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GAZA. Nessuna notizia dell’ambulanza mandata a salvare la bimba palestinese


Otto giorni fa due volontari della Mezzaluna Rossa sono partiti per soccorrere Hind Hamada, di 6 anni, unica sopravvissuta della sua famiglia dopo che i carri armati israeliani hanno circondato l'automobile in cui si trovava insieme a 6 parenti, inclusi 4

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Pagine Esteri, 5 febbraio 2024. Sono trascorsi otto giorni da quando a Gaza un’ambulanza della Mezzaluna Rossa è partita per soccorrere una bambina palestinese di 6 anni, Hind Hamada, unica sopravvissuta al fuoco dei carri armati israeliani che avrebbero circondato e colpito l’automobile in cui si trovava insieme a 6 parenti, inclusi 4 bambini.

Una coordinatrice del centralino della Mezzaluna Rossa, Rana al-Faqeh, è rimasta al telefono con la bambina per ore, provando a tranquillizzarla e a distrarla. Nonostante ciò Hind, come si può ascoltare dalla registrazione della telefonata, ha continuato a chiedere aiuto, a pregare i soccorritori di portarla via: “Si sta facendo buio e io ho paura del buio. Vieni a prendermi”. Durante la conversazione, in più occasioni, si è sentito distintamente il rumore degli spari.

Tutto è cominciato lunedì 29 gennaio, quando la sala operativa della PRCS ha ricevuto una chiamata di soccorso da parte di Layan Hamadeh di 15 anni. La ragazza chiedeva disperatamente aiuto perché l’automobile in cui si trovava, insieme ai genitori, ai due fratellini e alla cuginetta Hind, era circondata dai carri armati israeliani. Tra le urla si sentono gli spari e poi più nulla.

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Yousef Zeino, volontario della Mezzaluna Rossa Palestinese di cui si sono perse le tracce

Durante le tre ore della telefonata successiva tra la sala operativa e la bambina di 6 anni, unica sopravvissuta nell’automobile, i membri della Mezzaluna Rossa hanno provato a coordinare la partenza e il percorso dell’ambulanza con l’esercito israeliano.

È un’operazione che, nella Striscia assediata dai militari israeliani, devono compiere organizzazioni internazionali, associazioni umanitarie e sanitarie e anche le agenzie delle Nazioni Unite per comunicare all’esercito il passaggio dei propri mezzi e provare a garantire la sicurezza del personale. Nonostante ciò a Gaza molte ambulanze sono state colpite e diversi operatori della Mezzaluna Rossa sono rimasti uccisi.

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Ahmed Madhoun, volontario della Mezzaluna Rossa Palestinese di cui si sono perse le tracce

I due volontari partiti per raggiungere Hind, Yousef Zeino e Ahmed Madhoun, alle 18.00 circa di lunedì hanno comunicato alla sala operativa di essere arrivati sul luogo in cui si trovava l’automobile. Da quel momento, però, di loro si sono perse le tracce. Come per Hind, dopo l’interruzione delle comunicazioni.

Gli appelli quotidiani della Mezzaluna Rossa, che si è rivolta anche all’esercito israeliano per ottenere notizie, non sono riusciti al momento a ottenere risposte né informazioni. Dopo una settimana non si sa nulla di Hind né dell’ambulanza e dei due soccorritori che sembrano scomparsi nel nulla.

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Quei sottosviluppati che stanno al Parlamento Europeo hanno respinto una richiesta che chiedeva un dibattito sulla sentenza della Corte Internazionale di Giustizia:

Clare Daly, europarlamentare Irlandese:

"Nonostante l'importante sentenza della Corte Internazionale di Giustizia, secondo cui Israele è plausibilmente accusato di genocidio a Gaza, la nostra richiesta di "The Left" avanzata da Manu Pineda di aggiungere un dibattito al riguardo è stata respinta dalla maggioranza degli eurodeputati. La guerra è pace. La libertà è schiavitù. E "Israele ha il diritto di difendersi"."

Usa, UE e UK cancro del mondo. Che siate maledetti per l'eternità!

T.me/GiuseppeSalamone



Israele è l'unico paese al mondo che può permettersi di bombardare civili, ospedali, sedi umanitarie, scuole e università senza incorrere in alcuna conseguenza. Quello che sta facendo Israele è qualcosa che negli ultimi 70 anni mai nessuno ha fatto e credo che in futuro mai nessuno riuscirà a fare!

Anzi, viene accusato chi accusa questi criminali di guerra perché si sentono intoccabili grazie soprattutto a Biden, Meloni e Company che mandano navi da guerra per consentirgli di portare avanti un genocidio.

Stamattina il terrorismo di stato israeliano ha bombardato un camion dell'ONU. Dentro quel camion non c'erano armi o erano nascosti "terroristi", dentro quel camion c'erano aiuti umanitari per una popolazione alla fame e prossima alla carestia. La foto è stata condivisa da Thomas White, direttore degli affari dell'UNRWA e alla nostra stampa non sembra interessare perché troppo impegnata a portare avanti la propaganda governativa dei bambini Palestinesi portati in italia.

L'ipocrisia regna sovrana: permettono a Israele di bombardare i bambini Palestinesi e poi vogliono passare per quelli buoni portandone una piccola parte in Italia per curarli. È pura propaganda perché allo stesso tempo fanno tre cose disumane: permettono appunto a Israele di bombardare, iniziano a deportare persone dalla Palestina secondo le linee guida del governo israeliano e contemporaneamente si puliscono la coscienza di fronte a quell'opinione pubblica convinta di sapere la verità ascoltando la televisione e leggendo i giornali di regime.

Allo stesso tempo però si dimenticano di condannare e far vedere questi bombardamenti sugli aiuti umanitari o di rilanciare la denuncia della Mezzaluna Rossa, la quale con un video da brividi ha mostrato le distruzioni delle loro sedi causate dagli attacchi missilistici a Jabaliya e nel nord della Striscia di Gaza effettuati dall'esercito israeliano.

Poi però i terroristi sono gli Houti, che hanno ucciso zero persone a differenza di Israele che ne ha ammazzate decine di migliaia e portano avanti un'azione sacrosanta, ripeto, SACROSANTA che mira a difendere i bambini Palestinesi e dissuadere Israele di continuare un vergognoso genocidio.

T.me/GiuseppeSalamone



Esercitazioni e caccia del futuro. Tutti i legami della Difesa tra Roma e Tokyo


Un partenariato strategico che passa anche per la Difesa e la sicurezza. Tra i tanti temi che sono stati affrontati nel corso dell’incontro bilaterale tra il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e il premier giapponese Fumio Kisishida, a palazzo Kant

Un partenariato strategico che passa anche per la Difesa e la sicurezza. Tra i tanti temi che sono stati affrontati nel corso dell’incontro bilaterale tra il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e il premier giapponese Fumio Kisishida, a palazzo Kantei, sede del governo nipponico, quello delle collaborazioni militari e industriali per la difesa sono stati tra i principali, con il primo ministro giapponese che ha accolto “con favore il fatto che l’Italia stia aumentando la propria presenza nell’Indo-Pacifico”, registrando come quest’anno ci saranno diverse navi militari italiane, “compreso un gruppo portaerei da battaglia” che stanno pianificando uno scalo in Giappone per condurre delle esercitazioni congiunte”. Una presenza, quella italiana, confermata anche dal premier italiano: “L’Italia intende avere una presenza sempre più significativa e invierà ulteriori velivoli e assetti navali: arriveranno la nave Vespucci, la portaerei Cavour, gli F35”, i quali parteciperanno a “importanti esercitazioni congiunte” a dimostrazione di una “grande cooperazione strategica” tra Giappone e Italia.

Il partenariato strategico tra Roma e Tokyo

Per l’Italia, infatti, il Giappone è ormai diventato uno dei principali partner per quello che riguarda la dimensione della Difesa. Nel corso dell’incontro tra Kishida e Meloni, infatti, è stato richiamato il meccanismo di consultazione 2+2 Esteri-Difesa, istituito a marzo durante il precedente incontro a Roma, durante il quale infatti, le relazioni italo-nipponiche sono state elevate a “partenariato strategico”. Il meccanismo prevede una serie regolare di consultazioni bilaterali tra i responsabili ministeriali degli Esteri e della Difesa in un formato simile a quello già attivo con gli Stati Uniti. Secondo quanto annunciato dai due capi del governo, il primo degli incontri è previsto a marzo, a un anno dalla sua istituzione.

Il Gcap

Naturalmente, il grande tema che unisce Roma e Tokyo è quello della collaborazione sul caccia di sesta generazione Global combat air programme (Gcap), il velivolo che i due Paesi stanno sviluppando insieme a Londra destinato a sostituire i circa novanta caccia F-2 giapponesi e gli oltre duecento Eurofighter di Gran Bretagna e Italia. Per il Paese del Sol levante si tratta della prima grande collaborazione industriale nel settore della Difesa al di fuori degli Stati Uniti dalla Seconda Guerra Mondiale. Kishida, del resto, si è detto “lieto” dei progressi compiuti nello sviluppo del Gcap, dopo che a dicembre i ministri della Difesa, l’italiano Guido Crosetto, il britannico Grant Shapps e il giapponese Minoru Kihara, hanno firmato il trattato internazionale per lo sviluppo il “equal partnership” al 33% del jet di sesta generazione. Non è un caso se nel corso della sua visita in Giappone, il presidente Meloni abbia incontrato, tra i grandi gruppi industriali con interessi in Italia, anche la giapponese Mitsubishi Heavy Industries, che insieme all’italiana Leonardo e la britannica Bae Systems ha la guida nazionale del progetto.

Il caccia del futuro

Il progetto del Global combat air programme è destinato a sostituire i circa novanta caccia F-2 giapponesi e gli oltre duecento Eurofighter britannici e italiani, e prevede lo sviluppo di un sistema di combattimento aereo integrato, nel quale la piattaforma principale, l’aereo più propriamente inteso, provvisto di pilota umano, è al centro di una rete di velivoli a pilotaggio remoto con ruoli e compiti diversi, dalla ricognizione, al sostegno al combattimento, controllati dal nodo centrale e inseriti in un ecosistema capace di moltiplicare l’efficacia del sistema stesso. L’intero pacchetto capacitivo è poi inserito all’intero nella dimensione all-domain, in grado, cioè di comunicare efficacemente e in tempo reale con gli altri dispositivi militari di terra, mare, aria, spazio e cyber. Questa integrazione consentirà al jet di essere fin dalla sua concezione progettato per coordinarsi con tutti gli altri assetti militari schierabili, consentendo ai decisori di possedere un’immagine completa e costantemente aggiornata dell’area di operazioni, con un effetto moltiplicatore delle capacità di analisi dello scenario e sulle opzioni decisionali in risposta al mutare degli eventi.

Tokyo spinge sulle riforme

Per Tokyo, il Gcap è il primo progetto a tre con due membri della Nato, e il primo dedicato alla difesa sviluppato con nazioni diverse dagli Stati Uniti, l’alleato di sicurezza principale del Giappone. Inoltre, il governo giapponese starebbe lavorando a una revisione delle regole della nazione sulle esportazioni di attrezzature di difesa, particolarmente rigide in Giappone. Un intento dichiarato anche nella recente Strategia di sicurezza nazionale, aggiornata a l’anno scorso. La misura si inserisce anche nel progetto del gabinetto di Kishida di modificare le norme pacifiste della Costituzione del Giappone.

Export militare

Su questo versante, inoltre, a dicembre 2023 il Giappone ha deciso di modificare e regole che limitavano le esportazioni di materiale di Difesa. Ora sarà possibile, per il Paese del Sol levante, inviare materiali prodotti su licenza al Paese proprietario o sistemi di difesa non-letali agli Stati che si difendono da un’invasione, come l’Ucraina. Proprio pensando al Gcap, il governo di Kishida sta cercando di eliminare il divieto di esportare prodotti co-sviluppati ad altri Paesi. Tokyo, infatti, ha riconosciuto il ruolo fondamentale che l’export riveste per la sostenibilità economica di questi programmi. Progetti all’avanguardia come il Gcap, richiedono investimenti massicci per essere sviluppati e infine prodotti, e i soli mercati interni dei Paesi partner non basta a ripagare gli investimenti.


