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Le carceri italiane, i «numeri» della sofferenza


Papa Francesco in visita al carcere di Regina Coeli, 17 aprile 2025 (Foto: Vatican Media)
Il carcere è stato l’ultimo luogo visitato da papa Francesco, un contesto dove ha voluto fortemente l’apertura di una Porta Santa, seconda solo a quella della Basilica di San Pietro, per inaugurare il Giubileo della Speranza. Ai detenuti, papa Francesco ha voluto fare visita il 17 aprile 2025, pochi giorni prima della sua morte, incontrandoli di persona nella Casa Circondariale di Regina Coeli. «Posso e voglio essere vicino a voi – da detto papa Francesco nel pomeriggio del Giovedì Santo -. Prego per voi e per le vostre famiglie».

Ai detenuti, infatti, papa Francesco aveva rivolto un pensiero anche nella Bolla d’indizione del Giubileo della Speranza, rivolgendo un appello alle istituzioni. «Nell’Anno giubilare saremo chiamati ad essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio – si legge nel testo -. Penso ai detenuti che, privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto. Propongo ai Governi che nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi».

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Un mondo, quello del sistema penitenziario italiano, che da tempo vive una condizione di difficoltà dovuta in primo luogo al sovraffollamento, come sottolinea il nuovo rapporto di Antigone – associazione italiana che si occupa del tema dal 1991 – presentato oggi a Roma. «Al 30 aprile 2025 erano 62.445 le persone detenute nelle carceri italiane. A fronte di queste presenze la capienza regolamentare è di 51.280 posti – si legge nel rapporto -, un dato addirittura in lieve calo rispetto alla fine del 2024, e dunque il tasso di affollamento ufficiale sarebbe del 121,8%. Però, i posti non disponibili per inagibilità o ristrutturazioni sono almeno 4.500, e dunque il tasso medio effettivo di affollamento è almeno del 133%». Secondo l’associazione, inoltre, negli ultimi due anni «la capienza effettiva è calata di 900 posti, mentre le presenze sono aumentate di oltre 5.000 unità». Una situazione di difficoltà diffusa su tutto il territorio nazionale, sottolinea il rapporto. «Delle 189 carceri italiane, quelle non sovraffollate sono ormai solo 36 – spiega l’associazione -, mentre quelle con un tasso di affollamento uguale o superiore al 150% sono ormai 58. A fine marzo 2023 erano 39».

Tra i tanti dati presentati nel rapporto, ne evidenziamo solo alcuni che mostrano un sistema in sofferenza in cui non mancano, però, alcuni segnali di speranza.

I giovani detenuti nelle carceri minorili italiane

Un dato di particolare interesse è quello che riguarda i 611 (di cui 27 ragazze) giovani detenuti nelle carceri minorili italiane al 30 aprile 2025. «Alla fine del 2022 le presenze erano 381 e alla fine del 2024 raggiungevano le 587 unità, con una crescita del 54% in due anni», sottolinea Antigone. Numeri che fanno registrare un sovraffollamento anche negli Istituti Penali per Minorenni. Secondo l’associazione, «ben 9 Istituti Penali per Minorenni sui 17 soffrono di sovraffollamento», un dato mai registrato prima nelle carceri minorili. «A Treviso si sfiora il doppio delle presenze rispetto ai posti disponibili – si legge nel rapporto -, il Beccaria di Milano e l’Ipm di Quartucciu a Cagliari hanno un tasso di affollamento del 150%, Firenze supera il 147%».

Suicidi in carcere. Il 2024 è l’anno con più morti di sempre

Secondo i dati raccolti da Antigone, inoltre, sono in aumento gli atti autolesivi e i tentati suicidi. «Nel 2024 l’autolesionismo è aumentato del 4,1% rispetto al 2023 – si legge nel rapporto -, mentre i tentati suicidi sono cresciuti addirittura del 9,3%». Il 2024, però, fa segnare anche un record negativo che mostra, in tutta la sua drammaticità, la sofferenza dei detenuti nel sistema penitenziario. «Nel 2024 sono stati almeno 91 i casi di suicidi commessi da persone private della libertà – spiega l’associazione -. Tra gennaio e maggio 2025, almeno 33. Il 2024 passa così alla storia come l’anno con più suicidi in carcere di sempre, superando addirittura il record del 2022 quando l’emergenza ha avuto inizio». I dati sui suicidi, spiega Antigone, provengono dal conteggio elaborato da Ristretti Orizzonti nel Dossier “morire di carcere”. Una fonte, spiega l’associazione, che tiene conto di decessi esclusi dal rilevamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, per ragioni spesso puramente formali (come i decessi avvenuti in ospedale dopo che la persona aveva commesso il gesto suicidario in carcere).

Che questi dati siano allarmanti lo dimostra anche la comparazione con il numero dei suicidi nella società esterna e quello dei suicidi in carcere a livello europeo. «Nel 2024 con 91 suicidi e una popolazione detenuta media di a 61.507 persone, tale tasso è pari a 14,8 casi ogni 10.000 persone detenute – si legge nel rapporto -. Secondo l’Istituto Superiore di Sanità, nel 2021 il tasso di suicidi in Italia era pari a 0,59 casi ogni 10.000 abitanti. Mettendo in relazione i due dati, vediamo come oggi in carcere ci si levi la vita ben 25 volte in più rispetto alla società esterna». Infine, secondo l’ultimo dossier del Consiglio d’Europa, «nel 2022 il tasso di suicidi nelle carceri italiane era più del doppio della media europea – spiega Antigone -: 15 casi ogni 10.000 persone detenute, a fronte di una media di 7,2 casi».

Aumentano le manifestazioni di protesta collettiva

Secondo i dati del Garante dei detenuti, riportati nel rapporto di Antigone, nel 2024 rispetto al 2023 gli scioperi della fame o della sete hanno registrato un aumento in termini assoluti del 35%; il rifiuto del vitto o delle terapie del 21%; l’astensione dalle attività del 7%; il rifiuto di rientrare nelle celle del 64% e gli atti turbativi dell’ordine e della sicurezza addirittura del 72%. «Anche le aggressioni tra persone detenute registrano una crescita pari al 7% e quelle commesse nei confronti del personale di polizia penitenziaria del 22%», si legge nel rapporto.

Le visite compiute dai volontari di Antigone in 95 istituti di pena italiani, inoltre, hanno messo in evidenza come in 30 istituti «c’erano celle in cui non erano garantiti 3 mq calpestabili per ogni persona. In 12 istituti c’erano celle senza riscaldamento e in 43 celle senza acqua calda. In 53 c’erano celle senza doccia e in 4 istituti nelle celle visitate il wc non si trovava in ambiente separato. In merito agli spazi comuni, in 40 istituti, pur essendoci una biblioteca, questa non è accessibile come spazio comune. In 4 istituti visitati su 95 non c’erano spazi esclusivamente dedicati alla scuola, 2 dei 4 erano case di reclusione. In 20 dei 95 istituti visitati non c’erano spazi per le lavorazioni. In 12 non vi erano spazi dedicati alla socialità all’interno delle sezioni detentive, mentre in 24 non vi erano aree di passeggi esclusive per ciascuna sezione detentiva».

Crescono le misure alternative e gli iscritti all’università

Un dato senza dubbio positivo è quello che riguarda le misure alternative al carcere. Secondo Antigone, sarebbero oltre 141mila i soggetti in carico presso gli Uffici di Esecuzione Penale Esterna (Uepe) al 15 marzo 2025. «Il complesso delle misure è aumentato del 3,8% rispetto alla fine del 2023 – si legge nel rapporto -. A questa crescita ha contribuito soprattutto l’Affidamento in prova al servizio sociale, che è cresciuto del 4,4%. Esponenziale l’aumento, del 142,6%, delle pene sostitutive. Si è passati da 2.638 soggetti in carico alla fine del 2023 a 6.028 nel 2024, fino ai 6.399 al 15 aprile 2025».

In lieve aumento anche il numero dei detenuti che lavorano. «Al 31 dicembre 2024, su un totale di 61.861 persone ristrette, 18.063 persone lavoravano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, circa il 29,2% del totale della popolazione detenuta. La maggior parte risultava impiegata in servizi d’istituto. Rispetto all’anno scorso si registra un lieve aumento (era alla fine del 2023 del 28,3%) – si legge nel rapporto -. Il 5,1% del totale della popolazione detenuta (3.172 persone ristrette) è composto da detenuti lavoranti alle dipendenze di altri datori di lavoro. Tra questi si conteggiano i semiliberi (1.123), i lavoratori all’esterno in art. 21 (898) e coloro che lavorano in istituto per conto di cooperative sociali (902). I detenuti che a quella data lavoravano in carcere per imprese private erano in tutta Italia 249».

Infine, mentre risulta stabile il numero dei detenuti che frequentano corsi scolastici, nell’ultimo anno si è registrato un aumento del 17% di iscrizioni all’università per quanto riguarda i detenuti italiani. «Il bilancio del monitoraggio svolto dalla Conferenza Nazionale dei Delegati dei Rettori per i Poli Universitari Penitenziari (Cnupp) sull’anno accademico 2023-2024 è il seguente: 1.707 studenti universitari iscritti (1.636 uomini e 71 donne); gli stranieri che decidono di intraprendere il percorso universitario sono 177 (166 uomini e 11 donne)».

«La speranza mai delude»

A poco più di un mese dalla scomparsa di papa Francesco, tornano alla mente le sue parole rivolte ai detenuti, pronunciate durante l’apertura della Porta Santa nel carcere di Rebibbia, il 26 dicembre 2024: «Non perdere la speranza. È questo il messaggio che voglio darvi; a tutti, a tutti noi. Io il primo. Tutti. Non perdere la speranza. La speranza mai delude». «Quando il cuore è chiuso diventa duro come una pietra; si dimentica della tenerezza. Anche nelle situazioni più difficili – ognuno di noi ha la propria, più facile, più difficile, penso a voi – sempre il cuore aperto; il cuore, che è proprio quello che ci fa fratelli». Parole che oggi, nel cuore dell’anno giubilare, rinnovano l’invito a far sì che, anche nelle situazioni di sofferenza, si possa far germogliare la speranza.

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Eventi | Disarmare. Voce del Verbo Amare



Sabato 7 gennaio 2025, alle ore 17.30, presso la sede de La Civiltà Cattolica a Roma (Villa Malta – Via di Porta Pinciana, 1) è in programma l’evento «Disarmare. Voce del Verbo Amare».

Angela Iantosca, giornalista e scrittrice – dopo il successo de «La Ventiduesima Donna», monologo teatrale che continua il suo tour e che è un viaggio nei suoi nove libri – torna in scena con un nuovo lavoro, «Disarmare. Voce del Verbo Amare. Ovvero Spogliare l’Informazione delle Armi», un testo che vuole sollecitare una riflessione sul giornalismo, sulle ‘S’ (Sesso, Sangue e Soldi, Sport, Salute e Share…) che troppo spesso sono la vera ispirazione per i giornalisti, sui titoli e la deontologia, sulla necessità di interrogarsi in merito alla direzione di un mestiere che rischia di far arretrare sulla battaglia dei diritti. Una riflessione che parte dal giornalismo e dalle parole di Papa Francesco pronunciate in occasione del Giubileo della Comunicazione, per arrivare agli esseri umani, Uomini e Donne, sollecitati a rispondere alla domanda delle domande: “Adamo (ed Eva) dove sei?”.

E allora le parole diventano volti: quello di Salvatore, un papà carcerato che conosce il cambiamento, quello di Hamza, vittima come tanti di conflitti senza senso capaci di produrre solo dolore e sofferenza, e di Maria e Domenico, madre e figlio vittime del Kanun in Albania. Storie incontrate dalla Iantosca nel suo percorso di giornalista e, prima di tutto, di essere umano, che prendono vita inchiodandoci di fronte alle nostre responsabilità, alla necessità di una narrazione che corrisponda a quella verità che prima di tutto deve essere dentro di noi.

Monologo di e con Angela Iantosca

Dialogheranno con l’autrice p. Claudio Zonta S. I., Scrittore de La Civiltà Cattolica e il prof. Francesco Proietti, docente di italiano dell’Istituto Massimo di Roma.

Ingresso libero fino a esaurimento posti – NO PARKING
Info: eventi@laciviltacattolica.it

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Leone XIV, le parole-chiave che indicano il cammino del Pontificato



«Una Chiesa unita, segno di unità e di comunione, che diventi fermento per un mondo riconciliato». È questo il «primo grande desiderio» che papa Leone XIV ha affidato ai partecipanti alla Celebrazione Eucaristica per l’inizio del Ministero Petrino lo scorso 18 maggio, in Piazza San Pietro. Nel corso della sua omelia, papa Leone XIV è tornato a parlare della sua elezione, sottolineando due parole chiave: amore e unità. «Sono stato scelto senza alcun merito e, con timore e tremore, vengo a voi come un fratello che vuole farsi servo della vostra fede e della vostra gioia, camminando con voi sulla via dell’amore di Dio, che ci vuole tutti uniti in un’unica famiglia. Amore e unità: queste sono le due dimensioni della missione affidata a Pietro da Gesù». In un tempo segnato da «troppa discordia, troppe ferite causate dall’odio, dalla violenza, dai pregiudizi, dalla paura del diverso, da un paradigma economico che sfrutta le risorse della Terra ed emargina i più poveri», ha detto Leone XIV, «noi vogliamo essere, dentro questa pasta, un piccolo lievito di unità, di comunione, di fraternità».

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Dalle prime omelie e dai suoi primi interventi, emerge con forza il cammino segnato dal nuovo Pontefice. In più di un’occasione, Leone XIV è tornato a parlare non solo delle sfide per la Chiesa, ma anche per l’intera umanità, a partire dai forti richiami al dialogo e alla pace, fino alla necessità di un nuovo discernimento sulla questione sociale, alle prese oggi con nuove e inedite sfide. Come ha ricordato lo scorso 17 maggio ai membri della Fondazione Centesimus Annus Pro Pontifice. «Già il Papa Leone XIII – vissuto in un periodo storico di epocali e dirompenti trasformazioni – aveva mirato a contribuire alla pace stimolando il dialogo sociale, tra il capitale e il lavoro, tra le tecnologie e l’intelligenza umana, tra le diverse culture politiche, tra le Nazioni – ha ricordato papa Leone XIV -. Papa Francesco ha usato il termine “policrisi” per evocare la drammaticità della congiuntura storica che stiamo vivendo, in cui convergono guerre, cambiamenti climatici, crescenti disuguaglianze, migrazioni forzate e contrastate, povertà stigmatizzata, innovazioni tecnologiche dirompenti, precarietà del lavoro e dei diritti. Su questioni di tanto rilievo la Dottrina Sociale della Chiesa è chiamata a fornire chiavi interpretative che pongano in dialogo scienza e coscienza, dando così un contributo fondamentale alla conoscenza, alla speranza e alla pace».

Papa Leone XIV ha poi ricordato come nel contesto della rivoluzione digitale in corso, «il mandato di educare al senso critico va riscoperto, esplicitato e coltivato, contrastando le tentazioni opposte, che possono attraversare anche il corpo ecclesiale – ha aggiunto -. C’è poco dialogo attorno a noi, e prevalgono le parole gridate, non di rado le fake news e le tesi irrazionali di pochi prepotenti. Fondamentali dunque sono l’approfondimento e lo studio, e ugualmente l’incontro e l’ascolto dei poveri, tesoro della Chiesa e dell’umanità, portatori di punti di vista scartati, ma indispensabili a vedere il mondo con gli occhi di Dio. Chi nasce e cresce lontano dai centri di potere non va semplicemente istruito nella Dottrina Sociale della Chiesa, ma riconosciuto come suo continuatore e attualizzatore: i testimoni di impegno sociale, i movimenti popolari e le diverse organizzazioni cattoliche dei lavoratori sono espressione delle periferie esistenziali in cui resiste e sempre germoglia la speranza. Vi raccomando di dare la parola ai poveri».

Nel corso dell’udienza al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, lo scorso 16 maggio, inoltre, papa Leone XIV ha sottolineato altre tre parole-chiave, che per il Pontefice «costituiscono i pilastri dell’azione missionaria della Chiesa e del lavoro della diplomazia della Santa Sede». La prima parola è pace. «Troppe volte la consideriamo una parola “negativa” – ha aggiunto il Papa -, ossia come mera assenza di guerra e di conflitto, poiché la contrapposizione è parte della natura umana e ci accompagna sempre, spingendoci troppo spesso a vivere in un costante “stato di conflitto”: in casa, al lavoro, nella società. La pace allora sembra una semplice tregua, un momento di riposo tra una contesa e l’altra, poiché, per quanto ci si sforzi, le tensioni sono sempre presenti, un po’ come la brace che cova sotto la cenere, pronta a riaccendersi in ogni momento».

La seconda parola è giustizia. «Perseguire la pace esige di praticare la giustizia – ha sottolineato Leone XIV -. Come ho già avuto modo di accennare, ho scelto il mio nome pensando anzitutto a Leone XIII, il Papa della prima grande enciclica sociale, la Rerum novarum. Nel cambiamento d’epoca che stiamo vivendo, la Santa Sede non può esimersi dal far sentire la propria voce dinanzi ai numerosi squilibri e alle ingiustizie che conducono, tra l’altro, a condizioni indegne di lavoro e a società sempre più frammentate e conflittuali. Occorre peraltro adoperarsi per porre rimedio alle disparità globali, che vedono opulenza e indigenza tracciare solchi profondi tra continenti, Paesi e anche all’interno di singole società». Inoltre, ha aggiunto il Santo Padre, «nessuno può esimersi dal favorire contesti in cui sia tutelata la dignità di ogni persona, specialmente di quelle più fragili e indifese, dal nascituro all’anziano, dal malato al disoccupato, sia esso cittadino o immigrato».

La terza parola-chiave sottolineata da papa Leone XIV è verità. «Non si possono costruire relazioni veramente pacifiche, anche in seno alla Comunità internazionale, senza verità – ha aggiunto Leone XIV -. Laddove le parole assumono connotati ambigui e ambivalenti e il mondo virtuale, con la sua mutata percezione del reale, prende il sopravvento senza controllo, è arduo costruire rapporti autentici, poiché vengono meno le premesse oggettive e reali della comunicazione. Da parte sua, la Chiesa non può mai esimersi dal dire la verità sull’uomo e sul mondo, ricorrendo quando necessario anche ad un linguaggio schietto, che può suscitare qualche iniziale incomprensione. La verità però non è mai disgiunta dalla carità, che alla radice ha sempre la preoccupazione per la vita e il bene di ogni uomo e donna». Nella prospettiva cristiana, ha proseguito papa Leone XIV, «la verità non è l’affermazione di principi astratti e disincarnati, ma l’incontro con la persona stessa di Cristo, che vive nella comunità dei credenti. Così la verità non ci allontana, anzi ci consente di affrontare con miglior vigore le sfide del nostro tempo, come le migrazioni, l’uso etico dell’intelligenza artificiale e la salvaguardia della nostra amata Terra. Sono sfide che richiedono l’impegno e la collaborazione di tutti, poiché nessuno può pensare di affrontarle da solo».

Nel suo discorso ai rappresentati di altre Chiese e comunità ecclesiali del 19 maggio, papa Leone XIV è tornato poi a parlare di ponti, un’immagine già richiamata nel suo primo intervento da Pontefice subito dopo l’elezione. «Il nostro cammino comune può e deve essere inteso anche in un senso largo, che coinvolge tutti, nello spirito di fraternità umana a cui accennavo sopra. Oggi è tempo di dialogare e di costruire ponti – ha detto Leone XIV il 19 maggio -. E pertanto sono lieto e riconoscente per la presenza dei Rappresentanti di altre tradizioni religiose, che condividono la ricerca di Dio e della sua volontà, che è sempre e solo volontà d’amore e di vita per gli uomini e le donne e per tutte le creature».

Un ulteriore spunto programmatico arriva dal discorso del Santo Padre ai partecipanti del Giubileo delle Chiese Orientali, dove invita a «guardarsi negli occhi» per superare le divisioni e costruire una pace duratura.«La pace di Cristo non è il silenzio tombale dopo il conflitto, non è il risultato della sopraffazione, ma è un dono che guarda alle persone e ne riattiva la vita», ha sottolineato papa Leone XIV. «Perché questa pace si diffonda, io impiegherò ogni sforzo. La Santa Sede è a disposizione perché i nemici si incontrino e si guardino negli occhi, perché ai popoli sia restituita una speranza e sia ridata la dignità che meritano, la dignità della pace. I popoli vogliono la pace e io, col cuore in mano, dico ai responsabili dei popoli: incontriamoci, dialoghiamo, negoziamo! La guerra non è mai inevitabile, le armi possono e devono tacere, perché non risolvono i problemi ma li aumentano; perché passerà alla storia chi seminerà pace, non chi mieterà vittime; perché gli altri non sono anzitutto nemici, ma esseri umani: non cattivi da odiare, ma persone con cui parlare». E infine, da papa Leone XIV l’inesauribile appello alla pace, come già fatto durante l’incontro con i rappresentanti dei media e giornalisti nell’Aula Paolo VI il 12 maggio corso,: «La Chiesa non si stancherà di ripetere: tacciano le armi».

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«Una Chiesa unita, segno di unità e di comunione, che diventi fermento per un mondo riconciliato». È questo il «primo grande desiderio» che papa Leone XIV ha affidato ai partecipanti alla Celebrazione Eucaristica per l’inizio del Ministero Petrino lo scorso 18 maggio, in Piazza San Pietro. Nel corso della sua omelia, papa Leone XIV è tornato a parlare della sua elezione, sottolineando due parole chiave: amore e unità. «Sono stato scelto senza alcun merito e, con timore e tremore, vengo a voi come un fratello che vuole farsi servo della vostra fede e della vostra gioia, camminando con voi sulla via dell’amore di Dio, che ci vuole tutti uniti in un’unica famiglia. Amore e unità: queste sono le due dimensioni della missione affidata a Pietro da Gesù». In un tempo segnato da «troppa discordia, troppe ferite causate dall’odio, dalla violenza, dai pregiudizi, dalla paura del diverso, da un paradigma economico che sfrutta le risorse della Terra ed emargina i più poveri», ha detto Leone XIV, «noi vogliamo essere, dentro questa pasta, un piccolo lievito di unità, di comunione, di fraternità».

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Papa Leone XIV ha poi ricordato come nel contesto della rivoluzione digitale in corso, «il mandato di educare al senso critico va riscoperto, esplicitato e coltivato, contrastando le tentazioni opposte, che possono attraversare anche il corpo ecclesiale – ha aggiunto -. C’è poco dialogo attorno a noi, e prevalgono le parole gridate, non di rado le fake news e le tesi irrazionali di pochi prepotenti. Fondamentali dunque sono l’approfondimento e lo studio, e ugualmente l’incontro e l’ascolto dei poveri, tesoro della Chiesa e dell’umanità, portatori di punti di vista scartati, ma indispensabili a vedere il mondo con gli occhi di Dio. Chi nasce e cresce lontano dai centri di potere non va semplicemente istruito nella Dottrina Sociale della Chiesa, ma riconosciuto come suo continuatore e attualizzatore: i testimoni di impegno sociale, i movimenti popolari e le diverse organizzazioni cattoliche dei lavoratori sono espressione delle periferie esistenziali in cui resiste e sempre germoglia la speranza. Vi raccomando di dare la parola ai poveri».

Nel corso dell’udienza al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, lo scorso 16 maggio, inoltre, papa Leone XIV ha sottolineato altre tre parole-chiave, che per il Pontefice «costituiscono i pilastri dell’azione missionaria della Chiesa e del lavoro della diplomazia della Santa Sede». La prima parola è pace. «Troppe volte la consideriamo una parola “negativa” – ha aggiunto il Papa -, ossia come mera assenza di guerra e di conflitto, poiché la contrapposizione è parte della natura umana e ci accompagna sempre, spingendoci troppo spesso a vivere in un costante “stato di conflitto”: in casa, al lavoro, nella società. La pace allora sembra una semplice tregua, un momento di riposo tra una contesa e l’altra, poiché, per quanto ci si sforzi, le tensioni sono sempre presenti, un po’ come la brace che cova sotto la cenere, pronta a riaccendersi in ogni momento».

La seconda parola è giustizia. «Perseguire la pace esige di praticare la giustizia – ha sottolineato Leone XIV -. Come ho già avuto modo di accennare, ho scelto il mio nome pensando anzitutto a Leone XIII, il Papa della prima grande enciclica sociale, la Rerum novarum. Nel cambiamento d’epoca che stiamo vivendo, la Santa Sede non può esimersi dal far sentire la propria voce dinanzi ai numerosi squilibri e alle ingiustizie che conducono, tra l’altro, a condizioni indegne di lavoro e a società sempre più frammentate e conflittuali. Occorre peraltro adoperarsi per porre rimedio alle disparità globali, che vedono opulenza e indigenza tracciare solchi profondi tra continenti, Paesi e anche all’interno di singole società». Inoltre, ha aggiunto il Santo Padre, «nessuno può esimersi dal favorire contesti in cui sia tutelata la dignità di ogni persona, specialmente di quelle più fragili e indifese, dal nascituro all’anziano, dal malato al disoccupato, sia esso cittadino o immigrato».

La terza parola-chiave sottolineata da papa Leone XIV è verità. «Non si possono costruire relazioni veramente pacifiche, anche in seno alla Comunità internazionale, senza verità – ha aggiunto Leone XIV -. Laddove le parole assumono connotati ambigui e ambivalenti e il mondo virtuale, con la sua mutata percezione del reale, prende il sopravvento senza controllo, è arduo costruire rapporti autentici, poiché vengono meno le premesse oggettive e reali della comunicazione. Da parte sua, la Chiesa non può mai esimersi dal dire la verità sull’uomo e sul mondo, ricorrendo quando necessario anche ad un linguaggio schietto, che può suscitare qualche iniziale incomprensione. La verità però non è mai disgiunta dalla carità, che alla radice ha sempre la preoccupazione per la vita e il bene di ogni uomo e donna». Nella prospettiva cristiana, ha proseguito papa Leone XIV, «la verità non è l’affermazione di principi astratti e disincarnati, ma l’incontro con la persona stessa di Cristo, che vive nella comunità dei credenti. Così la verità non ci allontana, anzi ci consente di affrontare con miglior vigore le sfide del nostro tempo, come le migrazioni, l’uso etico dell’intelligenza artificiale e la salvaguardia della nostra amata Terra. Sono sfide che richiedono l’impegno e la collaborazione di tutti, poiché nessuno può pensare di affrontarle da solo».

Nel suo discorso ai rappresentati di altre Chiese e comunità ecclesiali del 19 maggio, papa Leone XIV è tornato poi a parlare di ponti, un’immagine già richiamata nel suo primo intervento da Pontefice subito dopo l’elezione. «Il nostro cammino comune può e deve essere inteso anche in un senso largo, che coinvolge tutti, nello spirito di fraternità umana a cui accennavo sopra. Oggi è tempo di dialogare e di costruire ponti – ha detto Leone XIV il 19 maggio -. E pertanto sono lieto e riconoscente per la presenza dei Rappresentanti di altre tradizioni religiose, che condividono la ricerca di Dio e della sua volontà, che è sempre e solo volontà d’amore e di vita per gli uomini e le donne e per tutte le creature».

Un ulteriore spunto programmatico arriva dal discorso del Santo Padre ai partecipanti del Giubileo delle Chiese Orientali, dove invita a «guardarsi negli occhi» per superare le divisioni e costruire una pace duratura.«La pace di Cristo non è il silenzio tombale dopo il conflitto, non è il risultato della sopraffazione, ma è un dono che guarda alle persone e ne riattiva la vita», ha sottolineato papa Leone XIV. «Perché questa pace si diffonda, io impiegherò ogni sforzo. La Santa Sede è a disposizione perché i nemici si incontrino e si guardino negli occhi, perché ai popoli sia restituita una speranza e sia ridata la dignità che meritano, la dignità della pace. I popoli vogliono la pace e io, col cuore in mano, dico ai responsabili dei popoli: incontriamoci, dialoghiamo, negoziamo! La guerra non è mai inevitabile, le armi possono e devono tacere, perché non risolvono i problemi ma li aumentano; perché passerà alla storia chi seminerà pace, non chi mieterà vittime; perché gli altri non sono anzitutto nemici, ma esseri umani: non cattivi da odiare, ma persone con cui parlare». E infine, da papa Leone XIV l’inesauribile appello alla pace, come già fatto durante l’incontro con i rappresentanti dei media e giornalisti nell’Aula Paolo VI il 12 maggio corso,: «La Chiesa non si stancherà di ripetere: tacciano le armi».

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«L’uomo vuole lodarti»



Le Confessioni di sant’Agostino[sup]1[/sup] si aprono con un prologo (I 1-5), che potrebbe essere considerato una sorta di «principio e fondamento», per usare il linguaggio degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola[sup]2[/sup]. Cercheremo di rileggere questo testo agostiniano proprio alla luce del testo ignaziano, non per trovarvi corrispondenze forzate, ma per farne un commento spirituale, cioè nella prospettiva dell’esperienza di Dio proposta dall’itinerario degli Esercizi[sup]3[/sup].

Creato per la lode


Agostino inizia con alcune espressioni tratte dai Salmi, che inneggiano alla grandezza e alla sapienza di Dio: «Tu sei grande, Signore, e molto degno di lode (cfr Sal 47[48],2; 95[96],4; 144[145],3); grande è la tua potenza, e la tua sapienza non si può misurare (cfr Sal 146[147],5)». Mentre però il testo biblico usa la terza persona singolare («Grande è il Signore…»), Agostino pone la seconda, dove risuona il «tu» del dialogo e della preghiera. Siamo già introdotti in un clima orante, che sarà quello di tutte le Confessioni. Dio non è qui l’«essere immutabile» della speculazione astratta, ma il partner della lode dell’uomo, una lode che prende l’avvio dalla parola stessa di Dio.

L’uomo dunque sente in sé questa volontà di dare lode a Dio («l’uomo vuole lodarti»). Ma chi è l’uomo? «Una piccola parte della tua creazione, l’uomo, che porta con sé il suo destino di morte, che porta con sé la testimonianza del suo peccato e la testimonianza che tu ti opponi ai superbi (superbis resistis)» (I 1, 1). Agostino non si sofferma su una definizione filosofica dell’uomo, ma va diritto alla sua condizione esistenziale e teologale: davanti a se stesso, l’uomo non è che una piccolissima parte della creazione e un essere segnato dal proprio destino mortale; davanti a Dio, l’uomo è in una situazione di peccato, che consiste essenzialmente in una presuntuosa superbia, in quell’autoesaltazione che blocca la comunicazione della grazia divina (allusione a 1 Pt 5,5 e Gc 4,6: «Dio si oppone ai superbi [superbis resistit], ma dà la sua grazia agli umili»)[sup]4[/sup].

E tuttavia l’inclinazione sterile all’autoesaltazione non può cancellare il progetto originario di Dio, iscritto nell’essere stesso creaturale dell’uomo: un progetto che è essenzialmente apertura all’Altro, gioia di lodare l’Altro, di sapersi creato per l’Altro: «E tuttavia l’uomo, piccola parte della tua creazione, vuole lodarti. Tu lo risvegli (excitas)[sup]5[/sup], perché egli trovi la sua gioia nel lodarti. Sì, ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto finché non trova quiete in te» (I 1, 1)[sup]6[/sup].

Il richiamo di Dio viene dunque dal più profondo dell’essere umano; non è un elemento aggiuntivo, quasi un optional, di cui l’uomo potrebbe anche fare a meno. In quel cor inquietum c’è tutto il tormento esistenziale di chi vorrebbe realizzarsi senza Dio, ma non ci riesce perché non ci potrà mai riuscire. Se l’uomo è stato fatto per Dio, vuol dire che non una creatura, non il mondo intero, ma soltanto Dio è l’oggetto proporzionato del suo desiderio di felicità. Agostino qui invita non a fare speculazioni, ma un’esperienza, quella del passaggio dall’«inquietudine» — che l’uomo prova quando si getta sulle creature considerate come fine[sup]7[/sup] — alla «quiete» del cuore che ha trovato Dio. È l’esperienza di un godimento (delectatio) interiore, superiore a qualsiasi godimento di beni creati[sup]8[/sup].

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«Ti invoca la mia fede»


Agostino si chiede poi se si possa iniziare subito con la lode a Dio o se ci sia bisogno prima d’invocarlo. L’invocazione però suppone la conoscenza: «Come potrebbe invocarti chi non ti conosce? O forse non si deve piuttosto invocarti per conoscerti?» (I 1, 1). Il discorso sembra perdersi in un circolo vizioso, all’interno di una soggettività che non riesce a trovare un adeguato punto di partenza, un principium su cui appoggiarsi.

Il circolo si spezza solamente accogliendo la parola della fede, suscitata dall’annuncio, secondo il testo di Rm 10,14: «Come potranno invocarlo senza prima aver creduto in lui? E come potranno credere […] senza uno che l’annunci?» (I 1, 1). Bisogna dunque partire dall’annuncio, cioè dalla parola di Dio. Tutte le altre operazioni — cercare Dio, invocarlo, lodarlo — non sono che conseguenze della fede, quella giunta a noi attraverso l’incarnazione del Figlio di Dio: «Ti cercherò, Signore, invocandoti e ti invocherò credendo in te: infatti ci è giunta la buona notizia di te. ti invoca, Signore, la mia fede, quella che tu mi hai dato e ispirato mediante il tuo Figlio fatto uomo, mediante il mistero di colui che ti ha fatto conoscere» (I 1, 1).

Agostino non esita a ricorrere al principio oggettivo dell’annuncio, che ha la sua origine nel Figlio di Dio fatto uomo. Così dalla predicazione viene il dono della fede, che è fede orante, invocante (invocat te fides mea); l’invocazione è ricerca, e chi cerca il Signore lo trova, e chi lo trova lo loda. L’uomo, fatto per la lode di Dio, non può raggiungere questo «Tu» che dà riposo al suo cuore inquieto, se non nella fede in Cristo, rivelatore e annunciatore del Padre. Questo riferimento cristologico è estremamente importante, perché Agostino sa che non vi può rinunciare, neanche con il pretesto (o illusione) di rendere la via a Dio più universale.

Immanenza e trascendenza


Ma che senso ha invocare Dio? Letteralmente «in-vocare» significa «chiamare» qualcuno a «venire», colmando così una distanza e un’assenza. Ora questa immagine spaziale si rivela inadeguata se riferita a Dio: «C’è un posto in me, — si chiede Agostino — dove possa venire in me il mio Dio?» (I 2, 1). La preposizione «in» indica uno spazio delimitato da un contenente. Ma esiste forse un luogo dove Dio non sia già presente e che sia in grado di contenerlo? Non è lui che ha «fatto il cielo e la terra»? Dio dunque è già in me, perché è in tutte le cose, le quali non esisterebbero se non fossero in Dio. Anche negli «inferi», cioè nel luogo dei morti secondo la concezione antica — lo sheòl della Bibbia — Dio è presente[sup]9[/sup]. Ecco allora che l’in me si rovescia nell’in te: «Io non esisterei, Dio mio, non sarei nulla, se tu non fossi in me: O meglio, non esisterei, se non fossi in te, poiché tutto è da te, tutto per te, tutto in te» (I 2, 2)[sup]10[/sup].

La lontananza da Dio è allora un’illusione? «Da dove dunque ti invoco, se sono in te? O da dove tu verresti in me?» (I 2, 2). Agostino cerca di scrutare il mistero dell’immanenza e della trascendenza divina. Dio «riempie», «contiene» il cielo e la terra, cioè tutto ciò che esiste, ma non come una sostanza materiale, racchiusa in un contenitore e divisibile in parti. Infatti Dio è «tutto dappertutto» (ubique totus) [= immanenza], eppure «nessuna cosa ti può contenere tutto (te totum capit) [= trascendenza]» (I 3, 2)[sup]11[/sup]. Questo è il paradosso. Perciò non è Dio che ha bisogno del mondo per essere contenuto, ma è il mondo che ha bisogno di Dio per essere riempito. «Non sono i contenitori (vasa), pieni di te, a renderti stabile, perché anche se si rompono, tu non vai versato. E quando tu ti versi su di noi, non sei tu che ti abbassi, ma innalzi noi, non tu ti disperdi, ma noi raccogli» (I 3, 1). È chiara qui l’allusione al mistero salvifico, cioè a quel legame d’amore che Dio ha voluto porre con la sua creatura e che si è manifestato nell’«abbassamento» dell’incarnazione e nella croce di Cristo (il sangue «versato» per noi). In questo reale abbassamento, Dio non ha perso qualcosa, non è caduto in un’alienazione, ma è la creatura che è stata elevata e risanata.

«Che cos’è dunque il mio Dio?»


Il mistero della trascendenza e immanenza di Dio va dunque considerato, per Agostino, non semplicemente secondo un a priori astratto, e quindi estremamente riduttivo, ma va riempito con i contenuti ricavati dalla rivelazione biblica. Ne esce una specie di «inno teologico», da leggersi non in chiave puramente filosofica, ma tenendo conto del retroterra biblico:

Che cosa è dunque il mio Dio?

Che cos’è, mi chiedo, se non il Signore Dio?

Chi infatti è il Signore se non il Signore?

O chi è Dio se non il nostro Dio?[sup]12[/sup]

Sommo, ottimo,

potentissimo, onnipotentissimo,

misericordiosissimo e giustissimo[sup]13[/sup],

lontanissimo e presentissimo[sup]14[/sup],

bellissimo e fortissimo,

stabile e inafferrabile,

immutabile che tutto muti[sup]15[/sup],

mai nuovo, mai vecchio;

tutto rinnovi[sup]16[/sup] e fai invecchiare i superbi senza che lo sappiano;[sup]17[/sup]

sempre attivo, sempre in riposo;

raccogli, ma non hai bisogno di nulla;

porti, riempi e proteggi [tutto],

crei, nutri e porti a compimento [ogni cosa];

chiedi, mentre nulla ti manca;

ami senza bruciare di passione,

sei geloso[sup]18[/sup] ma resti tranquillo,

ti dispiaci[sup]19[/sup]ma non provi dolore,

ti adiri[sup]20[/sup] ma rimani calmo,

cambi le opere ma non il progetto[sup]21[/sup],

riprendi ciò che trovi e mai perdesti[sup]22[/sup];

mai indigente, sei contento di guadagnare,

mai avaro, esigi gli interessi[sup]23[/sup];

accetti che si spenda di più per te, per poter rifondere[sup]24[/sup],

ma chi possiede qualcosa che non sia tuo?[sup]25[/sup]

Paghi i debiti senza dover nulla a nessuno[sup]26[/sup],

condoni i debiti[sup]27[/sup] senza perdere niente» (I 4, 1-2)[sup]28[/sup].

I superlativi, ma più ancora la congiunzione degli opposti attributi, esprime l’inesprimibile mistero di Dio. Tutto quello che diciamo di lui, per quanto ci sforziamo di usare tutte le risposte del linguaggio, rimane sempre inadeguato. La Scrittura stessa, con le sue molteplici e contrapposte immagini, lo attesta: «Che cosa ho mai detto, Dio mio, vita mia, dolcezza mia santa? O che cosa dice uno, quando parla di te?» (I 4, 2). Non sarebbe allora il silenzio l’atteggiamento più adeguato? Agostino qui si pone appena la domanda e lascia intravedere la risposta. Sì, se il silenzio è suscitato e portato dalla parola; no, se è il silenzio muto, senza parola[sup]29[/sup]; «Guai a quelli che tacciono di te, se persino chi parla molto [di te] è come se fosse muto!» (I 4, 2)[sup]30[/sup].

L’incontro con Dio-Signore


Agostino ha considerato il mistero di Dio nella sua trascendenza e immanenza. Se Dio fosse solanto il trascendente, il totalmente altro, sarebbe assolutamente inaccessibile e non avrebbe senso invocarlo. Se, al contrario, egli fosse totalmente immanente, si confonderebbe con il mondo e con l’io, e il dialogo con lui sarebbe in realtà solo un parlare a se stessi[sup]31[/sup]. Perciò Agostino privilegia il «colloquio», dove non c’è fusione — o confusione —, ma spazio per un sempre nuovo incontro, fatto di rispetto e riverenza, ma insieme di familiarità: «Chi mi farà riposare in te? Chi farà sì che tu venga nel mio cuore a inebriarlo? Così dimenticherei i miei mali e abbraccerei te, il mio unico bene» (I 5, 1).

Già presente in tutte le cose come Creatore — e qui non c’è scelta, perché l’alternativa sarebbe il nulla —, Dio può essere ancora invocato e desiderato dall’uomo per un incontro di grazia, liberamente scelto e desiderato da entrambe le parti[sup]32[/sup]. In effetti, non soltanto l’uomo cerca Dio, ma, prima ancora, Dio cerca l’uomo: «Che cosa sei per me? […] E che cosa sono io per te? Tu esigi di essere amato da me, e se non lo faccio ti adiri con me e minacci gravi sventure, come se il non amarti non fosse già la sventura più grave di tutte!» (I 5, 1).

Dio ha già fatto la sua scelta, ora tocca all’uomo trovare in Dio «l’unico bene», pena il suo stesso fallimento, la sua stessa «perdizione». Agostino è consapevole che questo passo non può essere fatto senza la grazia (miseratio) di Dio stesso, senza che egli si riveli come «Salvatore», cioè come «salvezza» o, più letteralmente, «salute» di un’anima malata: «Oh, dimmi, per la tua misericordia, Signore Dio mio, che cosa sei per me. Di’ all’anima mia: sono io la tua salvezza (Sal 34,3). Dillo in modo che io senta! Ecco le orecchie del mio cuore sono davanti a te, Signore: àprile, e di’ all’anima mia: sono io la tua salvezza. Correrò dietro questa voce e ti raggiungerò. Non nascondermi il tuo volto[sup]33[/sup]: possa io morire per non morire, e così vederlo!» (I 5, 1)[sup]34[/sup].

