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In bicicletta ai Giardini Pubblici di Vallecrosia, ma il pensionato sulla panchina sembrava un po' preoccupato...




"Ma sì! Torniamo a Marina San Giuseppe [di Ventimiglia]!"

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Lama continuò a parlare bigarella.wordpress.com/2024/1…



Il quotidiano [«l’Unità»] puntava ad esprimersi attraverso un linguaggio semplice, schietto e persuasivo: la sua funzione era quella di educare l’elettorato del Pci, tanto che nelle intenzioni di Palmiro Togliatti c’era l’idea che «diventasse il Corriere della Sera del proletariato». Il picco delle vendite venne raggiunto durante gli anni Settanta, quando il giornale arrivò ad oltre 94 milioni di copie vendute. In questo periodo, alla direzione del quotidiano si sarebbero succeduti Luca Pavolini, direttore dal 1975 al 1977, e Alfredo Reichlin, dal 1977 al 1981. Seppur diverse tra loro (basti ricordare, ad esempio, che Reichlin durante il decennio lavorò a fianco di Enrico Berlinguer nella direzione nazionale del partito), le due direzioni ebbero il merito di fare del giornale uno strumento e una forma di condivisione di quella linea dell’intransigenza adottata dal Partito comunista nei confronti del fenomeno terrorista apparso in Italia all’inizio del decennio. Durante gli anni di piombo, il mondo del giornalismo non fu solo centrale all’interno per il sistema d’informazione del paese, ma fu anche uno degli sfortunati protagonisti che, insieme alla magistratura, al corpo di polizia e alla classe dirigente italiana, subirono con maggiore frequenza e ferocia gli attacchi dei gruppi terroristici, in particolare della frangia più estrema e organizzata rappresentata proprio dalle Brigate rosse. Fu questo, ad esempio, il caso del vice-direttore de «La Stampa» Carlo Casalegno, primo giornalista ucciso dalle Br, e del cronista de «Il Corriere della sera» Walter Tobagi, rispettivamente morti il 29 novembre 1977 e il 28 maggio 1980. Durante la stagione degli anni di piombo «l’Unità» si sarebbe resa portavoce di quel tentativo culturale, politico e ideologico, portato avanti dal Pci e orientato a infondere una speranza nel futuro della Repubblica. Lo si evince con chiarezza nell’articolo di Giorgio Amendola pubblicato il 12 giugno 1977, in cui si affermava: «oggi intendiamo difendere lo Stato repubblicano, anche se ne vediamo esattamente le piaghe create dalla mancata attuazione della Costituzione. Ma sono queste piaghe che vogliamo eliminare, attraverso un’opera di risanamento e rinnovamento che esige il concorso della maggioranza del popolo» <54.
Conclusasi la parentesi degli anni di piombo, a partire dall’inizio degli anni Ottanta il giornale affrontò la prima crisi delle vendite, passando da 100 milioni di copie annue nel 1981 a 60 milioni nel 1982. A determinare questo esito avrebbe certamente contribuito la diffusione di una stampa concorrente: lo sviluppo di quotidiani come «La Repubblica», ad esempio, segnò un momento di transizione per i quotidiani di partito poiché i lettori cosiddetti “non fidelizzati” avrebbero potuto ora trovare le informazioni sulle pagine di giornali più generalisti che disponevano di eccellenti redazioni politiche ed economiche e che utilizzavano un linguaggio lontano dai tecnicismi della politica e, dunque, più facilmente comprensibile. Per potenziare il numero delle vendite, nel 1986, il quotidiano avrebbe dato il via libera alla distribuzione della rivista satirica «Tango». Cinque anni più tardi, nel 1991, «l’Unità» avrebbe cessato di essere organo di partito, passando nelle mani di Walter Veltroni che avrebbe rivoluzionato il quotidiano arricchendolo di gadget a pagamento da vendere ai lettori: videocassette di film, audiocassette, ristampe di album delle figurine Panini rappresentano il nuovo orizzonte del quotidiano.
19 febbraio 1977: «Ferma condanna in tutto il paese dell’aggressione squadristica di Roma»
Particolarmente interessante fu il modo in cui l’organo di stampa del Partito comunista decise di interpretare i fatti del 17 febbraio del 1977, quando il segretario della Cgil Luciano Lama aveva presieduto un comizio sindacale presso l’università La Sapienza di Roma, sul tema dei precari. Il discorso di Lama era iniziato in questo modo: «i lavoratori, i sindacati sono venuti qui per ragionare, per parlare, per ascoltare con calma. La manifestazione di oggi non è fatta, come qualcuno ha detto, con i carri armati: migliaia di lavoratori e di studenti vogliono raccogliersi per discutere di un problema vitale per l’intera società» <55. Le parole che venivano diffuse dagli altoparlanti del dodge rosso che fungeva da palco per i rappresentanti della Federazione sindacale Cgil, Cisl e Uil, vennero inizialmente ascoltate dal pubblico di studenti, lavoratori e sindacalisti presenti quel giovedì mattina in Piazza della Minerva; tuttavia non era sfuggito agli occhi attenti del servizio d’ordine dell’organizzazione sindacale, un movimento sviluppatosi al lato del camion rosso, iniziato dagli esponenti degli “indiani metropolitani” e da quelle forze che poi «l’Unità» si sarebbe ostinata a definire «degli autonomi» (alcuni dei gruppi coinvolti nel cosiddetto “Movimento del ‘77”). Lama continuò a parlare, nonostante i manifestanti avessero alzato al cielo un fantoccio di cartapesta raffigurante lo stesso Lama, con un chiaro incoraggiamento rivolto ai giovani studenti «A chi grida che vogliamo affrontare il “movimento” rispondiamo che non abbiamo mai pensato di agire senza, e tantomeno contro le grandi masse di giovani – sottolineava Lama – dobbiamo lottare e vincere assieme la grande battaglia per il rinnovamento dell’intera società, battere e vincere il fascismo, le tentazioni reazionarie, le provocazioni eversive, ogni violenza o tentazione irrazionali» <56. Come riferiva nella sua ricostruzione un articolo de «l’Unità», pubblicato il 20 febbraio, inizialmente «c’era voglia di dialogare, di polemizzare magari duramente, ma con la forza delle sole idee» <57. Il comizio sindacale organizzato dalla Federazione e dal Partito comunista aveva preso accordi con il movimento studentesco: dopo il comizio di Lama, sarebbe stato uno studente del movimento a prendere la parola; tuttavia la situazione degenerò poco prima che il segretario della Cgil potesse completare il suo discorso, quando, dalle file degli “autonomi”, vennero lanciati dei palloncini pieni di vernice contro il palco della Federazione. Il servizio d’ordine
dell’organizzazione sindacale si scagliò contro gli studenti e i manifestanti brandendo degli estintori per farsi largo tra la folla. La manifestazione si era sciolta lasciando spazio ad un feroce scontro tra studenti e forze dell’ordine, gli “indiani americani” e il gruppo degli “autonomi”, e tra gli uni e gli altri, indistinguibili a quel punto in Piazza della Minerva.