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L'ondata di attacchi statunitensi in Iraq e Siria, che si aggiungono a quelli contro lo Yemen e ai continui raid israeliani, minacciano di innescare una guerra totale in Medio Oriente L'articolo Attacchi USA: il Medio Oriente sull’orlo di una guerra tota

Attacchi USA: il Medio Oriente sull’orlo di una guerra totale?

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di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 5 febbraio 2024 – Dopo l’uccisione di tre soldati americani in un attacco a sorpresa contro una base militare segreta in Giordania alcuni giorni fa, l’amministrazione Biden aveva promesso una rappresaglia esemplare.
Ma i massicci bombardamenti condotti sabato da Washington contro le milizie filoiraniane in Siria e in Iraq rappresentano un ulteriore passo in una escalation che rischia di andare completamente fuori controllo, innescando una guerra totale in Medio Oriente dagli esiti inimmaginabili.

Quello di Washington non è stato un raid episodico, di quelli fin qui condotti all’interno di un braccio di ferro con l’Iran fatto di azioni e rappresaglie in qualche modo misurate e deterrenti, ma un attacco su vasta scala contro decine di obiettivi. Non solo; Biden ha annunciato nuove azioni massicce aggressive ed ha minacciato di colpire direttamente il territorio iraniano.

Gli Stati Uniti devono dimostrare che fanno sul serio e che non intendono stare alla finestra mentre il cosiddetto “asse della Resistenza” – la rete di organizzazioni militari e politiche radicate in diversi paesi del Medio Oriente che fanno riferimento a Teheran – aumenta la pressione nei confronti di Israele per rivendicare la propria egemonia e contrastare il genocidio della popolazione di Gaza.

Washington ha lanciato un messaggio chiaro all’Iran e ai suoi alleati: se serve, gli Stati Uniti sono pronti anche alla guerra. Si tratta, in parte, di un bluff, e gli avversari degli Stati Uniti, ne sono coscienti. Una guerra frontale in Medio Oriente obbligherebbe la Casa Bianca, già impegnata sul fronte ucraino contro la Russia, a mobilitare centinaia di migliaia di uomini e centinaia di miliardi di dollari in un conflitto con forze assai più coese e battagliere rispetto all’esercito di Saddam Hussein, spazzato via senza grande sforzo pochi decenni fa.

Certamente, i caccia e i droni statunitensi sono entrati in azione per proteggere Israele, anche se negli anni i rapporti tra Washington e Tel Aviv si sono deteriorati visto che la nuova classe dirigente sionista vuole fare di testa sua e i suoi eccessi rischiano di mandare in pezzi la rete che gli Stati Uniti stanno faticosamente cercando di tessere con i paesi arabi dagli Accordi di Abramo in poi.

Ma è soprattutto per proteggere i suoi di interessi che gli Stati Uniti hanno deciso di entrare in azione con una campagna di bombardamenti così estesa, per tentare di rafforzare – o meglio, di ristabilire – la propria egemonia in un quadrante del mondo in cui la presa di Washington si è fortemente allentata. Negli ultimi decenni, il tradizionale dominio statunitense in Medio Oriente è stato indebolito dall’intervento russo a difesa del regime siriano e dalla crescita del ruolo iraniano nella regione, incentivato anche dai gravissimi errori compiuti da Washington ad esempio in Iraq che hanno favorito l’ascesa dei movimenti sciiti. Anche l’autonomizzazione del regime turco e le pretese egemoniche delle petromonarchie sunnite hanno ridotto Washington ad un attore spesso di secondo piano. Ora l’amministrazione Biden cerca di recuperare terreno esercitando il ruolo di gendarme globale già interpretato in passato, ma in un contesto completamente mutato e con la grazia di un elefante in un negozio di cristalli.

L’Iran e il suo alleato principale nella regione, il movimento sciita libanese Hezbollah, hanno più volte chiarito che non progettano di entrare in guerra con Israele, tantomeno con gli Stati Uniti. Israele è una potenza nucleare spregiudicata e può contare su un esercito tra i più forti del mondo, sorretto dai massicci invii di armi statunitensi e dagli aiuti finanziari provenienti da Washington. Attualmente la guerriglia trumpiana sta bloccando al Senato di Washington circa 14 miliardi di dollari destinati a Tel Aviv, ma in caso di guerra i Repubblicani difficilmente potrebbero mantenere il veto.

L’Iran, invece, sconta una profonda crisi economica – frutto anche di decenni di embarghi economici – e non è militarmente pronto per uno scontro diretto. Se volesse sostenere una guerra frontale, Teheran dovrebbe convincere Mosca e Pechino a un sostegno economico e militare massiccio che, almeno al momento, non sembra all’ordine del giorno.

Ma se Biden è convinto che aumentando la pressione militare contro le ramificazioni di Teheran in Medio Oriente convincerà gli ayatollah a fermarsi per evitare una guerra regionale su vasta scala nella quale questi ultimi non vogliono assolutamente imbarcarsi, è anche vero che le continue provocazioni di Washington e di Tel Aviv – bombardamenti, omicidi mirati, attentati, sabotaggi – in vari paesi del quadrante rischiano di suscitare l’effetto contrario.

Fino a quando la classe dirigente iraniana potrà sopportare di essere colpiti senza perdere la faccia di fronte alle rispettive popolazioni già inferocitedopo quattro mesi di operazioni militari israeliane che hanno ucciso decine di migliaia di palestinesi e reso la Striscia di Gaza un cumulo di macerie? Fin quando gli apparati dell’Asse della Resistenza riusciranno a tenere a basa gli incitamenti alla vendetta di organizzazioni decimate da un continuo stillicidio di omicidi mirati?

Il rischio è proprio che il meccanismo “azione-ritorsione”, che fin qui ha consentito ad entrambi i contendenti di tenere il punto, mirando a disincentivare l’avversario dallo spingersi oltre nello scontro, sfugga improvvisamente di mano.

Basterebbe che una delle milizie alleate – ma non necessariamente del tutto controllate da Teheran – decidesse di alzare il tiro contro Israele o gli interessi di Washington nella regione per accendere una miccia che nessuno sarebbe più in grado di spegnere. Ad esempio in Iraq, dove da tempo movimenti politici e militari sciiti ma anche nazionalisti sunniti chiedono a gran voce l’espulsione delle truppe statunitensi di stanza nel paese. Non a caso il portavoce delle forze armate irachene, Yahya Rasul, ha denunciato: «Questi attacchi sono una violazione della sovranità irachena, minano gli sforzi del nostro governo e rappresentano una minaccia che trascinerà l’Iraq e la regione verso conseguenze impreviste, le cui ripercussioni saranno disastrose». Persino l’alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri, il catalano Josep Borrell, si è profuso in un sibillino «Tutti dovrebbero evitare che la situazione nella regione diventi esplosiva».

Sul fronte opposto Israele e le lobby filoisraeliane statunitensi, da decenni spingono per una guerra totale con l’Iran e potrebbero approfittare del clima già incandescente per dare fuoco alle polveri e mettere la Nato di fronte al fatto compiuto. Imbarcandoci tutti in una guerra regionale sì, ma su vasta scala, ennesimo e imprevedibile fronte di una guerra mondiale “a pezzi” che stiamo già combattendo senza che sia mai stata dichiarata.

La maggior parte degli analisti, al momento, non crede all’imminenza di una guerra totale in Medio Oriente. Eppure, afferma la CNN, «Errori o eventi imprevisti possono portare a spirali e ciò può portare a conflitti inevitabili e più ampi in una zona ad alta tensione». «È quasi un miracolo che un conflitto più ampio non sia già scoppiato in Medio Oriente quattro mesi dopo l’attacco del gruppo militante palestinese Hamas contro Israele» riconosce il network statunitense. – Pagine Esteri

12350472* Marco Santopadre, giornalista e saggista, già direttore di Radio Città Aperta, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna, America Latina e movimenti di liberazione nazionale. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria

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In un'intervista rilasciata al quotidiano russo Kommersant, Simona Halperin ha accusato il Cremlino di difendere il movimento palestinese invece che "sostenere la lotta al terrorismo di Israele" L'articolo La Russia convoca l’ambasciatrice israeliana che

La Russia convoca l’ambasciatrice israeliana che ha accusato Mosca di sostenere Hamas

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Pagine Esteri, 5 febbraio 2024. In un’intervista rilasciata al quotidiano russo Kommersant, la nuova ambasciatrice israeliana in Russia, Simona Halperin, ha accusato il Cremlino di difendere il movimento palestinese di Hamas, proteggendo i suoi membri e accogliendoli srotolando per loro “tappeti rossi”.

Halperin ha dichiarato che così facendo il governo russo non solo non sostiene “la lotta al terrorismo di Israele” ma prende le parti di Hamas, che intenderebbe “replicare il 7 ottobre”, sminuendo, inoltre, la gravità dell’olocausto.

Parole dure anche in merito alle accuse di genocidio presentate contro Israele dal Sudafrica alla Corte Internazionale di Giustizia. L’ambasciatrice ha infatti accusato la Russia di essere solidare con la Repubblica del Sudafrica che ha “intentato una causa assurda”.

Il Cremlino ha convocato Simona Halperin, definendo i commenti “un inizio particolarmente infruttuoso”: il suo incarico diplomatico ha avuto inizio lo scorso dicembre.

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Otto decreti interministeriali in due anni ma sulla tipologia, la quantità e il valore delle armi inviate a Kiev l’Italia è l’unico Paese della NATO a non aver fornito alcuna informazione. L'articolo Armi italiane all’Ucraina, affari d’oro e consegne sec

Armi italiane all’Ucraina, affari d’oro e consegne secretate

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Pagine Esteri, 5 febbraio 2024. Otto decreti interministeriali in meno di due anni dallo scoppio del conflitto russo-ucraino per autorizzare l’invio di armi al governo di Kiev, ma sulla tipologia, la quantità e il valore di esse, l’Italia è l’unico paese della NATO a non aver fornito alcuna informazione.

I trasferimenti di sistemi di guerra che alimentano la strage di decine e decine di migliaia di giovani della Federazione Russa e della Repubblica di Ucraina continuano ad essere secretati forse per non turbare le coscienze degli italiani. Fonti “buoniste” parlano di una spesa complessiva non superiore ai 700 milioni di euro – fino ad oggi – per rifornire gli arsenali ucraini di sistemi contraerei, missili, droni, ogive e carri armati made in Italy. Dalla stampa statunitense specializzata in tema di difesa e sicurezza apprendiamo però che le industrie belliche del nostro paese stanno facendo affari d’oro con l’export al regime ucraino ma, soprattutto, che la carneficina nel cuore del vecchio continente è un’occasione unica e imperdibile per pubblicizzare a mezzo mondo l’efficienza dei prodotti di morte italiani.

Il 31 dicembre 2023 il governo tedesco ha consegnato alle forze armate ucraine la prima batteria del sistema di difesa aerea a corto e cortissimo raggio “Oerlikon Skynex”, nell’ambito di un contratto del valore di 160 milioni di euro sottoscritto con il colosso industriale militare Rheinmetall nel dicembre 2022. Una seconda batteria “Skynex” arriverà a Kiev entro la fine del mese di marzo 2024. Con infinito orgoglio, Alessandro Ercolani, amministratore delegato di Rheinmetall Italia SpA (la società con quartier generale a Roma, interamente controllata dalla holding tedesca), ha fatto sapere ai cronisti di Defense News che le batterie anti-aeree destinate all’Ucraina sono state prodotte nello stabilimento del gruppo che sorge nel distretto industriale capitolino, lungo la via Tiburtina. Già Oerlikon-Contraves SpA, Rheinmetall Italia è un’azienda leader nella produzione di sistemi di difesa aerea e di tecnologie elettroniche di sorveglianza, aerospaziali e radar militari.

