutti raccolti attorno al pulpito per il sovrano sormontato da una corona, tra le musiche in piazza, i fuochi d’aria nel cielo della Gran Madre, e i cannoni che sparavano a salve dal monte dei Cappuccini. Da lontano, il Papa prometteva battaglia agli «usurpatori»invocando Dio, «vendicatore di giustizia e diritto». Era un compimento, ed era insieme un inizio. Noi oggi possiamo rivivere il primo atto formale della nostra storia nel simbolo d’inizio della vicenda nazionale, che custodisce il significato storico, politico, morale che si è trasmesso fin qui. Il tricolore infatti ha attraversato due secoli, laRestaurazione, la clandestinità, il Risorgimento, le guerre, la dittatura, la Liberazione, il passaggio dalla monarchia alla Repubblica, il boom, il terrorismo, il progresso continuo e le
crisi ricorrenti, ma ha continuato a testimoniare la ragion d’essere della nostra unità nazionale, certificandola. Un Paese ricorre all’invenzione dei simboli quando finalmente prende coscienza di sé, perché solo a quel punto può permettersi la trasfigurazione esemplare della realtà, per codificarla e sacralizzarla, tramandandola. Simbolo dei simboli, nella materialità della stoffa e nell’accumulo di riferimenti identitari dei suoi tre colori, la bandiera è puro significato, senza
traccia di ambiguità. Nasce per essere vista, per venir mostrata, per essere intesa, perché sia riconosciuta: e per trasmettere ad ognuno tra i cittadini il senso dell’insieme, la coscienza del vincolo statuale, la conferma di un’unione che politicamente diventa unità. Fin dall’origine porta in sé il segno dell’epoca in cui è nata e insieme la pretesa dell’eternità, con i valori della rivoluzione francese che seguivano l’Armata napoleonica, mentre gli antichi Stati assoluti lasciavano il posto all’ecogiacobina delle Repubbliche “democratiche”, nate ovunque.
Il bianco e il rosso erano già sulla bandiera francese, con il blu nazionale: ma figuravano anche nello stemma comunale di Milano, con la Guardia civica che indossava il colore mancante col verde delle sue uniformi. La Legione lombarda alzò nel 1796 il primo vessillo con questi tre colori, che già erano apparsi insieme a Genova, uniti nei tre cerchi concentrici delle coccarde appuntate sui vestiti dei “patrioti” che si incontravano nei vicoli e nei cortili. Il tricolore spuntava spontaneamente in città diverse, testimoniando il mondo nuovo che dalla Bastiglia veniva avanti, e «lusingava da gran tempo i cittadini di renderli più liberi», come spiegò a Milano Giovanni Battista Sacco alla “Festa della riconoscenza cisalpina alla grande nazione francese”. Ma quello stendardo era appunto la promessa di una suggestione, non la certezza di un’istituzione: era l’insegna dei reparti militari, non la bandiera nazionale di uno Stato italiano, il libero vessillo di un popolo sovrano. Finché il 7gennaio 1797 nella Sala Patriottica di Reggio Emilia, davanti a 100 deputati, Giuseppe Compagnoni presenta una mozione «perché si renda universale la bandiera Cispadana di tre
colori, Verde, Bianco eRosso». La bandiera non nasceva quindi dal caso o dal caos. Era il risultato concreto di una passione civile e patriottica risvegliata nei popoli, e di un calcolo strategico di Napoleone, che pensa di arrivare aduna sorta di federazione di Repubbliche per la difesa comune, e con questo spirito assiste al Primo Congresso Cispadano nel Palazzo Ducale di Modena: da dove parte un «proclama a tutte le genti della penisola», perché la nuova Confederazione si dichiara subito «aperta all’ingresso di altri popoli».