Nei giorni seguenti quella che passò alla storia come “la cacciata di Lama” dal comizio e gli scontri dell’ateneo romano sarebbero stati ripresi da tutti i principali organi di stampa. Il primo a denunciare le aggressioni fu, il 19 febbraio, proprio «l’Unità» che, in prima pagina, usciva con il titolo “Ferma condanna in tutto il paese dell’aggressione squadristica di Roma” <58. La posizione dell’organo ufficiale del Partito comunista sui fatti dell’ateneo romano era esplicita: la colpa era da attribuirsi ad «uno squadrismo dall’etichetta di sinistra, espressione dei gruppi che si muovono nell’area della cosiddetta “autonomia”» <59; e l’obiettivo di tali gruppi era quello «di paralizzare le istituzioni, di provocare l’ingovernabilità dell’Università e del Paese» <60.
Nel giorno di domenica 20 febbraio la direzione di Alfredo Reichlin pubblicava in prima pagina il “Documento della direzione Pci dopo i fatti di Roma”, nel quale il gruppo dirigente del Partito comunista proponeva «unità e iniziativa di massa contro lo squadrismo, per rinsaldare il legame fra giovani e democrazia» <61. La direzione del Pci esprimeva lo «sdegno» dei comunisti per la serie di atti che, a partire dall’Università di Roma, si stavano susseguendo in tutti gli atenei italiani. Dal nord a sud le maggiori università d’Italia erano state prese d’assalto da gruppi che, approfittando della occupazione imposta dagli studenti negli atenei, riuscivano a prendere il sopravvento, allontanando sempre di più i giovani dal dialogo con la classe politica italiana. Proprio perché l’emergenza non rappresentava un caso isolato alla capitale italiana, la dirigenza del Partito comunista considerava «necessaria una pressione unitaria perché lo Stato democratico agisca risolutamente contro tutte le centrali eversive e le formazioni squadristiche e armate – scrive la Direzione del Pc – ciò che si deve difendere è innanzitutto la possibilità della piena esplicazione della vita democratica, del dibattito e del confronto nella scuola, nell’università, nella società» <62. Nello stesso numero del quotidiano, in un articolo intitolato “Commenti della stampa: verità e deformazioni”, il Partito comunista denunciava la «soddisfazione dei giornali della destra per l’attacco squadristico» <63. Le lamentele erano soprattutto rivolte a «Il Giornale» ma anche a «la Repubblica». I comunisti riferivano nell’articolo le parole del foglio di Montanelli che «si augura che i fatti romani possano costituire una scintilla per lo scatenamento di una “rabbia” generale contro le sinistre e i sindacati» <64. «La Repubblica», invece, veniva accusata di aver riportato nei suoi articoli una versione stravolta dei fatti accaduti in Piazza della Minerva il 17 febbraio, attribuendo la responsabilità degli avvenimenti agli aggrediti e non agli aggressori, comeriportava nel titolo “Il comizio di Lama scatena gravi incidenti”. «Nessuna parola di condanna si legge su “la Repubblica” nei confronti di chi ha tentato di abolire la libertà di manifestazione e di parola» <65, mentre era stata apprezzata la linea di solidarietà espressa dal Partito socialista nelle righe de «l’Avanti!».
Dall’analisi degli articoli citati si evince come la condanna del Partito comunista nei confronti dei gruppi eversivi fosse ferma e decisa; tuttavia nelle pagine del quotidiano «l’Unità» veniva taciuto un aspetto che potrebbe essere ritenuto centrale all’interno del contesto degli scontri di Roma. La stampa comunista, infatti, in nessun articolo avrebbe menzionato il fatto che il 12 febbraio 1977, cinque giorni prima del comizio di Lama, era stata prevista in Via delle Botteghe Oscure una riunione del Pci nella quale vennero convocati anche alcuni membri della Federazione sindacale e il Segretario della Camera del Lavoro di Roma, Bruno Vittoriano. Sarebbe stato proprio quest’ultimo, in un’intervista pubblicata postuma su «la Repubblica», a dichiarare al giornalista Luca Villoresi, che quello che doveva essere un comizio sindacale aveva “tacitamente” assunto un altro obiettivo: la manifestazione dei precari sarebbe dovuta diventare l’occasione per scacciare gli occupanti dall’ateneo romano. I vari accordi presi dal sindacato con il movimento studentesco saltarono: Lama non avrebbe più parlato sulle scale del Rettorato ma dal furgone rosso con il quale la Federazione era abituata ad aprire le file dei cortei; il rappresentante degli studenti occupanti non avrebbe più esposto la sua testimonianza; il servizio d’ordine per l’evento sarebbe stato garantito non dalle forze della polizia, ma dall’organizzazione sindacale. «A riveder oggi le posizioni di tanti protagonisti dell’epoca, sembra davvero che quella manifestazione fosse figlia di nessuno – dichiarava Vittoriano – mentre invece, diciamolo, la situazione precipitò perché qualcuno scelse, anche consapevolmente, la strada dell’atto di forza» <66. Il riferimento del Segretario della Camera del Lavoro era certamente indirizzato al Pci e alla sua scelta di rendere quel comizio sindacale una manifestazione di più largo respiro <67. Nelle pagine del «l’Unità» non fu fatto cenno neppure all’atteggiamento provocatorio che il servizio d’ordine della Federazione aveva assunto non appena entrato in Piazza della Minerva: le “tute blu”, infatti, erano arrivate armate di secchi di vernice bianca e pennelli, pronti a cancellare le scritte di protesta che erano apparse sui muri intorno alla facoltà nei precedenti 14 giorni di occupazione, prima tra tutte fu cancellata la scritta «i Lama stanno nel Tibet». Le provocazioni arrivarono certamente anche da parte dai movimenti studenteschi, dal fantoccio raffigurante il segretario della Cgil ai cori che recitavano «Lama nessun l’ama». Tuttavia, mentre in merito a queste provocazioni si trovano numerosi riferimenti tra le righe degli articoli pubblicati nei giorni che seguirono i fatti di Roma, del vero intento del Partito comunista, ossia quello di mandare un messaggio ben preciso alla popolazione, ossia che il Pc stesse lavorando in difesa delle istituzioni, non si dava neppure un accenno.
Contemporaneamente al problema dei movimenti sociali, a partire dal 1976 le istituzioni italiane dovettero anche affrontare l’ascesa dell’organizzazione rivoluzionaria delle Brigate rosse, guidata dal brigatista Mario Moretti, artefice della strategia condotta contro il cuore dello Stato italiano, che avrebbe colpito non solo gli alti dirigenti delle fabbriche e volti noti della politica, ma anche professionisti, magistrati e giornalisti, come il vice direttore de «la Stampa» Carlo Casalegno.