“Ci è stato detto che Skynex sta operando bene in Ucraina, e sarà davvero importante il feedback per migliorare ulteriormente il sistema”, ha dichiarato Alessandro Ercolani a Defense News. “La qualità del prodotto doveva essere del resto la migliore perché sai che verrà utilizzato (…) L’installazione in Ucraina di questo sistema di difesa aerea sta accrescendo la sua immagine e scatenando nuovi ordini da tutto il mondo…”.

La produzione degli “Skynex” negli stabilimenti di Rheinmetall Italia è stata avviata nel giugno 2022, previo accordo di collaborazione tra le autorità tedesche e quelle italiane (presidente del consiglio, al tempo, Mario Draghi, ministro della difesa, Lorenzo Guerini, Pd). Secondo Analisi Difesa, il contratto siglato a fine 2022 per la “fornitura d’urgenza” all’Ucraina delle due batterie terra-aria ha incluso l’addestramento del personale militare ucraino; l’allestimento del sistema di guerra sarebbe stato completato con un certo anticipo sui tempi fissati per la consegna.

Lo “Skynex” è una versione più moderna e potenziata delle batterie anti-aeree “Sky Guard”. Dotata di un centro di controllo e comando CN-1 “Oerlikon Skymaster” e di un radar di acquisizione tattico tridimensionale X-TAR3D per la ricerca, rilevamento, acquisizione, tracciamento e identificazione dei bersagli con un raggio superiore ai 50 Km, ogni batteria “Skynex” è equipaggiata con quattro cannoni con sensori elettro-ottici in grado di sparare fino a 1.000 proiettili da 35 mmm al minuto contro obiettivi posti fino a 4 km di distanza. Le munizioni AHEAD (Advanced Hit Efficiency And Destruction), sempre secondo Analisi Difesa, “consentono prestazioni ad alta letalità” per abbattere il bersaglio e sarebbero particolarmente efficaci “contro missili da crociera, droni e munizioni circuitanti (loitering munitions impiegate massicciamente dalle forze russe contro diverse tipologie di obiettivi militari e infrastrutturali) ma anche aerei ed elicotteri oltre a razzi e proiettili d’artiglieria”.

A enfatizzare le capacità distruttive delle batterie anti-aeree e anti-droni è lo stesso presidente del Cda di Rheinmetall Italia. “Noi abbiamo iniziato a progettare lo Skynex una decina di anni fa contro le minacce asimmetriche”, ha spiegato Ercolani. “Il suo vantaggio è che è stato concepito per contrastare minacce ridotte, basse e lente e che il suo costo reale è conveniente per eliminare un drone, rispetto all’utilizzo di un missile che vale milioni (…) Quando si avvicinano al loro obiettivo, gli involucri-munizioni del sistema da 35 mm si aprono erogando centinaia di piccoli cilindri di tungsteno che formano una nuvola distruttiva…”.

Il sistema “Skynex” è già stato venduto alle forze armate di una sessantina di paesi, ma dopo il “successo” in Ucraina, nelle prossime settimane saranno firmati contratti di vendita con un paese mediorientale ed uno membro della NATO. “La firma dell’accordo con l’Ucraina è stato un fattore importante per vincere le recenti commesse con Austria e Romania”, ha aggiunto Alessandro Ercolani. Al governo di Vienna Rheinmetall Italia ha consegnato sette batterie “Skynex”, mentre a fine dicembre le autorità di Bucarest hanno richiesto due batterie. Anche il Qatar è uno degli ultimi clienti dell’azienda romana.

Intanto il ministero della difesa russo fa sapere di aver colpito la batteria di missili terra-aria SAMP/T prodotta dal consorzio missilistico Eurosam (è presente il gruppo Leonardo SpA attraverso la controllata MBDA Italia) e consegnata lo scorso anno all’Ucraina dai governi italiano e francese. Con un comunicato diffuso il 24 gennaio e ripreso dall’agenzia Tass, Mosca ha rivelato l’attacco alla batteria SAMP/T (valore introno agli 850 milioni di euro) insieme a quelli contro una stazione radar ed i depositi di munizioni della 31^ Brigata meccanizzata e della 26^ Brigata di artiglieria ucraine, mediante l’impiego di missili, artiglieria e velivoli senza pilota. Il governo francese ha smentito le dichiarazioni della difesa russa. Imbarazzato silenzio invece da parte del governo Meloni-Crosetto.

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Gli accademici pro Hamas di oggi come quelli pro Hitler di ieri


Nel 1927 il filosofo francese Julien Benda pubblicò ‘La trahison des clercs’ – il tradimento degli intellettuali – che condannava la caduta degli intellettuali europei nel nazionalismo estremo e nel razzismo” racconta Niall Ferguson sulla Free Press. “A q

Nel 1927 il filosofo francese Julien Benda pubblicò ‘La trahison des clercs’ – il tradimento degli intellettuali – che condannava la caduta degli intellettuali europei nel nazionalismo estremo e nel razzismo” racconta Niall Ferguson sulla Free Press. “A quel punto, sebbene Benito Mussolini fosse al potere in Italia da cinque anni, Adolf Hitler era ancora a sei anni dal potere in Germania e a 13 anni dalla vittoria sulla Francia. Ma Benda poteva già vedere il ruolo pernicioso che molti accademici europei stavano giocando in politica. Un secolo dopo, il mondo accademico americano è andato nella direzione politica opposta – a sinistra invece che a destra – ma è finito più o meno nello stesso posto. La domanda è se noi, a differenza dei tedeschi, possiamo fare qualcosa al riguardo. Per quasi dieci anni, un po’ come Benda, mi sono meravigliato del tradimento dei miei colleghi intellettuali. Ho assistito alla volontà di amministratori, donatori ed ex studenti di tollerare la politicizzazione delle università americane da parte di una coalizione illiberale di progressisti woke, aderenti alla ‘teoria critica della razza’ e apologeti dell’estremismo islamico. Per tutto quel periodo gli amici mi assicurarono che stavo esagerando. Chi potrebbe opporsi a una maggiore diversità, equità e inclusione nel campus? In ogni caso, le università americane non sono sempre state orientate a sinistra? Tali argomentazioni sono andate in pezzi dopo il 7 ottobre, quando la risposta di studenti e professori ‘radicali’ alle atrocità di Hamas contro Israele ha rivelato la realtà della vita universitaria contemporanea. Che l’ostilità verso la politica israeliana a Gaza si trasformi regolarmente in antisemitismo è ormai impossibile negarlo.

Come giustamente sosteneva il grande sociologo tedesco Max Weber nel suo saggio del 1917 su ‘La scienza come vocazione’, l’attivismo politico non dovrebbe essere consentito in un’aula universitaria ‘perché il profeta e il demagogo non appartengono alla piattaforma accademica’. Questo era anche l’argomento del Rapporto Kalven dell’Università di Chicago del 1967 secondo cui le università devono ‘mantenere un’indipendenza dalle mode, dalle passioni e dalle pressioni politiche’. Questa separazione è stata del tutto disattesa nelle principali università americane negli ultimi anni. Potrebbe sembrare straordinario che le università più prestigiose del mondo siano state contagiate così rapidamente da una politica intrisa di antisemitismo. Eppure è già successa esattamente la stessa cosa. Cento anni fa, negli anni ‘20, le migliori università del mondo erano di gran lunga in Germania. Rispetto a Heidelberg e Tubinga, Harvard e Yale erano club per gentiluomini, dove gli studenti prestavano più attenzione al calcio che alla fisica. Più di un quarto di tutti i premi Nobel assegnati nelle scienze tra il 1901 e il 1940 furono assegnati a tedeschi; solo l’11 per cento è andato agli americani. Albert Einstein raggiunse l’apice della sua professione non nel 1933, quando si trasferì a Princeton, ma dal 1914 al 1917, quando fu nominato professore all’Università di Berlino, direttore del Kaiser Wilhelm Institute for Physics e membro dell’Accademia delle scienze prussiana. Anche i migliori scienziati prodotti da Cambridge si sentirono obbligati a fare un turno di servizio in Germania. Eppure l’accademia tedesca aveva una debolezza fatale. I progressisti di oggi praticano il razzismo in nome della diversità. Gli accademici nazionalisti della Germania tra le due guerre erano quanto meno espliciti riguardo al loro desiderio di omogeneità ed esclusione. Lo studio di Rudy Koshar sulla città universitaria di Marburg in Assia illustra il modo in cui questa cultura portò il mondo accademico tedesco verso i nazisti. Le confraternite studentesche, prevalentemente protestanti, escludevano gli ebrei dall’adesione già prima della Prima guerra mondiale. Per gli avvocati di mezza età, Hitler era l’erede di Bismarck. Per i loro figli fu l’eroe wagneriano Rienzi, il demagogo che unisce il popolo romano. Anche un uomo che si considerava un liberale, come sicuramente Max Weber, era suscettibile al fascino di una leadership carismatica quando la nascente democrazia sembrava così debole. Tre anni dopo la morte di Weber nel 1920, la Germania precipitò in una disastrosa iperinflazione. Per molti accademici tedeschi, la nomina di Hitler a cancelliere nel gennaio 1933 fu un momento di salvezza nazionale. Già nel 1920 il giurista Karl Binding e lo psichiatra Alfred Hoche pubblicarono il loro ‘Permesso per la distruzione di vite indegne di vita’. Esiste una chiara linea di continuità tra questo tipo di analisi e il documento trovato nel manicomio Schloss Hartheim nel 1945, che calcolava il beneficio economico derivante dall’uccisione di 70.273 pazienti mentali. Molti storici non si comportarono meglio, sfornando tendenziose giustificazioni storiche per le rivendicazioni territoriali tedesche nell’Europa orientale che implicavano massicci spostamenti di popolazione, se non addirittura genocidio. Il caso di Victor Klemperer, convertito al cristianesimo e sposato con una gentile, è illustrativo. ‘Non sono altro che un tedesco o un tedesco europeo’, scrisse Klemperer nel suo diario, una delle testimonianze più illuminanti della storia. Per tutti gli anni ‘30 sostenne che erano i nazisti ad essere ‘non tedeschi’. Eppure l’atmosfera nelle università tedesche divenne sempre più tossica anche per gli ebrei più assimilati. L’antisemitismo dei nazisti portò, ovviamente, a una delle più grandi fughe di cervelli della storia. Se ne andarono oltre 200 degli 800 professori ebrei del paese, venti dei quali erano premi Nobel. Albert Einstein se n’era già andato nel 1933 disgustato dagli attacchi nazisti alla sua ‘fisica ebraica’. I principali beneficiari della fuga dei cervelli ebrei furono, ovviamente, le università degli Stati Uniti. Eppure per Klemperer l’emigrazione era fuori questione. Erano tedeschi. Fu questo tipo di ragionamento a convincere lui e molti altri ebrei a restare in Germania finché non fosse stato più possibile uscirne. Alcuni scelsero il suicidio, ad esempio il linguista di Marburgo Hermann Jacobsohn, che si gettò sotto un treno. Alla fine Klemperer evitò la deportazione nei campi di sterminio solo grazie al bombardamento della Royal Air Force su Dresda. Rimase a Dresda dopo l’occupazione della Germania orientale. Non passò molto tempo prima che cominciasse a notare somiglianze tra il linguaggio della nuova Repubblica Democratica Tedesca appoggiata dai sovietici e quello del Terzo Reich. Come Arendt e Orwell, Klemperer capì che il totalitarismo della destra e il totalitarismo della sinistra avevano caratteristiche simili. In particolare, amavano imporre la neolingua.