Quando una persona umana, risvegliata dalla grazia, fa la scelta di Dio come fine e senso della propria esistenza, riscopre tutte le sue potenzialità naturali di amore, desiderio, unione. Riscopre se stessa, ma nello stesso tempo si accorge che questa «struttura» naturale — il suo cuore, la sua casa — è mal ridotta. La preghiera allora diventa un «consegnare le chiavi», un darsi nelle mani di colui che, avendo creato, può ri-creare e restaurare: «Stretta è la casa della mia anima perché tu possa entrarvi: dilatala. Cade in rovina: restaurala. Contiene alcune cose che offendono i tuoi occhi, lo confesso e lo so. Ma chi potrà purificarla? A chi altri griderò, se non a te?» (I 5, 2).

Invitare Dio nella propria casa — nel proprio cuore — significa accettare di fare la verità («Tu sei la Verità») e di non mentire più a se stessi. Il peccato infatti cerca sempre di giustificarsi con la menzogna (ne mentiatur iniquitas mea sibi), anche davanti a Dio: di questa pseudo-religione, Agostino non vuole più saperne, perché è ancora un camuffamento dell’io superbo. «Quindi non disputo con te in giudizio» (I 5, 2). Se Agostino prende la parola davanti a Dio non è più per giustificarsi, ma per accusare se stesso dei propri peccati. Fatta davanti alla misericordia divina, questa autoaccusa nella verità — ridicola agli occhi umani — conduce invece all’assoluzione: «E tu hai assolto l’empietà del mio cuore» (I 5, 2).

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Conclusione


Il prologo delle Confessioni ci pone subito davanti al mistero di Dio e al mistero dell’uomo, come a due facce di un unico mistero: chi sei tu Signore? E chi sono io? L’uomo si riconosce creatura mortale, ma fatto per Dio; per cui nessuna creatura, ma solamente Dio è il fine che può appagare il desiderio infinito che c’è nell’essere umano. Come Creatore, certamente Dio è in tutte le cose e tutte le cose sono in Dio. L’uomo però ha la singolare vocazione e capacità di poter scegliere Dio come senso e fine della propria vita, come quel Bene al quale congiungersi inseparabilmente e così trovare la salvezza.

Ma che cosa diciamo quando parliamo di Dio? Agostino è come smarrito di fronte alla inadeguatezza del linguaggio umano — anche quello ispirato delle Scritture —, chiamato a esprimere qualcosa che non può «comprendere», perché lo trascende[sup]35[/sup]. L’uomo dunque dovrebbe doppiamente tacere davanti a Dio: primo perché è creatura, secondo perché è peccatore. E tuttavia, proprio il riconoscere l’una e l’altra realtà rivela il volto di Dio, che è misericordia[sup]36[/sup].

La parola perde così, almeno in parte, la sua inadeguatezza, perché è suscitata dalla fede: «Credo, e perciò anche parlo (cfr Sal 115[116],10; 2 Cor 4,13)» (I 5, 2). È una parola che è passata, mediante la fede, sotto il giogo di Cristo, la «via» attraverso cui Dio si è «abbassato», è venuto a noi e attraverso la quale anche noi, abbassando il nostro orgoglio, possiamo andare a lui. Sembra «stretta» questa via, ma è quella che sconvolge i pensieri dell’uomo su Dio, è quella che «salva» l’uomo, liberandolo dalla menzogna del peccato e liberando in lui il canto della lode.

Il clima orante nel quale Agostino immerge tutte queste riflessioni fa sì che le pagine introduttive delle Confessioni possano essere utilmente proposte, a nostro avviso, all’inizio di un cammino di «esercizi spirituali», come una sorta di «principio e fondamento», che si apre naturalmente sui grandi temi della «Prima settimana» (peccato e misericordia)[sup]37[/sup]. Il grande vescovo di Ippona ha il pregio, raro ai nostri tempi, di saper congiungere il rigore del pensiero con una intensa spiritualità affettiva[sup]38[/sup]. Non sono forse queste le qualità che ritroviamo negli Esercizi spirituali di Ignazio?

***

1 Cfr S. AGOSTINO, Le Confessioni, testo latino dell’edizione di M. SKUTELLA, riveduto da M. PELLEGRINO, traduzione e note di C. CARENA, Roma, Città Nuova, 19753. Qui seguiremo una nostra traduzione.

2 S. IGNAZIO DI LOYOLA, Esercizi spirituali [23]: «Principio e fondamento. L’uomo è creato per lodare, riverire e servire Dio nostro Signore, e per salvare, in questo modo, la propria anima; e le altre cose sulla faccia della terra sono create per l’uomo affinché lo aiutino al raggiungimento del fine per cui è stato creato. Da qui segue che l’uomo deve servirsene tanto quanto lo aiutano a conseguire il fine per cui è stato creato e tanto deve liberarsene quanto glielo impediscono. Per questa ragione è necessario renderci indifferenti verso tutte le cose create (in tutto quello che è permesso alla libertà del nostro libero arbitrio e non le è proibito), in modo da non desiderare da parte nostra più la salute che la malattia, più la ricchezza che la povertà, più l’onore che il disonore, più la vita lunga che quella breve, e così per tutto il resto, desiderando e scegliendo solo ciò che più ci porta al fine per cui siamo stati creati» (in M. GIOIA [ed.], Gli scritti di Ignazio di Loyola, Torino, UTET, 1977, 100 s). Per un commento a questo testo, con il suo implicito cristocentrismo, cfr S. RENDINA, «Principio e fondamento», in Appunti di spiritualità, n. 24, suppl. a Notizie dei Gesuiti d’Italia 22 (1989) 5-20.

3 Già altri si sono cimentati, con profondità ed erudizione, nel commento di Confessioni I 1-5. Cfr in particolare R. GUARDINI, L’inizio. Un commento ai primi cinque capitoli delle «Confessioni» di Agostino, Milano, Jaca Book, 19752; L. F. PIZZOLATO, Un primo libro delle «Confessiones» di Agostino: ai primordi della «confessio», in L. F. PIZZOLATO – G. CERIOTTI – F. DE CAPITANI, Commento ai libri I-II delle Confessioni di Agostino d’Ippona, Palermo, Augustinus, 1984, 9-30.

4 Agostino vedrà sempre in questa «superbia» il maggiore ostacolo alla conversione. Il richiamo a 1 Pt 5,5 = Gc 4,6 è frequente nelle Confessioni: cfr III 5, 9; IV 3, 5; 15, 26; VII 9, 13; X 36, 59.

5 Penso che si possa conservare qui al verbo excitare il significato di «risvegliare». Per Agostino l’uomo non toccato dalla grazia è tutto proiettato «fuori», all’esterno, così che «l’uomo interiore» è come addormentato. Soltanto la potenza della grazia può risvegliare i «sensi spirituali», come si legge nel famoso passo «sero te amavi» di Confessioni X 27, 38: «Tu chiamasti e gridasti, e rompesti la mia sordità», quella cioè dell’uomo interiore. Cfr E. CATTANEO, «“Tardi ti ho amato”. L’esperienza spirituale di s. Agostino in Confessioni 10, 27, 38», in M. GIOIA (ed.), Teologia spirituale. Temi e problemi, in dialogo con Ch. A. Bernard, Roma, AVE, 1991, 53-61, ripreso in E. CATTANEO, Evangelo, Chiesa e carità nei Padri, ivi, 1995, 99-107.

6 Si cerca di rendere in italiano il gioco di parole latino: inquietum est cor nostrum donec requiescat in te. Cfr G. CERIOTTI, Inquietum cor (Confessioni I 1, 1), in L. F. PIZZOLATO – G. CERIOTTI – F. DE CAPITANI, Commento…, cit., 78-88.

7E allora le creature, che pure sono in Dio, diventano un ostacolo, non per colpa loro (esse sono «belle»), ma per colpa dell’uomo, che le usa in modo sbagliato, cioè assolutizzandole. Cfr E. CATTANEO, Evangelo…, cit., 103 s.

8 Tuttavia nel tempo presente tale esperienza è solo incipiente e troverà la sua perfezione soltanto nel «riposo» dell’eternità immutabile (cfr Confessioni XIII 36, 51).

9 Agostino cita appunto Sal 138,8: «Anche se scendo negli inferi, là tu sei». Tutto questo Salmo (139, secondo la numerazione ebraica) potrebbe fare da contrappunto alla meditazione agostiniana, soprattutto con il v. 7: «Dove andare lontano dal tuo spirito, / dove fuggire dalla tua presenza?».

10 Cfr 1 Cor 8,6; Rm 11,36

11 Cfr Confessioni VI 3, 4: «Non sei formato di membra alcune più grandi e altre più piccole, ma sei tutto dappertutto (ubique totus) e nessun luogo Ti contiene».

12 Sal 17,32.

13 Questi due attributi (misericordia e giustizia) sono sempre stati considerati dai Padri come inseparabili. Cfr E. CATTANEO, «Dio Padre buono nella polemica antignostica del II secolo», in O. F. PIAZZA (ed.), Padre, liberaci dal male, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 1999.

14 Cfr Confessioni VI 3, 4: «Tu, altissimo e vicinissimo, lontanissimo e presentissimo».

15 Cfr Nm 23,19; Mal 3,6; Dn 2,21.

16 Cfr Sap 7,27.

17 Cfr Gb 9,5 (LXX). Il testo greco dice: «Fai invecchiare i monti senza che lo sappiano». Evidentemente, nell’interpretazione allegorica, i «monti» sono il simbolo dei «superbi».

18 La «gelosia» di Dio è uno dei più forti antropomorfismi biblici (cfr Dt 4,24).

19 Cfr Gn 6,6; Gio 3,10.

20 Anche l’«ira» di Dio è un altro antropomorfismo biblico molto audace: cfr Nm 11,1; Rm 1,18.

21 Cfr Dn 2,21; Eb 6,17.

22 Allusione alle parabole della «misericordia» di Lc 15 (pecora smarrita, moneta perduta, figlio perduto e ritrovato). Cfr R. GUARDINI, L’inizio…, cit., 57.

23 Cfr Mt 25,21.27 (parabola dei talenti).

24 Cfr Lc 10,35 (parabola del buon samaritano).

25 Cfr 1 Cor 4,7.

26 Cfr Mt 20, 1-16.

27Cfr Mt 18,32.

28 Per un’analisi stilistico-tematica di questo «inno», cfr G. BOUISSOU, in «Bibliothèque Augustinienne», n. 13, Bar le Duc, DDB, 1962, 652-657.

29 Cfr T. J. VAN BAVEL, «God in between Affirmation and Negation According to Augustine», in J. T. LIENHARD – E. C. MULLER – R. J. TESKE (edd.), Augustine: Presbyter Factus Sum, New York, Lang, 1993, 73-97.

30 Et vae tacentibus de te, quoniam loquaces muti sunt. Queste ultime parole sono variamente interpretate: «poiché sono muti ciarlieri» (C. Carena); «dal momento che anche chi è muto ne parla» (L. F. Pizzolato); «puisque, bavards, ils sont muets» (Tréhorel-Bouissou); «perché nella loro loquacità sono muti» (Guardini).

31 Va però riconosciuto che una delle attività dello spirito è anche «parlare con se stessi», cioè ragionare tra sé e sé, e Agostino amava farlo, come attestano i Soliloqui, scritti alla vigilia del suo battesimo nel 387. Lì egli dialoga con la propria «ragione», la quale, essendo «a immagine e somiglianza di Dio», distingue bene Dio da se stessa, e invita anzitutto a rivolgersi a lui: da qui la preghiera di Soliloqui I 1, 2-6, «una delle più belle dell’antichità cristiana» (P. DE LABRIOLLE, in «Bibliothèque Augustinienne», n. 5, Bruges, DDB, 1948, 401).

32 L’opposizione lontano/vicino, dentro/fuori è spesso usata da Agostino per esprimere lontano da te. Tu eri in me più dentro della mia parte più intima (intimior intimo meo) e più alto della mia parte più alta (superior summo meo) (III 6, 11). «E io dov’ero, quando ti cercavo? Tu eri davanti a me, ma io mi ero allontanato da me (a me discesseram) e non trovavo me stesso. Tanto meno trovavo te!» (V 2, 2). «Io ti cercavo fuori di me (foris a me) e non ti trovavo, perché tu sei il Dio del mio cuore (Sal 72,26)» (VI 1, 1). Finalmente però la lontananza viene percepita: «Mi scoprii lontano da te, nella regione della dissomiglianza (dissimilitudinis)» (VII 10, 16). La scoperta amorosa di Dio coincide con il ritrovamento della propria identità-interiorità perduta, una vera rinascita: cfr X 27, 38 e più sopra, nota 5.

33 Le allusioni al Cantico dei cantici (Vulgata) sono abbastanza evidenti: «Correremo dietro a te (post te curremus) (Ct 1,3); «mostrami il tuo volto, risuoni la tua voce nelle mie orecchie (ostende mihi faciem tuam, sonet vox tua in auribus meis)» (Ct 2,14); «ti raggiungerò e ti porterò nella mia casa (adprehendam te, et ducam in domum)» (Ct 8,2). Notiamo inoltre che in questo prologo l’esperienza di Dio viene espressa in termini di «sensi spirituali», come cosa già abituale per Agostino: l’udito («le orecchie del mio cuore… àprile… correndo dietro a questa voce…»); la vista («non nascondermi il tuo volto… per vederti»); il tatto («abbraccerei te, unico mio bene»); il gusto («dolcezza mia santa»). Manca qui l’odorato, ma tale assenza indica che questo tipo di linguaggio è usato da Agostino in modo spontaneo, non artificioso.

34 Moriar, ne moriar, ut eam videam. L’interpretazione di A. Solignac («sia che muoia, sia che non muoia, purché lo veda») ci sembra banalizzare un po’ il testo (cfr «Bibliothèque Augustinienne», n. 13, 282-283). Il senso più accettabile ci pare quello ripreso da F. PIZZOLATO, Commento…, cit., 29: «C’è in quel primo moriar il senso della morte mystica (morire in Cristo al peccato), che vince la morte naturale e la morte del peccato».il cercarsi tra l’uomo e Dio: «Tu dov’eri, e quanto lontano da me? Ero io che vagavo

35 Tuttavia Agostino non è d’accordo con l’apofatismo estremo di Plotino, per il quale ogni affermazione su Dio risulta priva di senso, perché allora dietro il termine «Dio» uno ci potrebbe mettere qualsiasi cosa. Il linguaggio su Dio rimane sempre inadeguato, ma non vuoto di senso (cfr T. J. VAN BAVEL, «God in between…», cit., 84 s).

36 Cfr Sermo Denis II 5: «Non puoi comprendere il nome della mia essenza (nomen substantiae); comprendi il nome della mia misericordia (nomen misericordiae)» («Miscell. August.», I 16-17). Quindi «parlare» di Dio significa «confessare» Dio, nel duplice significato di confessio — anche se il termine non compare in questo prologo —: «l’esperienza del peccato (confessio peccatorum) si trasfigura in materia di lode (confessio laudis)» (L. F. PIZZOLATO, Commento…, cit., 29).

37 Cfr S. IGNAZIO DI LOYOLA, Esercizi spirituali, cit, [45]-[72].

38 L’originalità della spiritualità agostiniana è stata bene messa in rilievo da CH. A. BERNARD, Il Dio dei misteri. I: Le vie dell’interiorità, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 1996, 189-222.

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«L’uomo vuole lodarti»



Le Confessioni di sant’Agostino[sup]1[/sup] si aprono con un prologo (I 1-5), che potrebbe essere considerato una sorta di «principio e fondamento», per usare il linguaggio degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola[sup]2[/sup]. Cercheremo di rileggere questo testo agostiniano proprio alla luce del testo ignaziano, non per trovarvi corrispondenze forzate, ma per farne un commento spirituale, cioè nella prospettiva dell’esperienza di Dio proposta dall’itinerario degli Esercizi[sup]3[/sup].

Creato per la lode


Agostino inizia con alcune espressioni tratte dai Salmi, che inneggiano alla grandezza e alla sapienza di Dio: «Tu sei grande, Signore, e molto degno di lode (cfr Sal 47[48],2; 95[96],4; 144[145],3); grande è la tua potenza, e la tua sapienza non si può misurare (cfr Sal 146[147],5)». Mentre però il testo biblico usa la terza persona singolare («Grande è il Signore…»), Agostino pone la seconda, dove risuona il «tu» del dialogo e della preghiera. Siamo già introdotti in un clima orante, che sarà quello di tutte le Confessioni. Dio non è qui l’«essere immutabile» della speculazione astratta, ma il partner della lode dell’uomo, una lode che prende l’avvio dalla parola stessa di Dio.

L’uomo dunque sente in sé questa volontà di dare lode a Dio («l’uomo vuole lodarti»). Ma chi è l’uomo? «Una piccola parte della tua creazione, l’uomo, che porta con sé il suo destino di morte, che porta con sé la testimonianza del suo peccato e la testimonianza che tu ti opponi ai superbi (superbis resistis)» (I 1, 1). Agostino non si sofferma su una definizione filosofica dell’uomo, ma va diritto alla sua condizione esistenziale e teologale: davanti a se stesso, l’uomo non è che una piccolissima parte della creazione e un essere segnato dal proprio destino mortale; davanti a Dio, l’uomo è in una situazione di peccato, che consiste essenzialmente in una presuntuosa superbia, in quell’autoesaltazione che blocca la comunicazione della grazia divina (allusione a 1 Pt 5,5 e Gc 4,6: «Dio si oppone ai superbi [superbis resistit], ma dà la sua grazia agli umili»)[sup]4[/sup].

E tuttavia l’inclinazione sterile all’autoesaltazione non può cancellare il progetto originario di Dio, iscritto nell’essere stesso creaturale dell’uomo: un progetto che è essenzialmente apertura all’Altro, gioia di lodare l’Altro, di sapersi creato per l’Altro: «E tuttavia l’uomo, piccola parte della tua creazione, vuole lodarti. Tu lo risvegli (excitas)[sup]5[/sup], perché egli trovi la sua gioia nel lodarti. Sì, ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto finché non trova quiete in te» (I 1, 1)[sup]6[/sup].

Il richiamo di Dio viene dunque dal più profondo dell’essere umano; non è un elemento aggiuntivo, quasi un optional, di cui l’uomo potrebbe anche fare a meno. In quel cor inquietum c’è tutto il tormento esistenziale di chi vorrebbe realizzarsi senza Dio, ma non ci riesce perché non ci potrà mai riuscire. Se l’uomo è stato fatto per Dio, vuol dire che non una creatura, non il mondo intero, ma soltanto Dio è l’oggetto proporzionato del suo desiderio di felicità. Agostino qui invita non a fare speculazioni, ma un’esperienza, quella del passaggio dall’«inquietudine» — che l’uomo prova quando si getta sulle creature considerate come fine[sup]7[/sup] — alla «quiete» del cuore che ha trovato Dio. È l’esperienza di un godimento (delectatio) interiore, superiore a qualsiasi godimento di beni creati[sup]8[/sup].

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«Ti invoca la mia fede»


Agostino si chiede poi se si possa iniziare subito con la lode a Dio o se ci sia bisogno prima d’invocarlo. L’invocazione però suppone la conoscenza: «Come potrebbe invocarti chi non ti conosce? O forse non si deve piuttosto invocarti per conoscerti?» (I 1, 1). Il discorso sembra perdersi in un circolo vizioso, all’interno di una soggettività che non riesce a trovare un adeguato punto di partenza, un principium su cui appoggiarsi.

Il circolo si spezza solamente accogliendo la parola della fede, suscitata dall’annuncio, secondo il testo di Rm 10,14: «Come potranno invocarlo senza prima aver creduto in lui? E come potranno credere […] senza uno che l’annunci?» (I 1, 1). Bisogna dunque partire dall’annuncio, cioè dalla parola di Dio. Tutte le altre operazioni — cercare Dio, invocarlo, lodarlo — non sono che conseguenze della fede, quella giunta a noi attraverso l’incarnazione del Figlio di Dio: «Ti cercherò, Signore, invocandoti e ti invocherò credendo in te: infatti ci è giunta la buona notizia di te. ti invoca, Signore, la mia fede, quella che tu mi hai dato e ispirato mediante il tuo Figlio fatto uomo, mediante il mistero di colui che ti ha fatto conoscere» (I 1, 1).

Agostino non esita a ricorrere al principio oggettivo dell’annuncio, che ha la sua origine nel Figlio di Dio fatto uomo. Così dalla predicazione viene il dono della fede, che è fede orante, invocante (invocat te fides mea); l’invocazione è ricerca, e chi cerca il Signore lo trova, e chi lo trova lo loda. L’uomo, fatto per la lode di Dio, non può raggiungere questo «Tu» che dà riposo al suo cuore inquieto, se non nella fede in Cristo, rivelatore e annunciatore del Padre. Questo riferimento cristologico è estremamente importante, perché Agostino sa che non vi può rinunciare, neanche con il pretesto (o illusione) di rendere la via a Dio più universale.

Immanenza e trascendenza


Ma che senso ha invocare Dio? Letteralmente «in-vocare» significa «chiamare» qualcuno a «venire», colmando così una distanza e un’assenza. Ora questa immagine spaziale si rivela inadeguata se riferita a Dio: «C’è un posto in me, — si chiede Agostino — dove possa venire in me il mio Dio?» (I 2, 1). La preposizione «in» indica uno spazio delimitato da un contenente. Ma esiste forse un luogo dove Dio non sia già presente e che sia in grado di contenerlo? Non è lui che ha «fatto il cielo e la terra»? Dio dunque è già in me, perché è in tutte le cose, le quali non esisterebbero se non fossero in Dio. Anche negli «inferi», cioè nel luogo dei morti secondo la concezione antica — lo sheòl della Bibbia — Dio è presente[sup]9[/sup]. Ecco allora che l’in me si rovescia nell’in te: «Io non esisterei, Dio mio, non sarei nulla, se tu non fossi in me: O meglio, non esisterei, se non fossi in te, poiché tutto è da te, tutto per te, tutto in te» (I 2, 2)[sup]10[/sup].

La lontananza da Dio è allora un’illusione? «Da dove dunque ti invoco, se sono in te? O da dove tu verresti in me?» (I 2, 2). Agostino cerca di scrutare il mistero dell’immanenza e della trascendenza divina. Dio «riempie», «contiene» il cielo e la terra, cioè tutto ciò che esiste, ma non come una sostanza materiale, racchiusa in un contenitore e divisibile in parti. Infatti Dio è «tutto dappertutto» (ubique totus) [= immanenza], eppure «nessuna cosa ti può contenere tutto (te totum capit) [= trascendenza]» (I 3, 2)[sup]11[/sup]. Questo è il paradosso. Perciò non è Dio che ha bisogno del mondo per essere contenuto, ma è il mondo che ha bisogno di Dio per essere riempito. «Non sono i contenitori (vasa), pieni di te, a renderti stabile, perché anche se si rompono, tu non vai versato. E quando tu ti versi su di noi, non sei tu che ti abbassi, ma innalzi noi, non tu ti disperdi, ma noi raccogli» (I 3, 1). È chiara qui l’allusione al mistero salvifico, cioè a quel legame d’amore che Dio ha voluto porre con la sua creatura e che si è manifestato nell’«abbassamento» dell’incarnazione e nella croce di Cristo (il sangue «versato» per noi). In questo reale abbassamento, Dio non ha perso qualcosa, non è caduto in un’alienazione, ma è la creatura che è stata elevata e risanata.

«Che cos’è dunque il mio Dio?»


Il mistero della trascendenza e immanenza di Dio va dunque considerato, per Agostino, non semplicemente secondo un a priori astratto, e quindi estremamente riduttivo, ma va riempito con i contenuti ricavati dalla rivelazione biblica. Ne esce una specie di «inno teologico», da leggersi non in chiave puramente filosofica, ma tenendo conto del retroterra biblico:

Che cosa è dunque il mio Dio?

Che cos’è, mi chiedo, se non il Signore Dio?

Chi infatti è il Signore se non il Signore?

O chi è Dio se non il nostro Dio?[sup]12[/sup]

Sommo, ottimo,

potentissimo, onnipotentissimo,

misericordiosissimo e giustissimo[sup]13[/sup],

lontanissimo e presentissimo[sup]14[/sup],

bellissimo e fortissimo,

stabile e inafferrabile,

immutabile che tutto muti[sup]15[/sup],

mai nuovo, mai vecchio;

tutto rinnovi[sup]16[/sup] e fai invecchiare i superbi senza che lo sappiano;[sup]17[/sup]

sempre attivo, sempre in riposo;

raccogli, ma non hai bisogno di nulla;

porti, riempi e proteggi [tutto],

crei, nutri e porti a compimento [ogni cosa];

chiedi, mentre nulla ti manca;

ami senza bruciare di passione,

sei geloso[sup]18[/sup] ma resti tranquillo,

ti dispiaci[sup]19[/sup]ma non provi dolore,

ti adiri[sup]20[/sup] ma rimani calmo,

cambi le opere ma non il progetto[sup]21[/sup],

riprendi ciò che trovi e mai perdesti[sup]22[/sup];

mai indigente, sei contento di guadagnare,

mai avaro, esigi gli interessi[sup]23[/sup];

accetti che si spenda di più per te, per poter rifondere[sup]24[/sup],

ma chi possiede qualcosa che non sia tuo?[sup]25[/sup]

Paghi i debiti senza dover nulla a nessuno[sup]26[/sup],

condoni i debiti[sup]27[/sup] senza perdere niente» (I 4, 1-2)[sup]28[/sup].

I superlativi, ma più ancora la congiunzione degli opposti attributi, esprime l’inesprimibile mistero di Dio. Tutto quello che diciamo di lui, per quanto ci sforziamo di usare tutte le risposte del linguaggio, rimane sempre inadeguato. La Scrittura stessa, con le sue molteplici e contrapposte immagini, lo attesta: «Che cosa ho mai detto, Dio mio, vita mia, dolcezza mia santa? O che cosa dice uno, quando parla di te?» (I 4, 2). Non sarebbe allora il silenzio l’atteggiamento più adeguato? Agostino qui si pone appena la domanda e lascia intravedere la risposta. Sì, se il silenzio è suscitato e portato dalla parola; no, se è il silenzio muto, senza parola[sup]29[/sup]; «Guai a quelli che tacciono di te, se persino chi parla molto [di te] è come se fosse muto!» (I 4, 2)[sup]30[/sup].

L’incontro con Dio-Signore


Agostino ha considerato il mistero di Dio nella sua trascendenza e immanenza. Se Dio fosse solanto il trascendente, il totalmente altro, sarebbe assolutamente inaccessibile e non avrebbe senso invocarlo. Se, al contrario, egli fosse totalmente immanente, si confonderebbe con il mondo e con l’io, e il dialogo con lui sarebbe in realtà solo un parlare a se stessi[sup]31[/sup]. Perciò Agostino privilegia il «colloquio», dove non c’è fusione — o confusione —, ma spazio per un sempre nuovo incontro, fatto di rispetto e riverenza, ma insieme di familiarità: «Chi mi farà riposare in te? Chi farà sì che tu venga nel mio cuore a inebriarlo? Così dimenticherei i miei mali e abbraccerei te, il mio unico bene» (I 5, 1).

Già presente in tutte le cose come Creatore — e qui non c’è scelta, perché l’alternativa sarebbe il nulla —, Dio può essere ancora invocato e desiderato dall’uomo per un incontro di grazia, liberamente scelto e desiderato da entrambe le parti[sup]32[/sup]. In effetti, non soltanto l’uomo cerca Dio, ma, prima ancora, Dio cerca l’uomo: «Che cosa sei per me? […] E che cosa sono io per te? Tu esigi di essere amato da me, e se non lo faccio ti adiri con me e minacci gravi sventure, come se il non amarti non fosse già la sventura più grave di tutte!» (I 5, 1).

Dio ha già fatto la sua scelta, ora tocca all’uomo trovare in Dio «l’unico bene», pena il suo stesso fallimento, la sua stessa «perdizione». Agostino è consapevole che questo passo non può essere fatto senza la grazia (miseratio) di Dio stesso, senza che egli si riveli come «Salvatore», cioè come «salvezza» o, più letteralmente, «salute» di un’anima malata: «Oh, dimmi, per la tua misericordia, Signore Dio mio, che cosa sei per me. Di’ all’anima mia: sono io la tua salvezza (Sal 34,3). Dillo in modo che io senta! Ecco le orecchie del mio cuore sono davanti a te, Signore: àprile, e di’ all’anima mia: sono io la tua salvezza. Correrò dietro questa voce e ti raggiungerò. Non nascondermi il tuo volto[sup]33[/sup]: possa io morire per non morire, e così vederlo!» (I 5, 1)[sup]34[/sup].

Quando una persona umana, risvegliata dalla grazia, fa la scelta di Dio come fine e senso della propria esistenza, riscopre tutte le sue potenzialità naturali di amore, desiderio, unione. Riscopre se stessa, ma nello stesso tempo si accorge che questa «struttura» naturale — il suo cuore, la sua casa — è mal ridotta. La preghiera allora diventa un «consegnare le chiavi», un darsi nelle mani di colui che, avendo creato, può ri-creare e restaurare: «Stretta è la casa della mia anima perché tu possa entrarvi: dilatala. Cade in rovina: restaurala. Contiene alcune cose che offendono i tuoi occhi, lo confesso e lo so. Ma chi potrà purificarla? A chi altri griderò, se non a te?» (I 5, 2).

Invitare Dio nella propria casa — nel proprio cuore — significa accettare di fare la verità («Tu sei la Verità») e di non mentire più a se stessi. Il peccato infatti cerca sempre di giustificarsi con la menzogna (ne mentiatur iniquitas mea sibi), anche davanti a Dio: di questa pseudo-religione, Agostino non vuole più saperne, perché è ancora un camuffamento dell’io superbo. «Quindi non disputo con te in giudizio» (I 5, 2). Se Agostino prende la parola davanti a Dio non è più per giustificarsi, ma per accusare se stesso dei propri peccati. Fatta davanti alla misericordia divina, questa autoaccusa nella verità — ridicola agli occhi umani — conduce invece all’assoluzione: «E tu hai assolto l’empietà del mio cuore» (I 5, 2).

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Conclusione


Il prologo delle Confessioni ci pone subito davanti al mistero di Dio e al mistero dell’uomo, come a due facce di un unico mistero: chi sei tu Signore? E chi sono io? L’uomo si riconosce creatura mortale, ma fatto per Dio; per cui nessuna creatura, ma solamente Dio è il fine che può appagare il desiderio infinito che c’è nell’essere umano. Come Creatore, certamente Dio è in tutte le cose e tutte le cose sono in Dio. L’uomo però ha la singolare vocazione e capacità di poter scegliere Dio come senso e fine della propria vita, come quel Bene al quale congiungersi inseparabilmente e così trovare la salvezza.

Ma che cosa diciamo quando parliamo di Dio? Agostino è come smarrito di fronte alla inadeguatezza del linguaggio umano — anche quello ispirato delle Scritture —, chiamato a esprimere qualcosa che non può «comprendere», perché lo trascende[sup]35[/sup]. L’uomo dunque dovrebbe doppiamente tacere davanti a Dio: primo perché è creatura, secondo perché è peccatore. E tuttavia, proprio il riconoscere l’una e l’altra realtà rivela il volto di Dio, che è misericordia[sup]36[/sup].

La parola perde così, almeno in parte, la sua inadeguatezza, perché è suscitata dalla fede: «Credo, e perciò anche parlo (cfr Sal 115[116],10; 2 Cor 4,13)» (I 5, 2). È una parola che è passata, mediante la fede, sotto il giogo di Cristo, la «via» attraverso cui Dio si è «abbassato», è venuto a noi e attraverso la quale anche noi, abbassando il nostro orgoglio, possiamo andare a lui. Sembra «stretta» questa via, ma è quella che sconvolge i pensieri dell’uomo su Dio, è quella che «salva» l’uomo, liberandolo dalla menzogna del peccato e liberando in lui il canto della lode.

Il clima orante nel quale Agostino immerge tutte queste riflessioni fa sì che le pagine introduttive delle Confessioni possano essere utilmente proposte, a nostro avviso, all’inizio di un cammino di «esercizi spirituali», come una sorta di «principio e fondamento», che si apre naturalmente sui grandi temi della «Prima settimana» (peccato e misericordia)[sup]37[/sup]. Il grande vescovo di Ippona ha il pregio, raro ai nostri tempi, di saper congiungere il rigore del pensiero con una intensa spiritualità affettiva[sup]38[/sup]. Non sono forse queste le qualità che ritroviamo negli Esercizi spirituali di Ignazio?

***

1 Cfr S. AGOSTINO, Le Confessioni, testo latino dell’edizione di M. SKUTELLA, riveduto da M. PELLEGRINO, traduzione e note di C. CARENA, Roma, Città Nuova, 19753. Qui seguiremo una nostra traduzione.

2 S. IGNAZIO DI LOYOLA, Esercizi spirituali [23]: «Principio e fondamento. L’uomo è creato per lodare, riverire e servire Dio nostro Signore, e per salvare, in questo modo, la propria anima; e le altre cose sulla faccia della terra sono create per l’uomo affinché lo aiutino al raggiungimento del fine per cui è stato creato. Da qui segue che l’uomo deve servirsene tanto quanto lo aiutano a conseguire il fine per cui è stato creato e tanto deve liberarsene quanto glielo impediscono. Per questa ragione è necessario renderci indifferenti verso tutte le cose create (in tutto quello che è permesso alla libertà del nostro libero arbitrio e non le è proibito), in modo da non desiderare da parte nostra più la salute che la malattia, più la ricchezza che la povertà, più l’onore che il disonore, più la vita lunga che quella breve, e così per tutto il resto, desiderando e scegliendo solo ciò che più ci porta al fine per cui siamo stati creati» (in M. GIOIA [ed.], Gli scritti di Ignazio di Loyola, Torino, UTET, 1977, 100 s). Per un commento a questo testo, con il suo implicito cristocentrismo, cfr S. RENDINA, «Principio e fondamento», in Appunti di spiritualità, n. 24, suppl. a Notizie dei Gesuiti d’Italia 22 (1989) 5-20.

3 Già altri si sono cimentati, con profondità ed erudizione, nel commento di Confessioni I 1-5. Cfr in particolare R. GUARDINI, L’inizio. Un commento ai primi cinque capitoli delle «Confessioni» di Agostino, Milano, Jaca Book, 19752; L. F. PIZZOLATO, Un primo libro delle «Confessiones» di Agostino: ai primordi della «confessio», in L. F. PIZZOLATO – G. CERIOTTI – F. DE CAPITANI, Commento ai libri I-II delle Confessioni di Agostino d’Ippona, Palermo, Augustinus, 1984, 9-30.

4 Agostino vedrà sempre in questa «superbia» il maggiore ostacolo alla conversione. Il richiamo a 1 Pt 5,5 = Gc 4,6 è frequente nelle Confessioni: cfr III 5, 9; IV 3, 5; 15, 26; VII 9, 13; X 36, 59.

5 Penso che si possa conservare qui al verbo excitare il significato di «risvegliare». Per Agostino l’uomo non toccato dalla grazia è tutto proiettato «fuori», all’esterno, così che «l’uomo interiore» è come addormentato. Soltanto la potenza della grazia può risvegliare i «sensi spirituali», come si legge nel famoso passo «sero te amavi» di Confessioni X 27, 38: «Tu chiamasti e gridasti, e rompesti la mia sordità», quella cioè dell’uomo interiore. Cfr E. CATTANEO, «“Tardi ti ho amato”. L’esperienza spirituale di s. Agostino in Confessioni 10, 27, 38», in M. GIOIA (ed.), Teologia spirituale. Temi e problemi, in dialogo con Ch. A. Bernard, Roma, AVE, 1991, 53-61, ripreso in E. CATTANEO, Evangelo, Chiesa e carità nei Padri, ivi, 1995, 99-107.

6 Si cerca di rendere in italiano il gioco di parole latino: inquietum est cor nostrum donec requiescat in te. Cfr G. CERIOTTI, Inquietum cor (Confessioni I 1, 1), in L. F. PIZZOLATO – G. CERIOTTI – F. DE CAPITANI, Commento…, cit., 78-88.

7E allora le creature, che pure sono in Dio, diventano un ostacolo, non per colpa loro (esse sono «belle»), ma per colpa dell’uomo, che le usa in modo sbagliato, cioè assolutizzandole. Cfr E. CATTANEO, Evangelo…, cit., 103 s.

8 Tuttavia nel tempo presente tale esperienza è solo incipiente e troverà la sua perfezione soltanto nel «riposo» dell’eternità immutabile (cfr Confessioni XIII 36, 51).

9 Agostino cita appunto Sal 138,8: «Anche se scendo negli inferi, là tu sei». Tutto questo Salmo (139, secondo la numerazione ebraica) potrebbe fare da contrappunto alla meditazione agostiniana, soprattutto con il v. 7: «Dove andare lontano dal tuo spirito, / dove fuggire dalla tua presenza?».

10 Cfr 1 Cor 8,6; Rm 11,36

11 Cfr Confessioni VI 3, 4: «Non sei formato di membra alcune più grandi e altre più piccole, ma sei tutto dappertutto (ubique totus) e nessun luogo Ti contiene».

12 Sal 17,32.

13 Questi due attributi (misericordia e giustizia) sono sempre stati considerati dai Padri come inseparabili. Cfr E. CATTANEO, «Dio Padre buono nella polemica antignostica del II secolo», in O. F. PIAZZA (ed.), Padre, liberaci dal male, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 1999.

14 Cfr Confessioni VI 3, 4: «Tu, altissimo e vicinissimo, lontanissimo e presentissimo».

15 Cfr Nm 23,19; Mal 3,6; Dn 2,21.

16 Cfr Sap 7,27.

17 Cfr Gb 9,5 (LXX). Il testo greco dice: «Fai invecchiare i monti senza che lo sappiano». Evidentemente, nell’interpretazione allegorica, i «monti» sono il simbolo dei «superbi».

18 La «gelosia» di Dio è uno dei più forti antropomorfismi biblici (cfr Dt 4,24).

19 Cfr Gn 6,6; Gio 3,10.

20 Anche l’«ira» di Dio è un altro antropomorfismo biblico molto audace: cfr Nm 11,1; Rm 1,18.

21 Cfr Dn 2,21; Eb 6,17.

22 Allusione alle parabole della «misericordia» di Lc 15 (pecora smarrita, moneta perduta, figlio perduto e ritrovato). Cfr R. GUARDINI, L’inizio…, cit., 57.

23 Cfr Mt 25,21.27 (parabola dei talenti).

24 Cfr Lc 10,35 (parabola del buon samaritano).

25 Cfr 1 Cor 4,7.

26 Cfr Mt 20, 1-16.

27Cfr Mt 18,32.

28 Per un’analisi stilistico-tematica di questo «inno», cfr G. BOUISSOU, in «Bibliothèque Augustinienne», n. 13, Bar le Duc, DDB, 1962, 652-657.

29 Cfr T. J. VAN BAVEL, «God in between Affirmation and Negation According to Augustine», in J. T. LIENHARD – E. C. MULLER – R. J. TESKE (edd.), Augustine: Presbyter Factus Sum, New York, Lang, 1993, 73-97.

30 Et vae tacentibus de te, quoniam loquaces muti sunt. Queste ultime parole sono variamente interpretate: «poiché sono muti ciarlieri» (C. Carena); «dal momento che anche chi è muto ne parla» (L. F. Pizzolato); «puisque, bavards, ils sont muets» (Tréhorel-Bouissou); «perché nella loro loquacità sono muti» (Guardini).

31 Va però riconosciuto che una delle attività dello spirito è anche «parlare con se stessi», cioè ragionare tra sé e sé, e Agostino amava farlo, come attestano i Soliloqui, scritti alla vigilia del suo battesimo nel 387. Lì egli dialoga con la propria «ragione», la quale, essendo «a immagine e somiglianza di Dio», distingue bene Dio da se stessa, e invita anzitutto a rivolgersi a lui: da qui la preghiera di Soliloqui I 1, 2-6, «una delle più belle dell’antichità cristiana» (P. DE LABRIOLLE, in «Bibliothèque Augustinienne», n. 5, Bruges, DDB, 1948, 401).

32 L’opposizione lontano/vicino, dentro/fuori è spesso usata da Agostino per esprimere lontano da te. Tu eri in me più dentro della mia parte più intima (intimior intimo meo) e più alto della mia parte più alta (superior summo meo) (III 6, 11). «E io dov’ero, quando ti cercavo? Tu eri davanti a me, ma io mi ero allontanato da me (a me discesseram) e non trovavo me stesso. Tanto meno trovavo te!» (V 2, 2). «Io ti cercavo fuori di me (foris a me) e non ti trovavo, perché tu sei il Dio del mio cuore (Sal 72,26)» (VI 1, 1). Finalmente però la lontananza viene percepita: «Mi scoprii lontano da te, nella regione della dissomiglianza (dissimilitudinis)» (VII 10, 16). La scoperta amorosa di Dio coincide con il ritrovamento della propria identità-interiorità perduta, una vera rinascita: cfr X 27, 38 e più sopra, nota 5.