[NOTE]54 Giorgio Amendola, Difendere la Repubblica, in «l’Unità» del 12 giugno 1977, ora in Archivio storico de «l’Unità».
55 Discorso di Luciano Lama alla manifestazione in Piazza della Minerva del 17 febbraio 1977, in «l’Unità», 19 febbraio 1977.
56 Ibidem.
57 Roberto Roscani, Studenti e operai insieme al comizio dei sindacati, in, «l’Unità», 20 febbraio 1977.
58 Gregorio Botta, Ferma condanna in tutto il paese dell’aggressione squadristica di Roma, in, «l’Unità» del 19 febbraio 1977.
59 Marisa Musu, I comunisti discutono gli incidenti, in, «l’Unità» del 20 febbraio 1977.
60 Ibidem.
61 Direzione del Partito comunista, Documento della direzione Pci dopo i fatti di Roma, in, «l’Unità» del 20 febbraio 1977.
62 Ibidem.
63 La Direzione del Partito comunista, Commenti della stampa: verità e deformazioni, in, «l’Unità» del 20 febbraio 1977.
64 Ibidem.
65 Ibidem.
66 Luca Villoresi, Così andò quella mattina del 1977, quando Lama…, in «la Repubblica», 1987, ora in archivio storico de «la Repubblica».
67 Ibidem.
Francesca Lanzillotta, La svolta degli anni Settanta nelle pagine de «L’Unità» e de «Il Popolo», Tesi di Laurea, Università Luiss “Guido Carli”, Anno accademico 2015-2016

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L’Est rispose con un’alleanza militare tra l’Unione Sovietica e i suoi paesi satellite bigarella.wordpress.com/2024/0…


Il 5 marzo 1953 morì Iosif Stalin <19. La politica del dittatore aveva condizionato l’Unione Sovietica fin da prima della Seconda guerra mondiale. Con il conflitto – e la successiva vittoria – il culto dell’eroe comunista che combatteva e sconfiggeva con le sue stesse forze i nazisti invasori venne subito collegata alla figura di Stalin. Le celebrazioni del suo funerale ebbero un certo successo e sembravano nascondere la durezza repressiva che continuava anche dopo la morte del dittatore. Il sistema post-staliniano vide un’ulteriore ricostruzione degli apparati produttivi, in particolare quelli militari. Dopo il primo test atomico del 1949, i sovietici riuscirono a mettere a punto un’altra arma di grande potenza: la bomba a idrogeno (detta “bomba H” <20). L’evento venne celebrato come grande successo del socialismo, portando l’arsenale militare dell’URSS ad un potenziale distruttivo che arriva alla relativa parità con quello americano. Si aggiungeva poi il rafforzamento dell’ideologia comunista in Asia, dopo la fine della Guerra di Corea e l’affermazione della Cina di Mao Tse-tung.
Il 1955 fu l’anno in cui la Repubblica Federale Tedesca aderì al Patto Atlantico, e quindi alla Nato. Ma era anche l’anno in cui l’Est rispose con un’alleanza militare tra l’Unione Sovietica e i suoi paesi satellite (Bulgaria, Romania, Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia, Albania e Germania Orientale), costituendo così il “Patto di Varsavia” <21.
Il nuovo Segretario del PCUS, Nikita Chruščëv, al XX° Congresso del partito il 14 febbraio 1956, presentò un rapporto segreto in cui si denunciavano i crimini commessi da Stalin. Tale documento lasciava sperare che l’URSS si sarebbe aperta ad un processo di liberalizzazione e di distensione sul piano internazionale <22.
Nel frattempo, in Occidente venne fatto un altro passo a favore dell’integrazione europea. La conferenza di Messina, nel giugno del 1955 <23, avrebbe condotto alle firme dei Trattati di Roma e alla creazione del “Mercato Comune Europeo” (con l’approvazione degli americani) e della “Comunità Europea dell’Energia Atomica”, l’EURATOM.
Le prime tendenze riformatrici nei paesi dell’Est trovarono spazio in Polonia e soprattutto in Ungheria, dove, sotto il governo riformista di Imre Nagy, queste tendenze diventarono centrifughe. Nell’ottobre 1956 ci fu un primo intervento militare sovietico, tuttavia i movimenti di protesta ungheresi che ne seguirono richiederanno un’ulteriore azione dell’Armata Rossa, il successivo 4 novembre. La resistenza dei centri operai locali si fece accanita, ma non riuscirono comunque a fermare l’invasione, che provocherà 60.000 morti e la deposizione (e l’arresto) del Presidente Nagy <24 .
La Nazioni Unite questa volta si astenevano dall’intervenire nella questione ungherese, in quanto il rappresentante sovietico nel Consiglio di Sicurezza aveva opposto il suo veto. Contemporaneamente la situazione stava precipitando anche in Medio Oriente, dove dal luglio precedente il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, salito al potere con un colpo di Stato nel 1952 <25, aveva provveduto alla nazionalizzazione dell’antica Compagnia del Canale di Suez, colpendo
gli interessi degli azionisti e dei paesi occidentali. La mossa era stata un atto di ritorsione contro la promessa americana non mantenuta dei finanziamenti all’imponente progetto della diga di Assuan <26.
L’obiettivo di Nasser era modernizzare l’Egitto e rilanciarne il ruolo egemonico nell’area mediorientale. Il governo inglese, dopo mesi di inutili trattative, decise di intervenire militarmente per far cadere il dittatore egiziano. Trovò presto il sostegno del governo francese. Il 29 ottobre 1956 iniziò l’“Offensiva di Tsahal” <27. Ma presto si aprì una crisi interna all’Alleanza Atlantica, dato che l’amministrazione USA di Dwight “Ike” Eisenhower (divenuto presidente nel 1953 <28) disapprovava fortemente l’azione armata anglo-francese, portando al fallimento dell’operazione e il successivo ritiro delle truppe europee. La situazione in Medio Oriente tornò a quella pre-conflitto. La duplice crisi del 1956 aveva strutturato ulteriormente il “bipolarismo” internazionale, dato che nessuno dei maggiori attori poteva ormai inserirsi in modo attivo nella sfera d’influenza avversaria.
Le proteste americane per l’Ungheria e quelle sovietiche per Suez rientrarono infatti in tempi piuttosto rapidi <29.