Il mondo accademico tedesco non si limitò a seguire Hitler lungo il cammino verso l’inferno. Gli ha aperto la strada. Nel 1940 Victor Scholz presentò una tesi di dottorato all’Università di Breslavia dal titolo ‘Sulle possibilità di riciclare l’oro dalle bocche dei morti’. Aveva svolto le sue ricerche sotto la supervisione di Herman Euler, preside della Facoltà di Medicina di Breslavia. Ad Auschwitz, il Gruppenführer delle SS Carl Clauberg, professore di ginecologia a Königsberg, cercò di trovare il modo più efficace per sterilizzare le donne. Chiunque creda ingenuamente nel potere dell’istruzione superiore di instillare valori etici non ha studiato la storia delle università nel Terzo Reich. Una laurea, lungi dal vaccinare i tedeschi contro il nazismo, li rese più propensi ad abbracciarlo. La caduta in disgrazia delle università tedesche fu personificata dalla prontezza di Martin Heidegger. Il romanziere Thomas Mann era solito riconoscere già all’epoca che, in ‘Fratello Hitler’, l’élite colta tedesca possedeva un mostruoso fratello minore, il cui ruolo era quello di articolare e autorizzare le loro aspirazioni più oscure. L’Olocausto rimane un crimine storico eccezionale – distinto da altri atti di violenza letale organizzata diretti contro altre minoranze – proprio perché è stato perpetrato da uno stato-nazione altamente sofisticato che aveva entro i suoi confini le migliori università del mondo. Questo è il motivo per cui le università americane non possono considerare l’antisemitismo solo come un’altra espressione di ‘odio’, non diversa, ad esempio, dall’islamofobia. Ebbene, la reazione contro il tradimento contemporaneo degli intellettuali è finalmente arrivata. Donatori come l’amministratore delegato di Apollo, Marc Rowan (laureato alla Penn), il fondatore di Pershing Square Bill Ackman (Harvard) e il fondatore di Stone Ridge Ross Stevens (Penn) hanno chiarito che il loro sostegno non sarà più disponibile per le istituzioni gestite in questo modo. Eppure ci vorrà molto di più che poche dimissioni di alto profilo per riformare la cultura delle università d’élite americane. È troppo radicato in più dipartimenti, tutti dominati da una facoltà di ruolo, per non parlare degli eserciti di ‘DEI’ e di ufficiali del Titolo IX che sembrano, in alcuni college, ora superare in numero gli studenti universitari. I leader accademici di oggi non si riconoscerebbero mai come gli eredi di quello che Benda ha condannato, insistendo sul fatto che loro sono di sinistra, mentre gli obiettivi di Benda erano di destra. Eppure, come Victor Klemperer capì dopo il 1945, il totalitarismo si presenta in due modi, sebbene gli ingredienti siano gli stessi. Solo se le università americane, un tempo grandi, riusciranno a ristabilire – in tutta la loro struttura – la separazione della Wissenschaft dalla Politik potranno essere sicure di evitare il destino di Marburg e Königsberg”. (Traduzione di Giulio Meotti)

Il Foglio

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🛜 Il 6 febbraio ricorre la Giornata mondiale per la sicurezza in Rete, promossa dalla Commissione Europea e celebrata in contemporanea in oltre 100 nazioni.


Stefano Galieni*   Le affermazioni su Enrico Mattei, morto in un improbabile “incidente aereo” il 27 ottobre del 1962, del “Department of State, Guidel


Augusta, in Città la sede della Fondazione Luigi Einaudi intitolata all’Avv. Ezechia Paolo Reale – webmarte.tv


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L’importanza di scrivere a mano (e in corsivo)


Come scrivono i giovani nell’epoca social? Sentiamo dire che non sono più capaci di utilizzare l’italiano corretto, non sanno fare un tema ben strutturato, hanno carenze nella scrittura, nell’associazione di idee e nei collegamenti tra argomenti. In verit

Come scrivono i giovani nell’epoca social? Sentiamo dire che non sono più capaci di utilizzare l’italiano corretto, non sanno fare un tema ben strutturato, hanno carenze nella scrittura, nell’associazione di idee e nei collegamenti tra argomenti. In verità sono sempre lì a scambiarsi messaggi e commenti: non credo sia mai esistita un’epoca in cui si sia scritto così tanto. Quello che invece sembra si stia perdendo è la capacità di argomentare, formulare, comprendere un testo, saperlo riassumere e poi esporre con chiarezza. Ma cosa è successo nella scuola degli ultimi decenni?
Dopo anni di promozione dell’istruzione digitale, e di proteste per il grande ritardo con cui la scuola italiana si approcciava, ora la presenza di strumenti digitali nelle strutture scolastiche sembra aumentata. I vantaggi della didattica digitale sono abbastanza espliciti: un miglior coinvolgimento degli alunni, scambi di informazioni più immediate, diffusione di innumerevoli contenuti, possibilità di ricreare situazioni altrimenti impossibili da vivere. Inoltre i bambini di oggi sono nativi digitali, cresciuti con smartphone e tablet tra le mani, e si aspettano che la scuola rifletta il mondo tecnologico in cui vivono. Ma proprio ora che ci stiamo lanciando sempre più nel futuro, sorgono dei dubbi. Intanto su cosa debba fare la scuola: non basta saper usare un computer o navigare in internet, ma serve sviluppare una vera e propria alfabetizzazione digitale, comprendere come funzionano le tecnologie, come utilizzarle in modo sicuro ed etico, come sfruttarle per risolvere problemi e raggiungere obiettivi.

Paesi come la Svezia, gli Stati Uniti o il Canada, che avevano promosso molto la digitalizzazione, ora stanno tornando indietro, basandosi su studi, sempre più numerosi, che rivalutano i metodi «arcaici» della scrittura manuale e in particolare del corsivo. La scrittura manuale è frutto dell’interazione tra sistema nervoso, sensoriale e motorio: gli studi dimostrano come scrivere a mano coinvolga e stimoli aree cerebrali più vaste e profonde di quanto faccia la digitazione al computer. In particolare la scrittura a mano organizza le informazioni nel cervello in modo tale da sviluppare e potenziare la capacità di ricordare, stimolare il pensiero astratto e creativo, creare nuovi collegamenti di intuizione.

L’origine è nell’atto stesso dello scrivere, che con una penna è più «faticoso» che al computer: usare una penna implica di prestare attenzione anche all’aspetto motorio, disegnando le lettere in modo intellegibile, dosando la forza della punta sul foglio, seguendo le righe e gli spazi della pagina, facendo coincidere pensiero, azione e vista. Cioè attuando quell’integrazione multisensoriale che è alla base delle capacità di memoria. Inoltre, nella scrittura manuale, abbiamo una grande varietà di materiali e supporti: oltre la penna le matite, o il gesso sulla lavagna… tutte esperienze diverse e nuove, che creano nuove attivazioni neuronali e nuove abilità. Gli studi hanno rilevato che i bambini che scrivono a mano libera producono più parole e più rapidamente di quanto facciano coloro che scrivono su una tastiera.

Addirittura si sono notate significative differenze tra chi utilizza il carattere corsivo rispetto allo stampatello: psicoterapeuti e neurologi segnalano che l’abitudine a forme semplificate di scrittura, come lo stampatello, riduce gli stimoli di produzione linguistica. Anche lo studio su dispositivi come il tablet, pur avendo un suo valore, in quanto multimediale e interattivo, può aumentare il livello di distrazione e di ansia, specialmente nei bambini, proprio per un eccesso di stimolazione. Solo rallentando gli stimoli le informazioni acquisite possono transitare dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine.

Un paradosso, in un contesto in cui vanno sempre più aumentando i disturbi dell’apprendimento, è che l’utilizzo del computer è la soluzione consigliata per superare i problemi di disgrafia dei bambini. Ma proprio la digitalizzazione è «sul banco degli imputati» per quanto riguarda la crescente incapacità di imparare a scrivere: si prescrive come terapia quella che sembra essere una delle cause stesse del problema?
La sfida quindi, consiste nel trovare un equilibrio tra l’approccio digitale e tradizionale, garantendo spazio a entrambe le modalità didattiche, in modo che contribuiscano all’educazione con un approccio integrato. La tecnologia è ineludibile dalle nostre vite e i giovani devono imparare a utilizzarle, ma nella fase dell’infanzia e adolescenza dobbiamo stare attenti a non trascurare la complessità dei fenomeni coinvolti nella costruzione della persona.

Paolo Sarti, Il Corriere

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  di Laura Tussi Il terzo anniversario del TPAN, il Trattato per la proibizione delle armi nucleari, è una ricorrenza lieta da festeggiare, ma non i


LYMEC Digital Assembly – ‘Non dica gay’ – Protection of LGBTQIA+ rights in Italy and beyond


Dear liberal friends, Before you all go on Christmas holidays, we are back with our next opportunity in 2024! It is time for our first LYMEC Digital Assembly of 2024. This event (already our #8 Digital Assembly) will take place online on Saturday, 3rd Feb

Dear liberal friends,

Before you all go on Christmas holidays, we are back with our next opportunity in 2024!

It is time for our first LYMEC Digital Assembly of 2024. This event (already our #8 Digital Assembly) will take place online on Saturday, 3rd February 2024 between 10:30-13:00 CET (Brussels time). This event is supported by the Friedrich Naumann Foundation for Freedom (FNF) – European Dialogue.

In our constant efforts to increase the amount of opportunities to meet the current leadership and to discuss together the main issues we are facing today in Europe.

The agenda will be as follows:

PART A – The topic of the event will be focusing on LGBTQIA+ rights, as LYMEC recently adopted a resolution on the current worrying developments on the matter in Italy. The proposal is calling upon EU Member States and representatives to maintain pressure on Italy to back down from these latest queerphobic policies, respect civil liberties and political rights for the LGBTQ+ community. We would like to therefore open the discussion around this pressing issue in Italy and see with a set of local speakers and experts how the European community can support the Italian LGBTQ+ community to face the new realities. It is very important for us young liberals to be vocal and at the forefront of the fight for the rule of law and civil liberties all over in Europe. The draft programme with the list of speakers will be circulated to the registered participants. We will be coordinating with our partner organisations in Italy for this event and especially the Fondazione Luigi Einaudi.

PART B – It will be dedicated to the Bureau presenting what has been done so far since the Autumn Congress (in Riga last November) and what the plans and actions for the coming months are, especially in light of the European Elections in 2024 and the ongoing Russian invasion of Ukraine. This will be primarily an opportunity for delegations to ask questions and share their concerns/comments with the current leadership. Questions or comments for Part B can be sent to office@lymec.eu and bureau@lymec.eu anytime ahead of the event or you can simply ask for the floor during the event.