Questo entusiasmo unitario spinge Napoleone a informare il Direttorio: «Credevo che i Lombardi fossero il popolo più patriota d’Italia — scrive — ma comincio a pensare che Bologna, Ferrara, Modena e Reggio li sorpassino in fatto di energia». Come dobbiamo chiamarla, quella forza che ha stupito l’Imperatore? Energia patriottica allo stato nascente: energia costituente allo stato puro, sospinta dalla passione dei cittadini. Perché il tricolore ha anticipato l’unità del Paese, in un investimento suggestivo nella speranza del futuro: così come oggi, in fondo, l’euro anticipa l’unità politica dell’Europa, pur non avendo sulle sue facce l’immagine di un sovrano democratico capace di spendere il capitale della sua storia nelle crisi del mondo. Ecco perché quando la prima bandiera nazionale di uno Stato italiano sovrano sfila a Modena nella “passeggiata patriottica”, la folla applaude: in quel drappo vede ormai il simbolo del rifiuto di ogni assolutismo e della nuova coscienza civica, e l’aspirazione all’autodeterminazione dei popoli, cioè alla libertà. Non era più il vessillo di un re, e nemmeno soltanto uno stendardo militare. Aveva raggiunto il suo significato nazionale e patriottico, dunque finalmente politico. E infatti a Reggio Emilia quel sabato 7 gennaio si dispone che «lo stemma dellaRepubblica sia innalzato in tutti quei luoghi nei quali è solito che si tenga l’insegna della sovranità».
Chiediamoci oggi quanti sono quei luoghi, quali simboli li abitano, dov’è custodito — in questi annidi disincanto e di lontananza tra il cittadino e lo Stato, con ogni reciproca passione spenta — il deposito civile della nostra Repubblica, e come si mantiene vivo, conservando vitale il significato di quella scelta per una comune appartenenza. La risposta è qui, la risposta siamo noi, perché la vera risposta è la città, prima e ultima infrastruttura della democrazia occidentale, la dimensione civica che preserva le radici della vita associata, dove si possono ritrovare le ragioni smarrite del bene comune e il sentimento perduto della comunità. La città con al centro la piazza, dov’è sfilata la storia del Paese, il luogo quotidiano dello scambio reciproco di riconoscimento tra i cittadini, quel gesto minimo ma consapevole che trasforma la convivenza in coesione sociale, e che è il vero valore d’uso della democrazia delle piccole cose. La piazza italiana come la conosciamo, come l’hanno
abitata i nostri padri, come la consegneremo ai nostri figli: quella dell’Italia dei Comuni, col duomo, il municipio e la prefettura, simboli dei tre poteri che nella tradizione confrontano, combinano e compongono le loro diverse autorità, e che in quello stesso luogo vengono criticati dai movimenti di protesta, radunati proprio qui, spontaneamente, dalla loro libertà, come nella moderna agorà della pubblica discussione. Naturalmente tutto questo accade davanti alla bandiera, che al centro della piazza ha attraversato le epoche del progresso e i giorni del disonore, e ancora poco fa ha resistito sui municipi e sui balconi alla sfida della pandemia, che per la prima volta tentava di cancellare l’elemento umano dal paesaggio urbano, separando i simboli dalla vita. E invece proprio in quei giorni vuoti, senza società, la bandiera veniva appesa alle finestre come una conferma di presenza e di coscienza, un segno spontaneo di resistenza all’Anno Zero, un impegno di fiducia nella storia e nel Paese: per ritornare oggi fin qui, sulla piazza italiana del 2024, a restituirci un senso finalmente compiuto di Patria, dopo gli abusi retorici del passato e la riconquista della libertà democratica, nella lotta contro la dittatura da cui è nata la Costituzione.
La bandiera era presente, sempre, uguale a se stessa, nell’immediatezza simbolica addirittura elementare che mantiene ferma la rappresentazione dell’unità dell’Italia, mentre intorno la vicenda nazionale si compie trasformandosi, e portando la vita reale del Paese a rispecchiarsi ogni volta nelle sue insegne, che vivono dentro il flusso della storia. E la bandiera inscrive in sé necessariamente il segno e la lezione dei passaggi storici, le rotture e le soluzioni. Così, come ha
detto Luigi Salvatorelli nel 1947, in occasione del centocinquantesimo anniversario, «il tricolore è stato ribenedetto e riconsacrato dall’immagine dei patrioti, dal sangue dei partigiani e dei soldati che hanno combattuto contro il nazifascismo ». La bandiera dunque come testimonianza del divenire della vicenda nazionale, non nella semplice eredità genealogica e nella trasmissione generazionale soltanto, ma nello sviluppo di un’identità storica comune, consapevole delle radici, cosciente della crescita, e aperta al mutamento. Onorare il tricolore, oggi, significa appunto riconoscersi in una definizione comune del concetto di Patria, assumendo i valori di democrazia e di libertà come criterio di giudizio e di gerarchia. Quei valori non sono di parte, perché rappresentano il fondamento della cultura occidentale in cui ci riconosciamo, non per destino ma per scelta, la base europea della moderna cittadinanza e la garanzia universale di ogni civile convivenza. Sono gli ideali che ricollegandoci al Risorgimento e promettendo fedeltà alla democrazia, compiono la nostra storia e animano la nostra bandiera, e dopo l’unità nazionale e l’unità territoriale
costruiscono ciò che ancora manca, l’unità morale del Paese, che può nascere solo nel patriottismo costituzionale: fuori dal quale c’è soltanto la vita artificiale dell’ideologia, che affloscia le bandiere senza vento, immobili come sulla luna.