[NOTE]19 Formigoni Guido, Storia d’Italia nella guerra fredda (1943-1978), Bologna, il Mulino, 2016, p. 200.
20 Banti Alberto Mario, L’età contemporanea: dalla grande guerra a oggi, Bari, Laterza, 2009, p. 275.
21 Banti Alberto Mario, L’età contemporanea: dalla grande guerra a oggi, Bari, Laterza, 2009, p. 266.
22 Giannuli Aldo, La strategia della tensione: servizi segreti, partiti, golpe falliti, terrore fascista, politica internazionale: un bilancio definitivo, Milano, Ponte alle Grazie, 2018, p. 37.
23 Varsori Antonio et al., La politica estera italiana nel secondo dopoguerra (1943-1957), Milano, LED, 1993, p. 357.
24 Giannuli Aldo, La strategia della tensione: servizi segreti, partiti, golpe falliti, terrore fascista, politica internazionale: un bilancio definitivo, Milano, Ponte alle Grazie, 2018, p. 37.
25 Banti Alberto Mario, L’età contemporanea: dalla grande guerra a oggi, Bari, Laterza, 2009, p. 286.
26 Formigoni Guido, Storia d’Italia nella guerra fredda (1943-1978), Bologna, il Mulino, 2016, p. 236.
27 Idem, p. 237. 28 Banti Alberto Mario, L’età contemporanea: dalla grande guerra a oggi, Bari, Laterza, 2009, p. 307.
29 Formigoni Guido, Storia d’Italia nella guerra fredda (1943-1978), Bologna, il Mulino, 2016, p. 242.
Daniele Pistolato, “Operazione Gladio”. L’esercito segreto della Nato e l’Estremismo Nero, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2023-2024

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#1953 #1955 #1956 #DanielePistolato #Egitto #Suez #Ungheria #URSS #USA




L’Est rispose con un’alleanza militare tra l’Unione Sovietica e i suoi paesi satellite


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Il 5 marzo 1953 morì Iosif Stalin <19. La politica del dittatore aveva condizionato l’Unione Sovietica fin da prima della Seconda guerra mondiale. Con il conflitto – e la successiva vittoria – il culto dell’eroe comunista che combatteva e sconfiggeva con le sue stesse forze i nazisti invasori venne subito collegata alla figura di Stalin. Le celebrazioni del suo funerale ebbero un certo successo e sembravano nascondere la durezza repressiva che continuava anche dopo la morte del dittatore. Il sistema post-staliniano vide un’ulteriore ricostruzione degli apparati produttivi, in particolare quelli militari. Dopo il primo test atomico del 1949, i sovietici riuscirono a mettere a punto un’altra arma di grande potenza: la bomba a idrogeno (detta “bomba H” <20). L’evento venne celebrato come grande successo del socialismo, portando l’arsenale militare dell’URSS ad un potenziale distruttivo che arriva alla relativa parità con quello americano. Si aggiungeva poi il rafforzamento dell’ideologia comunista in Asia, dopo la fine della Guerra di Corea e l’affermazione della Cina di Mao Tse-tung.
Il 1955 fu l’anno in cui la Repubblica Federale Tedesca aderì al Patto Atlantico, e quindi alla Nato. Ma era anche l’anno in cui l’Est rispose con un’alleanza militare tra l’Unione Sovietica e i suoi paesi satellite (Bulgaria, Romania, Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia, Albania e Germania Orientale), costituendo così il “Patto di Varsavia” <21.
Il nuovo Segretario del PCUS, Nikita Chruščëv, al XX° Congresso del partito il 14 febbraio 1956, presentò un rapporto segreto in cui si denunciavano i crimini commessi da Stalin. Tale documento lasciava sperare che l’URSS si sarebbe aperta ad un processo di liberalizzazione e di distensione sul piano internazionale <22.
Nel frattempo, in Occidente venne fatto un altro passo a favore dell’integrazione europea. La conferenza di Messina, nel giugno del 1955 <23, avrebbe condotto alle firme dei Trattati di Roma e alla creazione del “Mercato Comune Europeo” (con l’approvazione degli americani) e della “Comunità Europea dell’Energia Atomica”, l’EURATOM.
Le prime tendenze riformatrici nei paesi dell’Est trovarono spazio in Polonia e soprattutto in Ungheria, dove, sotto il governo riformista di Imre Nagy, queste tendenze diventarono centrifughe. Nell’ottobre 1956 ci fu un primo intervento militare sovietico, tuttavia i movimenti di protesta ungheresi che ne seguirono richiederanno un’ulteriore azione dell’Armata Rossa, il successivo 4 novembre. La resistenza dei centri operai locali si fece accanita, ma non riuscirono comunque a fermare l’invasione, che provocherà 60.000 morti e la deposizione (e l’arresto) del Presidente Nagy <24 .
La Nazioni Unite questa volta si astenevano dall’intervenire nella questione ungherese, in quanto il rappresentante sovietico nel Consiglio di Sicurezza aveva opposto il suo veto. Contemporaneamente la situazione stava precipitando anche in Medio Oriente, dove dal luglio precedente il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, salito al potere con un colpo di Stato nel 1952 <25, aveva provveduto alla nazionalizzazione dell’antica Compagnia del Canale di Suez, colpendo
gli interessi degli azionisti e dei paesi occidentali. La mossa era stata un atto di ritorsione contro la promessa americana non mantenuta dei finanziamenti all’imponente progetto della diga di Assuan <26.
L’obiettivo di Nasser era modernizzare l’Egitto e rilanciarne il ruolo egemonico nell’area mediorientale. Il governo inglese, dopo mesi di inutili trattative, decise di intervenire militarmente per far cadere il dittatore egiziano. Trovò presto il sostegno del governo francese. Il 29 ottobre 1956 iniziò l’“Offensiva di Tsahal” <27. Ma presto si aprì una crisi interna all’Alleanza Atlantica, dato che l’amministrazione USA di Dwight “Ike” Eisenhower (divenuto presidente nel 1953 <28) disapprovava fortemente l’azione armata anglo-francese, portando al fallimento dell’operazione e il successivo ritiro delle truppe europee. La situazione in Medio Oriente tornò a quella pre-conflitto. La duplice crisi del 1956 aveva strutturato ulteriormente il “bipolarismo” internazionale, dato che nessuno dei maggiori attori poteva ormai inserirsi in modo attivo nella sfera d’influenza avversaria.
Le proteste americane per l’Ungheria e quelle sovietiche per Suez rientrarono infatti in tempi piuttosto rapidi <29.