33 Le allusioni al Cantico dei cantici (Vulgata) sono abbastanza evidenti: «Correremo dietro a te (post te curremus) (Ct 1,3); «mostrami il tuo volto, risuoni la tua voce nelle mie orecchie (ostende mihi faciem tuam, sonet vox tua in auribus meis)» (Ct 2,14); «ti raggiungerò e ti porterò nella mia casa (adprehendam te, et ducam in domum)» (Ct 8,2). Notiamo inoltre che in questo prologo l’esperienza di Dio viene espressa in termini di «sensi spirituali», come cosa già abituale per Agostino: l’udito («le orecchie del mio cuore… àprile… correndo dietro a questa voce…»); la vista («non nascondermi il tuo volto… per vederti»); il tatto («abbraccerei te, unico mio bene»); il gusto («dolcezza mia santa»). Manca qui l’odorato, ma tale assenza indica che questo tipo di linguaggio è usato da Agostino in modo spontaneo, non artificioso.

34 Moriar, ne moriar, ut eam videam. L’interpretazione di A. Solignac («sia che muoia, sia che non muoia, purché lo veda») ci sembra banalizzare un po’ il testo (cfr «Bibliothèque Augustinienne», n. 13, 282-283). Il senso più accettabile ci pare quello ripreso da F. PIZZOLATO, Commento…, cit., 29: «C’è in quel primo moriar il senso della morte mystica (morire in Cristo al peccato), che vince la morte naturale e la morte del peccato».il cercarsi tra l’uomo e Dio: «Tu dov’eri, e quanto lontano da me? Ero io che vagavo

35 Tuttavia Agostino non è d’accordo con l’apofatismo estremo di Plotino, per il quale ogni affermazione su Dio risulta priva di senso, perché allora dietro il termine «Dio» uno ci potrebbe mettere qualsiasi cosa. Il linguaggio su Dio rimane sempre inadeguato, ma non vuoto di senso (cfr T. J. VAN BAVEL, «God in between…», cit., 84 s).

36 Cfr Sermo Denis II 5: «Non puoi comprendere il nome della mia essenza (nomen substantiae); comprendi il nome della mia misericordia (nomen misericordiae)» («Miscell. August.», I 16-17). Quindi «parlare» di Dio significa «confessare» Dio, nel duplice significato di confessio — anche se il termine non compare in questo prologo —: «l’esperienza del peccato (confessio peccatorum) si trasfigura in materia di lode (confessio laudis)» (L. F. PIZZOLATO, Commento…, cit., 29).

37 Cfr S. IGNAZIO DI LOYOLA, Esercizi spirituali, cit, [45]-[72].

38 L’originalità della spiritualità agostiniana è stata bene messa in rilievo da CH. A. BERNARD, Il Dio dei misteri. I: Le vie dell’interiorità, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 1996, 189-222.

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Leone XIV ai giornalisti: «Respingere il paradigma della guerra»


Leone XIV incontra i rappresentanti dei media (Foto Picciarella/Alamy)
«Viviamo tempi difficili da percorrere e da raccontare, che rappresentano una sfida per tutti noi e che non dobbiamo fuggire. Al contrario, essi chiedono a ciascuno, nei nostri diversi ruoli e servizi, di non cedere mai alla mediocrità. La Chiesa deve accettare la sfida del tempo e, allo stesso modo, non possono esistere una comunicazione e un giornalismo fuori dal tempo e dalla storia. Come ci ricorda Sant’Agostino, che diceva: “Viviamo bene e i tempi saranno buoni” (cfr Discorso 311). Noi siamo i tempi». Con queste parole, nella giornata di lunedì 12 maggio, papa Leone XIV si è rivolto ai giornalisti arrivati a Roma da tutto il mondo per raccontare l’ultimo saluto a papa Francesco e l’annuncio del nuovo Pontefice.

In un’aula Paolo VI gremita di giornalisti e operatori dei media, Leone XIV ha ricordato il «Discorso della montagna» in cui Gesù ha proclamato «Beati gli operatori di pace» (Mt 5,9). «Si tratta di una Beatitudine che ci sfida tutti e che vi riguarda da vicino, chiamando ciascuno all’impegno di portare avanti una comunicazione diversa, che non ricerca il consenso a tutti i costi, non si riveste di parole aggressive, non sposa il modello della competizione, non separa mai la ricerca della verità dall’amore con cui umilmente dobbiamo cercarla – ha detto Leone XIV -. La pace comincia da ognuno di noi: dal modo in cui guardiamo gli altri, ascoltiamo gli altri, parliamo degli altri; e, in questo senso, il modo in cui comunichiamo è di fondamentale importanza: dobbiamo dire “no” alla guerra delle parole e delle immagini, dobbiamo respingere il paradigma della guerra».

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Il Papa, poi, ha rivolto un messaggio di solidarietà ai giornalisti incarcerati per aver cercato di raccontare la verità, chiedendone la liberazione. «La Chiesa riconosce in questi testimoni – penso a coloro che raccontano la guerra anche a costo della vita – il coraggio di chi difende la dignità, la giustizia e il diritto dei popoli a essere informati, perché solo i popoli informati possono fare scelte libere – ha aggiunto Leone XIV -. La sofferenza di questi giornalisti imprigionati interpella la coscienza delle Nazioni e della comunità internazionale, richiamando tutti noi a custodire il bene prezioso della libertà di espressione e di stampa».

Per il Pontefice, una delle sfide più importanti di oggi è quella di «promuovere una comunicazione capace di farci uscire dalla “torre di Babele” in cui talvolta ci troviamo, dalla confusione di linguaggi senza amore, spesso ideologici o faziosi – ha aggiunto -. Perciò, il vostro servizio, con le parole che usate e lo stile che adottate, è importante. La comunicazione, infatti, non è solo trasmissione di informazioni, ma è creazione di una cultura, di ambienti umani e digitali che diventino spazi di dialogo e di confronto». Il Papa, poi, ha ricordato le potenzialità e i rischi delle nuove tecnologie. «Penso, in particolare, all’intelligenza artificiale col suo potenziale immenso, che richiede, però, responsabilità e discernimento per orientare gli strumenti al bene di tutti – ha detto papa Leone XIV -, così che possano produrre benefici per l’umanità. E questa responsabilità riguarda tutti, in proporzione all’età e ai ruoli sociali».

Infine, papa Leone XIV ha ricordato l’invito fatto da Papa Francesco nel suo ultimo messaggio per la prossima Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali. «Disarmiamo la comunicazione da ogni pregiudizio, rancore, fanatismo e odio; purifichiamola dall’aggressività – ha chiesto papa Leone XIV ai giornalisti -. Non serve una comunicazione fragorosa, muscolare, ma piuttosto una comunicazione capace di ascolto, di raccogliere la voce dei deboli che non hanno voce. Disarmiamo le parole e contribuiremo a disarmare la Terra. Una comunicazione disarmata e disarmante ci permette di condividere uno sguardo diverso sul mondo e di agire in modo coerente con la nostra dignità umana». Salutando i giornalisti e gli operatori, papa Leone XIV ha chiesto loro di scegliere una «comunicazione di pace». «Voi siete in prima linea nel narrare i conflitti e le speranze di pace, le situazioni di ingiustizia e di povertà, e il lavoro silenzioso di tanti per un mondo migliore – ha concluso il Papa -. Per questo vi chiedo di scegliere con consapevolezza e coraggio la strada di una comunicazione di pace».

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Leone XIV ai giornalisti: «Respingere il paradigma della guerra»


Leone XIV incontra i rappresentanti dei media (Foto Picciarella/Alamy)
«Viviamo tempi difficili da percorrere e da raccontare, che rappresentano una sfida per tutti noi e che non dobbiamo fuggire. Al contrario, essi chiedono a ciascuno, nei nostri diversi ruoli e servizi, di non cedere mai alla mediocrità. La Chiesa deve accettare la sfida del tempo e, allo stesso modo, non possono esistere una comunicazione e un giornalismo fuori dal tempo e dalla storia. Come ci ricorda Sant’Agostino, che diceva: “Viviamo bene e i tempi saranno buoni” (cfr Discorso 311). Noi siamo i tempi». Con queste parole, nella giornata di lunedì 12 maggio, papa Leone XIV si è rivolto ai giornalisti arrivati a Roma da tutto il mondo per raccontare l’ultimo saluto a papa Francesco e l’annuncio del nuovo Pontefice.

In un’aula Paolo VI gremita di giornalisti e operatori dei media, Leone XIV ha ricordato il «Discorso della montagna» in cui Gesù ha proclamato «Beati gli operatori di pace» (Mt 5,9). «Si tratta di una Beatitudine che ci sfida tutti e che vi riguarda da vicino, chiamando ciascuno all’impegno di portare avanti una comunicazione diversa, che non ricerca il consenso a tutti i costi, non si riveste di parole aggressive, non sposa il modello della competizione, non separa mai la ricerca della verità dall’amore con cui umilmente dobbiamo cercarla – ha detto Leone XIV -. La pace comincia da ognuno di noi: dal modo in cui guardiamo gli altri, ascoltiamo gli altri, parliamo degli altri; e, in questo senso, il modo in cui comunichiamo è di fondamentale importanza: dobbiamo dire “no” alla guerra delle parole e delle immagini, dobbiamo respingere il paradigma della guerra».

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Il Papa, poi, ha rivolto un messaggio di solidarietà ai giornalisti incarcerati per aver cercato di raccontare la verità, chiedendone la liberazione. «La Chiesa riconosce in questi testimoni – penso a coloro che raccontano la guerra anche a costo della vita – il coraggio di chi difende la dignità, la giustizia e il diritto dei popoli a essere informati, perché solo i popoli informati possono fare scelte libere – ha aggiunto Leone XIV -. La sofferenza di questi giornalisti imprigionati interpella la coscienza delle Nazioni e della comunità internazionale, richiamando tutti noi a custodire il bene prezioso della libertà di espressione e di stampa».

Per il Pontefice, una delle sfide più importanti di oggi è quella di «promuovere una comunicazione capace di farci uscire dalla “torre di Babele” in cui talvolta ci troviamo, dalla confusione di linguaggi senza amore, spesso ideologici o faziosi – ha aggiunto -. Perciò, il vostro servizio, con le parole che usate e lo stile che adottate, è importante. La comunicazione, infatti, non è solo trasmissione di informazioni, ma è creazione di una cultura, di ambienti umani e digitali che diventino spazi di dialogo e di confronto». Il Papa, poi, ha ricordato le potenzialità e i rischi delle nuove tecnologie. «Penso, in particolare, all’intelligenza artificiale col suo potenziale immenso, che richiede, però, responsabilità e discernimento per orientare gli strumenti al bene di tutti – ha detto papa Leone XIV -, così che possano produrre benefici per l’umanità. E questa responsabilità riguarda tutti, in proporzione all’età e ai ruoli sociali».

Infine, papa Leone XIV ha ricordato l’invito fatto da Papa Francesco nel suo ultimo messaggio per la prossima Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali. «Disarmiamo la comunicazione da ogni pregiudizio, rancore, fanatismo e odio; purifichiamola dall’aggressività – ha chiesto papa Leone XIV ai giornalisti -. Non serve una comunicazione fragorosa, muscolare, ma piuttosto una comunicazione capace di ascolto, di raccogliere la voce dei deboli che non hanno voce. Disarmiamo le parole e contribuiremo a disarmare la Terra. Una comunicazione disarmata e disarmante ci permette di condividere uno sguardo diverso sul mondo e di agire in modo coerente con la nostra dignità umana». Salutando i giornalisti e gli operatori, papa Leone XIV ha chiesto loro di scegliere una «comunicazione di pace». «Voi siete in prima linea nel narrare i conflitti e le speranze di pace, le situazioni di ingiustizia e di povertà, e il lavoro silenzioso di tanti per un mondo migliore – ha concluso il Papa -. Per questo vi chiedo di scegliere con consapevolezza e coraggio la strada di una comunicazione di pace».

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Habemus Papam: l’elezione di papa Leone XIV


Papa Leone XIV (Foto: Alamy)

L’8 maggio 2025, alla fine del pomeriggio, il cardinale protodiacono Dominique Mamberti ha pronunciato le parole rituali che tutti aspettavamo: Annuntio vobis gaudium magnum: habemus papam. Il cardinale Robert Francis Prevost è stato eletto come Romano Pontefice e ha scelto di chiamarsi Leone XIV. Il nuovo Papa è poi apparso sul balcone centrale della basilica di S. Pietro per salutare e benedire la folla di fedeli accorsi per l’occasione. A loro e a tutta la Chiesa, papa Leone XIV ha rivolto questo saluto:

«La pace sia con tutti voi! Fratelli e sorelle carissimi, questo è il primo saluto del Cristo Risorto, il buon pastore che ha dato la vita per il gregge di Dio. Anch’io vorrei che questo saluto di pace entrasse nel vostro cuore, raggiungesse le vostre famiglie, a tutte le persone, ovunque siano, a tutti i popoli, a tutta la terra. La pace sia con voi!

Questa è la pace del Cristo Risorto, una pace disarmata e una pace disarmante, umile e perseverante. Proviene da Dio, Dio che ci ama tutti incondizionatamente. Ancora conserviamo nei nostri orecchi quella voce debole ma sempre coraggiosa di Papa Francesco che benediva Roma! Il Papa che benediva Roma dava la sua benedizione al mondo, al mondo intero, quella mattina del giorno di Pasqua. Consentitemi di dar seguito a quella stessa benedizione: Dio ci vuole bene, Dio vi ama tutti, e il male non prevarrà! Siamo tutti nelle mani di Dio. Pertanto, senza paura, uniti mano nella mano con Dio e tra di noi andiamo avanti. Siamo discepoli di Cristo. Cristo ci precede. Il mondo ha bisogno della sua luce. L’umanità necessita di Lui come il ponte per essere raggiunta da Dio e dal suo amore. Aiutateci anche voi, poi gli uni gli altri a costruire ponti, con il dialogo, con l’incontro, unendoci tutti per essere un solo popolo sempre in pace. Grazie a Papa Francesco!

Voglio ringraziare anche tutti i confratelli cardinali che hanno scelto me per essere Successore di Pietro e camminare insieme a voi, come Chiesa unita cercando sempre la pace, la giustizia, cercando sempre di lavorare come uomini e donne fedeli a Gesù Cristo, senza paura, per proclamare il Vangelo, per essere missionari. Sono un figlio di Sant’Agostino, agostiniano, che ha detto: “con voi sono cristiano e per voi vescovo”. In questo senso possiamo tutti camminare insieme verso quella patria che Dio ci ha preparato. Alla Chiesa di Roma un saluto speciale! Dobbiamo cercare insieme come essere una Chiesa missionaria, una Chiesa che costruisce i ponti, il dialogo, sempre aperta a ricevere come questa piazza con le braccia aperte. Tutti, tutti coloro che hanno bisogno della nostra carità, la nostra presenza, il dialogo e l’amore.

E se mi permettete una parola, un saluto a tutti e in modo particolare alla mia cara diocesi di Chiclayo, in Perù, dove un popolo fedele ha accompagnato il suo vescovo, ha condiviso la sua fede e ha dato tanto, tanto per continuare ad essere Chiesa fedele di Gesù Cristo.

A tutti voi, fratelli e sorelle di Roma, di Italia, di tutto il mondo vogliamo essere una Chiesa sinodale, una Chiesa che cammina, una Chiesa che cerca sempre la pace, che cerca sempre la carità, che cerca sempre di essere vicino specialmente a coloro che soffrono. Oggi è il giorno della Supplica alla Madonna di Pompei. Nostra Madre Maria vuole sempre camminare con noi, stare vicino, aiutarci con la sua intercessione e il suo amore. Allora vorrei pregare insieme a voi. Preghiamo insieme per questa nuova missione, per tutta la Chiesa, per la pace nel mondo e chiediamo questa grazia speciale a Maria, nostra Madre».

Nell’omelia della Messa pro eligendo Romano Pontefice, nella mattina del 7 maggio, il cardinale Giovanni Battista Re, decano del Collegio cardinalizio ha ricordato: «Ogni Papa continua a incarnare Pietro e la sua missione e così rappresenta Cristo in terra; egli è la roccia su cui è edificata la Chiesa (cfr. Mt 16,18)». Proseguendo, ha poi aggiunto, in modo non meno significativo: «L’elezione del nuovo Papa non è un semplice avvicendarsi di persone, ma è sempre l’Apostolo Pietro che ritorna».

In papa Leone XIV accogliamo, quindi, con profonda gioia «l’Apostolo Pietro che ritorna». Lo accogliamo con fiducia, sapendo che eredita il compito di guidarci nel percorso di Speranza che è quello del Giubileo 2025 e che sta al centro della vita cristiana. Si tratta di un percorso che si prolungherà necessariamente al di là dell’Anno Santo, in modo che ognuno di noi sia aiutato a percepire e a vivere i segni di Speranza di cui noi e il mondo intero abbiamo urgente bisogno.

All’inizio di un pontificato, sono inevitabili le comparazioni con quelli precedenti e, in particolare, con quello di papa Francesco che da poco ci ha lasciato. Non è da stupirsi se si cercano i segnali di continuità e quelli di innovazione. Noi crediamo che lo Spirito Santo non si ripeta e che, anche quando si tratta della guida della Chiesa, Egli abbia la capacità di farsi presente in una molteplicità di volti, di stili e di gesti, nei quali si esprime il desiderio di annunciare il Vangelo e di viverlo nella comunione e nell’unità.

Proprio in questa diversità di volti, «l’Apostolo Pietro che ritorna» rappresenta e indica Cristo che, tramite il Suo Spirito, ci guida alla consapevolezza di essere figli di Dio e perciò alla verità, alla pace e alla giustizia. Accogliamo perciò il nuovo Pontefice con fiducia e con gioia.

La Civiltà Cattolica, dall’inizio della sua storia lunga 175 anni, è al servizio dei Pontefici e sarà anche al servizio di papa Leone XIV nel modo che egli vorrà. A lui va la manifestazione della nostra devozione filiale, il nostro augurio e la nostra preghiera.

La Civiltà Cattolica

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Habemus Papam: l’elezione di papa Leone XIV


Ⓒ Media Vaticani

L’8 maggio 2025, alla fine del pomeriggio, il cardinale protodiacono Dominique Mamberti ha pronunciato le parole rituali che tutti aspettavamo: Nuntio vobis gaudium magnum: habemus papam. Il cardinale Robert Francis Prevost è stato eletto come Romano Pontefice e ha scelto di chiamarsi Leone XIV. Il nuovo Papa è poi apparso sul balcone centrale della basilica di S. Pietro per salutare e benedire la folla di fedeli accorsi per l’occasione. A loro e a tutta la Chiesa, papa Leone XIV ha rivolto questo saluto:

«La pace sia con tutti voi! Fratelli e sorelle carissimi, questo è il primo saluto del Cristo Risorto, il buon pastore che ha dato la vita per il gregge di Dio. Anch’io vorrei che questo saluto di pace entrasse nel vostro cuore, raggiungesse le vostre famiglie, a tutte le persone, ovunque siano, a tutti i popoli, a tutta la terra. La pace sia con voi!

Questa è la pace del Cristo Risorto, una pace disarmata e una pace disarmante, umile e perseverante. Proviene da Dio, Dio che ci ama tutti incondizionatamente. Ancora conserviamo nei nostri orecchi quella voce debole ma sempre coraggiosa di Papa Francesco che benediva Roma! Il Papa che benediva Roma dava la sua benedizione al mondo, al mondo intero, quella mattina del giorno di Pasqua. Consentitemi di dar seguito a quella stessa benedizione: Dio ci vuole bene, Dio vi ama tutti, e il male non prevarrà! Siamo tutti nelle mani di Dio. Pertanto, senza paura, uniti mano nella mano con Dio e tra di noi andiamo avanti. Siamo discepoli di Cristo. Cristo ci precede. Il mondo ha bisogno della sua luce. L’umanità necessita di Lui come il ponte per essere raggiunta da Dio e dal suo amore. Aiutateci anche voi, poi gli uni gli altri a costruire ponti, con il dialogo, con l’incontro, unendoci tutti per essere un solo popolo sempre in pace. Grazie a Papa Francesco!

Voglio ringraziare anche tutti i confratelli cardinali che hanno scelto me per essere Successore di Pietro e camminare insieme a voi, come Chiesa unita cercando sempre la pace, la giustizia, cercando sempre di lavorare come uomini e donne fedeli a Gesù Cristo, senza paura, per proclamare il Vangelo, per essere missionari. Sono un figlio di Sant’Agostino, agostiniano, che ha detto: “con voi sono cristiano e per voi vescovo”. In questo senso possiamo tutti camminare insieme verso quella patria che Dio ci ha preparato. Alla Chiesa di Roma un saluto speciale! Dobbiamo cercare insieme come essere una Chiesa missionaria, una Chiesa che costruisce i ponti, il dialogo, sempre aperta a ricevere come questa piazza con le braccia aperte. Tutti, tutti coloro che hanno bisogno della nostra carità, la nostra presenza, il dialogo e l’amore.

E se mi permettete una parola, un saluto a tutti e in modo particolare alla mia cara diocesi di Chiclayo, in Perù, dove un popolo fedele ha accompagnato il suo vescovo, ha condiviso la sua fede e ha dato tanto, tanto per continuare ad essere Chiesa fedele di Gesù Cristo.

A tutti voi, fratelli e sorelle di Roma, di Italia, di tutto il mondo vogliamo essere una Chiesa sinodale, una Chiesa che cammina, una Chiesa che cerca sempre la pace, che cerca sempre la carità, che cerca sempre di essere vicino specialmente a coloro che soffrono. Oggi è il giorno della Supplica alla Madonna di Pompei. Nostra Madre Maria vuole sempre camminare con noi, stare vicino, aiutarci con la sua intercessione e il suo amore. Allora vorrei pregare insieme a voi. Preghiamo insieme per questa nuova missione, per tutta la Chiesa, per la pace nel mondo e chiediamo questa grazia speciale a Maria, nostra Madre».

Nell’omelia della Messa pro eligendo Romano Pontefice, nella mattina del 7 maggio, il cardinale Giovanni Battista Re, decano del Collegio cardinalizio ha ricordato: «Ogni Papa continua a incarnare Pietro e la sua missione e così rappresenta Cristo in terra; egli è la roccia su cui è edificata la Chiesa (cfr. Mt 16,18)». Proseguendo, ha poi aggiunto, in modo non meno significativo: «L’elezione del nuovo Papa non è un semplice avvicendarsi di persone, ma è sempre l’Apostolo Pietro che ritorna».

In papa Leone XIV accogliamo, quindi, con profonda gioia «l’Apostolo Pietro che ritorna». Lo accogliamo con fiducia, sapendo che eredita il compito di guidarci nel percorso di Speranza che è quello del Giubileo 2025 e che sta al centro della vita cristiana. Si tratta di un percorso che si prolungherà necessariamente al di là dell’Anno Santo, in modo che ognuno di noi sia aiutato a percepire e a vivere i segni di Speranza di cui noi e il mondo intero abbiamo urgente bisogno.

All’inizio di un pontificato, sono inevitabili le comparazioni con quelli precedenti e, in particolare, con quello di papa Francesco che da poco ci ha lasciato. Non è da stupirsi se si cercano i segnali di continuità e quelli di innovazione. Noi crediamo che lo Spirito Santo non si ripeta e che, anche quando si tratta della guida della Chiesa, Egli abbia la capacità di farsi presente in una molteplicità di volti, di stili e di gesti, nei quali si esprime il desiderio di annunciare il Vangelo e di viverlo nella comunione e nell’unità.

Proprio in questa diversità di volti, «l’Apostolo Pietro che ritorna» rappresenta e indica Cristo che, tramite il Suo Spirito, ci guida alla consapevolezza di essere figli di Dio e perciò alla verità, alla pace e alla giustizia. Accogliamo perciò il nuovo Pontefice con fiducia e con gioia.

La Civiltà Cattolica, dall’inizio della sua storia lunga 175 anni, è al servizio dei Pontefici e sarà anche al servizio di papa Leone XIV nel modo che egli vorrà. A lui va la manifestazione della nostra devozione filiale, il nostro augurio e la nostra preghiera.

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Maria e l’unità della Chiesa


Mater Ecclesiae (Foto Alamy)

Quale ruolo è stato conferito a Maria nell’unità della Chiesa? La domanda è molto ampia e la risposta comporta molteplici risvolti. L’ecumenismo invita ad apprezzare la diversità delle posizioni concernenti la dottrina e il culto mariani, e a studiare le vie di avvicinamento; la situazione ecumenica è diversa a seconda che si tratti dei rapporti tra cattolici e ortodossi o dei loro rapporti con i protestanti. La prospettiva nella quale vorremmo metterci è anco­ra più ampia: si tratta di determinare il contributo di Maria non solo all’unione di cristiani appartenenti a diverse Confessioni, ma in una maniera più fondamentale all’unità della Chiesa e, più anco­ra, all’unità dell’insieme del genere umano.

L’impegno primordiale nell’opera della riunione


L’impegno di Maria nell’opera della salvezza, come ci viene presentato nei testi evangelici, non è senza rapporto con un obiettivo essenziale di unità. Le indicazioni sono implicite, ma merita­no di essere esplicitate. È necessario, anzitutto, riflettere sul mo­mento essenziale che ha costituito, per Maria, il mistero dell’An­nunciazione. L’angelo annuncia che Gesù «regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe» e che «il suo regno non avrà fine» (Lc 1,33). Ricevendo «il trono di Davide suo padre», egli sarà il Messia che stabilirà definitamente il regno ideale verso il quale tendeva tutta la speranza giudaica. Una proprietà caratteristica di questo regno era la riunione che doveva realizzare.

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È così, per esempio, che il servo di Jahvè era stato destinato, fin dal seno materno, a una missione consistente nel «riunire Israele» e ricondurre i superstiti (Is 49,5-6). La dispersione, che aveva assunto la sua forma più tragica nell’esilio a Babilonia, era considerata come una con­seguenza dei peccati del popolo. Il peccato è fonte di divisione, come mostra il racconto della torre di Babele, dove l’orgoglio che si erge con­tro Dio provoca l’impossibilità, per i popoli, di capirsi tra di loro, a cau­sa della mancanza di una lingua comune1. Qui appare il principio secondo cui coloro che si oppongono a Dio finiscono per mettersi gli uni contro gli altri. Infatti, separarsi da Dio significa allontanarsi dalla fonte di ogni unità e abbandonarsi alle passioni che dividono.

La religione giudaica non si limita a prendere coscienza di questo aspetto deleterio del peccato. Essa suscita la speranza di una salvezza che opera una riunione. Il regno che Dio vuole instaurare dovrà porre fine ad ogni divisione e riunire il popolo disperso. Non si può dubitare che Maria condivideva questa speranza messianica e che l’aspirazione al­l’unità era molto profonda nella sua anima. Ella non aveva mancato di constatare intorno a sé i danni della divisione, i gesti di ostilità, le lotte tenaci tra individui e tra famiglie, gli odi e le vendette, i tormenti inflitti agli altri dalla gelosia. Di fronte a queste rovine, Maria si sentiva impo­tente, ma prendeva sul serio la promessa divina di un’unione che sareb­be stata restaurata da una mano onnipotente.

All’udire l’annuncio dell’angelo, ella comprende che tutti i beni promessi con il regno messianico saranno accordati al popolo, e sa che tra questi beni vi è quello dell’unità, inseparabile dalla pace. Quando Maria esprime la sua adesione alla proposta che le viene rivolta, è dunque consapevole d’impegnarsi nell’instaurazione di un regno che assicurerà il trionfo dell’unione sulla dispersione. Le parole «avvenga di me quello che hai detto» significano anzitutto l’accettazione della maternità annunciata, ma comportano un consenso a tutto il destino del fanciullo, come le era stato descritto. Il sì che pronuncia è un sì all’unione futura, a questo unico Regno che deve operare una riunione definitiva,

Si può aggiungere che, con la sua adesione, Maria vuole dedica­re tutte le sue forze all’instaurazione di questo Regno. Ella non si limita a una speranza che attende passivamente gli avvenimenti; è decisa a cooperare alla loro realizzazione tramite il ruolo materno che le viene assegnato. Ella accetta non soltanto di diventare la madre di Gesù, ma anche di contribuire alla sua opera, diventan­done in un certo senso la madre. E siccome sa che quest’opera im­plica una riunione, una riconciliazione degli uomini, comincia già ad assumere il ruolo di madre dell’unità. Se il Regno descritto dal­l’angelo è destinato a prendere corpo nella Chiesa, il consenso al messaggio significa — secondo l’intenzione divina — un impegno al servizio dell’unità della Chiesa.

Certo, Maria non può ancora discernere che cosa sarà concretamente la formazione e lo sviluppo della Chiesa. Ella si attiene al­l’immagine del Regno che le è stata proposta dall’angelo. Ma la qualità del suo consenso è in proporzione alla grazia ricevuta, gra­zia singolare e abbondante. Come questa grazia non l’avrebbe orientata verso i beni spirituali del regno messianico, in particolare verso l’unità? Quando l’angelo incontra Maria, la chiama «piena di grazia». Questa denominazione illumina tutto il dialogo; colei che ode il messaggio lo comprende con la luce da lei ricevuta ed è in quanto colmata di grazia che aderisce al progetto.

In ciò vi è un principio essenziale d’interpretazione dell’episodio dell’Annunciazione. La grazia ha diretto i pensieri e i sentimenti di Maria verso la meta perseguita da Cristo nella sua missione di Salvatore. Re­centemente uno studio esegetico della parola kecharitômenè («piena di grazia») ha sottolineato che si tratta della grazia che aveva ispirato a Ma­ria un profondo desiderio della verginità2. Occorre aggiungere che que­sta grazia non l’aveva orientata soltanto verso la maternità verginale, ma verso tutto l’orizzonte della salvezza messianica e, più particolarmente, verso la riunione del popolo. Precisiamo che la grazia che aveva colma­to Maria non era una grazia puramente funzionale. Come riconosce la Tradizione, era una grazia che aveva trasformato la sua personalità, san­tificandola. Ma questa grazia, che in qualche modo era diventata sua proprietà personale, aveva una meta, quella di prepararla al suo ruolo nell’opera della salvezza.

Così, nel momento in cui ha accettato la maternità che le veniva offerta dall’alto, Maria ha potuto assumerla secondo le intenzioni divine, quelle di un regno unificante. Queste intenzioni erano diventate sue in virtù dell’azione ispirante dello Spirito Santo; abbiamo inoltre osservato che Maria aveva dovuto appropriarsele in maniera concreta per l’esperienza che faceva della divisione tra gli uomini e i danni che ne risultavano. Ella comprendeva la necessità di un intervento divino per ristabilire l’unità e l’auspicava con tut­to il cuore.

L’impegno nella maternità


Dall’Annunciazione passiamo a un altro consenso essenziale di Maria: quello alla sua maternità universale. Al Calvario, la madre sta in piedi accanto a suo figlio. Ella è là perché lo ha voluto e perché desidera condividere tutte le sofferenze del Crocifisso, associarsi nella maniera più completa al sacrificio che deve ottenere la salvezza all’umanità. Gesù consacra definitivamente quest’asso­ciazione chiedendole di accettare una nuova maternità: «Donna, ecco tuo figlio» (Gv 19,26). Chiamandola «Donna», le mostra che la considera come la donna destinata a cooperare con il Figlio del­l’uomo al compimento del disegno divino. Donandole un altro fi­glio, le chiede anzitutto di accettare, fin da questo momento, di perdere il suo unico Figlio, per avere ormai come figli i suoi di­scepoli. È a costo del suo sacrificio materno che Maria acquista una maternità dall’estensione indefinita, che si prolungherà e si moltiplicherà sino alla fine del mondo. La maternità nei riguardi del discepolo prediletto, che inizia in questo momento in virtù di una parola creatrice del Salvatore, è il segno di una maternità nei riguardi di ogni discepolo in quanto è amato da Cristo.

L’interpretazione delle parole di Gesù nel senso di una semplice volontà di adempiere a un obbligo familiare, vegliando sull’avvenire di sua madre e affidandola al discepolo prediletto, sarebbe piuttosto restrittiva. Essa non corrisponde all’intenzione che si manifesta nell’episodio3. Quando aveva lasciato Nazaret per la vi­ta pubblica, Gesù aveva certamente provveduto al futuro di sua madre; non avrebbe potuto aspettare l’ora della sua morte per preoccuparsene. D’altronde constatiamo che le parole che pronun­cia sulla croce non hanno come primo scopo l’affidamento di Ma­ria a Giovanni, ma prima di tutto di affidare Giovanni a Maria. Maria è invitata a trattare Giovanni come suo figlio; di conse­guenza è lei che riceve un nuovo incarico, quello di vegliare sui discepoli e dedicare ad essi una sollecitudine materna. Le parole rivolte a Giovanni: «Ecco tua madre» sono la conseguenza di que­sta nuova maternità; il discepolo prediletto dovrà rispondere al­l’affetto materno di Maria con affetto filiale.

L’evangelista ci fa riconoscere in ciò il compimento della missione salvatrice, poiché aggiunge che Gesù sapeva «che ogni cosa era stata ormai compiuta» (Gv 19,28). Con il dono di sua madre all’umanità, il Salvatore ha consumato l’opera che gli era stata affi­data dal Padre. Si tratta di un dono che ha per obiettivo lo svilup­po della vita divina nel mondo. Ha una finalità universale: è così che discerniamo legittimamente, nella maternità nei confronti del discepolo, il segno di una maternità nei riguardi di ogni cristiano. Maria è costituita madre per la più larga diffusione di tutti i beni spirituali che Gesù merita con il suo sacrificio. Come afferma il Vaticano II, ella è diventata nostra madre nell’ordine della grazia.

Tuttavia, le parole pronunciate da Gesù esprimono solo una maternità individuale. Hanno implicitamente un valore universale nel senso che Giovanni rappresenta ogni discepolo. Ma è l’univer­salità di una maternità nei riguardi di ogni individuo. Gesù non ha fatto dichiarazioni su una maternità di Maria nei riguardi di tutta la comunità dei discepoli. Enunciando unicamente una ma­ternità di ordine individuale, voleva sottolineare che Maria è ma­dre di ogni discepolo come se fosse il suo solo figlio. L’enunciato di una maternità nei riguardi dell’insieme avrebbe potuto essere compreso nel senso di una maternità talmente generale o globale, che l’attenzione materna ad ogni persona sarebbe stata meno evi­dente o meno necessaria. Il Salvatore voleva istituire, al contrario, i più intimi rapporti tra madre e figlio, in cui ciascuno avrebbe avuto la certezza di ricevere tutto quello che l’amore materno di Maria poteva dare a ciascuno, a seconda dei suoi bisogni personali nell’ordine della grazia. Egli ha dunque dato alla maternità di Ma­ria una forma in cui l’accento era posto sulle relazioni personali.

Questa finalità individuale non impedisce che le parole del Salvatore siano pronunciate in un orizzonte comunitario. Certi com­mentatori del testo evangelico hanno tentato di fondare questo orizzonte sulla persona di Giovanni, considerato come rappresen­tante della Chiesa. Sembra che nulla indichi tale rappresentatività, che sarebbe comprensibile di più nel caso di Pietro, roccia sulla quale la Chiesa doveva essere edificata e destinato ad essere pro­clamato presto pastore universale degli agnelli e delle pecore di Gesù. Ma non è stato Pietro, bensì Giovanni, ad essere scelto co­me figlio di Maria, e lo è stato più particolarmente come simbolo di relazioni personali di amore con Gesù.

L’orizzonte comunitario risulta piuttosto dall’orientamento dell’opera che Cristo consuma, donando sua madre al discepolo. Quest’opera ha essenzialmente uno scopo unificante. Non solo le promesse dell’antica alleanza l’avevano annunciato, ma Gesù stes­so lo ha dichiarato. Egli si presenta come il buon pastore che offre la vita per le sue pecore (Gv 10,11); e perché non si pensi che que­sta offerta sia destinata a un gregge limitato, aggiunge: «Ho altre pecore che non sono di questo ovile; anche queste io devo con­durre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore» (Gv 10,16). È per la riunione di tutte le pecore in un solo gregge che Gesù offre la sua vita.

Durante l’ultima Cena, questa volontà di realizzare l’unità appare ancora più manifesta nella preghiera sacerdotale. Essa vi è espressamente menzionata con il motivo supremo che la giustifica: l’unità umana deve riflettere l’unità divina e in una certa maniera incorporarvisi: «Che tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi ha mandato» (Gv 17,21). Questa somiglianza con l’unità delle persone divine implica la ri­cerca della perfezione nell’unità della comunità umana: «Che siano per­fetti nell’unità» (Gv 17,23). In precedenza Gesù aveva chiesto ai suoi di­scepoli, individualmente, di essere perfetti come il Padre loro celeste è perfetto (cfr Mt 5,48). Alla vigilia del suo sacrificio chiede al Padre di renderli perfetti nell’unità che li riunirà. Sarà un frutto essenziale dell’of­ferta della sua vita.

San Giovanni ha colto bene questa intenzione fondamentale del sacrifi­cio redentore. Commentando l’affermazione di Caifa che era meglio che un uomo solo morisse per il popolo, vi riconosce una parola profetica; egli aggiunge che Gesù non doveva morire soltanto per la sua nazione, ma «anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi» (Gv 11,52). Dobbiamo trarne la conclusione che i discepoli hanno ben compreso, al­meno dopo la morte del loro Maestro, l’importanza capitale che Gesù at­tribuiva all’unità, al punto di farne l’obiettivo del suo sacrificio.

Maria stessa non ignorava questa volontà riconciliatrice di Ge­sù. Associandosi al suo sacrificio, desiderava cooperare alla restaurazione dell’unione, all’edificazione di un regno ideale di unità. Con questa cooperazione materna al sacrificio della croce ha real­mente contribuito all’instaurazione di questo Regno. Al Calvario è colei che con l’offerta di suo figlio collabora alla fondazione di una Chiesa che riunirà gli uomini nell’unità del Cristo.

Quando Maria accetta la sua nuova maternità, diventa a nuovo titolo madre dell’unità. È in una prospettiva fondamentale di riunione di tutte le pecore sotto un solo pastore che ella assume questo nuovo compito. Cristo l’ha voluta madre della Chiesa e nello stesso tempo madre di ogni discepolo. Nessuna delle due funzioni potrebbe essere adempiuta a scapito dell’altra. Maria dà tutto il suo affetto materno a ciascuno di quelli che le sono affidati come figli; ma nello stesso tempo conserva la preoccupazione di favorire l’accordo tra tutti e di rafforzare l’unità della Chiesa.

È importante osservare che la maternità ricevuta al Calvario è universale nella misura dell’universalità della stessa opera di salvezza. In questo senso, Maria non è soltanto madre di ogni disce­polo che aderisce a Gesù mediante la fede, ma madre di ogni esse­re umano, in quanto ciascuno è chiamato ad accogliere la grazia di Cristo. In modo analogo, non è soltanto madre della Chiesa costi­tuita attualmente sotto la sua forma visibile; ella è madre di quella che si potrebbe chiamare la Chiesa in divenire, la riunione pro­gressiva degli uomini nella fede in Cristo. Il suo ruolo materno si estende a tutta l’umanità, coincidendo con l’universalità della dif­fusione della grazia. È dunque a buon diritto che la si deve chia­mare madre dell’umanità e madre di tutti gli uomini.

Presenza terrestre nell’unità della Chiesa


L’ultima volta che Maria viene citata nel Nuovo Testamento, secondo la cronologia degli eventi della salvezza, è dopo l’Ascen­sione di Gesù, nella comunità che attende la Pentecoste. Questa presenza appare legata all’unità di questa comunità. In effetti, san Luca dice che tutti gli apostoli «erano assidui e concordi nella pre­ghiera, con alcune donne e con Maria la madre di Gesù e con i fratelli di lui» (At 1,14). In questa assemblea vi è unanimità di sentimenti4. Essa contrasta con le dispute che così spesso avevano messo gli apostoli gli uni contro gli altri per sapere chi avrebbe occupato il primo posto nel Regno. Anche nell’ultima Cena vi era stata una discussione di questo genere. L’accordo unanime che si esprime in una preghiera comune si spiega prima di tutto con il sacrificio redentore di Cristo, che ha ottenuto per i suoi apostoli la grazia dell’unione. Ha per guardiano e garanzia la presenza di Ma­ria. È la prima e la sola volta in cui Maria viene nominata in una riunione comunitaria con gli apostoli; ella non è estranea all’una­nimità di cuore che caratterizza questa assemblea. Anche se Maria qui è chiamata semplicemente «madre di Gesù», appare come ma­dre dell’unità nella prima comunità che alla Pentecoste sarà tra­sformata in Chiesa. La sua presenza materna nello sviluppo della Chiesa non cesserà più di essere un incoraggiamento all’unione.

La preghiera in cui si manifestava l’accordo dei sentimenti era soprattutto una supplica in vista della venuta dello Spirito Santo. Maria, che era più di tutti gli altri membri di quest’assemblea in intimo rapporto con lo Spirito Santo, desiderava ardentemente una venuta di cui ella aveva provato in maniera unica la fecondità. Ella aspirava più particolarmente a questa venuta per assicurare la perseveranza nell’unione. Certo, in questo primo momento di fer­vore in cui tutti volevano aprirsi allo Spirito Santo, la buona inte­sa era notevole. Ma Maria, che conosceva i discepoli, si rendeva conto che l’intesa rimaneva fragile, dal punto di vista umano, e che i motivi che avevano suscitato in precedenza le discussioni ri­schiavano di produrne altre. Pertanto implorava lo Spirito Santo di creare una durevole unità nella Chiesa, nell’attaccamento comu­ne a Cristo. Solo una forza di amore soprannaturale, quella dello Spirito Santo, poteva mantenere i discepoli al di sopra delle ten­denze naturali dell’ambizione personale, preservarli dalle rivalità e da ogni dissenso.