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Programmi congiunti ed export militare. Ecco perché Berlino apre ai caccia per Riyad
Cambio di passo da parte di Berlino nel settore della Difesa. La ministra degli Esteri tedesca, Annalena Baerbock, ha annunciato nel corso della sua visita in Israele l’intenzione del governo federale di rimuovere il veto che impedisce l’esportazione di Eurofighter all’Arabia Saudita. Una decisione importante non solo per il consorzio responsabile della realizzazione del caccia, ma in prospettiva anche per il futuro dei consorzi europei sui sistemi d’arma di prossima generazione.
Il veto di Berlino
Il blocco tedesco risale al 2018, quando l’allora cancelliera, Angela Merkel, dispose lo stop alle esportazioni di Typhoon alla monarchia saudita come reazione alla crisi scaturita dall’uccisione in Turchia del giornalista dissidente Jamal Khashoggi. Il veto tedesco aveva avuto l’effetto di paralizzare l’accordo che Riyad aveva stretto con il Regno Unito – partner del progetto – per l’acquisto di ulteriori 48 velivoli, dopo i 72. Un accordo dal valore di cinque miliardi di sterline. Già allora non si erano fatte attendere le perplessità da parte delle aziende coinvolte, BAE Systems, Airbus e l’italiana Leonardo, e ancora a settembre 2023 il primo ministro britannico, Rishi Sunak, era tornato sulla questione chiedendo a Berlino di rimuovere il veto all’export dei caccia. Anche l’Italia aveva posto tra il 2019 e il 2020 alcune limitazioni alle esportazioni di materiale militare all’Arabia Saudita, tra cui munizioni per gli Eurofighter, paletti rimossi definitivamente dal Consiglio dei ministri a maggio del 2023.
Il cambio di rotta di Scholz
Un primo passo verso questa direzione era già stato compiuto a ottobre 2022, quando, in vista del viaggio del cancelliere Olaf Scholz nella regione del Golfo, Berlino autorizzò la vendita di materiale militare a Paesi non-Nato, tra cui Riyad, nel contesto dei progetti congiunti di difesa europea in cui è coinvolta anche la Germania. L’accordo permise di fornire pezzi di ricambio e munizioni per gli Eurofighter sauditi. Un cambio di rotta che già allora segnò la rinnovata attenzione del nuovo governo Scholz alle questioni legate alla difesa e alla sicurezza internazionali, e che non a caso seguivano le misure adottate dalla nuova cancelleria di potenziamento del budget militare a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina. Anche in questo caso, ad accelerare il passo della Germania è intervenuta la crisi scoppiata dopo gli attacchi di Hamas il 7 ottobre. La stessa ministra Baerbock ha sottolineato il ruolo dell’Arabia Saudita nel contribuire “in modo determinante alla sicurezza di Israele” e “a contenere il rischio di un escalation regionale”.
Oltre l’Eurofighter
L’importanza della decisione odierna non è soltanto relativa alla commessa dei 48 caccia britannici per Riyad, ma segna un importante cambio di passo in generale per il futuro dei progetti congiunti europei. Le restrizioni tedesche, infatti, sono state criticate a lungo dai Paesi partner dei diversi programmi, considerati delle limitazioni all’appetibilità dei sistemi per il timore dei Paesi acquirenti di rischiare di rimanere senza pezzi di ricambio per i propri velivoli, spingendoli potenzialmente ad affidarsi ad altri fornitori. Adesso, con la riapertura da parte di Berlino, i programmi congiunti, a partire dai caccia Eurofighter e Tornado (a cui partecipa anche l’industria italiana), potrebbero vedere allargarsi la lista di ordini, con una nuova spinta sui mercati globali.