[NOTE]19 Formigoni Guido, Storia d’Italia nella guerra fredda (1943-1978), Bologna, il Mulino, 2016, p. 200.
20 Banti Alberto Mario, L’età contemporanea: dalla grande guerra a oggi, Bari, Laterza, 2009, p. 275.
21 Banti Alberto Mario, L’età contemporanea: dalla grande guerra a oggi, Bari, Laterza, 2009, p. 266.
22 Giannuli Aldo, La strategia della tensione: servizi segreti, partiti, golpe falliti, terrore fascista, politica internazionale: un bilancio definitivo, Milano, Ponte alle Grazie, 2018, p. 37.
23 Varsori Antonio et al., La politica estera italiana nel secondo dopoguerra (1943-1957), Milano, LED, 1993, p. 357.
24 Giannuli Aldo, La strategia della tensione: servizi segreti, partiti, golpe falliti, terrore fascista, politica internazionale: un bilancio definitivo, Milano, Ponte alle Grazie, 2018, p. 37.
25 Banti Alberto Mario, L’età contemporanea: dalla grande guerra a oggi, Bari, Laterza, 2009, p. 286.
26 Formigoni Guido, Storia d’Italia nella guerra fredda (1943-1978), Bologna, il Mulino, 2016, p. 236.
27 Idem, p. 237. 28 Banti Alberto Mario, L’età contemporanea: dalla grande guerra a oggi, Bari, Laterza, 2009, p. 307.
29 Formigoni Guido, Storia d’Italia nella guerra fredda (1943-1978), Bologna, il Mulino, 2016, p. 242.
Daniele Pistolato, “Operazione Gladio”. L’esercito segreto della Nato e l’Estremismo Nero, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2023-2024

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#1953 #1955 #1956 #DanielePistolato #Egitto #Suez #Ungheria #URSS #USA




Neanche a farlo apposta, poco fa è passato da Bordighera un altro Intercity da cui hanno fatto suonare una sirena somigliante al gracchiare di un clacson di certe vecchie corriere di montagna...


Tornando a parlare di treni, mi viene in mente che c'è un locomotore che non sbuffa come una vaporiera né fa sferragliare il convoglio trainato come un tram, ma rumoreggia come un trattore: si tratta di quello messo in coda - ma per spingere - all'Intercity che arriva ogni mattina alle 6.45 in stazione a Bordighera, appena lasciata la linea elettrica "alla francese"...



Ed io di Pietrabruna (IM) oggi ho voglia di ricordare non la storia, pur importante, ma un dolce tipo la schiacciata, assaggiato tanti, tanti fa in casa di un simpatico amico...

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A maggio 1946 azioni partigiane lungo la tratta Carsoli-Colli di M. Bove bigarella.wordpress.com/2024/0…


Piana del Cavaliere (AQ). Foto: Marica Massaro. Fonte: Wikipedia
In contemporanea fin dalla fine di settembre [1943] furono avviate [da parte della Banda Madonna del Monte] le azioni di sabotaggio: «interruzioni periodiche di linee di comunicazione tedesche nella Piana del Cavaliere <1680; posa di chiodi conficcati in apposite stecche di legno lungo la S.S. n° 5; disarmati, scalzati e malmenati vari portaordini tedeschi» <1681; a cui va aggiunta la sottrazione di armi dalla locale stazione dei CC.RR. <1682.
Dal gennaio 1944 le attività del Camerlengo si concentrarono soprattutto lungo la Tiburtina Valeria su cui notte tempo si era intensificato il traffico notturno di autocolonne tedesche. Giunti in zona cinque paracadutisti inglesi <1683, li accompagnò in diversi sopralluoghi di ricognizione nella galleria di Monte Bove ed ai ponti stradali e ferroviari presso Carsoli <1684; quindi approfittando delle frequenti incursioni aree della RAF «in vigilanza sulla zona <1685» e coadiuvato anche da un numero crescente di patrioti, intensificò le azioni di disturbo e sabotaggio. In più occasioni, le ultime due macchine delle autocolonne tedesche furono fatte oggetto di colpi di arma da fuoco, mirati alle gomme o ai motori, Su precisa disposizione del Camerlengo non vennero mai colpiti soldati tedeschi <1686.
Al contempo il capobanda si adoperò nel tentativo di recuperare un apparecchio ricetrasmittente mediante cui stabilire un collegamento diretto con il Comando alleato: l’occasione propizia parve presentarsi all’abbattimento di un caccia tedesco monoposto ad opera dell’aviazione alleata. Arrivato sul luogo con altri e constatato che il pilota illeso si era già dileguato e che la radio era intatta, il Camerlengo ed un prigioniero tedesco avevano iniziato a smontarla mentre i compagni si occupavano di asportare le mitragliatrici dalle ali. A breve però sopraggiunse con il favore della notte una pattuglia tedesca e temendo l’accerchiamento, il gruppo fu costretto a dileguarsi <1687.
Nel marzo, a seguito della più massiccia presenza di pattuglie tedesche nelle campagne e montagne della zona, il Camerlengo, che ormai poteva contare su un buon numero di collaboratori, differenziò le azioni: ai sabotaggi condotti ancora contro le autocolonne tedesche si aggiunsero azioni di sorveglianza del territorio, infiltrazioni di patrioti – presentatisi come guide – nelle file nemiche così da deviarne il campo di ricognizione lungo sentieri lontani dai ricoveri dei prigionieri <1688, e successivamente anche azioni di depistaggio <1689 nei confronti di reggimenti tedeschi appiedati, strategicamente indirizzati lungo la strada verso Rieti dove era più probabile che fossero sorpresi dalla «luminaria della morte» <1690.
Nel maggio, con la sopraggiunta progressiva ritirata tedesca, fu possibile per il Camerlengo abbandonare la cautela fino ad ora utilizzata, per condurre infine azioni armate contro le retrovie nemiche <1691 lungo la tratta Carsoli-Colli di M. Bove <1692, riuscendo in un caso, complice una «forte pioggia», ad asportare da una carretta una cassa con tre mitragliatrici Breda , «senza che le due “mummie”, che chiudevano la colonna, passate ad un certo momento avanti con il conducente, si avvedessero di nulla» <1693. Nel frattanto nei paesi, la popolazione «cominciò a digrignare i denti» e così fascisti e repubblichini sbandati vennero regolarmente disarmati, e tedeschi razziatori «si sono visti presi a sassate e schioppettate e, inseguiti hanno dovuto rilasciare il bestiame catturato» <1694.
Agli inizi di giugno in località Mola Ferrari (piana del Cavaliere), il Camerlengo, che aveva asportato un fucile ed un rotolo di carte topografiche tedesche, fu inseguito e fatto oggetto di colpi di fucile da parte di un milite sbandato, che per fortuna non andarono a segno <1695. Diversa sorte quella toccata a Domenico Del Duca <1696 il 9 giugno: sorpreso ad asportare armi, fu crivellato dai colpi di pistola dai tedeschi. Del caduto, sfollato da Carsoli a Pereto in seguito al recente bombardamento della città, il Camerlengo raccontò: «Era un fegataccio antitedesco per la pelle che tante volte m’aveva chiesto di potermi accompagnare a fare “qualcosa contro quei vigliacchi e fetenti”. Io non avevo voluto accettarlo con me perché la mia diffidenza per i Carsolani si moltiplicò al cubo dopo la retata dei prigionieri alleati e di giovani italiani in Tufo per opera di spia proveniente forse da Carsoli <1697. Ho sbagliato nel giudicarlo da vivo. La morte che lo ha trovato con le armi in pugno contro i tedeschi che palesemente aveva sempre odiato, lo accomuna ai partigiani di tutte le bande d’Italia che hanno lottato per la n/s libertà![url=https://c.im/users/amorfati]»[/url] <1698.
Il Camerlengo, presentatosi quindi presso «il Comando Alleato di Arsoli», ricevette ordine scritto di guidare un drappello di una quindicina di paesani e un paio di prigionieri, in una spedizione contro una brigata nazifascista che, come da sue informazioni, occupava le alture di Villa Romana <1699. Giunti sul luogo, scoprirono che i tedeschi ne erano fuggiti da già qualche ora e quindi li inseguirono fin sui poggi di monte Sabinese <1700, dove provvidero nei giorni successivi al rastrellamento ed al disarmo di circa 15 cecoslovacchi ed alcuni tedeschi «autori di furti e rapine» <1701, consegnati a fine attività al Comando Alleato <1702.