Dopo aver fatto l’esperienza dell’unanimità di cuore nell’assemblea in cui era stata presente, Maria non manca di contribuire al mantenimento di questa unanimità dopo la Pentecoste. Fu un’azione discreta ma certamente efficace. Con la nuova maternità che le era stata conferita, Maria si sentiva più responsabile dell’unione che regnava intorno a lei. Nella misura in cui intratteneva contatti con i discepoli e con tutti quelli che prendevano parte alla vita della prima Chiesa, ella esercitava un influsso nel senso di una re­ciproca comprensione. Si era sempre comportata da artefice della pace; dopo la Pentecoste aveva una ragione supplementare per svolgere un ruolo di conciliazione e di pacificazione, perché la Chiesa poteva svilupparsi solo nell’unità. Ella compì ogni sforzo quindi per avvicinare quelli che avrebbero avuto tendenza a op­porsi gli uni agli altri.

Alla Pentecoste Maria ha ricevuto il dono dello Spirito per la missione che le era stata data da Gesù. Questo dono doveva portarla al compimento integrale della sua missione materna, per gli anni che le restavano da vivere nella sua esistenza terrestre. La rendeva capace di adempiere al ruolo di madre presso Giovanni e gli altri discepoli. Le ispirava tutte le iniziative possibili per raffor­zare l’unione. La orientava più particolarmente verso una preghie­ra incessante per ottenere il mantenimento di un accordo unanime nella fede e nell’attaccamento a Gesù.

In questa preghiera per l’unità, l’esempio di Gesù era per Maria lo stimolo più potente. Ella non aveva assistito all’ultima Cena, né aveva udi­te personalmente le parole che Gesù vi aveva pronunciate. Ma, da quan­do abitava con Giovanni, aveva potuto avere in merito un’ampia infor­mazione. Il discepolo prediletto le aveva raccontato come aveva vissuto quel momento unico, con tutto quello che Gesù aveva detto e fatto. Le aveva riferito l’istituzione dell’Eucaristia e le parole che ne spiegavano la portata. Le aveva ripetuto la grande preghiera sacerdotale come si era impressa nella sua memoria. Ora, in questa preghiera, l’implorazione per l’unità di tutti i discepoli, simile all’unità del Padre e del Figlio, aveva occupato un posto importante e aveva rivestito una forma particolar­mente insistente. Giovanni, il discepolo più vicino a Gesù in questa cir­costanza, poteva meglio illuminare Maria sull’ardore con il quale il Mae­stro aveva pronunciato le parole: «Che tutti siano uno…».

Raccogliendo questo ricordo, Maria comprendeva con chiarezza che nella sua missione materna doveva assumersi questa supplica per l’unità. Gesù aveva dimostrato che l’unità è prima di tutto un dono concesso dal Padre e che deve formare oggetto di preghiera. Essendo sempre vis­suta all’unisono con suo figlio, Maria ha dunque pregato, con tutto lo slancio della sua anima, per ottenere dal Padre l’unità della Chiesa.

Ella rimane per i cristiani un modello della preghiera per l’uni­tà. La preoccupazione ecumenica, che si è manifestata con molto più vigore in questo secolo, ha fatto comprendere meglio il valore della preghiera per l’unione dei cristiani. Da una parte vi è una presa di coscienza dell’ideale di unità e dello scandalo costituito dalle divisioni tra Chiese separate; d’altra parte vi è la constatazio­ne di estreme difficoltà sulla via della riunione. Davanti agli osta­coli s’impone più chiaramente la necessità della preghiera. Pur moltiplicando i contatti per superare i motivi di disaccordo, le Chiese si rendono conto che solo l’onnipotenza divina, alla quale nulla è impossibile, può aprire il cammino della riconciliazione, che dev’essere sollecitata da ardenti suppliche.

Durante la sua esistenza terrestre, Maria non ha conosciuto una situazione paragonabile a quella dell’ecumenismo contemporaneo, con cristiani così profondamente separati, raggruppati in Chiese che rivendicano la propria indipendenza e dove il contenuto della fede forma spesso l’oggetto di interpretazioni molto divergenti. Ella ha vissuto semplicemente la prima situazione ideale dell’una­nimità di cuore, che è stata consacrata dalla Pentecoste; poi ha co­nosciuto diversi conflitti che hanno minacciato di rompere questa unità. Ella non ha mancato di discernere tutto quello che poteva compromettere l’unione voluta da Gesù; non ha cessato di prega­re perché tutte le forze dissolventi potessero essere contenute e perché l’unione trionfasse su tutte le difficoltà.

È con una preghiera dello stesso genere che Maria intercede per la Chiesa odierna. Non si tratta soltanto di pregare per gli obiettivi propri all’ecumenismo, ossia per la riunione dei fratelli separati. La preghiera di Maria tendeva a ottenere la realizzazione di tutti gli aspetti dell’unità ecclesiale, specialmente mediante rapporti fra­terni tra tutti i credenti e con il desiderio di evitare il più possibile la minima lacerazione in questa unità. I cristiani sono invitati a condividere questa preghiera, chiedendo che la Chiesa progredisca costantemente nell’unione tramite una carità sempre più sincera, vittoriosa su tutte le passioni contrarie.

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L’azione celeste per l’unità


Entrando nella gloria celeste, Maria ha visto allargarsi indefinitamente il suo influsso sull’unità della Chiesa. Per tutto il tempo che ha vissuto sulla terra doveva limitare la sua azione materna al­le persone con le quali era in contatto. Se aveva potuto conoscere tutti quelli che appartenevano alla comunità riunita per la Pente­coste, in seguito non aveva potuto entrare in contatto con quelli che, in gran numero, si erano convertiti alla nuova fede e si erano fatti battezzare. Aveva semplicemente prodigato il suo affetto ma­terno e la sua assistenza spirituale a coloro che l’avvicinavano.

Una volta assunta in cielo, Maria può esercitare, senza alcuna restrizione, il suo compito di madre. Può seguire con lo sguardo tutti quelli che entrano nella Chiesa, aiutandoli in ogni momento. La condizione celeste le permette di dominare lo spazio e il tempo, di conoscere tutte le situazioni e d’intervenire ovunque lo desideri. La rende atta a portare nella sua preghiera a Cristo tutte le sue preoccupazioni per ciascuno di quelli che ama come propri figli.

Pur accompagnando ciascuno in tutte le circostanze della sua vita, Maria abbraccia anche con lo sguardo l’insieme della Chiesa, con tutti i problemi comunitari che in essa si pongono. Per il fatto che la sua maternità individuale nei riguardi di ciascun cristiano s’inse­risce in una maternità universale, ella si china su ciascuno, tenen­do conto dei bisogni della comunità. Questo spiega perché tutta la sua azione è quella di «Madre dell’unità». Questo titolo le è stato applicato da sant’Agostino, il quale voleva sottolineare che la Chiesa, a immagine di Maria, è madre dell’unità in mezzo alla moltitudine degli uomini5.

La Chiesa è madre dell’unità perché tende a riunire gli uomini nell’unica vita di Cristo. Maria è madre di questa unità in maniera più reale e più concreta perché è una persona e perché ha un cuore materno. Nel suo affetto materno vuole assicurare l’unione di tutti quelli che ama. Una madre tende spontaneamente a favorire l’u­nione dei suoi figli. Le loro dispute produrrebbero una lacerazio­ne nel suo cuore materno. Ella non può schierarsi per l’uno con­tro l’altro, perché ama tutti e il suo amore vuole tenerli uniti. In questo senso ogni madre è madre dell’unità.

Nel caso di Maria, è essenzialmente a un livello soprannaturale che agisce come madre dell’unità, poiché è «madre nell’ordine del­la grazia» (LG, n. 61). Questo livello superiore della grazia non toglie nulla alla spontaneità con la quale agisce per salvaguardare l’unità. Questa spontaneità materna è piuttosto rafforzata dal pro­fondo orientamento della grazia, che tende a sviluppare la carità e ad avvicinare tra di loro i membri del Corpo Mistico di Cristo. Colei che nella sua vita terrestre ha ricevuto la pienezza della gra­zia e che nel suo stato celeste gode della pienezza della gloria, è in­teramente presa dal desiderio di riunire sempre più i suoi figli in un’unità di fede e di amore.

Ci si potrebbe chiedere perché Cristo abbia voluto per Maria questo ruolo di madre dell’unità. Nella dottrina di Gesù, nei suoi precetti di carità, nella vita di amore comunicata dalla grazia e in particolare dall’Eucaristia, non vi erano già abbastanza stimoli per perseguire l’obiettivo dell’unità? In effetti il Maestro ha voluto una madre dell’unità per lo stesso motivo che voleva una madre della Chiesa, una madre dei cristiani nell’ordine della grazia. Egli desiderava che una presenza materna incoraggiasse i suoi discepoli alla buona intesa, e che questa presenza fosse la più commovente immagine dell’amore del Padre verso l’umanità. Gli uomini pro­vano spesso difficoltà a riconoscere la bontà e la tenerezza del Padre; sono più sensibili alla presenza di un volto materno e, attra­verso questo, possono più facilmente vedere il volto del Padre.

Come madre dell’unità, Maria è destinata a esprimere nella sua condotta l’amore del Padre che vuole riunire tutti gli uomini. La missione di rappresentare il Padre contribuisce a porre in evidenza l’importanza essenziale del ruolo di Maria. Non è una funzione marginale; l’attività materna rivela il disegno divino che guida l’o­pera della salvezza, l’intenzione del Padre di riunire tutti gli esseri umani come suoi figli nel suo Figlio unico. Tutta la profondità dell’amore che regge i rapporti di Dio con l’umanità tende ad ap­parire attraverso la sollecitudine di Maria per l’unità della Chiesa.

Come espressione del disegno del Padre, la missione materna di Maria assume più chiaramente tutta la sua ampiezza. Il Padre desi­dera riunire l’umanità intera nel suo amore. Il cuore materno di Maria è animato dalla stessa intenzione universale. Certo, Maria è madre, a un titolo più speciale, di tutti coloro che aderiscono a Cristo mediante la fede. Ma ella si sente ugualmente la madre di tutti coloro che sono chiamati ad accogliere la grazia di Cristo sot­to forme più velate, più implicite; in questo senso la sua maternità assume la più vasta universalità. Da questo punto di vista, Maria è madre della riunione segreta che si effettua nel profondo dei cuo­ri umani, anche dove questa riunione non prende la forma visibi­le dell’appartenenza alla Chiesa. Ella si dedica dunque a favorire l’intesa tra tutti gli uomini, quali che siano. Certi segni di quest’a­zione in favore di una unità più vasta appaiono quando, per esem­pio, il culto di Maria attira sia cristiani sia musulmani.

Nell’ecumenismo è noto che il fervore del culto mariano è un elemento essenziale di avvicinamento tra ortodossi e cattolici. Se nella loro grande maggioranza i protestanti si sono allontanati da questo culto, si nota nondimeno che alcuni, recentemente, hanno riscoperto la Vergine Maria e con ciò un anello di congiunzione con i cristiani che la venerano6. Nella Chiesa cattolica, in cui l’unità istituzionale è più vigorosa, Maria fa in modo che a questa unità corrisponda sempre più un’unanimità di cuori simile a quella che aveva caratterizzato la comunità primitiva. Un tale amore, in­teramente sostenuto dalla grazia, non può essere che efficace, an­che se le meraviglie che esso produce rimangono nell’ombra.

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1Gn 11,1-9. Nel suo commento al racconto della torre di Babele, C. Westermann os­serva che l’avvenimento della Pentecoste testimonia che i limiti delle lingue sono stati superati: «Li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio» (At 2,11)(Genesis 1-11, vol. I, Neukirchen-Vluyn 1974, 740). Il racconto della torre di Babele si comprende alla luce del complemento che gli dona l’universalismo instaurato da Cristo.

2I. DE LA POTTERIE, Kecharitômenè en Lc 1,28. Etude exégétique et théologique, in Biblica 68 (1986) 480-508: «Kecharitômenè non descrive semplicemente la santità di Maria (era l’ese­gesi della Tradizione), ma il suo profondo desiderio della verginità, un desiderio di apparte­nere a Dio, che le era stato ispirato dalla grazia di Dio, per prepararla appunto a una maternità verginale» (507).

3Sul valore messianico della dichiarazione. cfr J. GALOT, Marie dans l’Evangile, Des­clée-De Brouwer, Paris – Bruges 1965, 179-189.

4 Il v. 14 «ha il carattere di un sommario che offre la descrizione di una situazione ideale», osserva G. SCHNEIDER, Die Apostelgeschichte, vol. I, Herder, Freiburg – Basel – Wien 1980, 207.

5Cfr S. AGOSTINO, Sermo 192,2 (PL 38, 1012-1013).

6 Sulla situazione ecumenica della mariologia cfr J. GALOT, Maria. la donna nell’opera di salvezza, PUG, Roma, 1984, 379-415; S. DE FIORES, Maria nella teologia contemporanea, Mater Ecclesiae, Roma 1987, 230-255.

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Maria e l’unità della Chiesa


Mater Ecclesiae (Foto Alamy)

Quale ruolo è stato conferito a Maria nell’unità della Chiesa? La domanda è molto ampia e la risposta comporta molteplici risvolti. L’ecumenismo invita ad apprezzare la diversità delle posizioni concernenti la dottrina e il culto mariani, e a studiare le vie di avvicinamento; la situazione ecumenica è diversa a seconda che si tratti dei rapporti tra cattolici e ortodossi o dei loro rapporti con i protestanti. La prospettiva nella quale vorremmo metterci è anco­ra più ampia: si tratta di determinare il contributo di Maria non solo all’unione di cristiani appartenenti a diverse Confessioni, ma in una maniera più fondamentale all’unità della Chiesa e, più anco­ra, all’unità dell’insieme del genere umano.

L’impegno primordiale nell’opera della riunione


L’impegno di Maria nell’opera della salvezza, come ci viene presentato nei testi evangelici, non è senza rapporto con un obiettivo essenziale di unità. Le indicazioni sono implicite, ma merita­no di essere esplicitate. È necessario, anzitutto, riflettere sul mo­mento essenziale che ha costituito, per Maria, il mistero dell’An­nunciazione. L’angelo annuncia che Gesù «regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe» e che «il suo regno non avrà fine» (Lc 1,33). Ricevendo «il trono di Davide suo padre», egli sarà il Messia che stabilirà definitamente il regno ideale verso il quale tendeva tutta la speranza giudaica. Una proprietà caratteristica di questo regno era la riunione che doveva realizzare.

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È così, per esempio, che il servo di Jahvè era stato destinato, fin dal seno materno, a una missione consistente nel «riunire Israele» e ricondurre i superstiti (Is 49,5-6). La dispersione, che aveva assunto la sua forma più tragica nell’esilio a Babilonia, era considerata come una con­seguenza dei peccati del popolo. Il peccato è fonte di divisione, come mostra il racconto della torre di Babele, dove l’orgoglio che si erge con­tro Dio provoca l’impossibilità, per i popoli, di capirsi tra di loro, a cau­sa della mancanza di una lingua comune1. Qui appare il principio secondo cui coloro che si oppongono a Dio finiscono per mettersi gli uni contro gli altri. Infatti, separarsi da Dio significa allontanarsi dalla fonte di ogni unità e abbandonarsi alle passioni che dividono.

La religione giudaica non si limita a prendere coscienza di questo aspetto deleterio del peccato. Essa suscita la speranza di una salvezza che opera una riunione. Il regno che Dio vuole instaurare dovrà porre fine ad ogni divisione e riunire il popolo disperso. Non si può dubitare che Maria condivideva questa speranza messianica e che l’aspirazione al­l’unità era molto profonda nella sua anima. Ella non aveva mancato di constatare intorno a sé i danni della divisione, i gesti di ostilità, le lotte tenaci tra individui e tra famiglie, gli odi e le vendette, i tormenti inflitti agli altri dalla gelosia. Di fronte a queste rovine, Maria si sentiva impo­tente, ma prendeva sul serio la promessa divina di un’unione che sareb­be stata restaurata da una mano onnipotente.

All’udire l’annuncio dell’angelo, ella comprende che tutti i beni promessi con il regno messianico saranno accordati al popolo, e sa che tra questi beni vi è quello dell’unità, inseparabile dalla pace. Quando Maria esprime la sua adesione alla proposta che le viene rivolta, è dunque consapevole d’impegnarsi nell’instaurazione di un regno che assicurerà il trionfo dell’unione sulla dispersione. Le parole «avvenga di me quello che hai detto» significano anzitutto l’accettazione della maternità annunciata, ma comportano un consenso a tutto il destino del fanciullo, come le era stato descritto. Il sì che pronuncia è un sì all’unione futura, a questo unico Regno che deve operare una riunione definitiva,

Si può aggiungere che, con la sua adesione, Maria vuole dedica­re tutte le sue forze all’instaurazione di questo Regno. Ella non si limita a una speranza che attende passivamente gli avvenimenti; è decisa a cooperare alla loro realizzazione tramite il ruolo materno che le viene assegnato. Ella accetta non soltanto di diventare la madre di Gesù, ma anche di contribuire alla sua opera, diventan­done in un certo senso la madre. E siccome sa che quest’opera im­plica una riunione, una riconciliazione degli uomini, comincia già ad assumere il ruolo di madre dell’unità. Se il Regno descritto dal­l’angelo è destinato a prendere corpo nella Chiesa, il consenso al messaggio significa — secondo l’intenzione divina — un impegno al servizio dell’unità della Chiesa.

Certo, Maria non può ancora discernere che cosa sarà concretamente la formazione e lo sviluppo della Chiesa. Ella si attiene al­l’immagine del Regno che le è stata proposta dall’angelo. Ma la qualità del suo consenso è in proporzione alla grazia ricevuta, gra­zia singolare e abbondante. Come questa grazia non l’avrebbe orientata verso i beni spirituali del regno messianico, in particolare verso l’unità? Quando l’angelo incontra Maria, la chiama «piena di grazia». Questa denominazione illumina tutto il dialogo; colei che ode il messaggio lo comprende con la luce da lei ricevuta ed è in quanto colmata di grazia che aderisce al progetto.

In ciò vi è un principio essenziale d’interpretazione dell’episodio dell’Annunciazione. La grazia ha diretto i pensieri e i sentimenti di Maria verso la meta perseguita da Cristo nella sua missione di Salvatore. Re­centemente uno studio esegetico della parola kecharitômenè («piena di grazia») ha sottolineato che si tratta della grazia che aveva ispirato a Ma­ria un profondo desiderio della verginità2. Occorre aggiungere che que­sta grazia non l’aveva orientata soltanto verso la maternità verginale, ma verso tutto l’orizzonte della salvezza messianica e, più particolarmente, verso la riunione del popolo. Precisiamo che la grazia che aveva colma­to Maria non era una grazia puramente funzionale. Come riconosce la Tradizione, era una grazia che aveva trasformato la sua personalità, san­tificandola. Ma questa grazia, che in qualche modo era diventata sua proprietà personale, aveva una meta, quella di prepararla al suo ruolo nell’opera della salvezza.

Così, nel momento in cui ha accettato la maternità che le veniva offerta dall’alto, Maria ha potuto assumerla secondo le intenzioni divine, quelle di un regno unificante. Queste intenzioni erano diventate sue in virtù dell’azione ispirante dello Spirito Santo; abbiamo inoltre osservato che Maria aveva dovuto appropriarsele in maniera concreta per l’esperienza che faceva della divisione tra gli uomini e i danni che ne risultavano. Ella comprendeva la necessità di un intervento divino per ristabilire l’unità e l’auspicava con tut­to il cuore.

L’impegno nella maternità


Dall’Annunciazione passiamo a un altro consenso essenziale di Maria: quello alla sua maternità universale. Al Calvario, la madre sta in piedi accanto a suo figlio. Ella è là perché lo ha voluto e perché desidera condividere tutte le sofferenze del Crocifisso, associarsi nella maniera più completa al sacrificio che deve ottenere la salvezza all’umanità. Gesù consacra definitivamente quest’asso­ciazione chiedendole di accettare una nuova maternità: «Donna, ecco tuo figlio» (Gv 19,26). Chiamandola «Donna», le mostra che la considera come la donna destinata a cooperare con il Figlio del­l’uomo al compimento del disegno divino. Donandole un altro fi­glio, le chiede anzitutto di accettare, fin da questo momento, di perdere il suo unico Figlio, per avere ormai come figli i suoi di­scepoli. È a costo del suo sacrificio materno che Maria acquista una maternità dall’estensione indefinita, che si prolungherà e si moltiplicherà sino alla fine del mondo. La maternità nei riguardi del discepolo prediletto, che inizia in questo momento in virtù di una parola creatrice del Salvatore, è il segno di una maternità nei riguardi di ogni discepolo in quanto è amato da Cristo.

L’interpretazione delle parole di Gesù nel senso di una semplice volontà di adempiere a un obbligo familiare, vegliando sull’avvenire di sua madre e affidandola al discepolo prediletto, sarebbe piuttosto restrittiva. Essa non corrisponde all’intenzione che si manifesta nell’episodio3. Quando aveva lasciato Nazaret per la vi­ta pubblica, Gesù aveva certamente provveduto al futuro di sua madre; non avrebbe potuto aspettare l’ora della sua morte per preoccuparsene. D’altronde constatiamo che le parole che pronun­cia sulla croce non hanno come primo scopo l’affidamento di Ma­ria a Giovanni, ma prima di tutto di affidare Giovanni a Maria. Maria è invitata a trattare Giovanni come suo figlio; di conse­guenza è lei che riceve un nuovo incarico, quello di vegliare sui discepoli e dedicare ad essi una sollecitudine materna. Le parole rivolte a Giovanni: «Ecco tua madre» sono la conseguenza di que­sta nuova maternità; il discepolo prediletto dovrà rispondere al­l’affetto materno di Maria con affetto filiale.

L’evangelista ci fa riconoscere in ciò il compimento della missione salvatrice, poiché aggiunge che Gesù sapeva «che ogni cosa era stata ormai compiuta» (Gv 19,28). Con il dono di sua madre all’umanità, il Salvatore ha consumato l’opera che gli era stata affi­data dal Padre. Si tratta di un dono che ha per obiettivo lo svilup­po della vita divina nel mondo. Ha una finalità universale: è così che discerniamo legittimamente, nella maternità nei confronti del discepolo, il segno di una maternità nei riguardi di ogni cristiano. Maria è costituita madre per la più larga diffusione di tutti i beni spirituali che Gesù merita con il suo sacrificio. Come afferma il Vaticano II, ella è diventata nostra madre nell’ordine della grazia.

Tuttavia, le parole pronunciate da Gesù esprimono solo una maternità individuale. Hanno implicitamente un valore universale nel senso che Giovanni rappresenta ogni discepolo. Ma è l’univer­salità di una maternità nei riguardi di ogni individuo. Gesù non ha fatto dichiarazioni su una maternità di Maria nei riguardi di tutta la comunità dei discepoli. Enunciando unicamente una ma­ternità di ordine individuale, voleva sottolineare che Maria è ma­dre di ogni discepolo come se fosse il suo solo figlio. L’enunciato di una maternità nei riguardi dell’insieme avrebbe potuto essere compreso nel senso di una maternità talmente generale o globale, che l’attenzione materna ad ogni persona sarebbe stata meno evi­dente o meno necessaria. Il Salvatore voleva istituire, al contrario, i più intimi rapporti tra madre e figlio, in cui ciascuno avrebbe avuto la certezza di ricevere tutto quello che l’amore materno di Maria poteva dare a ciascuno, a seconda dei suoi bisogni personali nell’ordine della grazia. Egli ha dunque dato alla maternità di Ma­ria una forma in cui l’accento era posto sulle relazioni personali.

Questa finalità individuale non impedisce che le parole del Salvatore siano pronunciate in un orizzonte comunitario. Certi com­mentatori del testo evangelico hanno tentato di fondare questo orizzonte sulla persona di Giovanni, considerato come rappresen­tante della Chiesa. Sembra che nulla indichi tale rappresentatività, che sarebbe comprensibile di più nel caso di Pietro, roccia sulla quale la Chiesa doveva essere edificata e destinato ad essere pro­clamato presto pastore universale degli agnelli e delle pecore di Gesù. Ma non è stato Pietro, bensì Giovanni, ad essere scelto co­me figlio di Maria, e lo è stato più particolarmente come simbolo di relazioni personali di amore con Gesù.

L’orizzonte comunitario risulta piuttosto dall’orientamento dell’opera che Cristo consuma, donando sua madre al discepolo. Quest’opera ha essenzialmente uno scopo unificante. Non solo le promesse dell’antica alleanza l’avevano annunciato, ma Gesù stes­so lo ha dichiarato. Egli si presenta come il buon pastore che offre la vita per le sue pecore (Gv 10,11); e perché non si pensi che que­sta offerta sia destinata a un gregge limitato, aggiunge: «Ho altre pecore che non sono di questo ovile; anche queste io devo con­durre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore» (Gv 10,16). È per la riunione di tutte le pecore in un solo gregge che Gesù offre la sua vita.

Durante l’ultima Cena, questa volontà di realizzare l’unità appare ancora più manifesta nella preghiera sacerdotale. Essa vi è espressamente menzionata con il motivo supremo che la giustifica: l’unità umana deve riflettere l’unità divina e in una certa maniera incorporarvisi: «Che tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi ha mandato» (Gv 17,21). Questa somiglianza con l’unità delle persone divine implica la ri­cerca della perfezione nell’unità della comunità umana: «Che siano per­fetti nell’unità» (Gv 17,23). In precedenza Gesù aveva chiesto ai suoi di­scepoli, individualmente, di essere perfetti come il Padre loro celeste è perfetto (cfr Mt 5,48). Alla vigilia del suo sacrificio chiede al Padre di renderli perfetti nell’unità che li riunirà. Sarà un frutto essenziale dell’of­ferta della sua vita.

San Giovanni ha colto bene questa intenzione fondamentale del sacrifi­cio redentore. Commentando l’affermazione di Caifa che era meglio che un uomo solo morisse per il popolo, vi riconosce una parola profetica; egli aggiunge che Gesù non doveva morire soltanto per la sua nazione, ma «anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi» (Gv 11,52). Dobbiamo trarne la conclusione che i discepoli hanno ben compreso, al­meno dopo la morte del loro Maestro, l’importanza capitale che Gesù at­tribuiva all’unità, al punto di farne l’obiettivo del suo sacrificio.

Maria stessa non ignorava questa volontà riconciliatrice di Ge­sù. Associandosi al suo sacrificio, desiderava cooperare alla restaurazione dell’unione, all’edificazione di un regno ideale di unità. Con questa cooperazione materna al sacrificio della croce ha real­mente contribuito all’instaurazione di questo Regno. Al Calvario è colei che con l’offerta di suo figlio collabora alla fondazione di una Chiesa che riunirà gli uomini nell’unità del Cristo.

Quando Maria accetta la sua nuova maternità, diventa a nuovo titolo madre dell’unità. È in una prospettiva fondamentale di riunione di tutte le pecore sotto un solo pastore che ella assume questo nuovo compito. Cristo l’ha voluta madre della Chiesa e nello stesso tempo madre di ogni discepolo. Nessuna delle due funzioni potrebbe essere adempiuta a scapito dell’altra. Maria dà tutto il suo affetto materno a ciascuno di quelli che le sono affidati come figli; ma nello stesso tempo conserva la preoccupazione di favorire l’accordo tra tutti e di rafforzare l’unità della Chiesa.

È importante osservare che la maternità ricevuta al Calvario è universale nella misura dell’universalità della stessa opera di salvezza. In questo senso, Maria non è soltanto madre di ogni disce­polo che aderisce a Gesù mediante la fede, ma madre di ogni esse­re umano, in quanto ciascuno è chiamato ad accogliere la grazia di Cristo. In modo analogo, non è soltanto madre della Chiesa costi­tuita attualmente sotto la sua forma visibile; ella è madre di quella che si potrebbe chiamare la Chiesa in divenire, la riunione pro­gressiva degli uomini nella fede in Cristo. Il suo ruolo materno si estende a tutta l’umanità, coincidendo con l’universalità della dif­fusione della grazia. È dunque a buon diritto che la si deve chia­mare madre dell’umanità e madre di tutti gli uomini.

Presenza terrestre nell’unità della Chiesa


L’ultima volta che Maria viene citata nel Nuovo Testamento, secondo la cronologia degli eventi della salvezza, è dopo l’Ascen­sione di Gesù, nella comunità che attende la Pentecoste. Questa presenza appare legata all’unità di questa comunità. In effetti, san Luca dice che tutti gli apostoli «erano assidui e concordi nella pre­ghiera, con alcune donne e con Maria la madre di Gesù e con i fratelli di lui» (At 1,14). In questa assemblea vi è unanimità di sentimenti4. Essa contrasta con le dispute che così spesso avevano messo gli apostoli gli uni contro gli altri per sapere chi avrebbe occupato il primo posto nel Regno. Anche nell’ultima Cena vi era stata una discussione di questo genere. L’accordo unanime che si esprime in una preghiera comune si spiega prima di tutto con il sacrificio redentore di Cristo, che ha ottenuto per i suoi apostoli la grazia dell’unione. Ha per guardiano e garanzia la presenza di Ma­ria. È la prima e la sola volta in cui Maria viene nominata in una riunione comunitaria con gli apostoli; ella non è estranea all’una­nimità di cuore che caratterizza questa assemblea. Anche se Maria qui è chiamata semplicemente «madre di Gesù», appare come ma­dre dell’unità nella prima comunità che alla Pentecoste sarà tra­sformata in Chiesa. La sua presenza materna nello sviluppo della Chiesa non cesserà più di essere un incoraggiamento all’unione.

La preghiera in cui si manifestava l’accordo dei sentimenti era soprattutto una supplica in vista della venuta dello Spirito Santo. Maria, che era più di tutti gli altri membri di quest’assemblea in intimo rapporto con lo Spirito Santo, desiderava ardentemente una venuta di cui ella aveva provato in maniera unica la fecondità. Ella aspirava più particolarmente a questa venuta per assicurare la perseveranza nell’unione. Certo, in questo primo momento di fer­vore in cui tutti volevano aprirsi allo Spirito Santo, la buona inte­sa era notevole. Ma Maria, che conosceva i discepoli, si rendeva conto che l’intesa rimaneva fragile, dal punto di vista umano, e che i motivi che avevano suscitato in precedenza le discussioni ri­schiavano di produrne altre. Pertanto implorava lo Spirito Santo di creare una durevole unità nella Chiesa, nell’attaccamento comu­ne a Cristo. Solo una forza di amore soprannaturale, quella dello Spirito Santo, poteva mantenere i discepoli al di sopra delle ten­denze naturali dell’ambizione personale, preservarli dalle rivalità e da ogni dissenso.

Dopo aver fatto l’esperienza dell’unanimità di cuore nell’assemblea in cui era stata presente, Maria non manca di contribuire al mantenimento di questa unanimità dopo la Pentecoste. Fu un’azione discreta ma certamente efficace. Con la nuova maternità che le era stata conferita, Maria si sentiva più responsabile dell’unione che regnava intorno a lei. Nella misura in cui intratteneva contatti con i discepoli e con tutti quelli che prendevano parte alla vita della prima Chiesa, ella esercitava un influsso nel senso di una re­ciproca comprensione. Si era sempre comportata da artefice della pace; dopo la Pentecoste aveva una ragione supplementare per svolgere un ruolo di conciliazione e di pacificazione, perché la Chiesa poteva svilupparsi solo nell’unità. Ella compì ogni sforzo quindi per avvicinare quelli che avrebbero avuto tendenza a op­porsi gli uni agli altri.

Alla Pentecoste Maria ha ricevuto il dono dello Spirito per la missione che le era stata data da Gesù. Questo dono doveva portarla al compimento integrale della sua missione materna, per gli anni che le restavano da vivere nella sua esistenza terrestre. La rendeva capace di adempiere al ruolo di madre presso Giovanni e gli altri discepoli. Le ispirava tutte le iniziative possibili per raffor­zare l’unione. La orientava più particolarmente verso una preghie­ra incessante per ottenere il mantenimento di un accordo unanime nella fede e nell’attaccamento a Gesù.

In questa preghiera per l’unità, l’esempio di Gesù era per Maria lo stimolo più potente. Ella non aveva assistito all’ultima Cena, né aveva udi­te personalmente le parole che Gesù vi aveva pronunciate. Ma, da quan­do abitava con Giovanni, aveva potuto avere in merito un’ampia infor­mazione. Il discepolo prediletto le aveva raccontato come aveva vissuto quel momento unico, con tutto quello che Gesù aveva detto e fatto. Le aveva riferito l’istituzione dell’Eucaristia e le parole che ne spiegavano la portata. Le aveva ripetuto la grande preghiera sacerdotale come si era impressa nella sua memoria. Ora, in questa preghiera, l’implorazione per l’unità di tutti i discepoli, simile all’unità del Padre e del Figlio, aveva occupato un posto importante e aveva rivestito una forma particolar­mente insistente. Giovanni, il discepolo più vicino a Gesù in questa cir­costanza, poteva meglio illuminare Maria sull’ardore con il quale il Mae­stro aveva pronunciato le parole: «Che tutti siano uno…».

Raccogliendo questo ricordo, Maria comprendeva con chiarezza che nella sua missione materna doveva assumersi questa supplica per l’unità. Gesù aveva dimostrato che l’unità è prima di tutto un dono concesso dal Padre e che deve formare oggetto di preghiera. Essendo sempre vis­suta all’unisono con suo figlio, Maria ha dunque pregato, con tutto lo slancio della sua anima, per ottenere dal Padre l’unità della Chiesa.

Ella rimane per i cristiani un modello della preghiera per l’uni­tà. La preoccupazione ecumenica, che si è manifestata con molto più vigore in questo secolo, ha fatto comprendere meglio il valore della preghiera per l’unione dei cristiani. Da una parte vi è una presa di coscienza dell’ideale di unità e dello scandalo costituito dalle divisioni tra Chiese separate; d’altra parte vi è la constatazio­ne di estreme difficoltà sulla via della riunione. Davanti agli osta­coli s’impone più chiaramente la necessità della preghiera. Pur moltiplicando i contatti per superare i motivi di disaccordo, le Chiese si rendono conto che solo l’onnipotenza divina, alla quale nulla è impossibile, può aprire il cammino della riconciliazione, che dev’essere sollecitata da ardenti suppliche.

Durante la sua esistenza terrestre, Maria non ha conosciuto una situazione paragonabile a quella dell’ecumenismo contemporaneo, con cristiani così profondamente separati, raggruppati in Chiese che rivendicano la propria indipendenza e dove il contenuto della fede forma spesso l’oggetto di interpretazioni molto divergenti. Ella ha vissuto semplicemente la prima situazione ideale dell’una­nimità di cuore, che è stata consacrata dalla Pentecoste; poi ha co­nosciuto diversi conflitti che hanno minacciato di rompere questa unità. Ella non ha mancato di discernere tutto quello che poteva compromettere l’unione voluta da Gesù; non ha cessato di prega­re perché tutte le forze dissolventi potessero essere contenute e perché l’unione trionfasse su tutte le difficoltà.

È con una preghiera dello stesso genere che Maria intercede per la Chiesa odierna. Non si tratta soltanto di pregare per gli obiettivi propri all’ecumenismo, ossia per la riunione dei fratelli separati. La preghiera di Maria tendeva a ottenere la realizzazione di tutti gli aspetti dell’unità ecclesiale, specialmente mediante rapporti fra­terni tra tutti i credenti e con il desiderio di evitare il più possibile la minima lacerazione in questa unità. I cristiani sono invitati a condividere questa preghiera, chiedendo che la Chiesa progredisca costantemente nell’unione tramite una carità sempre più sincera, vittoriosa su tutte le passioni contrarie.

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Le incognite sul futuro di milioni di rifugiati, le città devastate da anni di guerra e una pace ancora fragile. A raccontarci da Damasco come sta vivendo questo momento di incertezza la popolazione siriana è p. Vincent de Beaucoudrey S.I., direttore del Jesuit Refugee Service in Siria.

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L’azione celeste per l’unità


Entrando nella gloria celeste, Maria ha visto allargarsi indefinitamente il suo influsso sull’unità della Chiesa. Per tutto il tempo che ha vissuto sulla terra doveva limitare la sua azione materna al­le persone con le quali era in contatto. Se aveva potuto conoscere tutti quelli che appartenevano alla comunità riunita per la Pente­coste, in seguito non aveva potuto entrare in contatto con quelli che, in gran numero, si erano convertiti alla nuova fede e si erano fatti battezzare. Aveva semplicemente prodigato il suo affetto ma­terno e la sua assistenza spirituale a coloro che l’avvicinavano.

Una volta assunta in cielo, Maria può esercitare, senza alcuna restrizione, il suo compito di madre. Può seguire con lo sguardo tutti quelli che entrano nella Chiesa, aiutandoli in ogni momento. La condizione celeste le permette di dominare lo spazio e il tempo, di conoscere tutte le situazioni e d’intervenire ovunque lo desideri. La rende atta a portare nella sua preghiera a Cristo tutte le sue preoccupazioni per ciascuno di quelli che ama come propri figli.

Pur accompagnando ciascuno in tutte le circostanze della sua vita, Maria abbraccia anche con lo sguardo l’insieme della Chiesa, con tutti i problemi comunitari che in essa si pongono. Per il fatto che la sua maternità individuale nei riguardi di ciascun cristiano s’inse­risce in una maternità universale, ella si china su ciascuno, tenen­do conto dei bisogni della comunità. Questo spiega perché tutta la sua azione è quella di «Madre dell’unità». Questo titolo le è stato applicato da sant’Agostino, il quale voleva sottolineare che la Chiesa, a immagine di Maria, è madre dell’unità in mezzo alla moltitudine degli uomini5.

La Chiesa è madre dell’unità perché tende a riunire gli uomini nell’unica vita di Cristo. Maria è madre di questa unità in maniera più reale e più concreta perché è una persona e perché ha un cuore materno. Nel suo affetto materno vuole assicurare l’unione di tutti quelli che ama. Una madre tende spontaneamente a favorire l’u­nione dei suoi figli. Le loro dispute produrrebbero una lacerazio­ne nel suo cuore materno. Ella non può schierarsi per l’uno con­tro l’altro, perché ama tutti e il suo amore vuole tenerli uniti. In questo senso ogni madre è madre dell’unità.

Nel caso di Maria, è essenzialmente a un livello soprannaturale che agisce come madre dell’unità, poiché è «madre nell’ordine del­la grazia» (LG, n. 61). Questo livello superiore della grazia non toglie nulla alla spontaneità con la quale agisce per salvaguardare l’unità. Questa spontaneità materna è piuttosto rafforzata dal pro­fondo orientamento della grazia, che tende a sviluppare la carità e ad avvicinare tra di loro i membri del Corpo Mistico di Cristo. Colei che nella sua vita terrestre ha ricevuto la pienezza della gra­zia e che nel suo stato celeste gode della pienezza della gloria, è in­teramente presa dal desiderio di riunire sempre più i suoi figli in un’unità di fede e di amore.

Ci si potrebbe chiedere perché Cristo abbia voluto per Maria questo ruolo di madre dell’unità. Nella dottrina di Gesù, nei suoi precetti di carità, nella vita di amore comunicata dalla grazia e in particolare dall’Eucaristia, non vi erano già abbastanza stimoli per perseguire l’obiettivo dell’unità? In effetti il Maestro ha voluto una madre dell’unità per lo stesso motivo che voleva una madre della Chiesa, una madre dei cristiani nell’ordine della grazia. Egli desiderava che una presenza materna incoraggiasse i suoi discepoli alla buona intesa, e che questa presenza fosse la più commovente immagine dell’amore del Padre verso l’umanità. Gli uomini pro­vano spesso difficoltà a riconoscere la bontà e la tenerezza del Padre; sono più sensibili alla presenza di un volto materno e, attra­verso questo, possono più facilmente vedere il volto del Padre.

Come madre dell’unità, Maria è destinata a esprimere nella sua condotta l’amore del Padre che vuole riunire tutti gli uomini. La missione di rappresentare il Padre contribuisce a porre in evidenza l’importanza essenziale del ruolo di Maria. Non è una funzione marginale; l’attività materna rivela il disegno divino che guida l’o­pera della salvezza, l’intenzione del Padre di riunire tutti gli esseri umani come suoi figli nel suo Figlio unico. Tutta la profondità dell’amore che regge i rapporti di Dio con l’umanità tende ad ap­parire attraverso la sollecitudine di Maria per l’unità della Chiesa.

Come espressione del disegno del Padre, la missione materna di Maria assume più chiaramente tutta la sua ampiezza. Il Padre desi­dera riunire l’umanità intera nel suo amore. Il cuore materno di Maria è animato dalla stessa intenzione universale. Certo, Maria è madre, a un titolo più speciale, di tutti coloro che aderiscono a Cristo mediante la fede. Ma ella si sente ugualmente la madre di tutti coloro che sono chiamati ad accogliere la grazia di Cristo sot­to forme più velate, più implicite; in questo senso la sua maternità assume la più vasta universalità. Da questo punto di vista, Maria è madre della riunione segreta che si effettua nel profondo dei cuo­ri umani, anche dove questa riunione non prende la forma visibi­le dell’appartenenza alla Chiesa. Ella si dedica dunque a favorire l’intesa tra tutti gli uomini, quali che siano. Certi segni di quest’a­zione in favore di una unità più vasta appaiono quando, per esem­pio, il culto di Maria attira sia cristiani sia musulmani.

Nell’ecumenismo è noto che il fervore del culto mariano è un elemento essenziale di avvicinamento tra ortodossi e cattolici. Se nella loro grande maggioranza i protestanti si sono allontanati da questo culto, si nota nondimeno che alcuni, recentemente, hanno riscoperto la Vergine Maria e con ciò un anello di congiunzione con i cristiani che la venerano6. Nella Chiesa cattolica, in cui l’unità istituzionale è più vigorosa, Maria fa in modo che a questa unità corrisponda sempre più un’unanimità di cuori simile a quella che aveva caratterizzato la comunità primitiva. Un tale amore, in­teramente sostenuto dalla grazia, non può essere che efficace, an­che se le meraviglie che esso produce rimangono nell’ombra.