Schedule:

The meeting will start at 10 h 30 CET (Rome time) and end around 13 h 00 CET.
The event will take place fully online on Zoom conferencing platform. The link will be sent to registered participants the days before the event.

lymec.eu

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#8


Il governo Francese ha aperto un proprio server Fediverso ufficiale

@Che succede nel Fediverso?

social.numerique.gouv.fr è l'Istanza #mastodon gestita dalla Direzione Interministeriale Digitale (DINUM) e spita solo account istituzionali e certificati:

Eccoli qui:

➡️ @CNES - L'agenzia spaziale francese

➡️ @Ambassadeur Numérique 🇫🇷🇪🇺 - Ambasciatore francese per gli affari digitali (in inglese)

➡️ @Min. Enseign. sup. & Recherche - Ministero dell'Istruzione Superiore e della Ricerca

➡️ @IAP - Istituto di Astrofisica di Parigi

➡️ @CNRS 🌍 - CNRS, Centro nazionale francese per la ricerca scientifica

➡️ @Unité de Recherche Géoazur - Unità di ricerca geologica/geofisica per l'Università della Costa Azzurra, CNRS, Osservatorio della Costa Azzurra

➡️ @CNRS Terre & Univers - CNRS (dipartimento spazio, geologia, ambiente)

➡️ @CNRS Ingénierie - CNRS (dipartimento di ingegneria)

➡️ @CNRS Inist - Dipartimento del CNRS che si occupa di pubblicazioni e metodi scientifici

➡️ @La science ouverte au CNRS - Scienza aperta al CNRS

➡️ @IGN France - Istituto Nazionale per i Dati Geografici e Forestali

➡️ @data.gouv.fr - Piattaforma aperta per i dati pubblici francesi

➡️ @Comité pour la science ouverte - Comitato per la Scienza Aperta

➡️ @HAL science - Archivio Multidisciplinare HAL, accesso aperto alle pubblicazioni scientifiche

➡️ @DINUM - Iniziativa di innovazione digitale nel governo francese

➡️ @Design des services numériques - Sviluppo dei servizi pubblici digitali

➡️ @arcep@social.numerique.gouv.fr - Autorità di regolamentazione delle comunicazioni elettroniche

➡️ @adresse.data.gouv.fr - Database nazionali e locali di indirizzi geografici

➡️ @Transfo. Num. des Territoires - Servizi pubblici digitali a livello nazionale e locale

➡️ @Etalab - Promozione dei dati pubblici aperti

➡️ @Démarches Simplifiées - Aiutare i funzionari governativi a offrire servizi online al pubblico

➡️ @api.gouv.fr - Catalogo delle API del governo francese

➡️ @bdnb@social.numerique.gouv.fr - Database aperto degli edifici francesi


The government of #France 🇫🇷 now has its own official Fediverse server 🥳

(All accounts in French unless otherwise noted)

➡️ @ambnum - French ambassador for digital affairs (in English)

➡️ @sup_recherche - Ministry of Higher Education & Research

➡️ @cnes - France's space agency

➡️ @astroIAP - Astrophysics Institute of Paris

➡️ @cnrs - CNRS, the French National Centre for Scientific Research

➡️ @umrGeoazur - Geology/geophysics research unit for Côte d'Azur Univ, CNRS, Côte d'Azur Observatory

1/4


in reply to Poliverso - notizie dal Fediverso ⁂

@FediFollows bene ma perchè sn sempre i francesi più avanti sulla democratizzazione e deamericanizzazione della rete?
in reply to _aid_85_

@_aid_85_

> bene ma perchè sn sempre i francesi più avanti sulla democratizzazione

160 anni di governo repubblicano aiutano...

> e deamericanizzazione della rete?

Pensa solo al fatto che dal '66 al 2009 la Francia ha posto le proprie forze armate fuori dalla NATO: alla Francia non piace essere un vassallo degli USA...

Unknown parent

@Alessandro sì, a quanto pare il Giappone è stato tra i primi paesi in cui la maggior parte degli adempimenti burocratici poteva essere fatta direttamente via fax. Il bello è che il fax come tecnologia alla base della burocrazia lo stanno dismettendo proprio in questi mesi!
È il modello storico evolutivo del Giappone: un motore a due tempi in cui fasi di conservatorismo patologico si alternano a fasi di evoluzione sfrenata verso il futuro...

@aid_85@mastodon.social







#NotiziePerLaScuola
È disponibile il nuovo numero della newsletter del Ministero dell’Istruzione e del Merito
🔶 Ddl istruzione tecnica e professionale, via libera del Senato al modello 4+2
🔶 Scuola, 790 milioni per nuovo piano di riduzione dei divari…


In Cina e Asia – Pechino condanna blogger australiano alla pena di morte sospesa


In Cina e Asia – Pechino condanna blogger australiano alla pena di morte sospesa blogger australiano
I titoli di oggi:

Pechino condanna blogger australiano alal pena di morte sospesa
Vertice Indo-Pacifico, UE accusata di "doppio standard" verso Gaza
China Reinassance Holdings, a un anno dalla scomparsa si dimette il presidente
Le ciglia finte "made in Chna" spingono l'export nordcoreano
Cina, i netizen si lamentano della situazione economica del paese sul profilo Weibo dell'ambasciata americana
Malaysia, dimezzata la pena dell'ex premier Najib Razak
Il Giappone teme una nuova presidenza Trump

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UNA SFIDA AMBIZIOSA: IL PROGETTO EUROPEO “@ON”, GUIDATO DALLA DIREZIIONE INVESTIGATIVA ANTIMAFIA (DIA) ITALIANA


Nel numero di gennaio 2024 di Polizia Moderna, il mensile della Polizia di Stato, un approfondito articolo di Renzo Nisi (Capo del III Reparto relazioni internazionali a fini investigativi della Dia) che tratta della rete internazionale di polizia @ON, guidata dalla italiana Direzione Investigativa Antimafia (DIA).
Il progetto europeo denominato "@ON" mira a creare una rete tra le forze di polizia coinvolte, fornendo loro informazioni rapide sulle formazioni criminali internazionali su cui stanno indagando. Ciò avviene attraverso il canale sicuro “Siena” di Europol e la creazione di un database internazionale relativo alla criminalità organizzata.

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La Rete @ON annovera 45 forze di polizia di 38 paesi diversi (vedi la nota in fondo). In qualità di capofila, la Dia si impegna nello sviluppo del progetto in maniera più strategica per il contrasto alla criminalità organizzata, concretizzandone gli interventi nella vera e propria attività di indagine attraverso l'utilizzo delle potenzialità disponibili.
L’Italia e la Dia sono in prima linea in questo senso, mettendo a disposizione conoscenze e competenze per contrastare efficacemente la criminalità organizzata in tutte le sue forme. Una sfida ambiziosa, che il Paese e la Dia hanno già raccolto e sono determinati a portarla a compimento.
La Direzione Investigativa Antimafia punta sulla cooperazione internazionale contro la criminalità organizzata non solo sul fronte operativo ma anche attraverso un'operazione più proattiva di educazione delle Forze di Polizia partner straniere, per sensibilizzare sulla criminalità transnazionale e sulla criminalità di tipo mafioso. Nell'ottobre 2013 è stata adottata la Risoluzione del Parlamento Europeo sulla criminalità organizzata e sul riciclaggio di denaro. Ciò ha portato alla creazione della Rete Operativa Antimafia @ON, una rete progettata per rispondere a specifiche esigenze di intelligence e ricevere informazioni europee e italiana in contrasto alla criminalità transnazionale di tipo mafioso.

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La Rete @ON collabora con Europol e il Servizio di Cooperazione Internazionale (Scip) della Direzione Centrale di Polizia Criminale del Ministero dell’Interno, attuando quello che viene denominato il “Metodo Falcone”: centralizzare le informazioni sui gruppi criminali organizzati e snellire le procedure per gli investigatori. La Rete @ON si propone inoltre di sviluppare un approccio “amministrativo” per il contrasto alla criminalità organizzata e di tipo mafioso, recuperando i fondi criminali illecitamente acquisiti.

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Il documento della Commissione Europea "Strategia dell'Ue per la lotta alla criminalità organizzata 2021-2025" delinea gli obiettivi e gli obiettivi della Rete @ON e del progetto ISF4@ON. L’obiettivo è intensificare la repressione delle strutture della criminalità organizzata, concentrandosi sui gruppi che rappresentano maggiori rischi per la sicurezza e gli individui europei. In sintesi, il documento:
• sottolinea la necessità di un efficace scambio di informazioni tra le autorità contraccettive e quelle giudiziarie per una lotta efficace contro la criminalità organizzata,
• espande, modernizza e finanzia la Piattaforma multidisciplinare europea per la lotta alla criminalità (EMPACT), una struttura che riunisce tutte le autorità europee e nazionali per identificare e combattere le attività criminali prioritarie,
• aggiungerà al quadro "Prum" per lo scambio di informazioni sul DNA, le impronte digitali e l'immatricolazione dei veicoli,
• prevede un codice di cooperazione di polizia dell'UE per sostituire il mosaico di diversi strumenti e accordi di cooperazione multilaterale,
• tende a rendere i sistemi di informazione interoperabili per la gestione del sospetto, delle frontiere e della migrazione entro il 2023,
• migliora la cooperazione dell'UE per contrastare tipologie specifiche di reati,
• esamina le norme UE rispetto agli impatti ambientali,
• crea un accordo a livello europeo per contrastare la contraffazione, in particolare quella dei dispositivi medici,
• presenta misure contro il commercio illegale di beni culturali,
• riesamina il quadro normativo dell'UE sulla confisca dei proventi, sviluppa norme anti-corruzione, e valuta la normativa anti-corruzione dell'UE.
Per saperne di più:
- L’articolo sul web qui => poliziamoderna.poliziadistato.…
- Un fascicolo, in pdf, in italiano, contenente l’intero articolo scaricabile qui => poliziamoderna.poliziadistato.…
- Il documento (in pdf) della Commissione Europea, in italiano, scaricabile qui => eur-lex.europa.eu/legal-conten…


Nazioni che partecipano alla rete @ON: Francia, Germania, Spagna, Belgio e Paesi Bassi costituiscono con l’Italia il Core Group della Rete. Unitamente ad Europol sono partner: Ungheria, Austria, Romania, Australia, Malta, Svizzera, Repubblica Ceca, Slovenia, Polonia, Croazia, Georgia, Norvegia, Albania, Portogallo, Usa, Svezia, Canada, Lettonia, Lussemburgo, Lituania, Estonia, Bulgaria, Montenegro, Ucraina, Cipro, Bosnia-Erzegovina, Irlanda, Kosovo, Finlandia, Grecia, Moldova e Islanda.



VERSIONE ITALIANA UE E GIAPPONE RAGGIUNGONO UN ACCORDO SULLE DISPOSIZIONI RELATIVE AI FLUSSO DI DATI TRANSFRONTALIERI La Presidenza belga del Consiglio ha firmato un protocollo che include nell’accordo di partenariato economico tra l’UE e il Giappone disposizioni sui flussi di dati transfrontalieri. Questo protocollo ha lo scopo di garantire che i flussi di dati tra …


La DPA tedesca dichiara illegale lo scambio di dati tra agenzia di credito e commerciante di indirizzi vittoria di noyb in Germania in un procedimento contro l'agenzia di riferimento creditizio CRIF e il commerciante di indirizzi Acxiom CRIF/ACXIOM


noyb.eu/it/data-trading-betwee…



🇸🇾🇺🇲 La ragione della presenza militare americana in Siria riassunta in una sola foto.


La strategia dell’Unione Europea: creare un nemico per distogliere l’attenzione dai problemi interni - Giornalismo Libero
giornalismolibero.com/la-strat…



Non sappiamo ancora il nome, solo la nazionalità guineana, di un ragazzo di 22 anni, che dopo essere stato trasferito da un altro simile inferno, quello di Tra


Windy è una risorsa fondamentale per chi viaggia per lavoro o per turismo, per chi vola, per chi cammina in montagna, per chi naviga in mare...


L’Italia e la riscoperta del potere marittimo. Scrive l’amm. Sanfelice di Monteforte


L’anno appena passato ci ha lasciato in eredità una serie di conflitti che hanno spaventato la nostra opinione pubblica, e l’hanno costretta a comprendere alcune verità che, per troppo tempo, erano state sottovalutate o, quanto meno, date per acquisite. L

L’anno appena passato ci ha lasciato in eredità una serie di conflitti che hanno spaventato la nostra opinione pubblica, e l’hanno costretta a comprendere alcune verità che, per troppo tempo, erano state sottovalutate o, quanto meno, date per acquisite.

La prima di queste verità è che il nostro benessere dipende, per gran parte, dalla nostra industria manifatturiera. Siamo riusciti a migliorare la qualità di vita di una parte notevole della nostra popolazione grazie a questo indirizzo economico, che fu impostato quasi ottant’anni fa, e che ci ha reso uno dei dieci Paesi più prosperi al mondo.