[NOTE]1680 Sia telegrafiche che telefoniche. Cfr. ivi., sintesi dell’attività della banda.
1681 Ivi, relazione di Camerlengo Antonio.
1682 Entrarono nella Caserma «dai tetti per una finestra di dove pochi minuti prima erano riusciti a fuggire il brigadiere e due carabinieri (gli altri tre carabinieri, due dei quali, Sbaraglia e Pietrini, si dimostrarono in seguito zelantissimi nazi-fascisti, non avevano aderito la sera precedente al mio invito di disciogliere la caserma e mettere a mia disposizione le relative armi e munizioni)», ibidem. Il Parroco di Pereto don Felice Balla, testimone indiretto dell’azione, specificò che i patrioti penetrarono nella Caserma «passando dalla finestra del mio sacrestano e sui tetti», ivi, dichiarazione di don Balla del 13 febbraio 1947.
1683 Quattro paracadutisti al comando di un maresciallo. Cfr. ivi, relazione di Camerlengo Antonio.
1684 Cfr. ibidem.
1685 Ibidem.
1686 Cfr. ibidem.
1687 Cfr. ibidem.
1688 Cfr. ibidem.
1689 «Più di qualche volta sono riuscito a far bere delle grosse “balle” agli ufficiali d’alloggio che precedevano in macchina la truppa: dicevo che il bosco era stato scoperto dall’aviazione alleata che vi aveva fatto strage di “poveri camerati” fin dalla notte scorsa», ibidem.
1690 Ibidem.
1691 «[…] verso gli ultimi giorni dell’occupazione tedesca il tenente [Camerlengo Antonio] ed otto giovani s’erano appostati per massacrare i tedeschi che presidiavano Pereto. Fu per l’intervento del sottoscritto e specialmente di un nipote, anch’egli sacerdote che 18 tedeschi poterono partire incolumi da Pereto. L’intervento dei sacerdoti in quella occasione, fu determinato da desiderio di tutta la popolazione di non lanciare il paese nell’avventura di possibili rappresaglie proprio gli ultimi giorni della tirannia nazifascista», ivi, dichiarazione del Parroco di Pereto don Felice Balla del 13 febbraio 1947.
1692 Luogo di appostamento: tra il 175° e 76° km. da Roma. Cfr. ivi, relazione di Camerlengo Antonio.
1693 Ibidem.
1695 Banda Madonna del Monte, relazione di Camerlengo Antonio.
1696 Secondo il Laurenzi Carlo della banda Turanense, il Del Duca, fu ucciso «perché trovato in possesso di fucili mitragliatori che recava alla Banda Turanense oppure alla banda Madonna del Monte», ivi, Banda Turanense, elenco dei feriti. Il Del Duca prestò attività partigiana presumibilmente in entrambe le bande, ed al momento della compilazione del ruolino ambedue i comandanti ritennero erroneamente che fosse incluso nell’elenco dell’altro; quando il Laurenzi si rese conto dell’omissione, provvide ad inserirlo nel proprio elenco anche in considerazione del fatto che il Del Duca «ha lasciato la vedova e tre bambini in tristissime condizioni finanziarie», ibidem. In seguito a medesima iniziativa presa da Camerlengo Antonio, il Del Duca ottenne infine dalla Commissione Regionale Abruzzese il riconoscimento nella Madonna del Monte. «L’8 giugno 1944, durante le operazioni di ritirata dei tedeschi nel Carseolano, Domenico Del Duca viene colpito da una pallottola tedesca in località fonte Rio Secco. Purtroppo dai documenti rinvenuti non è stato possibile desumere con chiarezza la dinamica della morte», in Atlante Stragi: straginazifasciste.it/?page_id….
1697 Cfr. ACS, Ricompart, Abruzzo, Banda Liberty/Tufo di Carsoli.
1698 Ivi, Banda Madonna del Monte, relazione di Camerlengo Antonio.
1699 Cfr. ibidem. L’episodio è testimoniato anche dal Parroco di Porta Romana che dichiarò: «Quando verso la fine dell’occupazione tedesca elementi della retroguardia tedesca cominciarono a terrorizzare questa popolazione con atti di banditismo, alcuni di questi giovani di Villaromana [Villa Romana, frazione di Carsoli] andarono a chiedere aiuto a Pereto dove si sapeva che il detto tenente [il Camerlengo] aveva organizzato una piccola Banda di Partigiani», ivi, dichiarazione di don Scussa Giuseppe del 3 dicembre 1946.
1700 Cfr. ibidem e ivi, relazione di Camerlengo Antonio.
1701 Ivi, dichiarazione di don Giuseppe Scussa del 3 dicembre 1946.
1702 Cfr. ivi, relazione di Camerlengo Antonio.
Fabrizio Nocera, Le bande partigiane lungo la linea Gustav. Abruzzo e Molise nelle carte del Ricompart, Tesi di Dottorato, Università degli Studi del Molise, Anno Accademico 2017-2018

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Chissà se i vigili urbani (ah, già, oggi si deve dire addetti della Polizia Municipale) di Milano quel giorno di fine aprile 2019 erano davanti al Castello Sforzesco per quel servizio specifico o se si erano limitati guardare la sfilata della modella?