Programmi futuri
Il tema delle regole sulle esportazioni militari legate ai programmi congiunti, inoltre, riguarda da vicino anche i programmi di prossima generazione. Berlino è impegnata, insieme con la Francia, nella realizzazione del caccia di sesta generazione Fcas, mentre Italia, Gran Bretagna e Giappone collaborano sul parallelo progetto Gcap. Anche su questo versante, infatti, è del mese scorso la decisione del Giappone di modificare e regole che limitavano le esportazioni di materiale di Difesa. Ora sarà possibile, per il Paese del Sol levante, inviare materiali prodotti su licenza al Paese proprietario o sistemi di difesa non-letali agli Stati che si difendono da un’invasione, come l’Ucraina. Proprio pensando al Gcap, il governo di Fumio Kishida sta cercando di eliminare il divieto di esportare prodotti co-sviluppati ad altri Paesi. Tokyo, infatti, ha riconosciuto il ruolo fondamentale che l’export riveste per la sostenibilità economica di questi programmi. Progetti all’avanguardia come Gcap, Fcas o l’Eurofigher richiedono investimenti massicci per essere sviluppati e infine prodotti, e i soli mercati interni dei Paesi partner non basta a ripagare gli investimenti.
Intelligenza artificiale. Quali regole? di Giusella Finocchiaro
L’intelligenza artificiale è ormai entrata a far parte delle conversazioni quotidiane: incuriosisce, impaurisce, insospettisce come forse nessun’altra novità ha mai fatto. Ed è così diventata un mito cui colleghiamo parole che ingannano, costruendo narrazioni inquietanti e poco realistiche. Eppure le sue applicazioni in sanità, per fare un esempio concreto, sono tante e utili. Ma come possiamo conviverci? Se un sistema di IA causa dei danni può esserne considerato responsabile? Come sono protetti i dati personali di cui si nutre? Per governare questo nuovo fenomeno si invocano nuove regole giuridiche: ma quali sono le regole davvero necessarie? Certo si dovrà tendere a un sistema di regole globali, poiché non abbiamo a che fare con un fenomeno contenibile entro limiti geografici. L’Unione europea sta per approvare un nuovo regolamento, ma cosa accadrà nel resto del mondo? Il volume riflette su questi e altri interrogativi, cui non è e non sarà semplice dare risposta.
Giusella Finocchiaro insegna Diritto privato e Diritto di internet all’Università di Bologna. Avvocato cassazionista, è fondatrice e partner di DigitalMediaLaws, boutique legale specializzata in diritto delle nuove tecnologie. Già presidente della Commissione UNCITRAL sul commercio elettronico e della Commissione incaricata dal Ministero di Giustizia di redigere il decreto di adeguamento dell’ordinamento italiano al Regolamento europeo in materia di protezione dei dati personali, è esperto legale presso la Banca Mondiale ed esperto legale UNIDROIT nel «Digital Assets and Private Law project». Con il Mulino ha pubblicato recentemente «Major Legal Trends in the Digital Economy. The Approach of the EU, the US, and China», curato con L. Balestra e M. Timoteo (2022).
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GAZA. Palestinesi accusano soldati israeliani di esecuzioni sommarie
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di Maha Hussaini a Gaza – Middle East Eye
(foto UNICEF/Hassan Islyeh)
Per tre giorni, Moemen Raed al-Khaldi è rimasto ferito e immobile tra i cadaveri dei suoi familiari uccisi, fingendosi morto per proteggersi dai colpi dei soldati israeliani. Il 21 dicembre, i soldati israeliani hanno fatto irruzione nella casa in cui la famiglia Khaldi si era rifugiata nel nord di Gaza e, in pochi minuti, hanno sparato a tutti i presenti. I soldati hanno lasciato la casa pensando di averli uccisi tutti, solo Moemen è rimasto vivo, sanguinando per giorni prima che i vicini lo trovassero e lo portassero in ospedale.
Dal suo letto d’ospedale nel complesso medico di al-Shifa, a Gaza City, ha raccontato a Middle East Eye cosa è successo il 21 dicembre.
Khaldi e la sua famiglia si erano spostati a casa di parenti nel quartiere di Sheikh Radwan, nel nord di Gaza City, dopo essere stati costretti a evacuare la propria casa.