La seconda verità – più precisamente il corollario di quanto visto prima – è che noi siamo un Paese di trasformazione: non avendo nel nostro territorio né alcuni cereali, né materie prime né tantomeno energia in quantità adeguata, dobbiamo importarle. Grazie a queste importazioni, possiamo anzitutto vivere, poi produrre e infine esportare prodotti finiti.

La terza e ultima verità – quella in passato più trascurata dai media – è che la nostra attività di import-export avviene per la massima parte via mare. Il commercio internazionale marittimo, quindi, è al tempo stesso la fonte primaria della nostra esistenza e dell’economia nazionale e, per converso la nostra principale vulnerabilità. Chi ci vuol male, quindi, non deve fare altro che chiudere uno dei due accessi al Mediterraneo, gli Stretti di Gibilterra e di Suez/Bab-el-Mandeb, e il gioco è fatto.

La nostra opinione pubblica e il mare

Pochi sanno che il concetto di “Potere Marittimo” è stato elaborato, per la prima volta, da un ufficiale di Marina napoletano, il comandante Giulio Rocco, il quale lo definì, nel lontano 1814, come, “nell’ordine politico una forza somma risultante da quella di una ben ordinata Marina Militare e di una numerosa Marina di Commercio” (Riflessioni sul Potere Marittimo, Lega Navale Italiana, 1911, pagina 1).

Questa definizione, ripresa mezzo secolo dopo da studiosi stranieri, indica bene la stretta connessione tra la Marina Militare e il commercio internazionale marittimo, ma non si diffuse in modo adeguato al di là dei ristretti circoli di governo. Alcuni nostri governanti, a dire il vero, avevano chiara la nostra dipendenza dal mare, tanto da istituire, poco dopo la nascita del Regno d’Italia, il Ministero della Marineria, che per decenni si occupò sia della componente marittima militare sia di quella mercantile.

Inoltre, già nel 1914 un nostro presidente del Consiglio, Antonio Salandra, dimostrò di capire bene le implicazioni strategiche di questa nostra dipendenza, tanto da affermare che, in quell’anno, “non erano venute meno le ovvie ragioni per le quali a noi era impossibile partecipare a una guerra contro Francia ed Inghilterra alleate; non l’estensione delle nostre coste indifese e delle nostre grandi città esposte; non il bisogno assoluto di rifornimenti per via di mare di cose essenziali all’economia nazionale ed alla vita stessa: grano e carbone soprattutto” (La Neutralità Italiana, Mondadori, 1928, pagg. 92-93).

Purtroppo, nel primo dopoguerra questa realtà fu trascurata, tanto che noi ci alleammo alla potenza continentale, la Germania, contro le Potenze marittime. Fu infatti, nella Seconda Guerra Mondiale, un vero miracolo che l’Italia resistesse tre anni, senza importazioni via mare di cibo e di materie prime.

Le Potenze Marittime, infatti, avevano avuto buon gioco nel tagliarci da ogni fonte di approvvigionamento oltremare, con effetti devastanti sulla nostra economia. Valga, a titolo di esempio, l’osservazione dell’ammiraglio Luigi Rizzo, presidente dei Cantieri dell’Adriatico durante il conflitto, il quale scrisse: “Ringrazio Dio che non dobbiamo lavorare sulla (corazzata) Impero, poiché l’impresa sarebbe impossibile avendo gli approvvigionamenti a gocce per poter rispettare i programmi di lavoro” (Giorgio Giorgerini, Da Matapan al Golfo Persico, Mondadori, 1989, pag. 549). Ovviamente, se l’industria bellica languiva, ancora più drammatica era la situazione delle industrie in generale, visto che non arrivavano i minerali, ma – quel che è peggio – non arrivava neanche il grano, e la fame divenne ben presto endemica.

Finita la guerra e iniziata la ricostruzione, la nostra opinione pubblica non si accorse che il nostro miracolo economico era in gran parte legato al mare, e si preoccupò solo della minaccia terrestre proveniente dal Patto di Varsavia, attraverso Tarvisio e la “Soglia di Gorizia”.

La frustrazione di chi aveva il compito di proteggere la prima fonte del nostro benessere, il commercio internazionale marittimo, fu tale che un Capo di Stato Maggiore della Marina scrisse, negli anni della Guerra Fredda, a proposito della nostra opinione pubblica: “le signore sono convinte che il mare serva per farci (sic) i bagni e i mariti credono che fatto e spedito il prodotto, tutto sia finito. Invece l’incerto ha principio proprio in quel momento. Se, arrivato al bagnasciuga, il prodotto non prosegue e non è ricambiato dalla materia prima che consente di continuare a lavorare, si muore di fame” (Virgilio Spigai, Il problema navale italiano, Vito Bianco Editore, 1963, pag. 23).

Fortunatamente, la realtà dei fatti, prima o poi, si impone all’attenzione generale e la nostra opinione pubblica ha acquisito una consapevolezza che solo qualche decennio fa non si pensava potesse conseguire.

Il primo aspetto che è balzato all’attenzione generale è che il commercio internazionale è un sistema estremamente fragile, ed è esposto a offese non solo da parte delle Grandi Potenze, le cui Marine militari sono un elemento di pressione notevole, ma anche da piccoli attori, statuali o meno, che possono sfruttare i punti sensibili delle rotte commerciali, in particolar modo le strettoie (in inglese choke points, ovvero strozzature), come è avvenuto pochi anni fa nello Stretto di Hormuz e avviene ora a Bab-el-Mandeb.

Il secondo aspetto, ancora non del tutto recepito, è che il mare è fonte di ricchezza, non solo per le proprie risorse ittiche, ma anche per i minerali e le fonti energetiche ricavabili dai fondali marini, diventati disponibili grazie alle tecnologie di estrazione sviluppate in questi ultimi decenni.

Le ricchezze fanno gola a chi non le possiede, o non è in grado di utilizzarle, e questo è vero per gli individui e, soprattutto, per gli Stati. Da qui la serie infinita di contenziosi tra nazioni confinanti sull’estensione della piattaforma continentale e della connessa Zona economica esclusiva (Zee), che garantisce allo Stato che ne esercita la sovranità il diritto esclusivo di sfruttamento.

Naturalmente, vi sono le Nazioni marittime che cercano di limitare queste rivendicazioni, in nome della libertà dei mari, e altre, invece, che tendono a “territorializzare” le acque prospicienti le loro coste.

A questo proposito, “non bisogna dimenticare che, per alcune Nazioni, i diritti di sovranità sugli spazi marittimi rappresentano interessi vitali, in quanto mettono in gioco la loro sopravvivenza economica, e quindi esse sono disposte a compiere atti che alla controparte potrebbero apparire sproporzionati” (come scrivo nel libro Guerra e mare. Conflitti, politica e diritto marittimo, Mursia, 2015, pag. 62).

Questa osservazione è ancora più vera se si parla della lotta per ampliare i propri spazi marittimi, rendendoli di uso esclusivo, quando questa non è solo animata da desiderio di ricchezza. In alcuni casi, infatti, alla rivendicazione a fini economici si aggiunge l’aspirazione a “santuarizzare” spazi marini, per evitare che potenze nemiche li possano utilizzare contro lo Stato litoraneo.

Detto questo, è bene vedere in quale situazione si trova la nostra amata Italia, che si sta proiettando sul mare, un elemento ricco di sorprese, nono sempre positive, sia per quanto riguarda il commercio, sia per quanto concerne le dispute sulle estensioni marine.

Le rotte del commercio

I mercantili che toccano i porti italiani seguono rotte ben definite, spesso con cadenza settimanale. Tra le navi di maggiori dimensioni, mentre le petroliere e le gasiere vanno direttamente ad attraccare agli appositi terminali, il traffico merci, ormai quasi tutto su container, si divide in due categorie: le navi più grandi passano dall’uno all’altro porto specializzato nello stoccaggio e transito, noto come “nodo” (Gioia Tauro ne è un esempio), dove lasciano un numero elevato di container e ne caricano altrettanti. Vi sono poi navi di dimensioni relativamente minori che collegano questi nodi ai vari terminali – porti la cui funzione è quella di consentire la distribuzione dei beni nell’entroterra, anche a centinaia di chilometri di distanza.

Le rotte alturiere maggiormente utilizzate per il nostro commercio intercontinentale sono, in primis, quelle che ci collegano al continente americano, nei due emisferi; poi viene la rotta energetica che parte dal Golfo di Guinea, e, soprattutto, la rotta che consente l’interscambio con l’Asia.

Le ultime due, ormai da almeno venti anni, sono sempre più mal frequentate, da pirati o da chi vuole esercitare pressione su di noi interrompendo o rallentando il commercio.

La rotta del Golfo di Guinea ha due problemi. Il principale è la vulnerabilità agli attacchi criminali delle navi mercantili, costrette a lunghe soste in attesa di trovare un ormeggio; il secondo riguarda l’attraversamento dello Stretto di Gibilterra, per entrare dall’oceano Atlantico al Mediterraneo, soggetto alle periodiche contese tra Paesi litoranei – Spagna, Gibilterra a nord e Marocco a sud – e alla minaccia che organizzazioni terroristiche posero alcuni anni fa ai mercantili in transito (tanto che nell’ambito dell’Operazione NATO Active Endeavour nel 2003 venne istituita la task force STROG per scortare i mercantili attraverso lo Stretto di Gibilterra).

La rotta dell’Asia è ancora più esposta, in quanto presenta una serie di strettoie e di passaggi obbligati, il cui attraversamento avviene a bassa velocità. Dalla vicina costa, quindi, è possibile colpire i mercantili di passaggio con i mezzi più vari, che vanno dai missili costieri ai droni, aerei e navali, fino ai gommoni per abbordare una nave e saccheggiarla.

Queste strettoie sono lo Stretto di Malacca, la cui notevole lunghezza espone le navi che lo percorrono a prolungati attacchi dalla costa, lo Stretto di Hormuz, sbocco della rotta del petrolio dei Paesi del Golfo Persico, il Golfo di Aden e lo Stretto di Bab-el-Mandeb, che consentono l’accesso al Mar Rosso, e infine il canale di Suez che collega quest’ultimo al Mediterraneo.

Da vari anni, tutti questi passaggi, soprattutto quelli che ci collegano all’Asia, sono stati teatro di attacchi terroristici o criminali (pirateria). Questo ha costretto le Nazioni marittime a inviare navi da guerra per proteggere i transiti, nel modo migliore possibile. Oltre a questa minaccia, il rischio di un loro blocco per dissidi tra le maggiori potenze non va trascurato.

Anzitutto, la sicurezza dello Stretto di Malacca è curata dai Paesi litoranei, la Malesia, l’Indonesia e Singapore, che hanno finalmente deposto le asce di guerra e hanno costituito l’Organizzazione ReCAAP (Regional Cooperation Agreement on Combating Piracy and Armed Robbery against ships in Asia), collaborando per garantire un transito sicuro.

Va detto, però, che gli Stretti tra Malesia e Indonesia sono essenziali per la Cina, in quanto il suo fabbisogno energetico è in gran parte soddisfatto dagli idrocarburi provenienti dal Golfo Persico. Non a caso l’India, da decenni avversario della Cina, ha militarizzato le isole Andamane e Nicobare, prospicienti gli ingressi occidentali degli Stretti, in modo da bloccare, in caso di crisi, l’afflusso di combustibili al governo di Pechino.

L’attraversamento dello Stretto di Hormuz, poi, è stato più volte bloccato dai Paesi rivieraschi, tanto da dover essere protetto, dal 2020, dalle navi della Missione europea Agénor/EMASOH (European Maritime Awareness in the Strait of Hormuz), dopo gli attacchi a petroliere da parte dei Pasdaran iraniani.

Viene quindi il golfo di Aden, dove operano, fin dal 2008, altre navi europee nella missione Atalanta, per contrastare la pirateria che si era sviluppata oltremodo nel Corno d’Africa. È interessante notare come l’operazione si svolga in coordinamento con navi indiane, cinesi e russe, anche loro impegnate nella protezione dei mercantili nazionali.