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Dopo la sconfitta delle sinistre nel ’48, la caccia al “nemico rosso” divenne un elemento centrale degli apparati di sicurezza interna bigarella.wordpress.com/2024/0…


La “guerra civile italiana” <38, espressione coniata da Claudio Pavone per descrivere la lotta che negli anni ’43-’45 vide i sanguinosi combattimenti tra lo schieramento repubblichino, da una parte, e la Resistenza italiana, dall’altra, lasciò ferite profonde e difficilmente sanabili nel tessuto sociale e politico della penisola. Ciò accadde, come hanno dimostrato studi recenti, non solo a causa dell’esperienza del brutale regime di occupazione nazionalsocialista <39, ma anche a causa natura stessa della “liberazione” alleata, che andò di pari passo con fenomeni come il cosiddetto moral bombing, determinando un pieno coinvolgimento della popolazione civile e connotando quindi la guerra civile italiana come una “guerra totale” <40. Mentre la battaglia antifascista aveva visto temporaneamente la cooperazione tra l’ala di sinistra della Resistenza italiana, gli Alleati e i partigiani anticomunisti, già agli albori del referendum costituzionale del 1946 emerse il divario che separava i partiti di sinistra, in particolar modo il PCI di Palmiro Togliatti, da quelli di centro e filo-statunitensi come la Democrazia Cristiana, guidata dal presidente del Consiglio Alcide de Gasperi. Dopo la fine della guerra fredda la storiografia – soprattutto quella italiana ma non solo – ha dedicato particolare attenzione all’insieme di elementi che, a partire dal 1945, avrebbero contribuito alla formazione della memoria collettiva italiana della seconda guerra mondiale <41. Tale processo di formazione della memoria italiana postbellica avrebbe comportato, da una parte, l’attribuzione esclusivamente alla Germania nazista della colpa delle atrocità commesse dalle forze dell’Asse durante il conflitto, dando vita al cosiddetto “mito del buon italiano” <42. D’altra parte, avrebbe condotto alla mistificazione e alla politicizzazione del fenomeno resistenziale <43. Si trattava di un racconto secondo cui la battaglia al nazismo e al fascismo sarebbe stata uno sforzo comune del popolo italiano nella sua totalità, offrendo dunque un’interpretazione estremamente parziale e riduttiva del quadro politico, sociale e ideologico in Italia durante gli ultimi anni di guerra. Il “mito della Resistenza” sarebbe stato fondamentale per le dinamiche politico-sociali italiane immediatamente successive al ’45 e, allo stesso tempo, avrebbe giocato un ruolo importante tanto nella formazione della memoria collettiva italiana della seconda guerra mondiale, quanto all’interno del processo di politicizzazione del fenomeno resistenziale. La suddetta narrazione della “Resistenza collettiva” fu inizialmente usata sia dai partiti di sinistra che dallo stesso De Gasperi <44, in quanto faceva appello all’intero popolo italiano ed era utile per gettare le basi per il “nuovo inizio” dell’Italia repubblicana. In tal senso, come ha sottolineato Pietro Scoppola, il suddetto mito «non riguarda il vissuto dei resistenti ma il richiamo alla Resistenza come scelta politica della nuova classe dirigente» <45. Infatti, secondo Scoppola, il “mito della Resistenza” ha avuto lo scopo politico di «separare le sorti dell’Italia sconfitta da quelle del fascismo, per riaccreditare l’immagine del paese di fronte alle potenze democratiche» e, inoltre, «è servito psicologicamente agli italiani, anche a quelli che alla Resistenza non avevano partecipato affatto, né materialmente né idealmente, per liberarsi dal complesso di colpa di aver dato il loro consenso al fascismo, per liberarsi dalla frustrazione di una guerra perduta, per sentirsi parte della comunità dei paesi democratici» <46. Il significato dell’utilizzo del “mito della Resistenza” nel contesto politico italiano risulta particolarmente significativo se si guarda agli anni 1946-1948 nella penisola. Poco dopo la fine della guerra, l’Italia dovette fare i conti con la realtà e chiedersi come sarebbe stato possibile conciliare i principi antifascisti della propria costituzione con una Realpolitik di ricostruzione postbellica. Mentre l’epurazione fascista fu senz’altro uno dei pilastri dell’iniziale politica non solo del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), ma anche del successivo governo De Gasperi, in Italia, al pari della Germania, l’epurazione “radicale” dovette infine cedere il passo alla reintegrazione, percepita come necessaria, di moltissimi individui precedentemente giudicati come “compromessi”. Già a partire dall’amnistia Togliatti del ’46, la nuova classe dirigente italiana palesò l’intenzione di voler “pacificare” il paese attraverso il rapido reintegro nella società di chi si era macchiato di crimini durante gli ultimi anni di guerra, fra cui anche collaborazionisti del regime d’occupazione nazionalsocialista <47; un trend che si sarebbe protratto, attraverso l’emanazione di varie amnistie e provvedimenti, fino alla metà degli anni Sessanta. Simili provvedimenti, uniti alla progressiva emarginazione delle sinistre dal governo, avrebbero anche portato alla nascita del concetto di “Resistenza tradita”, un’accusa rivolta direttamente contro la classe dirigente italiana postbellica, secondo cui le nuove politiche dell’Italia avrebbero “calpestato” i principi fondamentali della Resistenza, alla base della neonata Repubblica. La questione della continuità/discontinuità, come si vedrà, avrebbe avuto un profondo impatto anche sul mondo dell’intelligence italiana <48. Nel frattempo, il divario apertosi già a guerra finita fra i partiti di sinistra, soprattutto il PCI e il PSIUP/PSI, e la DC di De Gasperi continuò ad ampliarsi progressivamente sullo sfondo dell’inasprirsi delle tensioni tra URSS e USA. Particolarmente il PCI di Togliatti, direttamente legato a Mosca <49 e dotato di un’ampia base elettorale, finì ben presto nell’“occhio del ciclone” della politica anticomunista degasperiana, simbolicamente inaugurata dalla visita del presidente del Consiglio negli Stati Uniti nel gennaio del ’47. Un anno dopo, con il successo schiacciante della DC nei confronti del Fronte Popolare alle elezioni del ’48, si aprì in Italia un periodo che potrebbe definirsi di “guerra fredda nazionale”, che vide una progressiva polarizzazione in senso ideologico non solo della politica, ma anche di vari altri elementi della vita pubblica e privata. Se a ciò si aggiunge anche il già menzionato fattore della “epurazione parziale” e l’avvento di movimenti, organizzazioni e partiti neofascisti, come il Movimento Sociale Italiano, risulta chiaro perché l’intelligence statunitense avesse avvertito il caso italiano come “la tempesta perfetta”. Tuttavia, mentre l’intelligence italiana e filo-statunitense in generale poteva all’epoca tollerare la reintegrazione di ex uomini del regime fascista nei neonati servizi segreti italiani, in quanto portatori non solo di esperienza, ma anche di un forte orientamento anticomunista, non risultava tuttavia accettabile l’esistenza di un compatto fronte comunista e socialista in Italia e di eventuali gruppi estremisti armati