“Ho fatto finta di essere morto”
Quel fatidico giorno, dopo il tramonto, la famiglia aveva finito di pregare ed era sdraiata insieme sul pavimento, coperta da coperte, quando i soldati israeliani hanno fatto improvvisamente saltare la porta d’ingresso e fatto irruzione nella casa. “Tutti quelli che si trovavano nelle vicinanze sono rimasti feriti, comprese due donne: mia nonna e un’altra donna incinta”, ha raccontato Khaldi.
Rivolgendosi alla famiglia in ebraico, l’esercito israeliano ha ordinato a tutti di evacuare la casa. Tuttavia, poiché nessuno parlava ebraico, i membri della famiglia non hanno capito gli ordini. “I soldati non parlavano arabo. Nessuno parlava ebraico e noi non capivamo cosa dicevano. Allora mio nonno ha cercato di tradurre. Ha detto solo poche parole: ‘Ascoltate quello che vi dicono i soldati e uscite'”, ha raccontato Khaldi. “I soldati si sono girati e hanno pensato che fosse stato mio padre a parlare. Gli hanno sparato e lui è morto sul colpo”. I soldati hanno poi sparato a tutti gli altri presenti nella stanza, compreso Khaldi.
“Poi mio nonno è stato martirizzato, seguito da mio zio, poi da altri due uomini che si erano rifugiati da noi, poi da uno dei proprietari della casa. Poi sono state martirizzate mia nonna e la donna incinta”. Dopo essere stato colpito, riportando ferite alle gambe, Khaldi è rimasto immobile sul pavimento, fingendo di essere morto per evitare ulteriori spari da parte dei soldati.
“Mi proteggevo rimanendo in un punto tra la schiena di mio zio e il muro. In questa posizione mi proteggevo la testa. Sono rimasto così per tre giorni, fingendo di non essere vivo. Durante questo periodo, l’esercito entrava e usciva dalla casa, distruggendo il posto, ma io fingevo di essere [morto]”, ha ricordato. “Tre giorni dopo, mi hanno trasferito in ospedale insieme ai miei familiari martiri”.
“Hanno sparato alla mamma e poi al papà”
Il 27 ottobre, l’esercito israeliano ha lanciato un’invasione di terra nelle aree urbane, nelle strade e nei quartieri densamente popolati della Striscia di Gaza. Giorni prima dell’invasione, l’esercito israeliano ha iniziato a ordinare ai residenti di Gaza City e del resto della Striscia di Gaza settentrionale di evacuare le loro case e trasferirsi nelle aree a sud di Wadi Gaza. L’esercito ha dichiarato di considerare i palestinesi che non avrebbero rispettato gli ordini di evacuazione come “terroristi”, e le sue forze hanno da allora usato una forza letale contro le persone che hanno scelto di rimanere.
Il 22 dicembre, nello stesso quartiere in cui la famiglia di Khaldi è stata giustiziata, un suo parente di sei anni, Faisal Ahmed al-Khaldi, è sopravvissuto a un incidente simile dopo che i soldati israeliani hanno sparato ai suoi genitori uccidendoli davanti a lui, a casa di suo zio.
“Eravamo a casa e il carro armato era [stazionato] davanti alla porta dell’edificio. Una notte hanno abbattuto il cancello e sono entrati. La porta dell’appartamento di mio zio Mohammed era chiusa a chiave, l’hanno sfondata e sono entrati. Hanno sparato a tutti nella stanza degli ospiti”, ha raccontato Faisal a MEE.
“Stavamo dormendo, ho sentito il loro [rumore], così ho chiesto a mia madre: Cos’è questo rumore? Lei mi ha risposto: Sono israeliani”. Subito dopo le hanno sparato e poi hanno sparato a papà”. I soldati israeliani hanno poi ordinato agli altri membri della famiglia di Faisal di riunirsi in una stanza, lasciando che i bambini li osservassero dal corridoio.
Faisal è stato colpito dalle schegge dei proiettili che hanno ucciso i suoi genitori, ma lo shock gli ha impedito di sentire la ferita in quel momento.
“Ci siamo nascosti nella camera da letto di mio cugino Layan. Poi ci siamo diretti verso la porta, io non riuscivo a camminare, continuavo a cadere, così mio zio, Mohammed, mi ha portato in braccio. Subito dopo, i soldati hanno ordinato a lui e al nonno di Layan di togliersi i vestiti”, ha raccontato. “Hanno ordinato loro di sedersi e noi siamo andati tutti a sederci nel corridoio”.