Infine, lo stretto di Bab-el-Mandeb è oggetto, da circa tre mesi, di preoccupazione crescente, avendo i ribelli Houthi, che occupano la maggior parte del territorio di quello che un tempo era lo Yemen del Nord, iniziato ad attaccare giornalmente il traffico mercantile prima in modo selettivo, poi sempre più generalizzato.

Mentre gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno reagito a questi attacchi bombardando le postazioni degli Houthi lungo la costa, nell’ambito dell’operazione Prosperity Guardian, l’Europa punta a svolgere una missione, che dovrebbe chiamarsi Aspis (o Aspides), molto più prudente, essendo a carattere puramente difensivo, per la protezione dei mercantili, sulla falsariga delle altre due operazioni in atto.

Non va dimenticato, alla fine, il Canale di Suez, che rimase bloccato per alcuni anni, dopo le guerre tra Israele e i Paesi arabi, e ora viene talvolta messo in crisi dalla scarsa manovrabilità delle navi che lo percorrono, e tendono a bloccarlo, mettendosi di traverso nel canale, nei giorni di vento forte.

Inutile dire quali sarebbero le conseguenze di una interruzione prolungata della rotta asiatica sulla nostra economia. Come si è visto prima nel 2008 a causa della pirateria e ora, in questi ultimi mesi per gli attacchi degli Houthi, ogni interruzione provoca un brusco aumento dei prezzi di trasporto, per effetto sia dei costi assicurativi, sia dei percorsi più lunghi compiuti dalle navi per evitare le zone di pericolo. Il percorso alternativo, nel nostro caso, è la circumnavigazione dell’Africa, comunemente chiamata la “Rotta del Capo” di Buona Speranza, che costringe le navi a rimanere per mare altri 7-10 giorni, con conseguente aumento dei costi di trasporto.

Ma quello che noi Italiani dobbiamo sapere è che questa “Rotta del Capo” induce i mercantili ad approdare più di frequente nei porti dell’Europa atlantica, che richiedono un percorso minore. I nostri porti, quindi, perderebbero il vantaggio di cui godono, essendo utilizzati non solo a fini nazionali, ma anche per rifornire le aree industrializzate dell’Europa Centrale.

Queste ultime, infatti, qualora fosse sbarrata la rotta attraverso il mar Rosso, ricorrerebbero ai trasporti terrestri provenienti dai porti che si affacciano sull’Atlantico, anziché dai terminali marittimi italiani della Liguria e del Triveneto. Il danno per l’economia italiana sarebbe quindi duplice.

Non bisogna, infine, dimenticare le possibili conseguenze indirette, per la stabilità del Mediterraneo, di un ricorso generalizzato alla “Rotta del Capo”. Tra le altre, un calo sensibile dei transiti attraverso il Canale di Suez priverebbe l’Egitto di uno tra i principali cespiti del Paese, causando una crisi economica devastante, simile a quella che colpì la Nazione nel 2008.

Un Egitto nuovamente in crisi, come avvenne in quegli anni, sarebbe una specie di fiaccola capace di dar fuoco alle polveri delle tensioni interne ai Paesi litoranei del Mediterraneo, con effetti drammatici sulla stabilità dei loro governi, proprio nel momento in cui l’Europa e in particolare l’Italia cercano di potenziare l’interscambio con i Paesi africani.

I contenziosi sulle acque litoranee

Un altro aspetto da considerare è la infinita serie di contenziosi, non tutti mantenuti a livello diplomatico, tra i Paesi contigui che devono delimitare le rispettive acque territoriali, ma soprattutto i confini delle Zone Economiche Esclusive.

Concentrandoci sui mari vicini a noi, va riconosciuto, anzitutto all’Italia il merito di avere definito – o di essere sulla via della definizione – in modo civile i limiti delle nostre acque territoriali e i confini delle Zee con i Paesi a noi contigui, anche favorendo le controparti in modo significativo, pro bono pacis.

Pochi altri Paesi mediterranei, purtroppo, hanno seguito il nostro esempio. Il Mediterraneo occidentale vede, anzitutto, il contenzioso tra Spagna e Marocco, che sono arrivati persino a contendersi uno scoglietto, noto come isola Perejil (isola del prezzemolo), posto nelle vicinanze dello Stretto di Gibilterra. A questo si aggiunge proprio la questione di Gibilterra, rivendicata dalla Spagna che la perse nel lontano 1703, ma non ha mai rinunciato definitivamente al suo possesso.

Nel Mediterraneo Centrale, poi, è irrisolto il contenzioso tra Libia e Tunisia per la delimitazione delle Zee, in una zona che è stata esplorata ed è risultata ricca di petrolio sotto il fondale marino. Non vanno poi dimenticati i contenziosi sulle zone di pesca tra noi e la Libia, con periodici sequestri di nostri pescherecci.

Passando al Mediterraneo Orientale, si entra in una miriade di accordi incrociati e di contenziosi senza fine: la Turchia e la Libia, tanto per iniziare da uno dei più recenti episodi, si sono spartite l’enorme zona di mare tra i due Paesi, senza riguardo per i diritti dell’Egitto e della Grecia sull’area.

Vi è poi il contenzioso ormai secolare tra Grecia e Turchia per le acque territoriali e per la Zee del mare Egeo e delle acque intorno all’isola di Creta.

Vi è quindi la disputa per le acque intorno all’isola di Cipro, quella che riguarda Siria, Israele, Egitto e Libano, per la delimitazione delle rispettive Zee, in un tratto di mare i cui fondali sono risultati ricchissimi di gas naturale.

Non parliamo poi dei mari lontani. I contenziosi sono tali e tanti che, periodicamente, il dipartimento di Stato americano pubblica un opuscolo – ormai arrivato alla quarta edizione – nel quale viene indicata la posizione del governo di Washington su ognuna di queste rivendicazioni, citando anche quanto serie siano le dispute con i vicini (Limits in the Seas. United States response to excessive natopnal maritime claims).

Tra queste, le più gravi sono quelle che hanno luogo nell’Asia Orientale, perché non hanno solo il carattere di disputa economica, ma rivestono un’importanza strategica per l’intera area.

Uno tra gli Stati che hanno avanzato le rivendicazioni più numerose, alcune delle quali decisamente controverse è la Cina, che sta compiendo sforzi notevoli, anzitutto, per militarizzare gli arcipelaghi delle Spratly e Paracel, una catena di isolotti apparentemente di scarsa importanza, ma che per la presenza di risorse energetiche nei fondali che li circondano sono rivendicati da tutti i Paesi limitrofi, dall’Indonesia alle Filippine, fino al Vietnam.

La Cina pretende il possesso di questi arcipelaghi, in nome di diritti risalenti al Medio Evo. Qualora la pretesa fosse accettata, bisogna dire, la Cina potrebbe rivendicare come acque interne tutto il mar Cinese Meridionale, impedendo il passaggio di navi da guerra di altri Paesi. Non a caso, gli Stati Uniti e alcuni loro alleati svolgono periodicamente passaggi in forze con le loro navi, compiendo quelle che vengono chiamate Freedom of Navigation Operations (Operazioni per la libertà di navigazione), scontrandosi ogni volta con la Marina cinese che cerca di disturbare il transito.

Appare chiaro, quindi, che questa rivendicazione, insieme alla disputa con il Giappone sulle isole Senkaku/Diaoyutai e alle minacciose dichiarazioni del governo di Pechino nei confronti dell’Isola di Taiwan, rientri non solo nella categoria dei contenziosi economici, bensì nella volontà di creare una fascia marittima di sicurezza intorno alla Nazione, che comprenda quella che uno stratega cinese ha definito, anni fa, la “prima catena di Isole”, che – purtroppo per la Cina – è costituita da isole che appartengono o sono rivendicate da altri Paesi.

In definitiva, con buona pace della Nuova Via della Seta, tanto reclamizzata dal governo di Pechino come ponte che dovrebbe unire e coinvolgere numerose Nazioni e agevolare relazioni amichevoli, la Cina sta procedendo per accaparrarsi il meglio dei mari del Sud Est asiatico. Questa tendenza ha avuto come effetto l’avvicinamento all’Occidente di quasi tutti i Paesi dell’area, timorosi delle pressioni cinesi.

Un breve cenno, poi, va fatto sui contenziosi riguardanti i mari del Nord e, in particolare, l’Oceano Artico, nel quale la riduzione della superficie ghiacciata ha riacceso le rivendicazioni da parte delle Potenze litoranee, specie dopo che la Rotta del Nord, prima quasi impraticabile, è aperta per un numero sufficiente di mesi all’anno. Anche in quell’area le risorse sono abbondanti e la voglia di sfruttarle è elevata. Fortunatamente, i Paesi litoranei si sono convinti sul fatto che l’ambiente artico è estremamente fragile, per cui hanno accettato limitazioni allo sfruttamento delle acque e dei fondali marini. Ciò non toglie che oggi, come ai tempi della Guerra Fredda, i sottomarini nucleari delle Grandi Potenze lo frequentino fin troppo, per assicurare la deterrenza contro l’avversario.

La corsa agli armamenti navali

Non è un caso che la Cina non si limiti a rivendicare tratti di mare e isole in misura sempre maggiore, ma stia preparandosi a sostenere con la forza le proprie pretese, creando una Marina tra le più potenti al mondo.

Questo sviluppo preoccupa non solo i vicini, e in particolar modo il Giappone, la Corea del Sud e Taiwan, ma anche l’Occidente, con gli Stati Uniti in prima fila. A questi si unisce, come si è visto, tra un tentativo di dialogo e una scaramuccia di confine, il governo dell’India, che sta prendendo sul serio la minaccia cinese, e sta costruendo uno strumento navale che sia competitivo con quello avversario, oltre a militarizzare – come si è visto – le isole Andamane e Nicobare, dalle quali si possono agevolmente bloccare lo Stretto di Malacca e gli altri passaggi tra il mar Cinese Meridionale e l’Oceano indiano, attraverso gli stretti indonesiani.

In sintesi, l’Asia sta diventando un settore nel quale la tensione in campo marittimo tenderà a salire nei prossimi anni, e il rumore delle cannonate tra navi delle parti contrapposte potrebbe far fuggire il commercio, chiudendo una rotta che per l’Italia è una tra le più importanti per il benessere della sua popolazione.

Conclusioni

L’attenzione dell’opinione pubblica italiana si è rivolta verso il mare decisamente più tardi, rispetto ad altri Paesi a noi vicini: basti pensare che in Francia si parla da anni di “marittimizzazione dei conflitti” per indicare lo stato sempre più precario dei rapporti tra nazioni marittime, e in Gran Bretagna si accenna sempre più spesso al “Secolo Blu”.

Queste espressioni, che nascondono situazioni per nulla rassicuranti, devono convincere la nostra opinione pubblica che il mare, più di prima, è un terreno di scontro e, nel migliore dei casi, di competizione. Farlo diventare un’area di collaborazione, come avviene, purtroppo, in casi ancora limitati, è per noi un’esigenza irrinunciabile. Senza pace non c’è commercio e noi da questo dipendiamo per la nostra economia e qualità di vita.

Bisogna ricordare quanto disse, oltre due secoli fa, Giulio Rocco, che avvertiva la necessità di affiancare al naviglio di commercio una flotta da guerra di adeguata capacità, contro i nemici piccoli e grandi del commercio pacifico e del mutuo rispetto in materia di sfruttamento dei fondali.

In questo, con la nostra storia di diplomazia e di mediazione, possiamo fare molto per “calmare le acque agitate”, ma dobbiamo ricordarci che una mediazione senza capacità di pressione con mezzi militari è destinata al fallimento. La nostra Marina, ancora una volta, viene chiamata a svolgere un compito di primaria importanza.