e, potenzialmente, incontrollabili. Progressivamente, dopo la sconfitta delle sinistre nel ’48, la caccia al “nemico rosso” divenne un elemento centrale degli apparati di sicurezza interna, come nel caso del ministero dell’Interno guidato da Mario Scelba. Esso, al pari delle forze armate, fu uno degli organi statali dell’Italia postbellica che più avrebbe rispecchiato le conseguenze della “mancata Norimberga” italiana. Proprio la figura di Scelba, responsabile del nuovo servizio segreto del Viminale, cioè l’Ufficio Affari Riservati (UAR), nato nel ’48, fu emblematica per la «rottura tra Stato e Resistenza» <50. Egli, soprattutto all’interno del neonato UAR, impiegò, come si vedrà, un grande numero di uomini provenienti dalle file degli ex organi di sicurezza fascisti <51. Ben presto così il Viminale divenne uno dei principali tramiti dell’intelligence statunitense nella penisola. Rispetto al contesto tedesco, anche l’Italia, seppur secondo modalità del tutto diverse, visse dunque un “momento di svolta” per quanto riguarda la legittimazione e il rafforzamento dei propri servizi segreti. Nel caso della penisola tale momento è individuabile nel biennio ’48-’49, una fase estremamente “calda” degli inizi della guerra fredda. Il biennio vide, fra le altre cose, le già menzionate elezioni generali italiane, così come l’approvazione dell’ERP (European Recovery Program), il blocco di Berlino e, successivamente, la nascita delle due Germanie, nonché il test coronato dal successo della bomba atomica sovietica. Furono quindi gli anni in cui lo scontro bipolare mondiale iniziò ad affermarsi come vero e proprio sistema <52 e in cui l’Italia, fondamentale porta sul Mediterraneo e vicina ai paesi sotto influenza sovietica, acquistò un’importanza strategica del tutto nuova all’interno dello schieramento anticomunista. Di conseguenza non stupisce che il già menzionato servizio d’intelligence interno del Viminale, l’UAR, fosse nato proprio nel ’48. Nella primavera dell’anno successivo fu creato l’organo d’intelligence del ministero della Difesa, cioè il Servizio Informazioni Forze Armate (SIFAR), altro partner prezioso degli USA in Europa, soprattutto agli albori della “strategia della tensione” <53. La fondamentale differenza che distingue il caso italiano da quello tedesco, dal punto di vista del rapporto tra l’intelligence nazionale e quella alleata e soprattutto statunitense, è individuabile proprio nel grado di autonomia degli organi spionistici in questione. Nell’Italia postbellica la nascita dei suddetti servizi segreti nazionali avvenne certamente dietro approvazione degli Alleati occidentali e grazie al sostegno di questi ultimi, ma l’UAR e il SIFAR vennero posti sin dall’inizio sotto il controllo dei ministeri italiani e il loro rapporto con l’intelligence statunitense, di conseguenza, si configurò come collaborazione tra pari, piuttosto che come dipendenza. Nel caso della RFT solo il FWHD ebbe tale privilegio, mentre tutti gli altri servizi segreti nazionali, nati negli anni Cinquanta, iniziarono la propria attività sotto il controllo alleato. [NOTE] 38 C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991. 39 L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia: 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 2016. 40 M. Evangelista, Racism or common humanity? Depictions of Italian civilians under Allied war and occupation, in «Occupied Italy», N.1, 2021, URL: < occupieditaly.org/it/racism-or… > (sito consultato il 17 settembre 2021).
41 A tal proposito si possono citare, fra gli altri, T. Judt, The Past Is Another Country: Myth and Memory in Postwar Europe, in I. Déak, J.T. Gross, T. Just (a cura di), The Politics of Retribution in Europe. World War II and Its Aftermath, Princeton University Press, Princeton 2000, pp. 293-323; A. Rapini, Antifascismo e cittadinanza. Giovani, identità e memorie nell’Italia repubblicana, Bononia University Press, Bologna 2005; P. Cooke, The Legacy of the Italian Resistance, Palgrave MacMillan, New York 2011; F. Focardi, Il passato conteso. Transizione politica e guerra della memoria in Italia dalla crisi della prima Repubblica ad oggi, in F. Focardi, B. Groppo (a cura di), L’Europa e le sue memorie. Politiche e culture del ricordo dopo il 1989, Viella, Roma 2013, pp. 51-91.
42 F. Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 2016.
43 F. Focardi, Il passato conteso, cit.; S. Peli, La Resistenza in Italia: storia e critica, Einaudi, Torino 2004.
44 Come esempio si può citare il discorso di De Gasperi alla Conferenza di Parigi del 29 agosto 1946. Il video originale è reperibile al seguente link: URL youtube.com/watch?v=pBaPZT_QX9… (sito consultato il 24 settembre 2021).
45 P. Scoppola, 25 aprile. Liberazione, Einaudi, Torino 1995, p. 7.
46 Ibidem.
47 M. Franzinelli, L’Amnistia Togliatti. 22 giugno 1946: colpo di spugna sui crimini fascisti, Mondadori, Milano 2006.
48 L’elemento di continuità/discontinuità tra gli organi di sicurezza e di spionaggio interni del fascismo e dell’epoca postbellica emerge, fra gli altri, dai seguenti volumi: D. Conti, Gli uomini di Mussolini, cit.; M. Canali, Le spie del regime, cit.; V. Coco, Polizie speciali, cit.
49 A tal proposito cfr., fra gli altri, E. Aga Rossi, V. Zaslavskij, Togliatti e Stalin. Il PCI e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, Il Mulino, Bologna 1997.
50 D. Conti, Gli uomini di Mussolini, cit., p. 16.
51 Per un’analisi approfondita dell’UAR cfr. G. Pacini, Il cuore occulto del potere, cit.
52 J.L. Harper, La guerra fredda, cit.
53 Per il ruolo del SIFAR nella strategia statunitense anticomunista cfr. F. Cacciatore, Il nemico alle porte. Intervento americano in Europa e strategia di covert operation, 1943-1963, Tesi di dottorato non pubblicata, Università di Salerno 2021. Per un’analisi degli anni della “strategia della tensione”, fra gli altri, cfr. B. Armani, Italia anni settanta. Movimenti, violenza politica e lotta armata tra memoria e rappresentazione storiografica, in «Storica», 11 (2012), n. 32, pp. 41-82; A. Cento Bull, Italian Neofascism: The Strategy of Tension and the Politics of Nonreconciliation, Berghahn, Oxford 2007.
Sarah Anna-Maria Lias Ceide, ODEUM Roma. L’Organisation Gehlen in Italia agli inizi della guerra fredda (1946-1956), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Napoli “Federico II”, 2022

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Ripresa con la solita foschia estiva dall'alto di Colla Bassa, frazione di Airole, la media Valle del Bevera, che passa anche da Sospel, presenta un indubbio fascino, arricchito da memorie storiche di antica - ormai, per fortuna dell'ambiente, desueta - via di passaggio.

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Scendendo da Colla Bassa verso Airole si sentivano nell'aria voci gioiose di bambini. Ci voleva poco a immaginare che si trattava di giovani virgulti, felici di fare il bagno nel fiume Roia. In qualche adatta pozza... ma le foto sono di un'altra volta

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Eco e Gregotti ripresero l’impostazione del progetto mettendo in dubbio il concetto stesso di tempo libero adrianomaini.altervista.org/ec…



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