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Riproduzione riservata

***

1Gn 11,1-9. Nel suo commento al racconto della torre di Babele, C. Westermann os­serva che l’avvenimento della Pentecoste testimonia che i limiti delle lingue sono stati superati: «Li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio» (At 2,11)(Genesis 1-11, vol. I, Neukirchen-Vluyn 1974, 740). Il racconto della torre di Babele si comprende alla luce del complemento che gli dona l’universalismo instaurato da Cristo.

2I. DE LA POTTERIE, Kecharitômenè en Lc 1,28. Etude exégétique et théologique, in Biblica 68 (1986) 480-508: «Kecharitômenè non descrive semplicemente la santità di Maria (era l’ese­gesi della Tradizione), ma il suo profondo desiderio della verginità, un desiderio di apparte­nere a Dio, che le era stato ispirato dalla grazia di Dio, per prepararla appunto a una maternità verginale» (507).

3Sul valore messianico della dichiarazione. cfr J. GALOT, Marie dans l’Evangile, Des­clée-De Brouwer, Paris – Bruges 1965, 179-189.

4 Il v. 14 «ha il carattere di un sommario che offre la descrizione di una situazione ideale», osserva G. SCHNEIDER, Die Apostelgeschichte, vol. I, Herder, Freiburg – Basel – Wien 1980, 207.

5Cfr S. AGOSTINO, Sermo 192,2 (PL 38, 1012-1013).

6 Sulla situazione ecumenica della mariologia cfr J. GALOT, Maria. la donna nell’opera di salvezza, PUG, Roma, 1984, 379-415; S. DE FIORES, Maria nella teologia contemporanea, Mater Ecclesiae, Roma 1987, 230-255.

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La signora del lago



Sullo scrittore e sceneggiatore anglo-americano Raymond Chandler (1888-1959), sulla sua carriera letteraria e con i registi di Hollywood che hanno tratto film da quasi tutti i suoi libri e, soprattutto, sul suo proto-detective hard-boiled, Philip Marlowe, sono state scritte montagne di saggi. Per buone ragioni, essendo stato, quello dell’A. – non meno del coevo Dashiell Hammett e del suo Sam Spade –, il contributo alla cultura americana di un intero universo immaginifico, un’influenza travalicante i generi del giallo e del crimine che continua ancora oggi.

La «signora del lago» del titolo svela quel tanto della trama che, per quanto è famoso il romanzo, ancora obbliga a pochi accenni. Marlowe viene assunto per trovare, appunto, una donna scomparsa, la moglie del suo cliente. A quanto pare, lei è fuggita in Messico con un bellimbusto di nome Chris Lavery, sulle cui tracce il detective si getta, ma che, al secondo incontro, trova morto ammazzato. Niente, naturalmente è come appare, e la pista iniziale porterà Marlowe da una grigia Los Angeles, che degli angeli eponimi ha ormai perso ogni battito d’ali, ai raccapriccianti accadimenti nei pressi di un remoto lago di montagna.

La prima persona di Marlowe sulla pagina è la soggettiva della macchina da presa, il film che si dipana nella nostra mente durante la lettura. In scena, troviamo la materialità greve delle cose, i portacenere stracolmi, l’alcool consumato a fiumi, i corpi impacciati da doppiopetti e fondine, le auto che sono direttrici fluide di ogni spostamento in una geografia reale appena dissimulata nei nomi dei luoghi. E non solo torbide vicende, la triade di sesso, denaro e potere, ma anche – come sempre in California, e ancora oggi – la contiguità di una natura selvatica, ostica e non meno protagonista chandleriana di quanto lo siano i paesaggi urbani: «Abbiamo raggiunto il lungo declivio a sud di San Dimas che, dopo la cresta, scende verso Pomona. Lì si è all’estremo confine della fascia nebbiosa, dove comincia quell’area semidesertica in cui al mattino il sole è lieve e secco come sherry invecchiato, a mezzogiorno è rovente come una fornace e la sera crolla come un mattone scagliato con rabbia» (p. 253).

Marlowe è, in fondo, un campione di sprezzatura: non è solo l’epitome dell’antieroe, ma un modello di maschio assai poco viriloide, quindi attualissimo, anche nella temperie culturale attuale. Forse l’unico americano a non portare armi, dubbioso («Magari va sempre così. Non è da molto che faccio questo mestiere», p. 126), egli opera spesso nel sottobosco ambiguo e anche un po’ sordido – tra il disprezzo dei poliziotti in uniforme e la loro disinvolta corruzione – delle indagini private; mette testa e inesorabile acume investigativo dove la tentazione altrui è invece quella di mettere rapidamente mano alla pistola. Ha a che fare con clienti che hanno molto da nascondere e da temere, bravacci, disperati, femmes fatales elusive e pericolose. Disarmato sempre, Marlowe, mai imbelle.

Non c’è vizio o nefandezza di cui il detective non porti cicatrice e da cui non abbia ricavato lezione. Egli conosce bene il legno storto dell’umanità, è naufrago con i naufraghi, si accompagna per mestiere e per destino a quelli di cui Thomas Elliott scriveva, most men live lives of quiet desperation. Ma lui non è affatto cinico o disperato, è piuttosto un romantico: dalla comprensione della natura umana emerge empatia, una complicità tra sommersi in un mondo in cui di salvati non è rimasta traccia.

L’icasticità proverbiale della scrittura di Chandler rivela la sua forza nella madre di tutte le scene, l’affiorare del cadavere della donna: «Ho visto della lana, fradicia e nera, un gilè di pelle più nero dell’inchiostro, dei pantaloni larghi […]. Ho visto un’onda di capelli biondo scuro che si spargevano nell’acqua e rimanevano per un attimo immobili, come in posa, per poi roteare e avvilupparsi di nuovo. […] E poi è stata la volta della faccia. Una massa bianco-grigiastra gonfia e senza forma, senza tratti riconoscibili, senza occhi, senza bocca. Un grumo di pasta grigia, un incubo con capelli umani» (p. 58).

In un mondo simile, la domanda del torvo poliziotto a Marlowe svela una dolente filosofia di vita: «“Fratello, come hai fatto a sopravvivere tanto a lungo?”. “Evitando di abboccare a troppi ami e di farmi spaventare troppo da certi duri di professione”» (p. 255).

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La signora del lago



Sullo scrittore e sceneggiatore anglo-americano Raymond Chandler (1888-1959), sulla sua carriera letteraria e con i registi di Hollywood che hanno tratto film da quasi tutti i suoi libri e, soprattutto, sul suo proto-detective hard-boiled, Philip Marlowe, sono state scritte montagne di saggi. Per buone ragioni, essendo stato, quello dell’A. – non meno del coevo Dashiell Hammett e del suo Sam Spade –, il contributo alla cultura americana di un intero universo immaginifico, un’influenza travalicante i generi del giallo e del crimine che continua ancora oggi.

La «signora del lago» del titolo svela quel tanto della trama che, per quanto è famoso il romanzo, ancora obbliga a pochi accenni. Marlowe viene assunto per trovare, appunto, una donna scomparsa, la moglie del suo cliente. A quanto pare, lei è fuggita in Messico con un bellimbusto di nome Chris Lavery, sulle cui tracce il detective si getta, ma che, al secondo incontro, trova morto ammazzato. Niente, naturalmente è come appare, e la pista iniziale porterà Marlowe da una grigia Los Angeles, che degli angeli eponimi ha ormai perso ogni battito d’ali, ai raccapriccianti accadimenti nei pressi di un remoto lago di montagna.

La prima persona di Marlowe sulla pagina è la soggettiva della macchina da presa, il film che si dipana nella nostra mente durante la lettura. In scena, troviamo la materialità greve delle cose, i portacenere stracolmi, l’alcool consumato a fiumi, i corpi impacciati da doppiopetti e fondine, le auto che sono direttrici fluide di ogni spostamento in una geografia reale appena dissimulata nei nomi dei luoghi. E non solo torbide vicende, la triade di sesso, denaro e potere, ma anche – come sempre in California, e ancora oggi – la contiguità di una natura selvatica, ostica e non meno protagonista chandleriana di quanto lo siano i paesaggi urbani: «Abbiamo raggiunto il lungo declivio a sud di San Dimas che, dopo la cresta, scende verso Pomona. Lì si è all’estremo confine della fascia nebbiosa, dove comincia quell’area semidesertica in cui al mattino il sole è lieve e secco come sherry invecchiato, a mezzogiorno è rovente come una fornace e la sera crolla come un mattone scagliato con rabbia» (p. 253).

Marlowe è, in fondo, un campione di sprezzatura: non è solo l’epitome dell’antieroe, ma un modello di maschio assai poco viriloide, quindi attualissimo, anche nella temperie culturale attuale. Forse l’unico americano a non portare armi, dubbioso («Magari va sempre così. Non è da molto che faccio questo mestiere», p. 126), egli opera spesso nel sottobosco ambiguo e anche un po’ sordido – tra il disprezzo dei poliziotti in uniforme e la loro disinvolta corruzione – delle indagini private; mette testa e inesorabile acume investigativo dove la tentazione altrui è invece quella di mettere rapidamente mano alla pistola. Ha a che fare con clienti che hanno molto da nascondere e da temere, bravacci, disperati, femmes fatales elusive e pericolose. Disarmato sempre, Marlowe, mai imbelle.

Non c’è vizio o nefandezza di cui il detective non porti cicatrice e da cui non abbia ricavato lezione. Egli conosce bene il legno storto dell’umanità, è naufrago con i naufraghi, si accompagna per mestiere e per destino a quelli di cui Thomas Elliott scriveva, most men live lives of quiet desperation. Ma lui non è affatto cinico o disperato, è piuttosto un romantico: dalla comprensione della natura umana emerge empatia, una complicità tra sommersi in un mondo in cui di salvati non è rimasta traccia.

L’icasticità proverbiale della scrittura di Chandler rivela la sua forza nella madre di tutte le scene, l’affiorare del cadavere della donna: «Ho visto della lana, fradicia e nera, un gilè di pelle più nero dell’inchiostro, dei pantaloni larghi […]. Ho visto un’onda di capelli biondo scuro che si spargevano nell’acqua e rimanevano per un attimo immobili, come in posa, per poi roteare e avvilupparsi di nuovo. […] E poi è stata la volta della faccia. Una massa bianco-grigiastra gonfia e senza forma, senza tratti riconoscibili, senza occhi, senza bocca. Un grumo di pasta grigia, un incubo con capelli umani» (p. 58).

In un mondo simile, la domanda del torvo poliziotto a Marlowe svela una dolente filosofia di vita: «“Fratello, come hai fatto a sopravvivere tanto a lungo?”. “Evitando di abboccare a troppi ami e di farmi spaventare troppo da certi duri di professione”» (p. 255).

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Dentro il Conclave


Allestimento della Cappella Sistina per il Conclave. (Ⓒ Media vaticani)
Mercoledì 7 maggio inizierà un nuovo conclave, l’antica istituzione della Chiesa nata quasi mille anni fa per garantire la libertà dei cardinali-elettori da ogni ingerenza esterna nella scelta del Papa. Dopo la Messa pro eligendo Pontifice, che sarà celebrata al mattino e presieduta dal cardinale Giovanni Battista Re, e i giuramenti del primo pomeriggio, si rinnoverà una tradizione che — come scriveva Giovanni Sale su La Civiltà Cattolica nel 2013 — si fonda su «segretezza, libertà e sollecitudine per la Chiesa».

Il termine conclave, che significa «luogo chiuso», designa l’assemblea dei cardinali riuniti per eleggere il nuovo Pontefice.

Sorprende che l’istituzione del Conclave sia sopravvissuta, quasi inalterata nei suoi tratti principali, all’usura del tempo e soprattutto ai frequenti sconvolgimenti della storia moderna. Nel XX secolo il conclave ha assunto una caratterizzazione ancora più marcata nei suoi elementi più antichi, come quello della «segregazione» e della «segretezza».

Nel primo millennio del cristianesimo il vescovo di Roma era eletto «dal clero e dal popolo romano». Tuttavia, con l’aumentare del prestigio e del potere del Papato, questa forma di elezione si prestò a essere sfruttata dai potentati locali per imporre uomini a essi favorevoli. Furono gli imperatori tedeschi, in particolare gli Ottoni, a sottrarre l’elezione del Papa ai giochi di potere dei diversi partiti romani, richiedendo come condizione di validità dell’elezione del nuovo Pontefice la «conferma» dell’eletto da parte dell’imperatore.

Fu il papa riformatore Nicolò II a fissare, nel 1059 con il decreto In nomine Domini, una nuova procedura per l’elezione del Pontefice. Egli stabilì che tale compito spettasse soltanto ai cardinali, quali «parte del mantello» del Papa, suoi «senatori» e collaboratori nel governo della Chiesa universale, nonché, secondo la teologia del tempo, eredi e continuatori degli Apostoli.

La costituzione Ubi periculum del 1274, promulgata da Gregorio X durante il II Concilio di Lione, fissò le regole sulla nuova disciplina conclavista. Si affermò il principio che il potere di eleggere il Papa spetta esclusivamente ai cardinali; si impose come sede naturale per l’elezione il luogo in cui il Papa è morto; si fissò un limite massimo (10 giorni) per celebrare il lutto per il Pontefice defunto e dare inizio al «conclave». Tale parola, che presto indicherà l’intero procedimento elettivo, appare per la prima volta espressa in questo importante documento pontificio.

A partire da quel momento, l’elemento della segregazione, insieme a quello della segretezza, ha rappresentato il cardine del procedimento di elezione del vescovo di Roma. Il divieto di comunicare con l’esterno era nato per costringere gli elettori «a fare in fretta», per non lasciare a lungo la Chiesa senza il suo capo, e anche per evitare il pericolo che i cardinali approfittassero della sede vacante per cumulare benefici.

In età contemporanea, invece, il segreto ha lo scopo principale di assicurare la piena libertà dei cardinali-elettori nell’esercizio della loro funzione; per cui essi, entrando in conclave, non soltanto vengono «separati» dal mondo esterno — in modo che le grandi potenze cattoliche e non cattoliche non attentino alla libertà dell’elezione (sebbene ad esse fosse riservato un generico potere di veto) —, ma si impegnano con giuramento a non rivelare nulla di quanto accade in sede elettorale.

La disciplina sulla segretezza del conclave fu resa più severa da Pio X nella costituzione Vacante sede apostolica del 1904; in particolare si fece divieto ai cardinali, sotto pena di scomunica, di farsi latori in sede di conclave di istanze provenienti dal potere secolare. In quell’occasione, l’arcivescovo di Cracovia, card. Jan Puzyna, aveva portato in conclave il veto dell’imperatore d’Austria nei confronti del cardinale Mariano Rampolla del Tindaro, ritenuto eccessivamente filofrancese e quindi non gradito alla corte asburgica.

Ad ogni modo, le nuove riforme sul conclave operate dai Papi del secolo scorso hanno contribuito a conferire un’aura di sacralità all’elezione del Papa, cosicché il «segreto», come indicato nelle nuove costituzioni apostoliche, in realtà espone i cardinali elettori alla curiosità, troppo spesso invadente e imbarazzante, dei media, che nel contesto odierno potrebbero perfino attentare alla libertà dell’elezione. Caso emblematico è quello che si è verificato nel conclave del 1978 dopo la morte di Paolo VI, quando un giornale pubblicò, prima che i cardinali entrassero nel segreto della Cappella Sistina, un’intervista rilasciata giorni prima dal cardinale Giuseppe Siri (e che avrebbe dovuto essere pubblicata soltanto a conclave avviato), che compromise i consensi raccolti intorno all’arcivescovo di Genova.

La segregazione in conclave e la segretezza sono elementi che ci giungono dalla tradizione, e anche oggi si rivelano utili e irrinunciabili per assicurare la libertà dell’elezione del Papa.

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Dentro il Conclave


Ⓒ Vatican Media
Mercoledì 7 maggio inizierà un nuovo conclave, l’antica istituzione della Chiesa nata quasi mille anni fa per garantire la libertà dei cardinali-elettori da ogni ingerenza esterna nella scelta del Papa. Dopo la Messa pro eligendo Pontifice, che sarà celebrata al mattino e presieduta dal cardinale Giovanni Battista Re, e i giuramenti del primo pomeriggio, si rinnoverà una tradizione che — come scriveva Giovanni Sale su La Civiltà Cattolica nel 2013 — si fonda su «segretezza, libertà e sollecitudine per la Chiesa».

Il termine conclave, che significa «luogo chiuso», designa l’assemblea dei cardinali riuniti per eleggere il nuovo Pontefice.

Sorprende che l’istituzione del Conclave sia sopravvissuta, quasi inalterata nei suoi tratti principali, all’usura del tempo e soprattutto ai frequenti sconvolgimenti della storia moderna. Nel XX secolo il conclave ha assunto una caratterizzazione ancora più marcata nei suoi elementi più antichi, come quello della «segregazione» e della «segretezza».

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Nel primo millennio del cristianesimo il vescovo di Roma era eletto «dal clero e dal popolo romano». Tuttavia, con l’aumentare del prestigio e del potere del Papato, questa forma di elezione si prestò a essere sfruttata dai potentati locali per imporre uomini a essi favorevoli. Furono gli imperatori tedeschi, in particolare gli Ottoni, a sottrarre l’elezione del Papa ai giochi di potere dei diversi partiti romani, richiedendo come condizione di validità dell’elezione del nuovo Pontefice la «conferma» dell’eletto da parte dell’imperatore.

Fu il papa riformatore Nicolò II a fissare, nel 1059 con il decreto In nomine Domini, una nuova procedura per l’elezione del Pontefice. Egli stabilì che tale compito spettasse soltanto ai cardinali, quali «parte del mantello» del Papa, suoi «senatori» e collaboratori nel governo della Chiesa universale, nonché, secondo la teologia del tempo, eredi e continuatori degli Apostoli.

La costituzione Ubi periculum del 1274, promulgata da Gregorio X durante il II Concilio di Lione, fissò le regole sulla nuova disciplina conclavista. Si affermò il principio che il potere di eleggere il Papa spetta esclusivamente ai cardinali; si impose come sede naturale per l’elezione il luogo in cui il Papa è morto; si fissò un limite massimo (10 giorni) per celebrare il lutto per il Pontefice defunto e dare inizio al «conclave». Tale parola, che presto indicherà l’intero procedimento elettivo, appare per la prima volta espressa in questo importante documento pontificio.

A partire da quel momento, l’elemento della segregazione, insieme a quello della segretezza, ha rappresentato il cardine del procedimento di elezione del vescovo di Roma. Il divieto di comunicare con l’esterno era nato per costringere gli elettori «a fare in fretta», per non lasciare a lungo la Chiesa senza il suo capo, e anche per evitare il pericolo che i cardinali approfittassero della sede vacante per cumulare benefici.

In età contemporanea, invece, il segreto ha lo scopo principale di assicurare la piena libertà dei cardinali-elettori nell’esercizio della loro funzione; per cui essi, entrando in conclave, non soltanto vengono «separati» dal mondo esterno — in modo che le grandi potenze cattoliche e non cattoliche non attentino alla libertà dell’elezione (sebbene ad esse fosse riservato un generico potere di veto) —, ma si impegnano con giuramento a non rivelare nulla di quanto accade in sede elettorale.

La disciplina sulla segretezza del conclave fu resa più severa da Pio X nella costituzione Vacante sede apostolica del 1904; in particolare si fece divieto ai cardinali, sotto pena di scomunica, di farsi latori in sede di conclave di istanze provenienti dal potere secolare. In quell’occasione, l’arcivescovo di Cracovia, card. Jan Puzyna, aveva portato in conclave il veto dell’imperatore d’Austria nei confronti del cardinale Mariano Rampolla del Tindaro, ritenuto eccessivamente filofrancese e quindi non gradito alla corte asburgica.

Ad ogni modo, le nuove riforme sul conclave operate dai Papi del secolo scorso hanno contribuito a conferire un’aura di sacralità all’elezione del Papa, cosicché il «segreto», come indicato nelle nuove costituzioni apostoliche, in realtà espone i cardinali elettori alla curiosità, troppo spesso invadente e imbarazzante, dei media, che nel contesto odierno potrebbero perfino attentare alla libertà dell’elezione. Caso emblematico è quello che si è verificato nel conclave del 1978 dopo la morte di Paolo VI, quando un giornale pubblicò, prima che i cardinali entrassero nel segreto della Cappella Sistina, un’intervista rilasciata giorni prima dal cardinale Giuseppe Siri (e che avrebbe dovuto essere pubblicata soltanto a conclave avviato), che compromise i consensi raccolti intorno all’arcivescovo di Genova.

La segregazione in conclave e la segretezza sono elementi che ci giungono dalla tradizione, e anche oggi si rivelano utili e irrinunciabili per assicurare la libertà dell’elezione del Papa.

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Intelligenza sensibile



Questo libro di Carlo Rinaldi, ingegnere e musicista con l’orecchio assoluto, invita l’uomo moderno a fermarsi, a leggersi dentro e a focalizzare la propria consapevolezza sul ruolo chiave che hanno ancora oggi le emozioni. L’A. si mette in discussione in prima persona ed entra in dialogo con un caleidoscopio di voci, di cuori e di anime che viaggiano in sintonia come in un’orchestra e nel loro agire danno valore alle antenne della propria sensibilità: Mario Calabresi, Andrea Pezzi, Marina Salamon, Pietro Trabucchi e molti altri.

Nella frenesia del vivere in cui siamo immersi, spesso non ci accorgiamo del miracolo che accade e si ripete in modo straordinario allorquando ci mettiamo in relazione con il mondo. L’intelligenza sensibile, la naturale evoluzione di quella «intelligenza emotiva» teorizzata da Daniel Goleman nel 1995, ci guida in questo affascinante processo, che sfugge alla nostra razionalità: «Possiamo progettare un algoritmo, prevedere ogni possibile interazione logica, ma non possiamo progettare l’amore né possiamo prevedere quegli incontri che ci cambiano l’esistenza» (p. 11).

La nostra vita in fondo non è una macchina perfetta e non possiamo sempre controllare o prevedere tutto, ma abbiamo due molle vitali che ci muovono: la curiosità e l’empatia, la risonanza verso il mondo. La curiosità, in particolare, ci apre alla conoscenza, che si genera grazie all’incontro con l’altro e spalanca il nostro sguardo, come sottolinea il monaco camaldolese Claudio Ubaldo Cortoni: «L’Alterità passa sempre attraverso una relazione. Non può esistere Dio se non esistono le relazioni. Ecco, io parto da questo presupposto: l’Alterità compare sempre e solo quando noi conosciamo le relazioni che ci sono nel mondo. Sono loro a dirci che c’è stato un qualcuno prima di noi che ha amato, qualcuno che ha preceduto il nostro amore» (p. 29).

La risonanza è un’epifania dell’infinito, che si rivela quando si entra in connessione con gli altri, ascoltando e vivendo pienamente il momento presente. Il rapporto con il prossimo colora di luce la nostra esistenza, è centrale nella nostra vita, e la sensibilità ci fa sentire parte di un disegno più grande: è un dono da coltivare come la risorsa più preziosa per creare connessioni. L’intelligenza artificiale, al contrario, presenta dei limiti, perché non possiede la sensibilità né è programmata per provare emozioni. Al di là delle etichette che la società ci impone, «la sensibilità è ciò che ci rende veramente umani, ci connette agli altri e ci ricorda che siamo parte di un tutto» (p. 95). La corrispondenza e la connessione emotiva che si innesca quando si entra in relazione con gli altri emanano una luce e un’armonia nuove, come due note musicali che, suonate insieme, generano una sinfonia inedita, che non è semplicemente frutto della loro somma, ma è un miracolo creativo unico e irripetibile.

L’intelligenza sensibile è un’intelligenza più profonda e si dipana in un percorso che si esprime in tre fasi: 1) essere sulla stessa frequenza; 2) generare energia e spazio per accogliere l’altro; 3) riuscire a creare connessioni, relazioni magari complicate, ma pur sempre belle, perché l’uomo è un animale sociale di aristotelica memoria. Nella società della performance, la vera linfa che ci nutrirà sarà l’intensità dei legami umani che sapremo costruire, ànco­ra potente per sostenersi lungo il cammino della vita. La tecnologia e l’intelligenza artificiale sono solo strumenti che possono rivelarsi utili, ma potenzialmente pericolosi, e vanno gestiti con la giusta consapevolezza, sviluppando un pensiero critico che alimenti in noi la curiosità per porre le domande di senso, con fiducia nel futuro e responsabilità.

«Ciò che conta è come utilizziamo queste sfide tecnologiche per riflettere su noi stessi, sul nostro posto nel mondo e su come possiamo contribuire al benessere collettivo. La vera sfida è riscoprire e riaffermare l’importanza della nostra umanità, quella sensibilità unica che, una volta messa in risonanza con l’altro, può trasformare non solo i rapporti, ma l’intera esistenza. In fondo, la sensibilità trasformativa è l’invito a smettere di essere spettatori passivi per diventare protagonisti attivi della nostra realtà, in un continuo dialogo tra le nostre esperienze e quelle degli altri» (p. 105).

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Maria



Se c’è un volto che tocca le corde più intime del cuore umano è senz’altro quello di Maria di Nazaret. Questo volume, commentato da Daniela Del Gaudio, docente di ecclesiologia e membro dell’Accademia mariana, ci introduce nel mistero di Maria, affinché «possiamo scorgere il suo ruolo nel progetto salvifico e l’importanza nel culto della vita cristiana» (p. 5). Attraverso gli interventi di papa Francesco possiamo comprendere chi è Maria, quale ruolo ha nella vita di ogni cristiano, quale mistero avvolge la sua vocazione, cosa la rende maestra di fede, di speranza, di carità e «donna che apre sentieri».

Il libro, costituito da cinque parti, rivela la figura di Maria in modo fluido e molteplice: icona femminile per eccellenza, paradigma antropologico, donna fuori dall’ordinario, sposa dello Spirito Santo, maestra di fede, donna della feconda pienezza, Vergine dell’ascolto, Vergine orante nel Cenacolo e Vergine offerente sotto la croce.

Nella prima parte, il «sì» di Maria irrompe nella storia in maniera luminosa. Il suo è un «sì» senza clamori e senza ostentazione, perché «riceve tutto da Dio con umiltà. Non si autocompiace, non si esalta. È libera da sé stessa, tutta rivolta a Dio e agli altri» (p. 72). Maria accoglie con gioia la vocazione che Dio le propone e partecipa attivamente al disegno salvifico. Mostra una personalità decisa e matura che crede a una cosa impossibile: concepire un figlio senza concorso d’uomo. E questo la rende madre del Verbo incarnato, theotokos. Si stabilisce così una relazione unica con il Padre, per cui Maria diviene figlia prediletta, perché madre del Figlio.

Nella seconda parte, Maria, mae­stra di speranza, è «l’immagine dell’inizio della fede che dovrà avere il suo compimento nell’età futura» (p. 83). È la donna del silenzio fecondo, dell’attesa virtuosa. Ci insegna che, nell’arte della missione e della speranza, non sono necessarie tante parole né programmi, ma soltanto camminare e cantare. Maria è una ragazza libera, non sottomessa al patriarcato. Ricevuto l’annuncio, parte per visitare Elisabetta; non consulta né il padre, né il marito, come sarebbe stato doveroso fare per un viaggio. Ed è nell’incontro con la cugina che intona l’inno di ringraziamento a Dio, il Magnificat. L’incontro con Elisabetta diviene così l’occasione per riconoscere che la «vita può sopravvivere solo grazie alla generosità di un’altra vita» (p. 106).

Nella terza parte del libro, Maria viene vista come modello della carità gioiosa, testimone della tenerezza, custode intima di Dio: «Dal suo grembo imparò ad ascoltare il battito del cuore del suo Figlio e questo le insegnò il palpitare di Dio nella storia» (p. 113). Gesù esisteva già con il Padre, poi ha assunto la natura umana; allora Maria è diventata sua madre. Gesù ha Dio come padre della natura divina, e Maria come madre della natura umana.

Nella quarta parte, Maria viene presentata come la donna che apre sentieri, perché ci insegna a percorrere le vie del Signore. È capace di allargare gli orizzonti della nostra vita e di indirizzarci a sentieri mai immaginati o pensati. Il suo canto invita ad avere memoria del passato, coraggio nel presente e speranza nel futuro.

L’ultima parte è una bella raccolta di preghiere. «Francesco ci offre la parte più intima della sua devozione mariana. Attraverso la preghiera ci guida alla scoperta dello scopo di Maria nel mondo come madre, sorella e compagna di cammino, come donna che apre sentieri» (p. 35). Maria in cielo intercede per noi; sulla terra ci accompagna e insegna la strada della piena conformazione a Cristo.

In questo libro ci viene presentata, con uno stile chiaro e semplice, l’essenza dell’esperienza umana e spirituale di Maria.

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Nelle tasche degli italiani



Gli ultimi due decenni del XX secolo e i primi tre del XXI hanno scandito e stanno scandendo l’inesorabile, progressiva crescita del debito pubblico italiano: un fenomeno che si pone come un macigno sul percorso di sviluppo del Paese e lo caratterizza in negativo nei confronti internazionali con le economie degli altri principali competitors europei e del mondo intero. Ma cos’è esattamente il debito pubblico, come e quando si è andato formando nel corso della storia economica italiana, cosa si può fare per riposizionare correttamente la nostra economia, liberandola gradualmente da una zavorra così ingombrante?

Sono questi i principali interrogativi a cui prova a rispondere, con chiarezza concettuale e con l’utilizzo di uno stile agile, questo libro, scritto da Giorgio Di Giorgio, professore di Teoria e Politica economica presso l’Università Luiss Guido Carli di Roma; Alessandro Pandimiglio, associato di Economia politica presso l’Università Gabriele D’Annunzio di Chieti – Pescara; e Guido Traficante, associato di Politica economica presso il già citato Ateneo romano.

Il libro, esito di un’iniziativa promossa nell’ambito di un progetto sul debito pubblico avviato dalla Fondazione Ave Verum, costituita da Michele Rinaldi, imprenditore attivo nel settore assicurativo, offre al lettore una ricostruzione di questo fenomeno, articolata in quattro parti.

La prima parte si concentra sulle definizioni e sulle implicazioni teoriche che caratterizzano il tema del debito pubblico, con considerazioni utili a facilitarne la comprensione da parte del lettore.

Segue, nella seconda parte, una ricostruzione storica, che va dal momento dell’unificazione dell’Italia nel 1861, per giungere ai giorni nostri, in un contesto allargato al più ampio scenario internazionale. Vengono così individuati i momenti salienti della crescita del debito pubblico del nostro Paese e, in particolare, quelli in cui si sono registrate le sue impennate più significative.

Molto utili risultano le pagine della terza parte, dedicate a smontare alcuni miti legati al debito pubblico, alcuni dei quali ispirati a una superficiale e mal intesa interpretazione del pensiero keynesiano in tema di efficacia della spesa pubblica. Significativo risulta l’esempio di quanto avvenuto nello scorso decennio in Grecia, con un debito pubblico andato fuori controllo e un conseguente conto, particolarmente salato, fatto pagare all’intera collettività di quel Paese.

Nella quarta parte si illustrano le modalità con cui porre sotto controllo la crescita del debito pubblico per avviare un percorso di graduale riduzione. Indicazioni di aggiustamento, che possono essere integrate con i suggerimenti preziosi al riguardo – accolti in una delle due appendici del libro –, formulati da sei autorevoli economisti: Lilia Cavallari, Elsa Fornero, Giampaolo Galli, Stefano Micossi, Gustavo Piga e Pao­la Profeta.

Nell’altra appendice, viene presentata la formalizzazione matematica dell’identità relativa al rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo, con i successivi passaggi utili a individuarne le condizioni di sostenibilità nel medio-lungo periodo.

In definitiva, nonostante la tecnicità dell’argomento trattato, questo libro sembra cogliere l’obiettivo di diffondere presso un pubblico ampio la conoscenza e le possibili soluzioni di un problema che, toccando, oltre che le condizioni economiche, la qualità della vita, ci riguarda tutti molto più da vicino di quanto comunemente si è portati a pensare.

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La rivoluzione ungherese e l’imperialismo totalitario



Meticolosamente curato da Simona Forti e Gabriele Parrino – che lo hanno inoltre corredato di due pregevoli saggi introduttivi –, questo testo vide la luce nel 1958: erano trascorsi due anni, dunque, da quando la rivoluzione ungherese era stata repressa dall’intervento dell’Armata Rossa. Finalmente pubblicato nella sua versione integrale anche in italiano, è un contributo che si caratterizza per la lucidità dell’argomentazione e la complessità dell’analisi.

Hannah Arendt pone anzitutto in rilievo come l’Ungheria abbia vissuto sotto il tallone del totalitarismo sovietico per 12 lunghi anni e si sia poi ribellata, nell’autunno del 1956, per 12 giorni: un lasso di tempo estremamente breve, ma che ha consentito ai rivoltosi magiari di scrivere una pagina di storia.

Si è trattato di una rivoluzione capace di cogliere tutti di sorpresa: un movimento spontaneo, privo sia di organizzazione sia di leadership, animato solo dal desiderio di libertà, che ha avuto la forza di mettere in discussione l’impossibilità di ribellarsi contro la gigantesca macchina repressiva allestita dall’Urss. È stato inoltre un avvenimento del tutto inatteso – data la struttura pienamente totalitaria del Paese che governava «imperialisticamente» il satellite ungherese –, dal quale non ha avuto origine alcuna guerra civile, né tantomeno una situazione caotica o vicina all’anarchia: l’esercito si è disintegrato nel giro di poche ore, e il governo in pochi giorni; non ci sono stati saccheggi, né sono state violate le leggi sulla proprietà.

Vi è stata invece la nascita dei consigli rivoluzionari, che, tuttavia, sono stati immediatamente soppressi per volontà dell’occupante sovietico. Scrive al riguardo l’A.: «Nel corso degli ultimi cento anni, queste organizzazioni sono emerse con una regolarità storicamente senza precedenti ogni qual volta il popolo ha avuto l’occasione, per alcuni giorni, settimane o mesi, di seguire le proprie predilezioni politiche senza venire imboccato da un partito o pilotato da un governo» (p. 61). Dall’Ungheria libera, in seguito, sarebbero giunte queste ultime parole, lanciate nell’etere da Radio Kossuth: «Oggi tocca a noi, domani o dopodomani sarà un altro paese, perché l’imperialismo di Mosca non conosce limiti e sta solo cercando di prendere tempo» (p. 79).

Ma cosa intende per «rivoluzione» la filosofa? È stato, a suo parere, il manifestarsi di una democrazia radicale capace di inceppare gli automatismi di una dominazione che, pur nascondendosi dietro la maschera del comunismo, si era ormai fatta sistematica e consolidata. Le richieste degli insorti ungheresi provocarono la prima, vera frattura nell’ambito del totalitarismo sovietico, dal momento che essi contrapposero a una concezione del potere visto come comando, impedimento e limitazione una diversa idea, secondo la quale esso – privo di violenza, ma non di conflittualità – si genera nell’incontro agonale tra esseri umani che ha luogo in uno spazio pubblico.

Altrettanto centrale poi, nel saggio redatto dalla studiosa, è la sua indagine relativa alla «natura dell’imperialismo totalitario», che riveste, a suo avviso, carattere politico e ideo­logico. Anche se connotato dalla straordinaria flessibilità dell’apparato istituzionale che gli consente di spostare agevolmente il centro del potere, dalla tendenza all’equiparazione delle condizioni materiali tra centro e periferia, dall’esistenza della rete dei Paesi satelliti, che può essere considerata la risposta sovietica al sistema americano delle alleanze, tale imperialismo appare instabile in sé, come è sembrato evidente a causa della coincidenza tra la crisi della successione e un’espansione che non è mai stata realizzata compiutamente. Malgrado le previsioni della studiosa, però, il blocco sovietico – anche se soggetto a crisi ricorrenti – non sarebbe imploso prima di altri tre decenni.

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Dopo Kant, oltre il problematicismo



Il libro di Leonardo Messinese si apre con un Prologo dal titolo «Filosofia contemporanea e metafisica». Dalle prime pagine, infatti, ci troviamo di fronte ai temi centrali che l’A. intende trattare: la filosofia contemporanea, il problematicismo, la metafisica. Mettendo insieme tali temi, bisognerà provare a pensare una «configurazione nuova di uno stile precedente». Questo vuol dire, da un lato, ripensare il pensiero italiano del Novecento e, dall’altro, lasciare emergere in maniera dialettica la duplice tendenza che l’A. presenta in questo contesto: quella problematicista, «dominante nella contemporaneità filosofica» (p. 12), e quella che, d’altra parte, affiora quale soluzione del problema, ossia il sapere metafisico.

In questo modo il libro si propone come una ricostruzione del percorso filosofico novecentesco italiano mediante una sorta di «racconto speculativo», che intende valorizzare in particolare due figure di rilievo del Novecento italiano: Gustavo Bontadini ed Emanuele Severino, il maestro e il suo allievo.

Il volume è suddiviso in cinque parti. Nella prima, possiamo osservare una disamina del rapporto tra metafisica e filosofia; più precisamente, tra metafisica classica, intesa come epistēmē, e filosofia. Quest’ultima è qui rappresentata, per così dire, nella sua eccedenza rispetto alla stessa epistēmē.

Assumendo la prospettiva di Bontadini – Messinese in questa prima parte utilizza come filo conduttore della narrazione uno scritto del 1950, dal titolo La mia prospettiva filosofica –, l’analisi si sofferma sulla filosofia moderna, sul valore che da essa può emergere e sulla capacità di reinterpretarla come compito e sfida, per restituire al sapere filosofico un significato forte e valorizzarne il senso logico e inferenziale. Questa riflessione riesce a intercettare esattamente l’insoddisfazione di un pensiero che ha rinunciato alla sua più profonda vocazione, quella di indagare l’essenza dell’essere.

D’altro canto, il problematicismo, osserva l’A., non costituisce semplicemente un modo generale della filosofia contemporanea, ma anche, per così dire, un modo particolare che segue quei filosofi che hanno teorizzato questa peculiare «figura» (p. 126). Alcuni pensatori qui descritti incarnano infatti, sotto questo aspetto, il problematicismo stesso. Da questa prospettiva si giunge così a introdurre, alla fine della seconda parte, la visione di Severino, soffermandosi in particolare sulla sua interpretazione del rapporto tra Heidegger e la metafisica.

Il discorso si svolge, in questo modo, come un racconto metafisico che si riapre costantemente intorno all’orizzonte dell’incontro tra il mae­stro e l’allievo. Ciò si fa particolarmente evidente nella terza parte del volume, in cui sono presentati, da una parte, gli elementi costitutivi della metafisica di Bontadini a partire dal concetto di esperienza e, dall’altra, la ricostruzione della metafisica classica di Severino, che segue alla strutturazione della metafisica neoclassica.

La disamina prosegue nella quarta parte, con la retractatio metaphysica di Severino, in cui possiamo di nuovo gettare uno sguardo sulla riflessione del maestro e dell’allievo, questa volta sul modo in cui le due prospettive si dividono. Infatti, il ritorno alla filosofia di Parmenide di Severino intende propriamente rappresentare una distruzione della metafisica classica. Per Bontadini, invece, si tratta di assumere il ripensamento della riflessione parmenidea quale conferma della metafisica stessa.

Nella parte finale, l’A. considera la nuova articolazione della riflessione filosofica di Bontadini, ponendo l’attenzione alla riformulazione di una «metafisica orginaria», in grado di delineare, come preannunciato nel Prologo, uno stile classico in una nuova configurazione.

In ultima analisi, sullo sfondo della discussione tra il maestro e l’allievo, la questione del problematicismo e della metafisica sembra articolarsi in una dialettica tra domanda e risposta. Se tale dialettica può svolgersi come «racconto speculativo», allora noi siamo sempre posti di fronte all’irrinunciabile esigenza del pensiero quale ricerca di senso. Per questo alla fine, osserva l’A. rievocando Kant, non va dimenticato che l’uomo è ente metafisico, prima che animale sociale e politico. La metafisica dunque possiede ancora in sé la forza di quelle domande che appartengono, dall’inizio alla fine, alla storia e al pensiero umano.

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Dio si presenta a noi raggiungibile mediante il lavoro



Il lavoro è sempre stato un tema centrale nel magistero di papa Francesco. Basta ricordare i discorsi ai «movimenti popolari» che hanno al centro le 3 «t» esplicitate nel suo discorso del 28 ottobre 2014: tierra, techo, trabajo, cioè terra, casa e lavoro. Oppure quello pronunciato a Genova, presso l’Ilva il 27 maggio del 2017: «C’è sempre stata un’amicizia tra la Chiesa e il lavoro, a partire da Gesù lavoratore. Dove c’è un lavoratore, lì c’è l’interesse e lo sguardo d’amore del Signore e della Chiesa».

A partire dal 1956, anno in cui la Chiesa celebrò per la prima volta il 1° maggio, e fino ad oggi in occasione della celebrazione del Giubileo dei Lavoratori voluto da papa Francesco, il pensiero va alla grande schiera dei lavoratori giornalieri e occasionali, a quelli con contratti a termine non rinnovati, a quelli pagati a ore, agli stagisti, ai lavoratori domestici, ai piccoli imprenditori, ai lavoratori autonomi, specialmente quelli dei settori più colpiti prima dalla pandemia e oggi dalla crisi finanziaria. Molti sono padri e madri di famiglia che faticosamente lottano per poter apparecchiare la tavola per i figli e garantire ad essi il minimo necessario.