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Il 10 gennaio 2024 Papa Francesco ha ricevuto in udienza privata una delegazione di personalità che partecipano, da alcuni anni, a un processo di dialogo tra m


#laFLEalMassimo – Episodio 113: Tennis e Patriottismo Fiscale


In apertura rimane oltremodo opportuno ribadire il sostegno di questa rubrica al popolo ucraino e la condanna dell’invasione perpetrata dalla Russia. Putroppo, osserviamo ancora personaggi pubblici influenti diffondere messaggi propagandistici a sostegno

In apertura rimane oltremodo opportuno ribadire il sostegno di questa rubrica al popolo ucraino e la condanna dell’invasione perpetrata dalla Russia. Putroppo, osserviamo ancora personaggi pubblici influenti diffondere messaggi propagandistici a sostegno della necessità di negoziare con la Russia in virtù una sorta perversa logica del “male minore” in base alla quale la libertà e l’incolumità degli ucraini può essere “sacrificata” per ridurre il numero complessivo di vittime di una minaccia nucleare deliberatamente esagerata per finalità di propaganda.

Negli ultimi giorni i successi sportivi del tennista Jannik Sinner oltre fare la gioia degli appassionati di questa disciplina hanno fornito un’ennesima occasione per rivelarsi ad alcuni tratti degeneri della cultura del declino del nostro paese.

Il patriota è una singolare categoria di individuo che sfrutta tutte le occasioni nelle quali un suo connazionale si distingue per qualche iniziativa meritevole o successo personale per cercare di riflettere su di se un qualche merito o soddisfazione non si sa in base a quale forma immaginaria di collegamento

Il patriota fiscale va oltre e ritiene che sostenere l’apparato disfuzionale di un paese che opprime i suoi contribuenti con imposte ingiuste ed eccessive sia una sorta di maledizione ereditaria che i cittadini italiani dovrebbero portarsi dietro a prescindere da qualsiasi considerazione di razionale gestione delle propria finanza personale.

Difficile commentare questi aspetti folkloristici e impossibile spiegargli che le imposte si pagano in base alle regole della sede fiscale che ognuno di noi può scegliere e cambiare se ritenuta non conveniente come avviene normalmente tra cittadini liberi che rifiutano lo status di sudditi ottusi.

Mi limiterò a una parafrasi: non chiedetevi quali tasse possono pagare i vostri eroi per sostenere il carrozzone nel quale vi siete condannati a vivere, pensate piuttosto a cosa potrebbe fare il vostro paese per rendere più conveniente agli individui, alle imprese e alle istituzioni eccellenti la permanenza in un ambiente che opprime i deboli e induce i forti e gli eccellenti a votare con i piedi.

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angelomincuzzi - Il mio viaggio nell’Europa dei super ricchi. Ecco perché l’Unione europea o cambia o muore. #chiarelettere https://angelomincuzzi.blog.ilsole24ore.com/2024/02/02/il-mio-viaggio-nelleuropa-dei-super-ricchi-ecco-perche-lunione-europea-o-cambia-o-muore/?refresh_ce=1​


Il mio viaggio nell’Europa dei super ricchi. Ecco perché l’Unione europea o cambia o muore. #chiarelettere angelomincuzzi.blog.ilsole24or…


Sarmat, Tupolev-M e Borei-A. Per Mosca il 2024 sarà un anno nucleare


Nel 2024, la federazione Russa perfezionerà una serie di miglioramenti concernenti la sua triade nucleare. Ognuna delle componenti dello strumento di deterrenza di Mosca andrà infatti ad acquisire nuovi asset durante i prossimi dodici mesi. Il vice-minist

Nel 2024, la federazione Russa perfezionerà una serie di miglioramenti concernenti la sua triade nucleare. Ognuna delle componenti dello strumento di deterrenza di Mosca andrà infatti ad acquisire nuovi asset durante i prossimi dodici mesi. Il vice-ministro della Difesa Alexei Krivoruchko ha dichiarato il 26 gennaio che per il 2024 gli obiettivi principali per il Ministero della Difesa riguardano l’entrata in servizio del sistema missilistico strategico Sarmat, dei bombardieri Tu-160M e del sottomarino nucleare di classe Borei-A “Knyaz Pozharsky”. Gli obiettivi sono rimasti invariati dal dicembre 2022, quando il Ministro della Difesa Sergei Shoigu annunciò i piani per le armi atomiche per l’anno successivo durante un discorso al Consiglio del Ministero della Difesa: in effetti questi strumenti avrebbero dovuto essere pronti nel 2023, ma le complicanze dovute alla guerra e alle sanzioni occidentali hanno causato una dilatazione nelle tempistiche.

Lo sviluppo del sistema missilistico Sarmat sta registrando un ritardo sempre più marcato: fino ad oggi sembra che un solo test di volo del missile abbia avuto esito positivo. Con molta probabilità la bassa redditività di Roscomos (l’agenzia nazionale spaziale russa, responsabile dello sviluppo del progetto), così come la corruzione diffusa, sono da individuare come le cause di questi rallentamenti. Nel dicembre dello scorso anno l’amministratore delegato di Roscosmos Yuri Borisov al canale televisivo Rossiya 24, ha dichiarato che la società ha perso centottanta miliardi di rubli (equivalenti a circa due miliardi di dollari) di entrate dalle esportazioni a causa del forte impatto delle sanzioni occidentali. La limitazione nell’accesso alle tecnologie e ai componenti occidentali ha reso necessaria la ricerca di alternative, il che ha portato le imprese afferenti a Roscosmos a sostenere costi addizionali, mentre si avvicinavano le date di consegna degli assets.

Per quel che riguarda la componente aerea, il Kazan Aviation Plant nella regione del Tartastan è impegnato sia nella modernizzazione dei bombardieri Tu-160, per portarli allo standard Tu-160M, che nella produzione ex novo di modelli simili. Il governo ha dichiarato in precedenza che l’azienda ha già completato quattro esemplari Tu-160M, uno dei quali è già stato trasferito nel 2022 al Ministero della Difesa,che ha continuato a testarlo insieme alla compagnia sviluppatrice Tupolev, mentre il resto degli aerei sta proseguendo i test in fabbrica. La Tupolev ha un contratto per la consegna di dieci nuovi bombardieri strategici entro il 2027. Ma queste aspettative sembrano irrealistiche: “Il Kazan Aviation Plant ha prodotto in media tra un aereo e un aereo e mezzo all’anno, e con questi ritmi non è in grado di soddisfare i piani del Ministero della Difesa” ha dichiarato Pavel Luzin, senior fellow del Center for European Policy Analysis. Anche qui, pesano le sanzioni occidentali. Sostituti russi e asiatici ai componenti di manifattura europea esistono, ma la qualità non è la stessa.

Infine vi è il lato sottomarino della triade. La agenzia di stampa statale russa Tass aveva annunciato il varo del sottomarino Knyaz Pozharsky nel 2023, anno in cui altri due sottomarini avrebbero dovuto essere impostati. Sebbene gli esperti non considerino le carenze di produzione come il collo di bottiglia del programma, il ritardo potrebbe influire negativamente sul programma di test, dato che la scadenza per la consegna del sottomarino della Marina rimane il dicembre 2024.

Nonostante i ritardi,“I piani per la posa dell’undicesimo e dodicesimo sottomarino della classe Borei-A non sono stati cancellati” ricorda Luzin. “Per le autorità russe, è necessario impegnare l’impianto produttivo con progetti per il prossimo decennio, altrimenti non è molto redditizio nell’attuale situazione politico-economica”.


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LA SITUAZIONE DEL CONSUMO DI DROGHE ILLECITE IN UNIONE EUROPEA. UNA ANALISI APPROFONDITA (4 di 4), LA METANFETAMINA, GIUNGE DA MESSICO ED AFGHANISTAN, MA INIZIA AD ESSERE PRODOTTA IN EUROPA


La metanfetamina, una droga stimolante, ha un ruolo relativamente piccolo nei mercati europei degli stimolanti rispetto alla situazione globale. Tuttavia, la minaccia rappresentata dalla metanfetamina è in aumento man mano che si diffonde in nuovi mercati in altre parti d’Europa. L’Unione Europea (UE) è una zona di origine e transito per la metanfetamina prodotta in altri centri di produzione, come Iran, Nigeria e Messico. Lo sviluppo della capacità di produzione di metanfetamine in Afghanistan, la principale fonte di approvvigionamento di eroina in Europa, rappresenta una potenziale minaccia per l’UE a causa delle rotte di traffico consolidate da tempo degli oppioidi afghani. Nella maggior parte dei paesi europei la metanfetamina è usata meno comunemente rispetto all’anfetamina o alla cocaina, con un consumo concentrato principalmente nell’Europa centrale. Tuttavia, negli ultimi anni si è assistito ad un aumento dell’utilizzo in altri paesi e regioni. Il mercato europeo della metanfetamina è relativamente piccolo rispetto agli standard globali, ma la prevalenza del consumo e le dimensioni del mercato potrebbero essere sottostimate a causa del fatto che l'uso della metanfetamina in polvere viene segnalato come anfetamina nei sondaggi tra gli utenti.
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La produzione di metanfetamine in Europa avviene ora in laboratori su scala industriale nei Paesi Bassi e in Belgio, insieme ad anfetamine e MDMA. I produttori europei di droghe sintetiche stanno collaborando con i produttori messicani per sviluppare processi di produzione e sfruttare le infrastrutture esistenti per grandi quantità di droghe sintetiche. Tuttavia, le difficoltà nel controllare la disponibilità dei precursori e l’ampia gamma di sostanze presenti negli impianti di produzione sollevano preoccupazioni sulle reti criminali coinvolte nella lavorazione di molteplici tipi di droghe.
La “criminalità come servizio” è un altro problema, con le reti criminali con sede nell’UE che forniscono supporto logistico essenziale per la produzione di metanfetamine. Ciò include la fornitura di precursori, pre-precursori, sostanze chimiche ausiliarie, attrezzature e competenze nella creazione di impianti di produzione. Inoltre, rischi per la salute, la sicurezza e l’ambiente sono legati alla produzione di metanfetamine, compresi i decessi legati a incendi, esplosioni o soffocamento da monossido di carbonio o altri fumi tossici.

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La potenziale diffusione della metanfetamina sotto forma di cristalli fumabili nell’UE è motivo di preoccupazione a causa delle conseguenze sulla salute, tra cui tossicità acuta, episodi psicotici, poli assunzione e morte. L’elevata redditività del business della droga può portare a un’intensa concorrenza e rivalità tra gruppi criminali, che potenzialmente si riversano sulla società dell’UE.
La cooperazione tra le reti criminali messicane e quelle dell’UE sembra focalizzata sul commercio e sul profitto, ma a lungo termine potrebbe esserci il rischio di scontri violenti. La crescita della produzione su larga scala di metanfetamina in Europa ha il potenziale per creare ulteriori collaborazioni criminali e promuovere più corruzione lungo la catena di approvvigionamento, creando un’economia parallela.
Dal 2016 sono emersi sviluppi anche in Afghanistan, con la produzione di metanfetamine utilizzando efedrina proveniente da fonti vegetali.

Per saperne di più: European Monitoring Centre for Drugs and Drug Addiction and Europol (2022), EU Drug Market: Methamphetamine — In-depth analysis, emcdda.europa.eu/publications/…



La responsabilità di tutti.


noblogo.org/transit/la-respons…


In Cina e Asia – Cina, Xi Jinping chiede la modernizzazione del sistema industriale


In Cina e Asia – Cina, Xi Jinping chiede la modernizzazione del sistema industriale modernizzazione
I titoli di oggi:

Cina, Xi Jinping chiede la modernizzazione del sistema industriale
Cina, Il nuovo smartphone di Samsung sceglie Ernie Bot
Stati Uniti contro le aziende tech cinesi che aiutano il PLA
AUKUS, passi in avanti per l'adesione della Nuova Zelanda

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