Dopo che i soldati hanno lasciato la casa, la famiglia si è rifugiata in una scuola e solo allora Faisal ha sentito un dolore all’addome. “Mi hanno tolto i vestiti, hanno scoperto che ero ferito e mi hanno portato in ospedale”, ha raccontato.
Ucciso davanti ai figli disabili
Una settimana dopo, a pochi chilometri di distanza, i soldati israeliani hanno giustiziato Kamel Mohammed Nofal, 65 anni, dipendente in pensione dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione (UNRWA), davanti alla moglie e ai figli adulti disabili, mentre “cercava di spiegare loro che i suoi figli non potevano capire le istruzioni”, ha dichiarato a MEE un suo parente, Jamal Naim.
“Le forze israeliane sono arrivate nell’edificio in cui vivevano Kamel e la sua famiglia e hanno ordinato a tutti di evacuare. Tutti sono scesi e si sono radunati sulla strada di fronte all’edificio”, ha raccontato. “C’erano 24 residenti, tra cui Kamel, sua moglie Fatima Jamil Timraz, di 63 anni, e i loro quattro figli, i loro coniugi e i loro figli. Tra loro c’erano almeno nove bambini, il più piccolo aveva quattro mesi”.
Secondo Naim, tre dei figli di Kamel erano sordomuti e il quarto era ipovedente. “I soldati israeliani stavano dando al gruppo istruzioni su dove andare e cosa fare, ma i figli di Kamel non potevano capire perché non erano in grado di sentire, vedere o comunicare correttamente, così i soldati hanno proceduto a trattenerli”, ha detto.
“Kamel ha parlato in ebraico, dicendo che i suoi figli Hussam, 40 anni, Ahmed, 36 anni, Mahmoud, 32 anni, e sua figlia Wafaa, 31 anni, erano disabili. I soldati gli hanno immediatamente sparato. È stato ucciso davanti ai suoi figli e a tutti gli altri”. Naim ha riferito che i soldati israeliani hanno successivamente arrestato i figli di Kamel e gli altri membri della sua famiglia. La loro posizione attuale rimane sconosciuta.
Hanno giustiziato tutti
Quando l’esercito israeliano ha raggiunto il quartiere di al-Rimal, nel centro di Gaza City, ha preso di mira diversi edifici commerciali e residenziali. Ai residenti, tuttavia, non è stato permesso di evacuare. Il giornalista Ahmed Dawoud, 38 anni, era ancora nella sua casa vicino all’incrocio Palestina quando un carro armato israeliano ha preso di mira l’appartamento del suo vicino ed è stato costretto a fuggire.
“Ho lasciato la mia casa dopo che l’appartamento vicino è stato bruciato. Abbiamo lasciato l’edificio insieme a circa 30 persone, tra cui la figlia di un mio amico giornalista. Stavamo cercando di fuggire ma, quando siamo arrivati all’incrocio, due ragazze sono state uccise”, ha raccontato. “Una delle due ragazze aveva otto anni, era la figlia del mio amico giornalista, e l’altra aveva 15 anni. Le hanno giustiziate sotto ai nostri occhi. Se non ci fossimo messi al riparo, saremmo stati anche noi tra i martiri”.
Quando i soldati hanno aperto il fuoco sui residenti, alcuni si sono ritirati nell’edificio, mentre altri hanno deciso di proseguire a piedi verso un luogo più sicuro. “Il corpo della figlia del mio amico è rimasto in strada. Siamo entrati in una casa a caso e per quattro o cinque giorni siamo rimasti a guardare [dalla finestra], cercando di recuperare il corpo. Siamo stati accerchiati dai soldati israeliani che stavano uccidendo tutti quelli che si trovavano nella zona”, ha raccontato.
“Cinque giorni dopo, siamo scesi e abbiamo recuperato il corpo sotto i quadricotteri [israeliani]”. Quando è fuggito dall’edificio, alcuni dei suoi vicini sono rimasti nel loro appartamento. Appena i soldati israeliani sono entrati nell’edificio e li hanno trovati, ha raccontato, hanno ucciso l’intera famiglia, prima di dare fuoco alla casa. “Li hanno giustiziati tutti, l’intero gruppo… Hanno giustiziato tutti nella zona, non hanno lasciato nessuno”.
– Mohammed Qreiqe, a Gaza, ha contribuito a questo servizio.
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