Due articoli per riflettere sul tema del lavoro:

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Francesco: un papato intenso e coraggioso



Nei primi tempi dopo l’elezione di papa Francesco, i suoi amici che venivano da Buenos Aires per incontrarlo erano stupefatti della vitalità e dell’energia del nuovo papa. Lo amavano e lo ammiravano ed erano naturalmente felici della sua elezione, ma negli ultimi tempi del suo servizio come arcivescovo avevano avuto l’impressione che fosse meno energico e vivace che in passato, forse perché ormai vicino al traguardo dei 75 anni e quindi al compimento dell’impegno pastorale a cui aveva dedicato per tanto tempo tutte le sue forze. Più di una volta sentii osservare da qualcuno di loro che a Roma trovavano un uomo diverso, in un certo senso molto ringiovanito e più dinamico rispetto a quello che aveva lasciato poco prima l’Argentina.

Anche chi si trovava a collaborare con lui a Roma, senza averlo conosciuto prima, era colpito dalla vivacità e dall’energia che si andava manifestando giorno dopo giorno, in modo piuttosto sorprendente e in un certo senso crescente, in un uomo non più giovane e certo non dotato di un fisico prestante. Negli impegni pastorali, nelle udienze non risparmiava le forze, senza proteggersi neppure dalle intemperie. Si rilanciò senza paura in quei faticosi viaggi internazionali che il suo predecessore aveva riconosciuto ormai superiori alle sue forze. C’era qualcosa di straordinario. Una volta, durante il suo primo viaggio in Corea, gli domandai in confidenza come si spiegasse tale sua inattesa energia. Rispose subito e molto semplicemente: «È la grazia di stato». Voleva dire – come sa ogni credente – che se la volontà di Dio ti mette in una determinata situazione di vita o ti affida una missione, allo stesso tempo ti dà tutta la grazia necessaria per fare quello che si aspetta da te.

Questa «grazia di stato» lo ha accompagnato per 12 anni, un tempo più lungo di quello che forse ci saremmo aspettati e che egli stesso sembrava all’inizio aspettarsi. Ora possiamo guardare indietro e meditare su quanto, collaborando con la grazia di Dio, ha potuto fare a servizio della Chiesa e della comunità umana nel corso di un pontificato che certo lascerà il segno nella storia della Chiesa agli inizi del terzo millennio.

Argentino di origini italiane, primo papa latinoamericano, Jorge Mario Bergoglio scelse – primo e finora unico – il nome «Francesco». Capimmo subito che era una scelta impegnativa e molto coraggiosa: il Cantico delle creature, Madonna Povertà, la visita al Sultano… creazione, poveri, pace. Decise di abitare a Santa Marta piuttosto che nel Palazzo Apostolico. Il Giovedì Santo andò a celebrare la Messa della Cena del Signore non a San Giovanni in Laterano o a San Pietro, ma in un carcere minorile, lavando i piedi a ragazzi e ragazze. Pur non essendo un grande poliglotta, manifestò subito un carisma di prossimità e di empatia spontanea con la gente che ne fece un fenomeno della comunicazione. Entro un mese dall’elezione, raccogliendo un suggerimento delle riunioni pre-conclave dei cardinali, istituì un nuovo Consiglio ristretto di cardinali dei diversi continenti (prima sette, poi nove), con cui incontrarsi più volte l’anno per consultarsi anche al di fuori della Curia romana e studiare progetti di riforma. Fece il suo primo inaspettato viaggio all’isola di Lampedusa, approdo di migranti e naufraghi nel Mediterraneo.

Fin dall’inizio impostò con grande cordialità e trasparenza due rapporti importanti e «nuovi» per un papa: quello con il suo predecessore Benedetto XVI, che rimaneva a vivere in Vaticano, e quello con la Compagnia di Gesù, il suo ordine religioso di appartenenza, allora guidato da p. Adolfo Nicolás. Oltre che al viaggio in Brasile per la Giornata Mondiale della Gioventù, dedicò il tempo estivo a stendere l’esortazione apostolica Evangelii gaudium («La gioia del Vangelo»), vero testo programmatico: una Chiesa missionaria, non «autoreferenziale», che ha da portare al mondo un Vangelo fonte di gioia.

Si può dire che nel giro di pochi mesi abbiamo potuto capire senza ambiguità linee e spirito del nuovo pontificato. Una grande corrente di simpatia e di fiducia percorse la Chiesa e il mondo, diffondendo entusiasmo e slancio rinnovati, dopo un periodo in cui alle difficoltà dei tempi si erano aggiunti i turbamenti della crisi degli abusi sessuali, delle vicende di Vatileaks, delle discussioni sullo Ior e infine anche lo sconcerto di chi non aveva compreso il significato della rinuncia di Benedetto XVI. L’avvio del nuovo pontificato fu quindi senz’altro un tempo di dimostrazione di vitalità della Chiesa, di svolta positiva, incoraggiante, se non addirittura entusiasmante. Un tempo di grazia. Ricordare quel tempo ci aiuta oggi a mettere a fuoco le coordinate per leggere i 12 anni trascorsi di cammino della Chiesa guidata da papa Francesco, pur senza la pretesa impossibile di ricordare tutto.

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Evangelizzazione

La missione della Chiesa è di annunciare il Vangelo, e questo è una buona notizia, che porta la gioia, segno inconfondibile della presenza dello Spirito Santo. Non è un caso che la parola della gioia evangelica torni non solo nel titolo del già ricordato documento programmatico Evangelii gaudium, ma anche nei titoli di diversi fra i principali testi del pontificato: Amoris laetitia, Laudato si’, Gaudete et exsultate, Veritatis gaudium

Francesco, in particolare nei primi anni del suo pontificato, ha insistito molto su un annuncio del Vangelo che non si disperda in complicazioni e minuzie, ma vada al centro, all’essenziale, e questo essenziale è la misericordia di Dio. Anche i suoi predecessori avevano parlato molto di misericordia, in particolare Giovanni Paolo II, ma Francesco ha continuato a farlo con grande insistenza e moltiplicando iniziative e gesti esemplari molto efficaci. Il Giubileo straordinario della Misericordia (2015-2016) è stato un tempo culminante e originale, con la prima apertura della Porta santa a Bangui, nella Repubblica Centrafricana, invece che a Roma; con le Porte sante nelle carceri e nei santuari del mondo, con le visite a sorpresa del venerdì pomeriggio ad asili per poveri, case per anziani e malati e così via: i gesti di misericordia spirituale e corporale. La raccomandazione ai confessori di essere sempre interpreti della misericordia di Dio, di perdonare sempre, ha ravvivato la pratica di questo sacramento, e Francesco non solo ha dato più volte personalmente l’esempio ai sacerdoti di amministrarlo, ma ha dato anche l’esempio ai fedeli di andare a confessarsi senza timore.

L’esempio come evangelizzatore Francesco lo ha dato da subito anche con le omelie delle celebrazioni mattutine a Santa Marta, che – come ricordiamo bene – erano iniziate in forma più riservata, pur ottenendo grande interesse da parte di moltissimi fedeli; ma, durante la pandemia, sono state poi giustamente trasmesse in diretta, diventando fonte di conforto per innumerevoli persone. Vogliamo sottolineare il servizio di consolazione e di sostegno spirituale svolto da Francesco nel tempo della pandemia. Si è trattato di un flagello inaspettato e per certi aspetti nuovo, che ha colpito l’umanità durante il suo pontificato. Questo gli ha richiesto e dato occasione di allargare il suo servizio spirituale al di là di ogni confine. Fra gli eventi più indimenticabili del suo pontificato rimane certamente la sua grande preghiera in una Piazza San Pietro apparentemente del tutto deserta, ma colma di una presenza spirituale e universale intensissima.

Per quanto riguarda le grandi tematiche pastorali della Chiesa nel mondo di oggi, Francesco ha riservato un’attenzione prioritaria alla famiglia, dedicandovi i primi due sinodi, che hanno dato un contributo prezioso non solo per riproporre in forma positiva e convincente il valore dell’amore come fondamento della famiglia, ma anche per sviluppare un approccio equilibrato, dal punto di vista pastorale e dottrinale, alle situazioni problematiche dal punto di vista canonico, oggi sempre più diffuse. Si trattava di affrontare il divario crescente, evidente e imbarazzante fra la realtà di fatto di numerosissime famiglie e l’insegnamento morale cattolico tradizionale. Francesco ha avuto il coraggio di farlo, proponendo la questione in sede sinodale, per trovare un approccio condiviso. Naturalmente non tutto è stato risolto, ma si è fatto un bel passo avanti, in cui ha trovato il suo posto un tema fondamentale nella visione pastorale di papa Francesco: quello del «discernimento» pastorale e spirituale, cioè la ricerca della volontà di Dio nelle situazioni concrete della vita, senza fermarsi, paralizzati, al livello delle norme e regole generali, pur comprendendone il senso.

Un altro grande tema pastorale vissuto e proposto in prima persona da Francesco è stato quello dei giovani. Non solo nelle Giornate Mondiali della Gioventù, che nel tempo non hanno perduto il loro richiamo e la loro efficacia e nelle quali Francesco – a Lisbona nel 2023, come già a Rio de Janeiro, Cracovia, Panama – ha dimostrato il suo carisma eccezionale di comunicatore di gioia ed entusiasmo cristiano, ma anche in un sinodo specifico, organizzato con una metodologia propria per ascoltare e coinvolgere i giovani – compresi i millennials e i nativi digitali –, con i loro nuovi orizzonti e i loro drammatici disagi[1] e che ha trovato espressione nella bella Esortazione apostolica Christus vivit (2019). Come affrontare, alla luce della fede e animati dalla speranza cristiana, le sfide del profondo cambiamento antropologico della posizione dell’uomo nel mondo e nelle sue relazioni con gli altri?

Sulle tracce di Paolo VI, di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, Francesco ha ripreso con grande decisione le vie del mondo con ben 47 viaggi internazionali in 66 nazioni diverse: viaggi pastorali di conferma della fede della Chiesa, di evangelizzazione, di dialogo e di pace. In tutti i continenti, con una distribuzione geografica sostanzialmente equilibrata sull’insieme del Pianeta. Ma vorremmo mettere in rilievo che Francesco è tornato più volte nell’Asia orientale, dove il suo predecessore non si era recato. Ha potuto anche almeno sorvolare la Cina, al cui popolo e alla cui Chiesa ha dedicato tanta attenzione, riuscendo a riportare nella piena comunione con Roma l’intero episcopato del Paese, senza arrestarsi di fronte ai dubbi, alle difficoltà e alle critiche. Come ai suoi predecessori, anche a lui non è stato possibile recarsi in Russia, ma è riuscito a incontrare almeno una volta il Patriarca ortodosso russo, sebbene a Cuba e di passaggio…

La sua è stata una presenza missionaria globale, aperta al dialogo ecumenico e con le altre religioni, all’incontro con tutti i popoli e le loro diverse culture. Il Vangelo di Gesù Cristo non è solo per i cristiani, ma per tutti, come appare evidente dai grandi messaggi più caratteristici di Francesco per il mondo di oggi.

La creazione, i poveri, la fratellanza per la pace


La più importante fra le encicliche di Francesco è senza dubbio la Laudato si’ (2015), «sulla cura della casa comune»[2]. L’argomento delle problematiche ambientali e della responsabilità dell’uomo non era certo nuovo, ma Francesco è riuscito a trattarlo con grande ampiezza di prospettive – teologiche e spirituali, scientifiche, sociali, economiche e politiche –, facendosi efficacemente interprete delle domande più urgenti, drammatiche e cruciali dell’umanità sul suo futuro e sulle sue responsabilità verso tutte le creature, verso tutti i suoi membri – in particolare i più deboli – e verso le prossime generazioni. Il Papa, che già si era segnalato per molti interventi coraggiosi su questioni drammatiche sui rifugiati, i migranti, le ingiustizie economiche e sociali e la «cultura dello scarto», con questa enciclica – rivolta non solo alla Chiesa, ma a tutto il mondo – si è presentato con decisione sulla scena globale come un leader morale autorevole, capace di riconoscere la gravità oggettiva dei rischi, di leggerne le cause e le interconnessioni, e di contribuire a orientare gli impegni positivi necessari per superarli nella prospettiva del bene comune.

Se questa enciclica è rimasta l’intervento più autorevole, è giusto notare che dopo di essa Francesco ha continuato a ritornare sull’argomento in molteplici occasioni durante tutto il suo pontificato, non solo con ulteriori documenti, discorsi e richiami forti e preoccupati, ma anche intervenendo personalmente in incontri internazionali, esponendosi per sollecitare l’impegno dei responsabili politici, sempre troppo debole e insufficiente rispetto ai problemi[3]. Al passo con i tempi e aperto alle problematiche, negli ultimi anni papa Francesco ha dedicato sempre più attenzione anche al tema dell’Intelligenza artificiale e dei suoi effetti sul futuro dell’umanità[4].

Tutti sanno che Francesco ci ha insegnato a guardare realtà e problemi non tanto dal centro, quanto dalle periferie. I problemi reali e urgenti, le situazioni di ingiustizia e sofferenza non solo si vedono, ma soprattutto si comprendono, si sentono meglio, in modo più coinvolto e urgente, non restando nei luoghi protetti del potere politico, economico e anche culturale, ma condividendo la vita nelle regioni e situazioni marginali geografiche e sociali… La realtà appare diversa, «se vista da Madrid o dallo Stretto di Magellano». In effetti, questa linea si è espressa in modo molto chiaro anche nella successione dei viaggi europei del Papa, che si è sviluppata dando nei primi anni una certa priorità a Paesi meno centrali, come l’Albania, la Bosnia Erzegovina, Malta, la Grecia, la Bulgaria, la Romania, la Slovacchia, l’Ungheria…

L’insistenza e la veemenza degli interventi papali sui temi già ricordati dei migranti, rifugiati, emarginati di ogni genere divennero caratteristiche fin da subito e non si sono mai attenuate nel corso degli anni[5]. Rimangono indimenticabili le visite a Lampedusa e a Lesbo, o nel Sud Sudan, o l’incontro con i Rohingya perseguitati…, ma anche le celebrazioni presso il muro di separazione a Betlemme, o le barriere al confine fra Messico e Stati Uniti… Si potrebbe continuare a parlarne a lungo. In molti Paesi del mondo, la Chiesa cattolica si è sentita fortemente incoraggiata e sostenuta dal Papa nel prendere posizioni e iniziative in favore dei migranti e dei rifugiati, nonostante si trattasse ovunque di un tema delicato e controverso.

L’ispirazione di san Francesco ritorna esplicita ed evidente nell’accento messo dal Papa sulla fratellanza fra tutti gli uomini, che non a caso dà il titolo all’altra grande enciclica del pontificato: Fratelli tutti, «sulla fraternità e l’amicizia sociale» (2020), diretta anch’essa, come la precedente, non solo ai fedeli, ma a tutti gli uomini. Il discorso è allo stesso tempo squisitamente evangelico, prendendo avvio dalla parabola del Samaritano, ma assolutamente aperto al mondo intero: un mondo terribilmente diviso, ma da ricostruire nel dialogo e – appunto – nella fraternità.

Francesco ha avuto veramente un carisma particolare nell’incontro con le persone. Nel tempo, abbiamo capito sempre meglio che cosa voleva dire quando parlava della «cultura dell’incontro». Intendeva un atteggiamento sincero e totale di ascolto, disponibilità, apertura, empatia, comprensione, dialogo fiducioso, che andasse oltre i contenuti concettuali di una discussione, per quanto approfondita, per arrivare a una sintonia della mente e del cuore, che, pur nel rispetto delle differenze, costituisse la premessa di un cammino comune, di amicizia e di passi concreti nella stessa direzione, verso la riconciliazione e la costruzione della pace.

Questa ricerca dell’incontro – non solo una disponibilità «passiva» all’incontro, ma anche una ricerca «attiva» di esso – ha avuto molte applicazioni concrete nel corso del pontificato di Francesco, sia a livello personale, sia a livello più ampio, diplomatico, ecumenico, interreligioso, e ha anche prodotto risultati, talvolta molto importanti e al di là delle aspettative. Forse l’esempio più evidente è il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, firmato ad Abu Dhabi nel 2019 da papa Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb, una delle personalità più importanti del mondo musulmano sunnita. Un evento in precedenza ritenuto per lo più impensabile, ma non isolato nel quadro di questo pontificato: si pensi anche al viaggio di papa Francesco in Iraq (2021) e al suo incontro a Najaf con la massima autorità religiosa del mondo musulmano sciita, il Grande Ayatollah Ali al-Sistani.

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Con ogni probabilità, la nostra epoca sarà ricordata come quella della nascita delle intelligenze artificiali. Ma cosa sono le intelligenze artificiali? Qual è l’impatto sociale di queste nuove tecnologie e quali sono i rischi? Ascolta la serie completa di Ipertèsti, il podcast de «La Civiltà Cattolica».

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Ma la costruzione della pace rimane un compito mai concluso su questa terra. Con realismo e profonda acutezza, papa Francesco ha parlato, fin dall’inizio, della «terza guerra mondiale a pezzi». Si è impegnato nella misura delle sue forze per superare i conflitti. Basti pensare alla disponibilità dichiarata per mediare in Venezuela o per la riconciliazione nel Sud Sudan; al coraggioso viaggio nella Repubblica Centrafricana… Ma, nel corso del pontificato, ulteriori orribili pezzi di questa guerra mondiale si sono avvicinati a Roma e lo hanno coinvolto dolorosamente. Pensiamo anzitutto all’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022 e poi al conflitto fra Israele, Hamas ed Hezbollah dopo il terribile, feroce attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 e le conseguenti distruzioni a Gaza e nel Libano.

Francesco ha mobilitato la diplomazia vaticana, ha moltiplicato iniziative umanitarie, ha conservato una posizione lungimirante e superiore con i suoi appelli e la sua preghiera, ma ha dovuto assistere ancora una volta all’imperversare dell’odio, alla follia distruttrice delle armi, alle «inutili stragi», alla devastazione dei rapporti umani, alla frustrazione di tanti sforzi ecumenici e dei rapporti con l’ebraismo e con l’islam. In questo contesto oscuro e nella sofferenza, Francesco non si è scoraggiato e ha riproposto al mondo come tema del nuovo Anno giubilare proprio quello della speranza, per mantenerla viva nella lotta fondamentale fra l’odio e l’amore. Dobbiamo continuare a evocare i messaggi di pace del viaggio in Terra Santa (2014), l’abbraccio del Papa con il rabbino Skorka e con il leader musulmano Abboud davanti al Muro del Pianto.

Aspetti della «riforma»


Come già accennato, entro la scadenza di un mese dalla sua elezione papa Francesco creò il nuovo «Consiglio di cardinali» (allora detto «il C7») e pose all’ordine del giorno – anzitutto, anche se non solo – il tema della riforma della Curia romana, a cui aggiunse fin dall’inizio le riflessioni sul Sinodo dei vescovi. Il suo predecessore, consapevolmente, pur conoscendone l’importanza, non lo aveva affrontato se non con piccoli ritocchi marginali. Le Congregazioni generali pre-conclave ne avevano perciò affermato l’urgenza. Francesco cominciò coraggiosamente l’opera, avviando un «processo», senza pretendere di avere in partenza un disegno articolato, coerentemente con il suo modo di procedere con fiducia nel cammino guidato dal discernimento.

Il processo non fu facile – non mancò neppure un nuovo Vatileaks – e si svolse attraverso la realizzazione di numerose riforme parziali di quelli che erano le Congregazioni e i Pontifici Consigli, la Segreteria di Stato, le Istituzioni collegate per le comunicazioni sociali; inoltre, con l’istituzione di nuovi Organismi economici, a cui veniva dato un ruolo assai maggiore che in passato, e con altri provvedimenti. La riforma della Curia romana prese così forma gradualmente nel corso di nove anni, fino alla pubblicazione della costituzione apostolica Praedicate Evangelium del marzo 2022. Dal titolo stesso se ne comprende immediatamente l’ispirazione, che in realtà era chiara a Francesco fin dall’inizio: la Curia romana è uno strumento del Papa per il servizio alla Chiesa nel mondo, cioè l’annuncio del Vangelo. Il Dicastero per l’evangelizzazione occupa perciò simbolicamente il primo posto fra i 16 Dicasteri, e il Papa stesso lo presiede direttamente. Un’operazione così ardua e complessa comporta naturalmente difficoltà e limiti, per cui rimane certamente sempre perfettibile. Ma bisogna riconoscere che papa Francesco l’ha condotta in porto nonostante dubbi, obiezioni non tutte infondate e forti resistenze, grazie a una volontà molto ferma, che non ha avuto paura di chiedere anche sacrifici per il bene superiore della missione.

La riforma delle istituzioni non è certo tutto per rinnovare evangelicamente la Chiesa. Perciò Francesco l’ha accompagnata con il richiamo martellante allo spirito di servizio, che deve animare tutte le sue strutture e l’esercizio di ogni forma di autorità e potere. La polemica contro il «carrierismo» o la «burocratizzazione dei servizi» ha accompagnato senza posa i suoi discorsi, cercando anche di tradursi in regole di termini temporali di mandati e incarichi, per ovviare ai rischi in questo campo. In ciò Francesco non ha cercato di «ingraziarsi» gli ambienti curiali, procedendo talvolta con rigore, ma anche con la consapevolezza di poter contare sullo spirito di obbedienza e di amore alla Chiesa e al Papa della gran parte dei suoi collaboratori.

Oltre che alla Curia romana, Francesco pensò anche immediatamente al Sinodo dei vescovi. Anch’esso ha visto una profonda trasformazione nel corso del pontificato, e si può ben dire che ne aveva bisogno per riprendere vitalità e dinamismo nel suo servizio per il cammino della Chiesa. Nel tempo i sinodi erano diventati una lunga rassegna di apprezzabilissimi interventi dei molti padri sinodali, ma con una dinamica interna di dialogo e approfondimento piuttosto ridotta, tanto da risultare quasi in contraddizione con ciò che dice il suo stesso nome: «fare strada insieme». Da parte nostra, abbiamo considerato lo sforzo di rinnovamento della metodologia e del ruolo del Sinodo come non meno importante di quello dedicato da Francesco per la Curia, anzi forse di più[6]. Non siamo evidentemente ancora in grado di valutare i risultati durevoli dei due «Sinodi sulla sinodalità» nel diffondere alle comunità della Chiesa nel mondo la dinamica e lo stile di questa sinodalità, ma certamente abbiamo capito che papa Francesco ci ha indicato questa via e ha fatto il possibile per orientare ad essa il nostro modo di essere Chiesa nel mondo di oggi, continuamente in cammino insieme, domandando e ascoltando lo Spirito Santo che ci accompagna.

Nella Curia romana, come nel Sinodo, negli ultimi anni è andato crescendo sensibilmente lo spazio di responsabilità delle donne, religiose e laiche, anche in posti elevati. Francesco non ha mutato in nulla la posizione della Chiesa circa il sacerdozio per le donne e non ha neppure fatto passi impegnativi in favore del diaconato femminile, a parte l’istituzione di una commissione di studio; ma non si può non vedere un vero progresso nell’incoraggiare la partecipazione attiva e responsabile delle donne nella vita e nella missione della Chiesa. È un progresso assolutamente doveroso e urgente nel nostro tempo, non solo per motivi sociali, ma per coerenza con la corretta visione della dignità e della vocazione di ogni persona battezzata, così fortemente affermate dal Vaticano II.

Papa Francesco è stato eletto in un tempo in cui la crisi per gli abusi sessuali nella Chiesa, in particolare da parte di membri del clero, era molto grave. Papa Benedetto l’aveva affrontata con onestà e coraggio, con il piede giusto, con un ampio ventaglio di risposte e misure: dall’ascolto personale delle vittime alla migliore selezione dei candidati al sacerdozio, al maggior rigore nelle procedure disciplinari e penali e così via. Ma il cammino era ancora lungo e difficile, e Francesco ebbe molto da impegnarsi e soffrire per continuare, approfondire, allargare la strada aperta dal predecessore, combattendo i crimini, le loro radici e il loro occultamento. Si devono perciò ricordare la convocazione di un grande Incontro a Roma dei rappresentanti di tutte le Conferenze episcopali e di altre autorità (febbraio 2019), numerosi nuovi interventi normativi e pastorali[7], i suoi numerosi incontri personali con vittime di abusi, il coinvolgimento nelle vicende del Cile e l’accettazione della rinuncia collettiva dei vescovi del Paese, la costituzione di una Commissione pontificia… Rimane caratteristico di questo impegno di Francesco l’allargamento della prospettiva dagli abusi sessuali su minori a quella dell’ambito più ampio degli abusi di coscienza e di potere, alla critica del «clericalismo» come componente del problema, all’insistenza sul coinvolgimento dell’intero popolo di Dio nel rinnovamento di conversione e guarigione dalla piaga degli abusi.

In continuità con queste problematiche vanno viste anche le numerose misure di «commissariamento» di diverse congregazioni o comunità religiose o movimenti ecclesiali, spesso di non antica creazione, dove l’esercizio dell’autorità era degenerato o rischiava di degenerare in forme diverse di abuso. Anche figure di notevole fama e carisma sono state scoperte inaspettatamente – spesso dopo molti anni – gravemente colpevoli. La presenza del male e del peccato continuerà sempre a insidiare la Chiesa, ma va contrastata sempre e con decisione, e in ciò la trasparenza, la solidità e la profondità della formazione spirituale e umana svolgono un ruolo essenziale. Papa Francesco ha fatto la sua parte.

«Evangelizzatori con Spirito»


L’esortazione apostolica programmatica di papa Francesco Evangelii gaudium (EG) si concludeva con il capitolo intitolato «Evangelizzatori con Spirito»: cioè, dobbiamo essere servitori del Vangelo aperti all’azione dello Spirito Santo, che pregano e che lavorano. «Dal punto di vista dell’evangelizzazione non servono né le proposte mistiche senza un forte impegno sociale e missionario, né i discorsi e le prassi sociali e pastorali senza una spiritualità che trasformi il cuore» (EG 262).

Oltre alle continue, innumerevoli occasioni di interventi dedicati alla vita cristiana e alla spiritualità nel corso di discorsi, omelie, udienze, celebrazioni di un papa molto attivo e molto desideroso di vivere la sua vocazione pastorale, vogliamo ricordare alcuni documenti caratteristici della sua esperienza e proposta spirituale.

Il principale rimane probabilmente la splendida esortazione apostolica Gaudete et exsultate («Rallegratevi ed esultate»), «sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo» (2018). Per chi si era fatto un’immagine molto limitata di papa Francesco come concentrato essenzialmente su temi sociali, questo scritto fu una bellissima sorpresa, che rivelò a tutti la profondità spirituale della prospettiva del Papa e la sua capacità di illuminare la quotidianità della vita, riattualizzando quella «chiamata universale alla santità» in cui il Concilio Vaticano II portava a compimento il suo grande discorso sulla Chiesa e sulla sua missione. I «santi della porta accanto», «la classe media della santità» non solo i santi canonizzati, ma i genitori che amano i loro figli, gli operai che portano a casa il pane dell’onesto lavoro, gli anziani e i malati che sorridono, i volontari che accudiscono con serenità… camminano nel popolo di Dio, e noi ci sentiamo accompagnati e incoraggiati da loro. Ma in realtà, questi santi sono coloro che ascoltano e seguono lo Spirito Santo, che li accompagna e li aiuta a «discernere», a cercare e trovare con gioia e fervore la via di un amore sempre più generoso e dimentico di sé e simile a quello di Gesù[8].

Francesco ci ha resi partecipi anche delle sue devozioni più care, che lo hanno sempre accompagnato nella sua vita, già ben prima del pontificato. Pensiamo alla lettera apostolica dedicata a san Giuseppe Patris corde («Con cuore di padre»), del 2020. Proprio nel giorno della solennità di san Giuseppe, Francesco aveva celebrato l’inaugurazione del suo pontificato. Oppure pensiamo all’esortazione apostolica dedicata a santa Teresa di Lisieux C’est la confiance («È la fiducia»), del 2023. E infine Francesco ci ha ancora sorpresi dedicando la sua ultima enciclica, la quarta, al Sacro Cuore di Gesù: Dilexit nos («Ci ha amati»), del 2024.

Questo grande inno finale all’amore di Dio per noi in Gesù Cristo ci riporta naturalmente ai discorsi sulla misericordia di Dio che avevano caratterizzato i primi anni di pontificato. Tutta la grande avventura di questo pontificato, che per tanti aspetti non ha mai smesso di stupirci, trova il suo senso complessivo nell’evangelizzazione, ossia nell’annuncio a tutti – «tutti, tutti, tutti» – dell’amore di Dio, della sua misericordia, che si manifesta nel modo più credibile e profondo nel Cuore di Cristo aperto per noi.

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[1]. La canonizzazione di Carlo Acutis in tempi brevissimi va compresa in questo contesto, come pure quella di Pier Giorgio Frassati.

[2]. La bella enciclica Lumen fidei (2013), in realtà la prima firmata da Francesco, è di fatto rimasta in ombra, perché in gran parte già preparata nel precedente pontificato e poi presto superata nell’interesse dal nuovo documento programmatico di Francesco Evangelii gaudium.

[3]. Ad esempio, si può ricordare l’esortazione apostolica Laudate Deum (4 ottobre 2023) sulla gravità delle conseguenze dei cambiamenti climatici e il fatto che il Papa avrebbe desiderato partecipare di persona alla Cop28 a Dubai, svoltasi sullo stesso tema poche settimane dopo a Dubai. Ricordiamo che sui temi della responsabilità ambientale Francesco ha spesso valorizzato la sua piena sintonia con il Patriarca ecumenico ortodosso Bartolomeo di Costantinopoli, anche con messaggi comuni.

[4]. Proprio sul tema degli effetti dello sviluppo dell’Intelligenza artificiale papa Francesco ha voluto partecipare, con un grande discorso, al G7 svoltosi a Borgo Egnazia, in Puglia, il 14 giugno 2024.

[5]. Ci sia permesso un piccolo ricordo personale. Il giorno in cui Francesco avrebbe ricevuto per la prima volta un gruppo di nuovi ambasciatori presso la Santa Sede, mi telefonò personalmente al mattino presto, mentre facevo colazione, per raccomandarmi di dare eco al breve discorso che avrebbe fatto, dedicato proprio a questi temi.

[6]. Nel ripercorrere il pontificato di Francesco, non si può dimenticare il Sinodo speciale per l’Amazzonia (2019), a seguito del quale Francesco ha pubblicato l’esortazione Querida Amazonia («L’amata Amazzonia»). È stato un sinodo dedicato a una regione specifica, in cui significativamente si sono intrecciate le dimensioni sociali, culturali, ecologiche ed ecclesiali/pastorali. Giustizia, inculturazione, conversione ecologica, evangelizzazione: tutto insieme, in una vivace dinamica di dialogo e ricerca spirituale, che non si deve certo ridurre alle discussioni, di cui tanto si parlò, sul celibato sacerdotale. Un «esperimento» di grande portata della «sinodalità» in una grande regione, cruciale per il futuro del nostro Pianeta.

[7]. Ad esempio, la Lettera al popolo di Dio pellegrino in Cile (31 maggio 2018), la Lettera al popolo di Dio (20 agosto 2018), il motu proprio Vos estis lux mundi (2019), la rimozione del «segreto pontificio» in materia di abusi (2019) ecc.

[8]. Probabilmente proprio qui si trova il punto più «gesuitico» della personalità di Francesco. Essa infatti è ispirata dalla dinamica «ignaziana» dell’apertura a un amore sempre più grande e guidata dal discernimento. Non è qualcosa di particolaristico, ma una via per avvicinarsi al cuore della vita cristiana.

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La Dichiarazione Schuman compie 75 anni


(Foto di Antoine Schibler su Unsplash)

Introduzione


Papa Francesco ha posto la speranza al centro dell’Anno giubilare 2025. Nella bolla di indizione del Giubileo, Spes non confundit[1], esprime il desiderio che esso sia un’occasione di rinnovata speranza nei cuori degli esseri umani. Per i cristiani, questa speranza, che mantiene viva la fiducia nella felicità futura nonostante le incertezze e le difficoltà della vita presente, deriva più direttamente dal «Vangelo di Gesù Cristo, morto e risorto», dalla rivelazione dell’amore di Dio, «l’amore che scaturisce dal cuore di Gesù trafitto sulla croce».

Per alimentare ulteriormente la speranza, papa Francesco invita la Chiesa a leggere «i segni della speranza» nel mondo, in linea con l’attenzione ai segni dei tempi promossa dalla costituzione pastorale Gaudium et spes (GS). «Porre attenzione al tanto bene che è presente nel mondo» è un antidoto alla tentazione «di ritenerci sopraffatti dal male e dalla violenza». Tra questi segni di speranza, il Pontefice colloca al primo posto il desiderio di pace.

È quindi una felice coincidenza che nell’anno 2025 si celebri anche il 75° anniversario della Dichiarazione Schuman, un testo nato da un ardente desiderio di pace. Era infatti il 9 maggio 1950 quando Robert Schuman, allora ministro degli Affari esteri della Francia, durante una conferenza stampa al Quai d’Orsay, rese nota una proposta rivolta alla Germania. La Francia prospettava di gestire congiuntamente i mercati del carbone e dell’acciaio in una modalità nuova, di carattere sovranazionale; tale proposta non era rivolta solo alla Francia e alla Germania, ma doveva essere estesa a tutte le parti interessate. Il progetto, concepito dalla mente lungimirante di Jean Monnet, intendeva offrire una vera e propria via d’uscita ai Paesi europei all’indomani della Seconda guerra mondiale e prevenire soluzioni che avrebbero potuto aggravare le divisioni e rafforzare i sospetti, invece di sanarli. I princìpi della Dichiarazione Schuman di fatto costituirono il punto di partenza e il modello per lo sviluppo di quella che sarebbe diventata dapprima la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, poi la Comunità europea e, infine, l’Unione europea (Ue). Quel giorno può quindi essere considerato fondativo del progetto di integrazione europea, e per questo il Consiglio d’Europa nel 1985 ha proclamato il 9 maggio «Giornata dell’Europa».

Settantacinque anni dopo, tornare al testo della Dichiarazione e ai suoi princìpi fondamentali è ancora fonte di ispirazione. Per molti versi, i temi sviluppati da Schuman e Monnet – come la pace, la riconciliazione, il dialogo, la giustizia equa, la pazienza, per citarne solo alcuni – oggi sono più attuali che mai e sono in profonda sintonia con lo spirito di un Anno giubilare incentrato sulla speranza.

Motivi di disperazione, oggi come ieri


In una nota datata 3 maggio 1950[2], Monnet osservava che «ovunque si guardi nel mondo di oggi, non si incontra altro che un vicolo cieco». Proseguiva elencando alcuni di questi punti morti. C’era, in primo luogo, la diffusa percezione dell’«inevitabilità» di una guerra tra l’Occidente e l’Unione Sovietica. C’era poi la difficoltà di far reintegrare la Germania nel consesso delle nazioni occidentali, con una modalità che non risultasse minacciosa per i suoi ex avversari. Inoltre, la riorganizzazione politica dell’Europa sembrava essersi arenata in un vicolo cieco, con un Consiglio d’Europa appena nato che non soddisfaceva le aspettative dei federalisti europei. E l’elenco potrebbe continuare.

Non è azzardato tracciare alcuni parallelismi fra la situazione dell’Europa degli anni Cinquanta del secolo scorso e quella odierna. Perlomeno, bisogna riconoscere che oggi come allora la diagnosi delle sfide che il continente si trova ad affrontare è piuttosto cupa.

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È forte la tentazione di pensare che oggi siamo più divisi che mai. Sul piano della politica interna, la polarizzazione costituisce un motivo di preoccupazione in molti Paesi. Il crescente malcontento nei confronti dell’establishment politico centrista ha favorito l’ascesa di partiti più radicali, che invocano una revisione brutale dell’attuale sistema e delle sue convenzioni. Le radici della crisi sono diverse. Ma, o che si individui la causa scatenante nella disgregazione delle comunità tradizionali, o in una iniqua distribuzione dei benefici della globalizzazione economica, o in un divario crescente tra élite istruite e ampie fasce della popolazione, o nell’emergere di nuove forme patologiche di comunicazione, o in una gestione inadeguata dei flussi migratori, o in una combinazione di tutti questi fattori, il risultato finale è una profonda alterazione avvenuta nel dibattito pubblico negli ultimi anni. La capacità di ricercare il bene comune – e di accettare compromessi per raggiungerlo – è stata messa in crisi dall’incapacità di ampie componenti dello spettro politico di dialogare tra loro. Sebbene in molti Paesi d’Europa i sistemi elettorali proporzionali siano ancora preservati dagli eccessi della politica di parte che si osservano negli Stati Uniti, tuttavia, con i partiti populisti, da un lato, che sperano di emulare l’indignata politica identitaria che ha favorito Donald Trump, e i partiti centristi, dall’altro, incapaci di rivolgersi ai loro elettori smarriti se non con silenzi o condanne, lo spazio per un dialogo politico costruttivo si è drasticamente ridotto.

Anche sul fronte economico, l’Europa, nonostante la sua relativa prosperità, si sente minacciata. La guerra in Ucraina ha messo in luce l’incapacità dell’Unione europea di superare in modo significativo la produzione militare industriale della Russia, che ha un’economia pari a un decimo della sua in termini di Pil. Per quanto riguarda l’innovazione, cresce la preoccupazione che l’Europa rimanga progressivamente indietro. Gli investimenti privati nella ricerca e nello sviluppo nell’Ue rappresentano circa la metà di quelli statunitensi, e il divario di prosperità tra le due economie, che sta lentamente crescendo, rischia di diventare incolmabile, soprattutto se l’Europa non riuscirà a cogliere le opportunità legate a nuove tecnologie dirompenti, come l’intelligenza artificiale. Settori chiave, come l’industria automobilistica tedesca, mostrano segni di cedimento, e le industrie che erano state presentate quali motori del futuro, come quella delle auto elettriche o dell’energia verde, vedono oggi la Cina superare l’Europa. Rapporti recenti, come quello di Enrico Letta sul mercato unico[3], o quello di Mario Draghi sulla competitività[4], hanno formulato diagnosi preoccupanti e indicato possibili vie da percorrere. Ma c’è anche un diffuso scetticismo sulla capacità dell’Unione di mobilitare risorse politiche e finanziarie per attuare effettivamente le soluzioni proposte. Come se tutto questo non bastasse, la guerra commerciale avviata dagli Stati Uniti aggiunge un ulteriore motivo di incertezza al futuro economico dell’Europa.

L’Unione europea è (di nuovo?) alla ricerca della propria anima sul piano del funzionamento istituzionale. Di fronte a crisi senza fine, avanza la tentazione di accentrare il potere. Il funzionamento della Commissione si concentra sempre più intorno alla Presidenza, per dare priorità alla rapidità delle decisioni. Al contempo, il Consiglio rafforza la propria importanza nei confronti del Parlamento, in un contesto dominato da questioni di sicurezza su cui quest’ultimo dispone di competenze limitate. Gli interessi nazionali tornano a imporsi, soprattutto in tema di migrazioni, con governi che minacciano apertamente di disattendere l’applicazione del diritto dell’Unione. Le contestazioni dirette all’idea del sovranazionalismo diventano sempre più frequenti, con richieste di ripensare la sussidiarietà così come oggi viene intesa. Giorno dopo giorno, si moltiplicano le discussioni per revocare normative e regolamenti ritenuti eccessivamente vincolanti per l’economia europea. Non molto tempo fa, queste regolamentazioni erano considerate lo strumento privilegiato dell’Europa per proiettare il proprio potere attraverso il cosiddetto «effetto Bruxelles»[5]. Con la prospettiva di un’ulteriore estensione dell’Unione verso Est, fino a includere l’Ucraina, si diventa consapevoli del fatto che l’attuale architettura istituzionale dell’Ue non è adatta a un tale allargamento, che altererebbe in modo considerevole le dinamiche di potere.

Tuttavia, tutte queste preoccupazioni impallidiscono di fronte agli sconvolgimenti geopolitici in corso. L’Europa è stata bruscamente risvegliata dall’aggressione contro l’Ucraina, dopo tre decenni in cui non aveva conosciuto minacce esistenziali al proprio territorio. I vicinati europei – meridionale e orientale –, dati quasi per scontati come zone d’influenza, riemergono oggi come un luogo di competizione. Una cosiddetta «guerra ibrida», che combina propaganda, influenza economica e attacchi digitali, vede l’Europa e i suoi alleati democratici impegnati a difendersi da tentativi di ridisegnare le sfere d’influenza. Infine, la presuntuosa politica estera statunitense America First ha portato molti a concludere che l’idea di un Occidente unito – che ha sostenuto una comune visone del mondo per ottant’anni – è giunta a una brusca fine. L’Europa potrebbe essere costretta a cavarsela da sola, cercando al contempo di tenere a bada un alleato passato a una logica puramente utilitaristica.

Se a ciò aggiungiamo le preoccupazioni legate a un possibile ridimensionamento del Green Deal, un insieme di politiche pensato per fare dell’Europa un leader nella transizione ecologica, e il crollo dei finanziamenti destinati agli aiuti umanitari e allo sviluppo, avremo un’idea del quadro scoraggiante che anima le menti e le discussioni a Bruxelles. Perché soffermarvisi? Semplicemente per ricordare che, se oggi ci sentiamo preoccupati per il contesto attuale, anche nei primi anni Cinquanta del secolo scorso non mancavano motivi di profonda inquietudine. Spesso diamo per scontato il passato, ma un ritorno al periodo della Dichiarazione Schuman ci mostra che nemmeno allora il contesto era più semplice. Dobbiamo prendere sul serio le preoccupazioni di Monnet così come quelle attuali, per cogliere appieno quanto sia stata rivoluzionaria la proposta contenuta nella Dichiarazione Schuman.

Anche allora esisteva una forte polarizzazione, sebbene assumesse una forma diversa. Dopo la Seconda guerra mondiale, con l’emergere della «guerra fredda», gli atteggiamenti verso l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti tracciavano forti linee di divisione. I partiti comunisti furono rapidamente esclusi dai governi dell’Europa occidentale (nel 1947 sia in Francia sia in Italia, dove erano tra i più forti del continente), ma mantennero comunque una notevole influenza. Le divergenze ideologiche rendevano rapidamente impossibile un dialogo costruttivo. Ogni tentativo di stabilire una cooperazione in Europa veniva screditato dall’estrema sinistra come una manovra teleguidata dagli Usa e volta a impedire la pacifica convivenza con l’Urss. I socialisti moderati, da parte loro, erano spesso paralizzati dalle critiche provenienti dalla loro sinistra, non volendo dare l’impressione di concedere troppo agli Stati Uniti.

Sul piano economico, la scelta del carbone e dell’acciaio viene spesso spiegata con la loro importanza per la produzione di armamenti e con la necessità di instaurare un clima di fiducia tra ex nemici. Ma queste industrie ponevano problemi sotto altri aspetti. All’inizio degli anni Cinquanta, era evidente che l’attività mineraria in alcune regioni della Francia e del Belgio sarebbe presto risultata non competitiva rispetto al carbone proveniente dalla Germania. Vi erano inoltre timori circa la sopravvivenza dei cartelli siderurgici in Germania e circa i vantaggi che questi avrebbero potuto offrire loro rispetto ai produttori francesi. Anche il rischio di investimenti non coordinati nella produzione siderurgica a livello europeo diventava evidente. Tutto ciò, unito alla capacità degli ex Alleati di imporre la propria volontà alla Germania nella gestione economica delle regioni della Ruhr e della Saar, stava preparando il terreno per un aspro scontro di interessi nazionali.

Anche il futuro dell’integrazione europea appariva incerto. I federalisti avevano sperato che l’entusiasmo europeista, culminato nel Congresso dell’Aia del maggio 1948, avrebbe condotto alla creazione di istituzioni dotate di un chiaro mandato federale. Questo non si concretizzò, e prevalse invece un approccio basato sulla cooperazione tra Stati sovrani. In un Paese come la Francia, il principio del sovranazionalismo era tutt’altro che scontato: l’orgoglio nazionale rappresentava un pilastro fondamentale della ricostruzione postbellica, alimentato dal riferimento alla Resistenza e alla lotta contro la Germania nazista. Qualsiasi gesto distensivo nei confronti della Germania poteva essere considerato un tradimento. Allo stesso tempo, la Germania cominciava a manifestare insofferenza nei confronti della tutela esercitata dagli Alleati, che tradiva dubbi sulla sincerità del suo nuovo orientamento democratico e pacifico. La vicenda della Saar, che era stata sottratta alla Germania per essere trasformata in un protettorato francese, stava avvelenando i rapporti tra i due Paesi.

Per quanto riguarda il contesto geopolitico, a dominare la scena era la «guerra fredda». Con l’esplosione della prima bomba atomica sovietica nel 1949, il mondo era entrato in una fase completamente nuova, caratterizzata da un equilibrio precario e da una feroce competizione fra Stati Uniti e Unione Sovietica. In quei primi anni, l’Europa stessa era ancora il campo di battaglia su cui si tracciavano senza scrupoli le sfere d’influenza. Si andavano formando nuove alleanze, la più rilevante delle quali fu l’Alleanza atlantica. Ma anche allora il rapporto fra gli Stati Uniti e l’Europa occidentale era difficile. Desiderosi che l’Europa si assumesse al meglio la propria difesa, gli statunitensi premevano per un rapido riarmo della Germania e per il suo inserimento nelle istituzioni dell’Occidente. Una prospettiva che dagli altri governi europei era vista come prematura, per il timore di dover spiegare tale riarmo alle loro popolazioni. Sulla scena globale, le tensioni tra europei e statunitensi si concentravano soprattutto sul tema delle colonie, con gli Stati Uniti che spingevano per la decolonizzazione, a volte in modo aggressivo.

Rifiutare la disperazione


Nella già citata nota del 3 maggio 1950, Monnet collega strettamente tutti questi aspetti. Egli vede in atto un processo quasi ineluttabile. Poiché l’attenzione di tutti i leader era focalizzata sulla «guerra fredda» e sulla necessità di contenere l’Unione Sovietica, le politiche sarebbero state subordinate a tale obiettivo. Di conseguenza, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna avrebbero voluto mobilitare le risorse della Germania. Il primo passo sarebbe stato quello di aumentare la produzione industriale, in particolare quella dell’acciaio. Con l’industria francese incapace di competere, ciò avrebbe portato a politiche protezionistiche, compromettendo le prospettive generali di crescita in Europa (e della Francia in particolare) e alimentando vecchi rancori (tra Francia e Germania certamente, ma anche tra Francia e altre potenze che avessero forzato la mano sulla questione). A lungo andare, qualsiasi prospettiva di riconciliazione sarebbe stata compromessa. In effetti, una conferenza degli Alleati, prevista a Londra per il 10 maggio, avrebbe probabilmente avviato tale processo. Come osserva ancora Monnet, questo corso d’azione sarebbe avvenuto non perché qualcuno lo volesse, ma solo per mancanza di una soluzione migliore ai problemi in questione.

Questa diagnosi non era di per sé originale. Dall’altra parte del confine, il cancelliere tedesco Konrad Adenauer era giunto a conclusioni analoghe. Desideroso di ripristinare la sovranità del proprio Paese e di porre fine alla molteplicità di regole imposte all’industria tedesca, era ben consapevole della necessità di farlo con una modalità che rafforzasse la fiducia, soprattutto nei confronti della Francia. Nel marzo del 1950, egli aveva proposto l’idea di una piena unione politica ed economica tra Germania e Francia, possibilmente come premessa di più ampi Stati Uniti d’Europa. Questa proposta però era stata respinta subito dai leader francesi, che l’avevano definita irrealistica.

Non si sottolineerà mai abbastanza che, a fronte di questo quadro di determinismo pessimistico e di speranze frustrate, nel corso degli anni si era preparato un più generale sfondo di speranza. L’idea di promuovere la pace attraverso una qualche forma di integrazione europea era in fase di elaborazione da decenni. Idee di federalismo europeo erano già state proposte nel periodo tra le due guerre mondiali, in particolare da Richard Coudenhove-Kalergi e Aristide Briand, in reazione ai massacri della Prima guerra mondiale. Gli orrori della Seconda guerra mondiale diedero ad esse nuovo impulso. Il Congresso dell’Aia del 1948 è un esempio di questo momento politico e culturale, in cui a molti apparve in un certo senso evidente una qualche forma di profonda cooperazione europea.

Oltre agli imperativi del momento, altri fattori alimentarono l’immaginazione di quegli attori che diedero forma alla prima integrazione europea. Parte delle aspirazioni verso nuove forme di solidarietà europea può essere ricondotta alle origini di alcuni di tali protagonisti, come Robert Schuman o Alcide De Gasperi: entrambi provenivano da regioni di confine, che nel corso degli anni avevano regolarmente cambiato appartenenza, il che li rendeva profondamente consapevoli della complessa relazione tra appartenenza locale e identità nazionale. Anche le esperienze personali della Seconda guerra mondiale furono determinanti, sia per quei leader europei che strinsero nuovi legami durante il loro esilio all’estero, come Jean Monnet e Paul-Henri Spaak, sia per coloro che avevano sperimentato in prima persona i pericoli di un nazionalismo incontrollato, come Adenauer.

Una comunità di intenti tra molti dei primi artefici di un’Europa unita può essere fatta risalire anche alla loro comune appartenenza alla Democrazia cristiana. L’ideale europeo era stato strettamente legato al pensiero cristiano da figure influenti come Jacques Maritain, e ulteriormente sostenuto dall’interesse per l’unificazione europea manifestato da papa Pio XII. Il fatto che, verso il 1950, i partiti democratico-cristiani fossero al governo in molti Paesi dell’Europa continentale avrebbe certamente favorito i primi passi dell’integrazione europea[6].

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Tuttavia, la proposta di Monnet, fatta propria da Schuman, non era solo una conseguenza logica del corso della storia né una semplice continuazione del passato. Era al contrario un tentativo deliberato di invertire il corso della storia rispetto a quello che sembrava il suo naturale svolgimento. Lasciata andare «con il pilota automatico», l’Europa avrebbe potuto facilmente ricadere nei suoi vecchi demoni. Tracciare un’altra rotta richiedeva, da un lato, una chiara visione di un futuro migliore: gli ideali e la buona volontà di fondo c’erano, ma non erano sufficienti. Dall’altro lato, per preservare le aspirazioni europee alla pace e all’unità e per dare alla speranza un futuro, il progetto doveva trovare un nuovo veicolo, determinare un cambio di paradigma.

Un nuovo percorso


Il percorso tracciato dalla Dichiarazione Schuman cerca di evitare le insidie di due approcci logici alle difficoltà dell’Europa. Il primo consisteva nel creare strutture intergovernative ad hoc, finalizzate a gestire problemi specifici, o nell’istituire organi intergovernativi di coordinamento. Un simile approccio non comporta alcuna perdita di sovranità per gli Stati e si basa su decisioni negoziate. Il pericolo è che il risultato della negoziazione spesso non si fondi su una soluzione ottimale, ma su un equilibrio tra i diversi interessi nazionali. Inoltre, si tratta di un equilibrio di potere, che potrebbe essere percepito come ingiusto qualora un attore si trovasse in una posizione di debolezza. Il modo in cui la Francia affrontò la reintegrazione della Germania, dando priorità alla propria sicurezza e sentendosi al contempo minacciata dai tentativi anglosassoni di modificare lo status quo, dimostra i limiti di tale percorso.

Il secondo approccio, più vicino agli ideali del federalismo, non cerca di fornire soluzioni dirette a problemi specifici. Piuttosto, cerca di creare un nuovo quadro generale entro cui risolvere tutti i problemi futuri. Logicamente, tale quadro trarrebbe la propria legittimità da qualche tipo di sostegno popolare, assumendo la forma di un processo costituente, dell’istituzione di qualcosa che almeno assomigli a una costituzione. Dotata di una propria legittimazione democratica, la nuova entità può giustificare il proprio potere rispetto alle precedenti istituzioni nazionali. Tuttavia, una simile soluzione richiede un enorme slancio politico per essere avviata. Ne è un esempio la proposta di una piena unione politica tra Francia e Germania avanzata da Adenauer nel marzo del 1950 e respinta come prematura.

Il nuovo approccio, che è alla base della Dichiarazione, affronta una questione specifica, sottraendola alle competenze nazionali e ponendola sotto una nuova autorità sovranazionale. In tal modo, gli ex concorrenti devono vedere la situazione da una nuova prospettiva. Questa nuova dinamica, se gestita con onestà, li spinge ad adottare una prospettiva più ampia, che apre nuove possibilità. Regolamentazioni vantaggiose, come le leggi antitrust, che in precedenza avrebbero potuto essere rifiutate o rinviate per timore di indebolire la posizione del proprio Pae­se, diventano improvvisamente concepibili, una volta che vengano applicate equamente a tutti. Inoltre, una sottomissione comune a un’autorità sovranazionale ristabilisce l’uguaglianza tra i Paesi, e con essa anche la dignità, perché i Paesi in posizione di debolezza non sono più costretti a elemosinare concessioni, ma partecipano equamente al processo decisionale. Idealmente, gli Stati vengono così spinti ad abbandonare l’atteggiamento di commercianti che cercano i propri interessi e ad assumere invece quello di collaboratori alla ricerca del modo migliore per costruire qualcosa insieme. Presumibilmente, nelle intenzioni di Schuman e Monnet, questo atteggiamento di cooperazione avrebbe dovuto radicarsi ed estendersi a nuovi settori della vita economica e politica.

Qui si assiste a un chiaro trasferimento di sovranità dagli Stati nazionali alla nuova autorità. Esso è reso politicamente accettabile, in un primo momento, dalla sua portata limitata. Tuttavia, la legittimità democratica a lungo termine di un tale approccio può essere paragonata a una scommessa di speranza. Con gli Stati nazionali ancora in vita, la nuova struttura dovrà dimostrare la necessità della sua esistenza in base ai risultati che sarà in grado di produrre. La complessità della valutazione di tali risultati deriva dal fatto che alcuni di quegli obiettivi sono ambiziosi e fluidi, mentre altri sono più pratici.

Gli obiettivi della Dichiarazione


Il testo della Dichiarazione[7] prevede innanzitutto molteplici obiettivi ambiziosi, legati alla messa in comune del carbone e dell’acciaio: crea­re una solidarietà di fatto, eliminare la secolare opposizione tra Francia e Germania, rendere materialmente impossibile qualsiasi guerra tra i due Paesi, gettare solide basi per la loro unificazione economica, contribuire all’innalzamento del tenore di vita, perseguire lo sviluppo del continente africano ecc. Tutti questi obiettivi si riassumono in un’unica dinamica: una fusione di interessi indispensabile per la crea­zione di un sistema economico comune, da cui possa nascere una comunità più ampia e profonda. Questa comunità, necessaria per preservare la pace, dovrebbe prendere corpo in una Federazione europea.

Gli obiettivi pratici della Dichiarazione appaiono piuttosto modesti rispetto a questa grande visione. Essi sono enunciati così: 1) assicurare nel più breve tempo possibile la modernizzazione della produzione e il miglioramento della sua qualità; 2) fornire carbone e acciaio a condizioni identiche ai mercati francese e tedesco, nonché a quelli degli altri Paesi membri; 3) sviluppare esportazioni comuni verso altri Paesi; 4) uniformare e migliorare le condizioni di vita dei lavoratori in queste industrie.

Qualsiasi valutazione dell’eredità della Dichiarazione Schuman, o della traiettoria del progetto europeo alla luce dei suoi princìpi fondanti, deve tener conto di questi molteplici livelli di intenzionalità. Un primo livello di interrogativi deve riguardare gli obiettivi pratici dell’impresa, che si rivelano come un intreccio complesso. Lungi dall’essere focalizzati semplicemente su un mercato ottimale del carbone e dell’acciaio o sulla crescita economica, essi rivelano anche una preoccupazione sociale per le condizioni di vita dei lavoratori (e non solo per le loro condizioni di lavoro). La scelta delle industrie del carbone e dell’acciaio non era infatti disgiunta da una riflessione sociale: le condizioni lavorative in tali industrie erano emblematiche di quelle affrontate dalla classe operaia nel suo complesso. In due discorsi pronunciati al Collegio di Bruges nel 1953[8] – che probabilmente sono tra i migliori commenti che si possano leggere sulla Dichiarazione –, Schuman sottolineava l’importanza dei sindacati nella definizione dell’atto fondativo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Allo stesso modo, il riferimento all’uguaglianza delle condizioni di vita confuta l’idea che le condizioni di vita in tutta Europa si possano armonizzate semplicemente attraverso le forze del mercato. Impatto economico, progresso sociale e armonizzazione degli standard di vita: ecco tre indicatori di una visione concreta dell’Europa.

Non sorprende che questi obiettivi concreti si integrino perfettamente con gli obiettivi ambiziosi menzionati nella Dichiarazione. Ciò che era stato previsto per il settore del carbone e dell’acciaio era infatti solo un modello iniziale per un progetto più ampio. Nei suoi discorsi del 1953, Schuman tuttavia sottolineò che questo settore era, in pratica, un obiettivo abbastanza facile. Il livello tecnologico simile tra i Paesi, il numero ridotto di imprese rispetto alla loro importanza per l’economia, l’indipendenza da fattori culturali facevano sì che l’armonizzazione non presentasse particolari difficoltà. Oggi, questo motivo di preoccupazione potrebbe tradursi nel chiedersi se, in primo luogo, lo sviluppo indotto dalla partecipazione all’Unione europea sia sufficiente ad assicurare la coesione di un’Unione sempre più diversificata e, in secondo luogo, quanto siano dannose per la dinamica dell’integrazione politica le persistenti differenze di ricchezza tra i Paesi europei.

L’accenno al contribuire allo sviluppo dell’Africa, per quanto ambiguo potesse essere nel 1950 nel contesto del colonialismo ancora in corso, dovrebbe anche indurre a una riflessione critica, quando si tratta del rapporto tra un continente ricco e il resto del mondo[9].

Per approfondire ulteriormente la questione, bisognerebbe chiedersi se gli sviluppi degli ultimi 75 anni abbiano effettivamente portato a quella fusione di interessi e a quel sistema economico comune immaginati da Monnet. Alla luce degli evidenti risultati raggiunti dall’Unione europea, una domanda più pertinente che potremmo porci è se un sistema economico apparentemente comune abbia effettivamente portato a una fusione commensurabile di interessi nazionali, da un punto di vista oggettivo come pure soggettivo.

La comunità come obiettivo


Quando si tratta di valutare l’obiettivo finale della Dichiarazione Schuman, sarebbe un tragico errore confondere il mezzo – un’Europa federale – con il fine – la creazione di una comunità –. In effetti, il risultato finale formale previsto – il federalismo – era soltanto un modo per preservare ciò che era stato raggiunto durante l’intero processo. L’idea di comunità dà un’anima al federalismo. Il pericolo sarebbe quello di concentrarsi sulle istituzioni e sui progressi esteriori raggiunti verso il federalismo formale, senza valorizzare ciò che esso incarna realmente: la cura reciproca, la fiducia, la solidarietà. Tutti questi valori non si scoprono creando istituzioni, ma attraverso l’esperienza esistenziale del lavoro comune, reso a sua volta possibile da nuove istituzioni e dall’esplorazione comune di nuovi campi di cooperazione.

L’accento posto sulla comunità permette inoltre di creare un ponte tra la dimensione collettiva e quella personale. Mentre gli ideali di azione comune, appartenenza e responsabilità possono orientare l’azione collettiva e fornirle una direzione, essi possono essere sperimentati solo da persone concrete. Poiché l’Europa non può mobilitare le risorse della storia nazionale per giustificare la propria esistenza come comunità «naturale», essa deve continuamente interrogarsi su come aiutare i propri cittadini a sperimentare concretamente questo senso di comunità attraverso l’azione comune.

In quest’ottica, consentire all’Unione europea di svilupparsi verso uno stile di relazioni tra i suoi membri più transnazionale, nel quale la conciliazione degli interessi nazionali venga considerata soddisfacente tanto quanto il consenso innovativo, rappresenterebbe un tradimento delle intenzioni dei suoi fondatori pari a quello di un totale euroscetticismo.

Sempre a Bruges, nel 1953, Schuman spiegò come l’idea di comunità fosse al centro delle sue azioni: «Si tratta di un cambiamento senza precedenti nel nostro pensiero politico. L’idea di comunità deve costituire la base di tutte le future relazioni tra Paesi belligeranti. Questo è l’inizio di una comunità generalizzata, una comunità politica, una comunità militare, una comunità economica, al di là del settore del carbone e dell’acciaio. Questa è l’inevitabile catena degli eventi che volevamo. […] Questa comunità, questo principio di comunità, è una di quelle idee potenti, un’idea paragonabile a una scoperta scientifica il cui risultato non solo rimane stabilmente consolidato nel proprio campo, ma diventa anche il punto di partenza per nuovi progressi, più adatto alle esigenze di un’epoca più evoluta. La storia umana è quindi costituita da fasi successive, ciascuna delle quali si basa sulle esperienze precedenti, ma apporta il proprio contributo distintivo. Cerchiamo quindi, come nazioni e come individui, di essere gli strumenti della Provvidenza quando si tratta di individuare e far emergere quegli elementi che non abbiamo inventato noi, ma che dobbiamo portare alla luce nella nostra coscienza e nella coscienza dei popoli con cui siamo in cammino»[10].

In tempi di rinnovata polarizzazione, si corre il rischio di leggere queste parole e giudicarle ingenue, segni di un periodo di eccessivo ottimismo. Ma, così facendo, dimenticheremmo che questo appello alla comunità non è stato lanciato in tempi più facili dei nostri. Inoltre, perderemmo di vista il fatto che la comunità a cui Schuman aspirava non era un dato di fatto, ma qualcosa ancora da realizzare, qualcosa ancora da costruire sulle ceneri della guerra e di secoli di risentimenti. Così facendo, ci condanneremmo alla disperazione e all’isolamento, perché non c’è un modo giusto di relazionarsi agli altri se non all’interno di una comunità.

Qualunque giudizio possiamo dare sui risultati dei 75 anni di integrazione europea, la questione non è se abbiamo realizzato una comunità europea. Realisticamente, non l’abbiamo realizzata, e probabilmente non la realizzeremo mai completamente. La domanda è piuttosto: permettiamo ancora all’idea di comunità di plasmare le nostre speranze per l’Europa?

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[1]. Cfr Francesco, Spes non confundit. Bolla di indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025, 9 maggio 2024.

[2]. Cfr Discussion paper by Jean Monnet, 3 maggio 1950, disponibile sul sito web del Centre virtuel de la connaissance sur l’Europe, cvce.eu/obj/discussion_paper_b…

[3]. Cfr E. Letta, «Much more than a Market (Speed, Security, Solidarity)», aprile 2024 (https://www.consilium.europa.eu/media/ny3j24sm/much-more-than-a-market-report-by-­enrico-letta.pdf).

[4]. Cfr M. Draghi, «Il futuro della competitività europea», settembre 2024 (eunews.it/2024/09/09/il-rappor…).

[5]. È l’idea secondo la quale il mercato europeo sia così rilevante da spingere le imprese ad adottare le normative dell’Ue – spesso più rigorose – come linee guida e pratiche di riferimento per operare non solo nell’Unione, ma anche a livello globale.

[6]. Per un’introduzione ai primi anni dell’integrazione europea dalla prospettiva dei padri fondatori, cfr V. M. de la Torre, Europe, a Leap into the Unknown: A Journey Back in Time to Meet the Founders of the European Union, Frankfurt a. M., Lang, 2014.

[7]. Per il testo della Dichiarazione in italiano, cfr european-union.europa.eu/princ…

[8]. Cfr «Discours de Robert Schuman sur les origines et sur l’élaboration de la CECA», Bruges, 22-23 ottobre 1953 (cvce.eu/obj/discours_de_robert…).

[9]. Questa menzione, di fatto, è assente dal progetto di Monnet e appare soltanto nella versione letta da Schuman, a sottolineare l’importanza attribuita all’argomento.

[10]. «Discours de Robert Schuman sur les origines et sur l’élaboration de la CECA»,cit.

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Il Pkk e la svolta storica di Öcalan


Guerriglieri curdi (Foto: Kurdishstruggle/Flickr)
Dopo 40 anni di lotta armata, il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), il gruppo armato curdo che ha combattuto per l’indipendenza e l’autonomia della popolazione curda, ha annunciato ufficialmente di deporre le armi nella sua lotta contro lo Stato turco, che considera questa organizzazione il suo principale nemico. Ciò è avvenuto dietro iniziativa del suo leader supremo, Abdullah Öcalan, imprigionato nell’isola di Imrali, nel Mar di Marmara, e su decisione del Comitato esecutivo del Pkk, che ha la sua sede nel Nord dell’Iraq. Öcalan non guida più attivamente l’organizzazione dal 1999 (anno del suo arresto), ma la sua figura rimane centrale nella storia del movimento. Di fatto, egli continua a esercitare una grande influenza sull’organizzazione e sulla sua ideologia politica. La decisione avrà certamente conseguenze, oltre che in Turchia, anche in tutta la regione, soprattutto in Siria e in Iraq, dove sono attivi gruppi alleati o vicini al Pkk[1].

Ricordiamo che i curdi in Medio Oriente sono circa 40 milioni[2], distribuiti in diversi Paesi (Turchia, Siria, Iraq e Iran); 15 milioni sono presenti nella parte anatolica della Turchia[3], dove si è sviluppata l’organizzazione armata. Se alle parole e alle decisioni seguiranno i fatti, come si spera, si tratterebbe di una svolta storica per la Turchia e per l’intero Medio Oriente, che non va in nessun modo sottovalutata.

Il messaggio di Öcalan


Il messaggio di Öcalan è datato 25 febbraio 2025 ed è stato letto in una conferenza stampa da una rappresentanza del partito filo-curdo Dem (Partito democratico dei popoli), la terza forza politica rappresentata nel Parlamento turco e il maggior partito di opposizione. Si legge nel documento: «Non c’è alternativa alla democrazia per ottenere rispetto per le identità, libera espressione e autoorganizzazione democratica. Tutti i gruppi devono abbandonare le armi, il Pkk deve sciogliersi». Öcalan poi afferma: «La volontà di Bahçeli, insieme con la volontà de Presidente [Erdoğan] e le risposte positive degli altri partiti hanno creato le condizioni per chiedere di deporre le armi. Davanti alla Storia mi prendo la responsabilità di questo appello»[4].

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Era dal mese di ottobre 2024 che il governo turco trattava con i curdi, attraverso la mediazione di Devlet Bahçeli, per porre fine al lungo conflitto che, a partire dagli anni Ottanta, aveva causato la morte di circa 40.000 persone. Va ricordato che Bahçeli è un leader del Partito del movimento nazionalista (Mhp), che è al governo con Erdoğan, quindi tradizionalmente lontano dalla causa nazionale curda[5]. I colloqui si sono intensificati dopo la caduta, a dicembre, di Assad in Siria, che faceva intravedere ai turchi maggiori spazi di manovra e la possibilità di porre fine al terrorismo curdo. Il Pkk è considerato un’organizzazione terroristica non solo dalla Turchia, ma anche dagli Stati Uniti e dall’Unione europea. Da parte curda, la svolta per l’autoscioglimento è maturata in tre incontri in carcere tra Öcalan e alcuni deputati del Partito democratico dei popoli. L’appello ha avuto un’accoglienza positiva sia da Nechirvan Barzani, il leader curdo della regione autonoma irachena, dove il Pkk ha basi e depositi di armi, sia dalla comunità internazionale, come l’Onu, la Casa Bianca e le cancellerie occidentali[6].

Un’opportunità storica


Il presidente turco Erdoğan ha definito l’annuncio un’opportunità storica, ma non si sa ancora che cosa abbia concesso o concederà in cambio il governo di Ankara, anche se Öcalan, che è un fine politico, ha certamente ricevuto alcune promesse. I curdi, da parte loro, vogliono diritti, autonomia amministrativa e la liberazione di centinaia di prigionieri politici rinchiusi nelle carceri turche[7]. Tra essi, il leader del Dem Selahattin Demirtaş, condannato a 42 anni di prigione con una sentenza contestata dalla Corte di giustizia europea. Come minimo, il Dem si aspetta la fine della repressione che deve subire in quanto viene considerato dal governo in carica il braccio politico del Pkk: un’accusa che è stata sempre negata dal partito filo-curdo. Inoltre, si aspetta il riconoscimento della legittimità delle elezioni amministrative in molti comuni curdi: negli ultimi 10 anni oltre un centinaio di sindaci del partito Dem, democraticamente eletti, sono stati licenziati e sostituiti dal governo, e in alcuni casi arrestati. Decine di altri politici curdi hanno subìto la stessa sorte.

L’appello di Öcalan e l’autoscioglimento del Pkk dovrebbero normalizzare la situazione e avviare un processo di pacificazione, sebbene Erdoğan abbia detto che non intende scendere a patti con il Pkk. Ciò che la Turchia sta cercando, egli ha dichiarato, non è un processo di pace, ma la resa incondizionata del movimento armato. Nel primo sabato di Ramadan, il premier ha affermato di essere pronto a riprendere le operazioni militari contro il Pkk, fino all’eliminazione dell’ultimo terrorista, «se la promessa di lasciare le armi rimane in stallo e vedremo solo qualche mossa apparente e qualche cambio di nome»[8].

Non tutti nell’organizzazione hanno accolto favorevolmente l’appello di Öcalan; Cemil Bayik, uno dei fondatori del Pkk e membro del Consiglio esecutivo dell’Unione delle comunità curde, in un messaggio ha affermato: «Il popolo curdo combatte per difendersi ed evitare lo sterminio. Se ci siamo armati, è perché la Turchia persegue politiche di violenza, guerra e massacri per eliminare i curdi. Se il Pkk si disarma, si risolve il problema? No. Se lo “zio” Öcalan fa questo appello, il problema svanisce? No. Lo Stato turco sta ingannando sia la sua società sia la comunità internazionale»[9].

Cauta è stata la reazione di Mazloum Abdi, comandante delle Forze democratiche siriane (Fds), che sostengono i curdi al confine siriano nel Rojava. Egli ha detto di accogliere con favore la prospettiva di pace in Turchia, ma ha lasciato intendere che il suo gruppo non è vincolato alle dichiarazioni del Pkk: «Non vogliamo sciogliere le Fds; al contrario, crediamo che rafforzeranno il nuovo esercito siriano»[10].

Nonostante lo scetticismo di una parte dei miliziani curdi, la dirigenza del Pkk ha accolto l’appello di Öcalan e ha dichiarato unilateralmente il cessate il fuoco a partire dal 1° marzo 2025, per «aprire la strada alla pace – si legge nel comunicato – e a una società democratica», sottolineando che, se «non saremo attaccati, non attaccheremo»[11]. Secondo quanto dichiarato, il gruppo è pronto a convocare un congresso che sancirà formalmente l’autoscioglimento dell’organizzazione paramilitare, come stabilito dal suo fondatore. A tale riguardo, si chiede che Öcalan venga rilasciato dalla prigione e che possa presiedere il congresso. Cosa che non sembra per nulla facile.

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Insomma, siamo di fronte a un passaggio storico, che dovrebbe segnare la fine del lungo e sanguinoso conflitto tra Pkk e Stato turco. Secondo Gülistan Kiliç Koçyiğit, vicepresidente del partito Dem, «adesso si apre un’occasione grazie alla quale non solo i curdi, ma tutti i turchi possono vincere. Perché ciò che chiamiamo questione curda è in realtà una questione di libertà, un problema di uguaglianza, un problema del riconoscimento dell’identità, un problema di accettazione come popolo»[12].

Secondo alcuni osservatori, lo scioglimento del gruppo armato negli ultimi tempi era prevedibile, dal momento che esso aveva subìto numerose sconfitte da parte dell’esercito turco. «Da un punto di vista militare – si è detto –, l’organizzazione è molto indebolita. I suoi vertici hanno accettato l’accordo anche perché negli ultimi dieci anni la Turchia ha fatto notevoli sforzi, in termini di nuove tecnologie, droni e armi, per indebolirlo militarmente»[13].

Öcalan dalla lotta armata alla lunga prigionia


Ma chi è Abdullah Öcalan, denominato dai propri sostenitori e amici «Apo» (in curdo, «zio»)? Nato nel 1949 da una famiglia di contadini nel villaggio di Omerli, Öcalan si avvicinò all’estrema sinistra quando frequentava, ad Ankara, la Facoltà di Scienze politiche. Nel 1978, assieme a un gruppo di studenti universitari curdi, fondò il Pkk, ponendo l’ideologia marxista-leninista alla base della lotta di liberazione del Kurdistan. Ne 1980 fu mandato in esilio fuori dalla Turchia e iniziò il suo peregrinare tra Damasco e la Valle della Bekaa libanese (che a quel tempo apparteneva alla Siria). Lì i curdi del Pkk si addestravano per la lotta armata, sparando a manichini e imparando ad assemblare ordigni esplosivi[14]. Nel 1998 Damasco gli intimò di abbandonare il Paese, e così Öcalan continuò la sua peregrinazione alla ricerca di un asilo politico. Dopo aver cercato rifugio in Russia, in Italia (65 giorni) e in Grecia, nel 1999 venne catturato a Nairobi, in Kenya, dagli agenti dei servizi segreti turchi. Detenuto nell’isola-prigione di Imrali, fu condannato alla pena di morte per tradimento e attentato alla sovranità dello Stato. Questa pena nel 2002 gli fu commutata in ergastolo.

L’attività terroristica del movimento cominciò nell’estate del 1984, quando il Pkk prese di mira le postazioni e i blindati dell’esercito turco. Fu l’inizio di uno scontro che durò 40 anni ed ebbe il suo epicentro nel sud-est della Turchia, regione a maggioranza curda[15]. Lo scontro, negli anni, assunse i connotati di una vera e propria guerra civile combattuta da un’organizzazione paramilitare (composta da circa 10.000 guerriglieri) che sia Ankara sia i Paesi occidentali considerano terroristica. Öcalan è ritenuto il leader dell’organizzazione; la sua persona è quasi oggetto di culto da parte dei suoi sostenitori, e di fatto le sue decisioni influenzano i destini dei curdi turchi, siriani e iracheni. Del resto, è proprio in Iraq, sulle montagne di Qandil, al confine con l’Iran, che è situato il quartiere generale dell’organizzazione.

I 26 anni di prigionia in un carcere di massima sicurezza, e in regime di isolamento, per Öcalan non sono trascorsi invano. Per l’organizzazione da lui creata è stato come un nuovo inizio sotto il profilo ideologico-politico. In quegli anni, egli ha cambiato il paradigma della lotta curda, «passando dall’indipendenza e dai postulati marxisti-leninisti a una visione confederale per i popoli del Medio Oriente, basata sulla democrazia diretta, sul femminismo e sull’ambientalismo, che oggi è condiviso da gran parte delle organizzazioni curde»[16]. In effetti, anche se i curdi sono in gran parte musulmani sunniti, nelle loro comunità le donne hanno ruoli politici e amministrativi di rilievo e l’autonomia locale di solito è molto sviluppata. Va anche sottolineato che essi non sono, come gli sciiti o i drusi, una fazione del variegato molto islamico, ma semplicemente un popolo che vive sparso in diversi Paesi, senza patria, senza uno Stato che li rappresenti.

Tornando all’appello di Öcalan, va ricordato che esso non è l’unico da lui lanciato in tutti questi anni. Altri appelli per la pacificazione erano stati inviati dalla prigione di Imrali. In quello del 28 settembre 2006, Öcalan, attraverso il suo legale, chiedeva al Pkk di dichiarare un armistizio e di cercare di raggiungere la pace con la Turchia: «È molto importante – scriveva – costruire un’unione democratica tra i turchi e i curdi. Con questo processo la via al dialogo democratico verrà finalmente aperta»[17]. Il messaggio non ebbe però alcun risultato e la lotta continuò come prima. Un nuovo appello dello stesso tenore fu lanciato nel marzo del 2013, quando Erdoğan era primo ministro e considerava Öcalan, per la sua grande autorevolezza e popolarità tra i curdi, la persona giusta per porre fine ai combattimenti. In un messaggio letto davanti a un’immensa folla radunata in occasione del capodanno curdo, nel marzo del 2015, Öcalan scrisse: «Questa lotta del nostro movimento quarantenne, che è stata piena di dolore, non è andata sprecata, ma allo stesso tempo è diventata insostenibile»[18]. Allora si arrivò a un cessate il fuoco, che però dopo pochi mesi, il 25 luglio 2015, saltò, e il conflitto entrò nella sua fase più sanguinosa. In quella occasione alcune città a maggioranza curde, come Diyarbakir, furono distrutte dall’esercito turco.

La differenza tra gli appelli precedenti di Öcalan e l’ultimo è che, mentre i primi chiedevano una tregua nei combattimenti, ora il leader e il comitato esecutivo del Pkk chiedono all’organizzazione di deporre le armi, di sciogliersi e di accettare il percorso democratico nazionale. Il cammino verso la pacificazione appare non scontato. La decisione del Pkk ha rappresentato certamente un’apertura importante, ma è stata accolta con cautela da entrambi i fronti. Alcuni settori della società turca hanno denunciato l’operazione come un tradimento nei confronti delle famiglie delle vittime degli attentati del Pkk. Inoltre, tra le forze nazionaliste c’è un forte scettiscismo nei confronti della pacificazione; in particolare, c’è il timore che ai curdi vengano concessi diritti di autoregolamentazione troppo ampi[19].

Conclusione


L’appello di Öcalan avrà una grande ripercussione anche fuori della Turchia, in particolare al confine siriano del Rojava, roccaforte dei curdi, dove le Fds, sostenute militarmente dagli Stati Uniti (presenti nel territorio con circa 2.000 soldati[20]), subiscono le pressioni sia dal nuovo governo di Damasco sia dalla Turchia, che ne chiedono insistentemente la soppressione. In particolare, la nuova leadership siriana, guidata dal presidente ad interim Ahmed al-Sharaa, vuole che le Fds si disarmino e si sciolgano, proponendo di inserirne una parte nel nuovo esercito nazionale siriano e, inoltre, che il controllo delle numerose riserve di idrocarburi nelle regioni in mano alle forze curde venga trasferito a Damasco[21]. I curdi, da parte loro, sono disposti a integrarsi in Siria, ma come unità collettiva, non come individui[22].

La Turchia nel frattempo ha minacciato un’offensiva di terra contro le milizie curde presenti nel Fds[23], perché le considera un’estensione del Pkk. Da tempo Ankara stava pianificando un’operazione contro il Pkk nel nord della Siria. Questo non è stato possibile, perché all’inizio del 2025 c’è stato un cambio di potere a Damasco[24]. Recentemente, il governo di al-Sharaa ha raggiunto un accordo con il capo delle Fds per l’integrazione di tutte le istituzioni civili e militari curde del nord-est della Siria, all’interno dell’amministrazione statale. L’attuazione di questo piano è prevista entro la fine del 2025. Nell’accordo è specificato che «la comunità curda è una componente essenziale dello Stato siriano, che garantisce il suo diritto alla cittadinanza e tutti i suoi diritti costituzionali»[25].

Infine, l’appello di Öcalan alla pacificazione ha anche un’importante ricaduta sulla politica interna turca. Erdoğan, il cui mandato presidenziale scade nel 2028, non potrà ricandidarsi, a meno che non riuscirà a convincere il Parlamento a modificare la Costituzione o a indire elezioni anticipate. Poiché il suo Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp) e il suo partner di coalizione (ilPartito del Movimento Nazionalista) non hanno i numeri per portare avanti tale progetto, egli potrebbe aver bisogno dell’aiuto di un altro grande partito. Alcuni osservatori «ritengono che egli finirà per usare il nascente processo di pace e il possibile sostegno del Dem, partito filo-curdo, per ottenere ciò che vuole»[26]. In ogni caso, lo scioglimento del Pkk potrebbe dargli quella spinta di popolarità fondamentale per prolungare il suo governo. Erdoğan «potrebbe passare alla storia come colui che ha ridimensionato o addirittura pacificato e completamente disarmato il Pkk»[27]. E questo gli darà, anche in termini elettorali, molto credito.

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[1] Cfr F. Gnetti, «Come la decisione di Öcalan può cambiare le cose in Siria e in Iraq», in Internazionale, 6 marzo 2025.

[2] Cfr P. Haski, «Il futuro del popolo curdo dopo il discorso di Abdullah Öcalan», in Internazionale, 28 febbraio 2025.

[3] Cfr «One of the world’s longest conflicts may be ending», in The Economist, 27 febbraio 2025.

[4] F. Tonacci, «Turchia, storico appello di Öcalan: “Il Pkk si sciolga e deponga le armi”», in la Repubblica, 28 febbraio 2025.

[5] Cfr M. Ricci Sargentini, «La svolta storica di Öcalan: “Basta armi, il Pkk si sciolga”», in Corriere della Sera, 28 febbraio 2025, 14.

[6] Cfr ivi.

[7] Cfr P. Haski, «Il futuro del popolo curdo dopo il discorso di Abdullah Öcalan», cit.

[8] F. Tonacci, «Il Pkk depone le armi. Svolta storica in Turchia: “Ora liberate Öcalan”», in la Repubblica, 2 marzo 2025.

[9] Id., «Turchia, storico appello di Öcalan: “Il Pkk si sciolga e deponga le armi”», cit.

[10] T. Krotoff, «Cosa cambia dopo l’invito di Öcalan a deporre le armi», in Internazionale, 7 marzo 2025.

[11] F. Tonacci, «Il Pkk depone le armi…», cit.

[12] Ivi.

[13] T. Krotoff, «Cosa cambia dopo l’invito di Öcalan a deporre le armi», cit.

[14] Cfr F. Tonacci, «Lo zio che sognava una patria e ha mostrato al mondo la causa del popolo curdo», in la Repubblica, 28 febbraio 2025.

[15] I curdi in Turchia rappresentano il 20% della popolazione. Cfr P. Haski, «Il futuro del popolo curdo dopo il discorso di Abdullah Öcalan», cit.

[16] M. Ricci Sargentini, «La lotta, la fuga e l’infinita prigionia. L’odissea di “Apo” che coinvolse l’Italia», in Corriere della Sera, 28 febbraio 2025, 15.

[17] Ivi.

[18] Ivi.

[19] Cfr msn.com/it-it/notizie/mondo/tu…

[20] Erdoğan ha chiesto a Trump di ritirare le truppe e di lasciare che l’esercito turco si occupi della gestione dei campi di detenzione dove sono internati i guerriglieri dell’Is e le loro famiglie. Considerata la politica di disimpegno del nuovo Presidente, è possibile che gli Usa in futuro abbandonino il Paese.

[21] Cfr «One of the world’s longest conflicts may be ending», cit.

[22] Cfr F. Gnetti, «Come la decisione di Öcalan può cambiare le cose in Siria e in Iraq», cit.

[23] Le cosiddette «Unità di difesa popolare», che costituiscono la spina dorsale delle Fds.

[24] Cfr C. Hage, «L’ultimatum della Turchia alle forze curde», in Internazionale, 17 gennaio 2025.

[25] F. Tonacci, «Siria, caccia jihadista agli alawiti. Damasco fa l’accordo con i curdi», in la Repubblica, 11 marzo 2025.

[26] «One of the world’s longest conflicts may be ending», cit.

[27] T. Krotoff, «Cosa cambia dopo l’invito di Öcalan a deporre le armi», cit.

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La concezione cristiana dell’impresa


Un operaio della Copreci, della Corporación Mondragon
San Giovanni Paolo II, incontrando lavoratori e imprenditori durante la sua visita in Spagna nel 1982, affermò che il lavoro, pur essendo certamente un bene dell’uomo e per l’uomo, non può essere adeguatamente valorizzato se per prima cosa non si riconosce l’inviolabile dignità di ogni essere umano. Aggiunse che la disoccupazione involontaria va contro il diritto ad avere il lavoro, che è un diritto fondamentale, perché assolutamente necessario per poter soddisfare le necessità vitali. E dopo aver riconosciuto ed elogiato gli imprenditori per l’opera che svolgono, in quanto generatori di occupazione e di ricchezza, li invitò a riflettere sulla concezione cristiana dell’impresa. Ricordò loro che l’economia non ha senso se non è riferita all’uomo, al cui servizio deve porsi. Poiché il lavoro è per l’uomo, e non l’uomo per il lavoro, di conseguenza l’impresa è per l’uomo, e non l’uomo per l’impresa[1].

Karol Wojtyła, che solo un anno prima aveva pubblicato l’enciclica Laborem exercens (LE)[2], rinnovò la sua proposta centrale: la necessità di superare l’innaturale e illogica antinomia tra capitale e lavoro. Sottolineò che solo l’uomo – imprenditore o lavoratore – è il soggetto del lavoro, ed è persona; il capitale non è altro che un insieme di cose. Concluse sintetizzando il concetto di impresa proprio della Dottrina sociale della Chiesa: essa non è solo una struttura produttiva, bensì una comunità di vita, un luogo dove l’uomo convive e si pone in relazione con i suoi simili e in cui viene favorito lo sviluppo personale.

Ci proponiamo qui di chiarire se questa proposta rappresenti soltanto un ideale o se si tratti di un progetto realizzabile. Quali modelli di impresa può ispirare? E di fatto li ha ispirati?

I rapporti umani in azienda


Che cosa significa considerare l’impresa come una comunità umana? Siamo di fronte a una proposta sviluppata per gradi. La sua portata può essere compresa solo se si mettono in evidenza la retrostante concezione del lavoro, della retribuzione e del ruolo dei lavoratori nella gestione dell’impresa, e quale sia la concezione della funzione e dei doveri dell’imprenditore.

Il lavoro è la preoccupazione primaria della Dottrina sociale della Chiesa. Ne sta addirittura all’origine, dal momento che essa non nasce come una considerazione astratta, ma in reazione alle concrete, e in particolare disumane, condizioni del lavoro nelle fabbriche e nelle miniere che la Rivoluzione industriale aveva causato. Con espressioni molto vicine a quelle di Karl Marx, Leone XIII, nella Rerum novarum (RN), denuncia il fatto che un piccolo gruppo di ricchi abbia imposto poco meno che il giogo della schiavitù a una moltitudine di proletari. Quindi, la prima cosa da fare è liberare i poveri operai dalla crudeltà degli sfruttatori che abusano delle persone. Bisogna fare in modo che la giornata lavorativa non duri più ore di quelle consentite dalle forze, e sempre a condizione che il lavoro venga interrotto di tanto in tanto e ci sia spazio per il riposo[3].

La sua seconda preoccupazione e richiesta è che il salario sia giusto, e da lì si creano le basi per il necessario ruolo dei sindacati. Il salario, elemento fondamentale per giudicare la giustizia dei rapporti tra dipendenti e datori di lavoro, non può essere determinato semplicemente dal libero gioco della domanda e dell’offerta[4]: deve coprire i bisogni della famiglia che è a carico dal lavoratore e, allo stesso tempo, deve tener conto delle condizioni economiche dell’azienda e della società nazionale nel suo insieme. Queste affermazioni furono sottolineate da Pio XI nella Quadragesimo anno (QA).

A poco a poco, nel discorso dei Papi si faceva strada il diritto di partecipazione alla gestione come un requisito naturale del lavoro. Pio XI, raccogliendo la riflessione provocata in quarant’anni di esistenza del sistema capitalista e nella crisi del 1929, consigliava di introdurre nel contratto di lavoro alcuni elementi del contratto societario. Così i dipendenti venivano associati alla conduzione e all’amministrazione e partecipavano in una certa misura dei benefici. Giovanni XXIII ha proseguito questo discorso nella Mater et magistra (MM), e il Vaticano II lo ha ripreso nella Gaudium et spes (GS)[5].

La Laborem exercens (1981) di Giovanni Paolo II rappresenta il culmine della dottrina pontificia, in quanto considera il lavoro come la chiave più adeguata per comprendere e valorizzare eticamente tutti i problemi sociali. L’enciclica prende le mosse dalla constatazione del grande conflitto scatenato dalla Rivoluzione industriale tra il «mondo del capitale» e il «mondo del lavoro», perché i datori di lavoro cercano di fissare il salario più basso, togliendo sicurezza al lavoro e garanzie alla salute. Ricorda che il principio della Dottrina sociale della Chiesa è quello della priorità del lavoro sul capitale. Il lavoro è sempre una causa efficiente primaria, mentre il capitale, cioè l’insieme dei mezzi di produzione, è solo uno strumento o la causa strumentale. Il capitale non può essere separato dal lavoro, né il lavoro può essere contrapposto al capitale, o il capitale al lavoro, né agli uomini specifici che stanno dietro a questi concetti. L’enciclica stabilisce che può essere intrinsecamente vero e allo stesso tempo moralmente legittimo quel sistema di lavoro che supera alla radice l’antinomia tra lavoro e capitale, cercando di strutturarsi secondo il principio sopra esposto della priorità sostanziale ed effettiva del lavoro[6].

L’imprenditore nella Dottrina sociale della Chiesa


Certamente la Chiesa ha avuto cura di specificare il profilo dell’imprenditore che ritiene adatto per realizzare la sua proposta riguardante l’impresa, e non poteva essere altrimenti. Lo ha fatto in relazione alle varie circostanze prevalenti. Così Leone XIII, allo scoppio della Rivoluzione industriale, enunciò i rapporti tra datore di lavoro e lavoratore in termini di padrone-operaio. Stabilì che i padroni non dovevano trattare gli operai come schiavi, ma rispettarne la dignità, senza imporre un lavoro eccessivamente gravoso, e remunerare il lavoro tempestivamente. Gli operai dovevano rispettare il contratto, non danneggiare il capitale, non offendere i padroni e non fomentare rivolte.

Questo era il discorso pertinente in quel momento. L’evoluzione degli eventi economici ha fatto sì che nell’analisi entrassero nuovi elementi. Per questo Giovanni XXIII, che continuava e sviluppava la visione di Pio XI sul diritto dei lavoratori a partecipare alla vita attiva dell’impresa, ha attribuito all’imprenditore la missione di garantire l’unità necessaria per una gestione efficiente[7].

In questo contesto, Pio XII ha manifestato il suo caloroso apprezzamento del lavoro degli imprenditori per il ruolo essenziale che essi ricoprono nello sviluppo dell’economia: «Sarebbe sbagliato credere che quest’attività coincida sempre con il proprio interesse […]. Si potrebbe paragonarla piuttosto all’invenzione scientifica, all’opera artistica che nasce da un’ispirazione disinteressata e che si rivolge molto di più all’intera comunità umana che arricchisce»[8]. Paolo VI ha confermato e ampliato questo ritratto dell’imprenditore: «Qualunque sia il giudizio che si voglia dare di voi, si dovrà riconoscere la vostra bravura, la vostra potenza, la vostra indispensabilità. La vostra funzione è necessaria per una società, che trae dal dominio della natura la sua vitalità, la sua grandezza, la sua ambizione. Avete molti meriti e molte responsabilità»[9].

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Visione dell’imprenditore dopo il crollo del comunismo e la crisi del 2008


La Dottrina sociale della Chiesa è un intreccio di princìpi immutabili e applicazioni contingenti e mutevoli in risposta ai diversi problemi che si presentano. Questa dimensione storica, che le è così propria, ha fatto sì che essa reagisse a due eventi di grande importanza. Trentaquattro anni fa, nel 1991, scompariva l’Unione Sovietica. Nel 2008 abbiamo assistito a una nuova crisi finanziaria che ha scosso l’economia internazionale. Due encicliche hanno preso in considerazione gli insegnamenti di tali eventi: la Centesimus annus (CA) di Giovanni Paolo II e la Caritas in veritate (CV) di Benedetto XVI.

Secondo Giovanni Paolo II, il fattore decisivo che ha avviato il processo di caduta del comunismo è stato senza dubbio la violazione dei diritti dei lavoratori (cfr CA 23). A ciò si è aggiunta l’inefficienza del sistema economico a causa della violazione dei diritti umani all’iniziativa, alla proprietà e alla libertà nel settore economico. Ciò lo porta a riconoscere che il libero mercato è lo strumento più efficace per allocare le risorse e rispondere efficacemente ai bisogni; e che sono evidenti e decisivi il ruolo del lavoro umano, disciplinato e creativo, e quello delle capacità di iniziativa e di spirito imprenditoriale come parte essenziale del lavoro stesso[10]. In precedenza Giovanni Paolo II, nella già citata Laborem exercens, aveva distinto due tipologie di datori di lavoro. Quella diretta comprende la persona o l’ente con cui il lavoratore stipula il contratto di lavoro a determinate condizioni; in quella indiretta, invece, rientrano tutti coloro che in un modo o nell’altro influenzano il contratto e le condizioni del lavoro (partiti politici, sindacati, associazioni di categoria, associazioni dei consumatori e lo Stato stesso).

Benedetto XVI, in reazione alla crisi economica del 2008 – la più grave dal secondo dopoguerra, causata dalla speculazione finanziaria basata sui mutui senza garanzie sufficienti concessi negli Stati Uniti –, ha affermato che la grande sfida è quella di dimostrare che non si possono lasciare da parte i princìpi tradizionali dell’etica sociale e che il principio di gratuità e la logica del dono come espressione di fraternità possono e devono trovare posto all’interno della normale attività economica come esigenza della sua logica intrinseca, della carità e della verità[11].

Tutto questo ha dato origine a un documento del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, pubblicato nel 2012 con un titolo un po’ sorprendente: La vocazione del leader d’impresa[12].

La vocazione imprenditoriale


Questo documento è una guida destinata agli imprenditori e ai docenti di economia, che mette in luce l’importanza della vocazione dell’imprenditore nel contesto dell’economia globalizzata, nonché l’apporto dei princìpi fondamentali della Dottrina sociale della Chiesa per l’organizzazione delle moderne attività di impresa[13]. Le sue formulazioni principali possono essere riassunte nei seguenti punti.

  1. Quando le aziende e i mercati, adeguatamente regolati dai governi, funzionano bene, contribuiscono in modo insostituibile al benessere materiale e spirituale della società. La recente esperienza della crisi finanziaria ha dimostrato fino a che punto, quando ciò non avviene, possano arrivare i danni provocati.
  2. Gli imprenditori cristiani possono sempre contribuire al raggiungimento del bene comune.
  3. Le difficoltà a contribuire con il lavoro personale e a servire il bene comune derivano dalle carenze dello stato di diritto, dalla corruzione, dall’avidità e dalla cattiva amministrazione delle risorse; ma, sul piano personale, la difficoltà più grande si manifesta quando si accetta di condurre una vita dissociata e di tributare una deplorevole devozione al successo mondano. Una leadership ispirata al servizio e fondata sulla fede aiuta a bilanciare le esigenze del business con i presupposti dell’etica sociale. Questo richiede di vedere, giudicare e agire.
  4. Vedere i segni dei tempi implica considerare quattro fattori, anch’essi ambigui e intrecciati: la globalizzazione; lo sviluppo delle comunicazioni; lo sviluppo dell’economia finanziaria; l’ascesa dell’individualismo.
  5. Le buone decisioni imprenditoriali sono quelle basate sul rispetto della dignità umana e sulla ricerca del bene comune. Ciò porta a produrre beni che soddisfino necessità umane autentiche in modo responsabile, con un’organizzazione che riconosca la dignità dei lavoratori. In base al principio di sussidiarietà, i lavoratori acquisiscono esperienza, si assumono le proprie responsabilità e possono prendere decisioni. Usando la loro libertà e intelligenza, diventano coimprenditori. In questo modo si ottiene una ricchezza sostenibile, che può essere distribuita equamente, cioè attraverso prezzi, salari, benefici e tasse equi.
  6. I leader aziendali seguono la loro vocazione quando praticano virtù e princìpi etici nel loro lavoro quotidiano. In questo modo, chi ha ricevuto molto restituisce molto alla comunità. I leader creano così un mondo migliore. La loro saggezza pratica consente di rispondere alle sfide, vedendole e giudicandole secondo princìpi illuminati dal Vangelo, e di agire come credenti che servono Dio.


Valutazione del documento


Questo documento approfondisce le potenzialità del mercato nella sua versione migliore e il comportamento corretto da mantenere al suo interno. I contributi fondamentali che offre riguardano, come attesta il titolo, l’attività imprenditoriale, intesa in termini di vocazione cristiana, e la stretta relazione che questa ha con il perseguimento del bene comune, e quindi con una visione positiva di tale attività in quanto generatrice di ricchezza.

La riflessione che vi si dipana è rivolta a coloro che, lavorando nelle aziende, hanno una profonda convinzione di essere stati chiamati da Dio a tale attività, e di essere quindi collaboratori della sua creazione. Si comincia da qui. Questa convinzione, d’altronde, viene subito rafforzata, affermando che la vocazione all’esercizio dell’impresa è un’autentica vocazione dal punto di vista sia umano sia cristiano. Bisogna tener conto del fatto che questo documento nasce in un seminario sulla citata enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI, in cui è centrale la riflessione sullo sviluppo umano come vocazione[14].

L’importanza di tale formulazione è inestimabile. Come abbiamo detto, contrariamente all’opinione di chi tende a vedere i lavori rilevanti nel sistema di mercato come realtà difficilmente compatibili con una vita cristiana e con la pratica della spiritualità, si afferma che tale attività costituisce un’autentica vocazione cristiana, e per giunta di tale importanza da non avere nemmeno bisogno di essere ulteriormente fondata. Essa contribuisce al bene comune. Una buona gestione promuove la dignità dei dipendenti e lo sviluppo di virtù quali la solidarietà, la saggezza pratica, la disciplina e il sacrificio. I potenziali benefìci sono evidenti. Basta guardare alla storia recente per capire come l’innovazione nelle aziende abbia portato prosperità in innumerevoli modi, alcuni notevoli, come l’eliminazione di terribili malattie. Quando parliamo e riflettiamo sui benefìci che lo sviluppo economico ci ha apportato, spesso dimentichiamo di riconoscere coloro che vi hanno svolto un ruolo essenziale: gli imprenditori, creatori di ricchezza, che hanno reso le nostre società più prospere e più umane. A loro dobbiamo attribuire gran parte del merito del fatto che oggi viviamo, nelle aree sviluppate, molto meglio dei nostri genitori e nonni.

Qual è il limite fondamentale di questo documento? Forse il fatto di riflettere un contesto specifico: quello del mondo accademico e imprenditoriale cattolico negli Stati Uniti[15]. Il documento rispecchia i suoi risultati e convinzioni su come le aziende dovrebbero essere a tutti i livelli, ed esprime l’impresa ideale[16]. È consapevole che «costruire una impresa come una comunità di persone […] non è un compito facile. In particolare, le grandi multinazionali possono trovare difficile creare prassi e politiche atte a promuovere una comunità di uomini tra i propri associati»[17].

La realtà delle imprese tradizionali


Le organizzazioni imprenditoriali tradizionali sono caratterizzate dalla separazione dei lavoratori dai proprietari, dalla concentrazione del potere decisionale nella proprietà e dall’attribuzione a essa dei benefìci economici. Poiché mirano soprattutto a massimizzare la ricchezza degli azionisti, perseguono incessantemente la minimizzazione dei costi. Ciò significa che per loro i lavoratori sono un mero fattore di produzione, e pertanto, se c’è da alleviare una situazione economica o semplicemente da migliorare la redditività, esse ricorrono all’attuazione di politiche di licenziamento.

Podcast | INTELLIGENZE ARTIFICIALI E PERSONA UMANA


Con ogni probabilità, la nostra epoca sarà ricordata come quella della nascita delle intelligenze artificiali. Ma cosa sono le intelligenze artificiali? Qual è l’impatto sociale di queste nuove tecnologie e quali sono i rischi? Ascolta la serie completa di Ipertèsti, il podcast de «La Civiltà Cattolica».

Scopri di più

La perdita dell’impiego ha conseguenze disastrose per i lavoratori colpiti, per le loro famiglie e per la comunità. Essi subiscono il venir meno del sostegno economico, la comprensibile demoralizzazione, la perdita di autostima, di dignità e l’emarginazione sociale.

È noto che la globalizzazione produttiva comporta la perdita di posti di lavoro, che emigrano verso le economie meno sviluppate, dove i salari sono più bassi[18]. Le acquisizioni implicano che coloro che hanno costruito l’azienda vengano spesso licenziati. L’automazione comporta che i robot svolgano lavori che prima venivano assegnati agli esseri umani. «Ristrutturazione» è un eufemismo che in realtà significa «licenziamento». Inoltre, l’eliminazione dei dipendenti stabili crea un gruppo contingente di lavoratori a tempo limitato e con uno stipendio inferiore. Così si avvantaggia la proprietà.

Spesso vengono offerte spiegazioni inverosimili del licenziamento dei lavoratori, e questo è un attentato alla dignità umana e alla dignità del lavoro umano. Quanti manager si assumono la responsabilità personale, chiedendo scusa per gli errori che hanno contribuito a causare quei problemi che ora essi vogliono risolvere con i licenziamenti? Quanti accettano una riduzione del salario e dei benefìci per condividere l’onere della ristrutturazione? C’è chi guadagna prestigio anche come manager inesorabile, capace di sbarazzarsi delle persone. Per gente simile si tratta solo di forza lavoro.

Questa pratica crea un ambiente di paura e di abuso sul posto di lavoro. Coloro che rimangono occupati spesso si ritrovano sovraccarichi e vulnerabili. Il capo che agisce con metodi coercitivi arreca disagio, provoca dolore. Lavorare in un ambiente intimorito priva le persone della loro dignità: «La paura permea tutto il nostro essere, trasformando il coraggio in codardia, la nostra passione in dolore, la nostra verità in menzogna, e la nostra mente creativa e fertile in una terra desolata. Può distruggere le nostre anime e le nostre idee»[19].

Giovanni Paolo II ha scritto: «Nel lavoro […] l’uomo stesso non subisca una diminuzione della propria dignità. È noto, ancora, che è possibile usare variamente il lavoro contro l’uomo […], che si può fare del lavoro un mezzo di oppressione dell’uomo, che infine si può in vari modi sfruttare il lavoro umano, cioè l’uomo del lavoro» (LE 21)[20]. Nello stesso tempo, Giovanni Paolo II ha condannato il pensiero economico che riduce il lavoro umano a una «merce» che il lavoratore «vende» all’imprenditore, proprietario del capitale, come mero fattore di produzione[21]. Secondo il Premio Nobel per l’economia Milton Friedmann, la responsabilità sociale delle imprese non va oltre l’aumentarne i profitti[22].

L’economicismo porta a escludere le persone


In un mondo sempre più competitivo e agguerrito, i diritti dei lavoratori ne risentono. L’irruzione della Cina nell’economia mondiale ha influito negativamente sui salari di molti lavoratori in Occidente, con conseguenze sociali e politiche[23]. Il fattore «lavoro», dopo la grande recessione del 2008, è stato caratterizzato da un’intensificazione della precarietà e della disuguaglianza, da una maggiore flessibilità e da cambiamenti strutturali derivati dalla polarizzazione dell’occupazione e del progresso tecnologico. Sebbene siano stati compiuti sforzi per mitigare gli effetti della crisi, i suoi impatti sono ancora visibili nelle condizioni lavorative e nelle disuguaglianze socioeconomiche a livello globale[24]. Il Fondo monetario internazionale e l’Organizzazione internazionale del lavoro hanno valutato la situazione in questi termini: «La disoccupazione colpisce con particolare durezza le economie avanzate e avrà ripercussioni sociali a lungo termine, per esempio sulla salute e sui figli dei lavoratori licenziati»[25]. Numerosi studi hanno evidenziato che la disoccupazione e la sottoccupazione sono cause di suicidio[26]. Non è forse proprio questo il contesto della denuncia di papa Francesco: «Oggi dobbiamo dire “no a un’economia dell’esclusione e della inequità”»[27]?

L’immagine che ricaviamo della moderna vita economico-imprenditoriale non è piacevole. Troppe volte chi viene considerato superfluo viene scartato, e chi è semplicemente utilizzato non viene rispettato. Con ciò si corre il rischio che troppi esseri umani non siano in grado di affrontare le sfide che si presentano e cadano nella depressione e nell’emarginazione[28].

Si tratta di mettere in pratica la vocazione che gli esseri umani hanno di essere costruttori di fraternità. La cultura dell’indifferenza e dello scarto va contrastata promuovendo la cultura della cura[29]. Ciò richiede che si affronti la questione centrale di come superare l’antinomia tra capitale e lavoro riconoscendo la priorità del lavoro (cfr LE 13).

Un nuovo modello d’impresa conforme alla dignità del lavoro


Il movimento cooperativo esiste da quasi 200 anni. È nato come reazione agli eccessi del capitalismo. I promotori si ispirarono alle idee dei socialisti utopisti, in particolare a quelle di Robert Owen.

Oggi, più di 720 milioni di persone nel mondo hanno qualche tipo di rapporto con una cooperativa. Il fatto che queste cooperative in nessun Paese rappresentino più del 10% del Pil dimostra che questa formula non è stata un’alternativa maggioritaria alle scelte aziendali tradizionali. Esiste però l’eccezione della Corporación Mondragón. Riferimento mondiale nel movimento cooperativista per sviluppo e coerenza, essa è il più grande gruppo imprenditoriale dei Paesi Baschi e il decimo in Spagna[30], un modello paradigmatico di creazione e mantenimento di posti di lavoro.

Queste imprese sono caratterizzate dal principio che tutte le persone hanno la stessa dignità e devono essere trattate di conseguenza, e che quindi è essenziale promuovere la partecipazione dei lavoratori alla gestione, ai benefìci e alla proprietà delle aziende. La solidarietà tra i componenti si manifesta in una ripartizione retributiva ragionevole. Ciò facilita la coesione sociale e un progetto condiviso. Lo scopo dell’organizzazione non è solo quello di ottenere benefìci, ma di produrre beni utili per le persone e la società, e l’azienda deve anche assumersi la responsabilità di collaborare alla risoluzione dei loro problemi. Queste aziende fanno parte di un gruppo in cui esiste intercooperazione, in modo che una cooperativa accetta le eccedenze di personale delle altre. Nessun socio viene eliminato, ma eventualmente viene trasferito. Padre José María Arizmendiarrieta, il suo ispiratore, aveva come obiettivo un progetto di trasformazione sociale a partire dalla trasformazione dell’impresa in base ai princìpi e ai valori dell’umanesimo cristiano. La sua visione, nelle sue stesse parole, è che «il socio nella cooperativa, oltre a essere un lavoratore, è anche un imprenditore»[31].

Verso un cambio di paradigma


Il nostro grande compito oggi è quello di cercare di evangelizzare l’economia, e questo implica concepire adeguatamente l’impresa, prima cellula economica sociale. Il compito è quello di realizzare un’economia sia etica sia efficace, che abbia a cuore anche la comunità.

Oggi si moltiplicano le alternative all’organizzazione tradizionale. Così nella Caritas in veritate si fa cenno all’Economia di Comunione. Questa, fondata da Chiara Lubich nel maggio 1991 a San Paolo, comprende imprenditori, lavoratori, manager, consumatori, risparmiatori, cittadini, ricercatori e operatori economici impegnati a diversi livelli nella promozione di una prassi e di una cultura economica caratterizzate dalla comunione, dalla gratuità e dalla reciprocità, proponendo e vivendo uno stile di vita alternativo a quello dominante nel sistema capitalista. Altre proposte imprenditoriali che vanno in questa linea sono i movimenti come l’autogestione, l’economia solidale, l’economia di cooperazione, l’economia civile di mercato, l’economia del bene comune e l’economia popolare e solidale.

Sappiamo che nella società i cambiamenti di paradigma non avvengono all’improvviso, né con la stessa celerità in tutte le sue componenti. Ma senza dubbio questo è stato uno degli sforzi di papa Francesco. A mo’ di conclusione, riportiamo qui due paragrafi della Dichiarazione finale di The Economy of Francesco: «Crediamo fermamente che attraverso il lavoro siamo in grado di partecipare alla creazione di Dio, rea­lizzando noi stessi all’interno delle nostre comunità. Chiediamo una nuova cultura del lavoro che dia priorità alla dignità delle persone, che riconosca il contributo di ogni lavoratore, che generi un valore economico condiviso, rompendo la povertà dei lavoratori. […] Crediamo nella gestione come l’arte di unire le persone per il bene comune attraverso la leadership comunitaria, non la supremazia»[32].

Senza credere negli ideali non si può vivere. Realizzarli permette di essere all’altezza della vocazione alla quale siamo stati chiamati (cfr Ef 4,1-13).

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[1]. Cfr Giovanni Paolo II, s., Incontro con i lavoratori e gli imprenditori, Barcellona, 7 novembre 1982 (vatican.va/content/john-paul-i…).

[2]. Con quel documento il Papa avviò il rilancio della Dottrina sociale della Chiesa, dandole una importanza maggiore di quanta ne avesse avuto prima e accentuando aspetti che le elaborazioni del Vaticano II e dello stesso Paolo VI avevano lasciato più in ombra. Giovanni Paolo II era un Papa diverso, veniva dal freddo e aveva conosciuto il vero socialismo in prima persona, e ora si trovava a fronteggiare il liberalismo.

[3]. Questa denuncia conserva tuttora la sua ragion d’essere. Per esempio, ai raccoglitori nei campi della Florida e del Texas (Usa) la legislazione lavorativa non riconosce il diritto alle pause programmate per evitare colpi di calore (cfr aljazeera.com/program/fault-li…).

[4]. Viene in mente il famoso passo di John Steinbeck: «Metti che tu hai lavoro per un operaio, e che per avere quel posto si presenta solo uno. Ti tocca dargli la paga che vuole. Ma metti che si presentano in cento. […] Metti che quel posto lo vogliono in cento. Metti che quei cento hanno dei bambini, e che quei bambini sono affamati. Metti che dieci centesimi bastano per comprare un po’ di farina di mais a quei bambini. […] Tu offrigli cinque centesimi, e vedi se non s’ammazzano tra loro per avere i tuoi cinque centesimi» (J. Steinbeck, Furore, Milano, Bompiani, edizione Kindle Amazon, 2024, 359).

[5]. Cfr QA 65; MM 82-83; GS 65.

[6]. Cfr LE 13.

[7]. Cfr MM 83-91.

[8]. Pio XII, Discorso ai Partecipanti al Congresso dell’Associazione Internazionale degli economisti, Roma, 9 settembre 1956, in Acta Apostolicae Sedis XLVIII, 673.

[9] . Paolo VI, s., Discorso al XI Congresso nazionale dell’Unione cristiana imprenditori e dirigenti, 8 giugno 1964 (vatican.va/content/paul-vi/it/…).

[10]. Cfr CA 23; 24; 32.

[11]. Cfr CV 36.

[12]. Il documento La vocazione del leader d’impresa. Una riflessione trae origine da un seminario, svoltosi nel febbraio 2011, su «Caritas in veritate: la logica del dono e il significato dell’impresa», organizzato dal Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, assieme al John A. Ryan Institute for Catholic Social Thought presso l’Università St. Thomas a Minneapolis, Minnesota, e alla Fondazione Ecophilos. Il documento, preparato da una équipe di colleghi provenienti da tutto il mondo, è stato coordinato da Michael Naughton, direttore del John A. Ryan Institute, e da Helen Alford, attuale presidente della Pontificia Accademia delle scienze sociali (tinyurl.com/yckcd2uj).

[13]. In inglese ne è apparsa, nel 2018, una quarta edizione, in cui vengono inseriti gli insegnamenti più recenti di papa Francesco riguardo alla vocazione dell’imprenditore, all’ecologia integrale, al paradigma tecnocratico e all’importanza di una più equa distribuzione della ricchezza (tinyurl.com/fe32ymfp).

[14]. Cfr CV 11; 16-19.

[15]. Cfr H. Alford – M. Naughton, Managing as if Faith Mattered: Christian Social Principles in the Modern Organization, Notre Dame, IN, University of Notre Dame Press, 2001.

[16]. Cfr S. Del Bove – F. de la Iglesia, «Annotazioni a margine del decennale della pubblicazione del documento “La vocazione del leader d’impresa”», in Gregorianum, n. 103, 2022, 877-900.

[17]. La vocazione del leader d’impresa, cit., 59.

[18]. Cfr M. Camdessus, «Globalization, Subjective Dimensions of Work and the World Social Order», in Pontifical Council for Justice and Peace, Work as Key to the Social Question, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2002, 291-300.

[19]. L. Wright – M. Smye, Corporate Abuse: How «Lean and Mean» Robs People and Profits, New York, MacMillan, 1996, 6.

[20]. Cfr H. Alford, «Job design in the perspective of “Laborem Exercens”, in Pontifical Council for Justice and Peace, Work as Key to the Social Question, cit., 215-233.

[21]. Cfr R. G. Lipsey – P. N. Courant – D. D. Purvis – P. O. Steiner, Economics: Tenth Edition, New York, Harper Collins College Publishers, 1992, 178; P. Drucker, Management: Tasks, Responsibilities, Practices, New York, Harper Colophon, 1985, 40.

[22]. Cfr M. Friedman, «A Friedman Doctrine – The Social Responsibility of Business Is to Increase Its Profits», in The New York Times (nytimes.com/1970/09/13/archive…), 13 settembre 1970.

[23]. Cfr R. B. Freeman, «Are Your Wages Set in Beijing?», in The Journal of Economic Perspectives, vol. 9, n. 3, 1995, 15-32 (aeaweb.org/articles?id=10.1257…).

[24]. F. Hoffer, «La Gran Recesión. ¿Un momento decisivo para el trabajo?», in Crisis financieras, deflación y respuestas de los sindicatos. ¿Cuáles son las enseñanzas?, Ginevra, Oficina internacional del trabajo, 2010 (tinyurl.com/3wxzzmbr).

[25]. «Fuerte aumento del desempleo debido a la recesión mundial», in Boletín del FMI, 2 settembre 2010 (imf.org/external/spanish/pubs/…).

[26]. Cfr A. Skinner et Al., «Unemployment and underemployment are causes of suicide», in Science Advances, vol. 9, n. 28, 12 luglio 2023 (science.org/doi/10.1126/sciadv…).

[27]. Francesco, Evangelii gaudium (EG), n. 53.

[28]. Cfr F. Chica Arellano, «Globalización y desperdicio: grandes desequilibrios y desafíos socioeconómicos y ambientales para la búsqueda de la paz», in Ecclesia 38 (2024) 301-327.

[29]. «Francesco: dobbiamo opporci alla cultura dello scarto con la cultura della tenerezza», in Vatican News (vaticannews.va/it/papa/news/20…), 20 febbraio 2023.

[30]. La Corporación Mondragón impiega più di 70.000 persone; ha una presenza globale e opera nei settori della finanza, dell’industria, della distribuzione e della conoscenza. Conta su una banca, una compagnia di assicurazioni e una propria università. Cfr F. de la Iglesia Viguiristi, «Don José María Arizmendiarrieta, creatore della “esperienza cooperativa di Mondragón”», in Civ. Catt. 2024 IV 373-389.

[31]. J. M. Arizmendiarrieta, Pensamientos. Selección de Joxe Azurmendi, Otalora, 2023, n. 492.

[32]. The Economy of Francisco, Dichiarazione finale di Assisi 2022, nn. 7 e 9 (francescoeconomy.org/it/final-…).

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Il Verbo incarnato tra divinità e umanità


Ultima Cena di Andrea del Castagno, particolare
Il ritratto di Gesù nel Vangelo di Giovanni differisce molto rispetto a quello dei Sinottici. Non solo la forma del Vangelo è diversa rispetto a Matteo, Marco e Luca, ma anche il Gesù che ne emerge presenta caratteristiche peculiari. A dispetto dell’onniscienza che egli rivela nel corso del racconto evangelico[1], nonostante appaia pienamente sovrano durante tutta la narrazione della passione, e sebbene la sua solida relazione con il Padre venga menzionata più volte, Gesù si mostra anche fragile e vulnerabile. Nel quarto Vangelo, egli è stanco e nel bisogno (Gv 4,6); chiede da mangiare (Gv 21,5) e da bere (Gv 19,28); è assetato (Gv 4,7); è costretto alla fuga (Gv 10,39; 11,54); dichiara di essere contento (Gv 11,15), ma anche appare in più occasioni turbato (Gv 11,33; 12,27; 13,21) e grato (Gv 11,41), fino al pianto (Gv 11,35).

Il Vangelo di Giovanni esordisce con un Prologo che rivela e sintetizza la convergenza-congiunzione di divino e umano in Gesù: «Il Verbo si fece carne» (Gv 1,14). La Parola divina si incarna e assume su di sé la precarietà della carne (sarx), facendo propri la debolezza e il limite della condizione umana, fino alla morte. Il turbamento e il pianto di Gesù, dunque, non vanno considerati come una finzione, ma sono parte dell’esperienza umana del Verbo incarnato. Pertanto, come interpretare il Gesù giovanneo alla luce delle manifestazioni delle sue emozioni e dei suoi bisogni?

Lo zelo appassionato di Gesù nel tempio


Nel secondo capitolo del quarto Vangelo, Gesù inaugura il suo ministero a Gerusalemme con un’azione irruente, a tratti violenta, scacciando dal tempio i venditori e gli animali, ribaltando i loro banchi, gettando via il denaro e ammonendo i mercanti con veemenza[2]. La drammatizzazione scenica risulta quindi impressionante e travolgente: «Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori dal tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: “Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!”. I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: “Lo zelo per la tua casa mi divorerà”»(Gv 2,15-17).

Le emozioni di Gesù si esprimono in maniera dirompente. I discepoli vedono questa azione profetica di Gesù e la interpretano secondo il Sal 69,9. Lo zelo-gelosia del salmista è ardore e fervore dello spirito, come una passione che consuma[3]. Questo zelo ora viene attribuito a Gesù che si scaglia contro la mercificazione del tempio. Nel testo del Vangelo è presente una variazione rispetto al Salmo; in Giovanni il verbo «divorare» è al futuro, è un’anticipazione, che rinvia alla glorificazione della croce: Gesù, Verbo incarnato, si consumerà fino all’estremo per la sua missione.

Gesù, onnisciente e vulnerabile


Nel racconto della risurrezione di Lazzaro (cfr Gv 11) convergono e coesistono tutti gli elementi finora menzionati: la sicurezza e l’onniscienza di Gesù, basata sul suo rapporto incrollabile con il Padre che sempre lo ascolta (cfr Gv 11,42), e la sua vulnerabilità davanti alla morte dell’amico Lazzaro e nel confronto con la sofferenza di chi gli sta intorno.

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Dalle parole di Marta e Maria apprendiamo che Gesù voleva bene a Lazzaro, il loro fratello che si era ammalato: «Le sorelle mandarono dunque a dirgli: “Signore, ecco, colui a cui vuoi bene[4] è malato”» (Gv 11,3). Anche la voce narrante fa capire al lettore i sentimenti di Gesù, affermando che egli ama Marta, Maria e Lazzaro con un amore totale e incondizionato, espresso dal verbo agapaō: «Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro» (Gv 11,5). Più avanti è lo stesso Gesù che definisce Lazzaro «il nostro amico (philos)» (Gv 11,11).

Nonostante tutte queste espressioni di affetto, Gesù si mostra distaccato. La notizia della malattia dell’amico non sembra turbarlo: «All’udire questo, Gesù disse: “Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato”» (Gv 11,4). A queste parole, che esprimono fiducia, si accompagna il fatto che Gesù rimane dov’è, senza far nulla, per due giorni interi, fino a quando decide di andare in Giudea dall’amico Lazzaro. Le sue parole allora sono taglienti: «Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!» (Gv 11,14-15). Paradossalmente, Gesù esprime la propria contentezza – chairō – per non aver visitato prima Lazzaro, in modo che i discepoli possano credere. Egli appare sicuro di sé, fiducioso, nel pieno controllo della situazione e dei propri sentimenti. Non c’è alcuna reazione emotiva di dolore; Gesù sa che Lazzaro, ora addormentato, si risveglierà.

La situazione cambia quando Gesù arriva a Betania. L’incontro con Marta prima, e con Maria dopo, intacca in lui quell’aura di apparente distacco e imperturbabilità. Davanti alla protesta di Marta – «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!» (v. 21) –, Gesù la invita a credere che suo fratello risorgerà, perché lui è la risurrezione e la vita.

La conversazione con Maria, invece, assume immediatamente un tono diverso, più affettivo. Il rimprovero rivolto a Gesù è lo stesso – «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!» (v. 32) –, ma quello che accade dopo suscita stupore. Al lettore viene presentata la situazione di Gesù, che vede Maria e coloro che sono con lei piangere addolorati per il lutto (in greco, klaiō): «Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, fremette nello spirito e, molto turbato, domandò: “Dove lo avete posto?”. Gli dissero: “Signore, vieni a vedere!”» (Gv 11,33-34). Gesù ora perde quella compostezza che lo aveva caratterizzato sin dall’annuncio della malattia mortale dell’amico Lazzaro. La sua reazione viene descritta dal narratore con due verbi: «fremette nello spirito» (enebrimēsato tō pneumati) e «fu turbato» (etaraxen eauton).

La traduzione del primo verbo, embrimaomai, è complessa, perché esso indicherebbe lo sbuffare con indignazione, come un cavallo incollerito e arrabbiato[5]. Contro chi è infuriato Gesù? Contro la morte che lo ha privato dell’amico[6]? Contro Maria e i presenti che non credono? Oppure egli freme dentro di sé, con sé stesso – letteralmente, nel suo spirito – perché non si è mosso prima per salvare l’amico?

Il secondo verbo, tarassō, esprime l’agitazione interiore di Gesù, scosso come l’acqua quando è mossa (cfr Gv 5,4). Gesù è turbato e agitato, e sarà accompagnato da questo stato d’animo anche nelle fasi successive del racconto evangelico. Mentre è turbato, chiede dove sia il corpo di Lazzaro. Il Verbo incarnato non è indifferente davanti al pianto degli esseri umani. Egli sa che Lazzaro risorgerà, ma adesso il dolore di chi lo circonda è reale, ed egli ne viene scosso. «Gesù scoppiò in pianto (dakruō). Dissero allora i Giudei: “Guarda come gli voleva bene!”. Ma alcuni di loro dissero: “Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?”» (Gv 11,35-37).

Gesù piange. Questo è il versetto più breve del Nuovo Testamento. Questa volta non viene usato il verbo klaiō («piangere»), ma il verbo dakruō, presente solo qui nel Nuovo Testamento[7]; questo verbo indica il versare lacrime e il piangere silenziosamente. Si tratta di una commozione profonda e personale, che viene interpretata in modo differente da coloro che sono presenti. Il pianto di Gesù può essere una dimostrazione di affetto, secondo l’opinione dei giudei, che usano il verbo phileō; oppure un segno di inazione o di impotenza. Anche in questo caso, l’equivoco e il fraintendimento accompagnano il Gesù giovanneo[8].

Gesù allora si reca al sepolcro, fremendo dentro di sé: «Allora Gesù, ancora una volta, fremendo in se stesso, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra» (Gv 11,38). Ancora una volta ricorre il verbo embrimaomai («fremere»), accompagnato dal pronome riflessivo en eautō («in sé stesso»). Persiste in Gesù uno stato di inquietudine interiore, mista a irritazione. Il comando di sollevare la pietra suscita perplessità in Marta, che è esitante; ma, di fronte all’insistenza di Gesù, la pietra viene tolta: «Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: “Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato”» (Gv 11,41-42).

Gesù alza gli occhi, cioè si rivolge al Padre e lo interpella direttamente. Gli rende grazie, come aveva fatto già al momento della moltiplicazione dei pani e dei pesci (cfr Gv 6,11.23). La sua gratitudine giunge dopo lo sconvolgimento emotivo e il pianto, e prima che Lazzaro, l’amico morto, esca vivo dalla tomba. La relazione di Gesù con il Padre è salda, al di là delle vicissitudini e della turbolenza interiore. Poi egli grida verso Lazzaro, che esce dal sepolcro. Di fronte a questo segno, c’è chi crede in Gesù e c’è chi riferisce la notizia ai farisei, che fanno un complotto contro di lui.

Alle soglie della passione


Il turbamento di Gesù però continua anche nei capitoli successivi e si rivela come una disposizione emotiva che persiste e lo accompagna alle soglie della sua passione. Nel capitolo 12 di Giovanni, è Gesù stesso a esprimere il proprio stato d’animo ad Andrea e Filippo: «Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome» (Gv 12,27-28).

Tuttavia Gesù non si lascia condizionare dal proprio stato d’animo, perché confida nel Padre e nel suo proposito. Successivamente, all’inizio dell’Ultima Cena, il narratore rivela al lettore che Gesù è mosso da un amore totale e oblativo verso i propri discepoli, che si manifesta concretamente nel gesto della lavanda dei piedi[9]: «Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1).

Dopo aver citato la Scrittura per annunciare il tradimento di un amico – «Colui che mangia il mio pane ha alzato contro di me il suo calcagno [cfr Sal 41,10]» –, Gesù rimane profondamente turbato nel suo intimo: «Dette queste cose, Gesù fu turbato nello spirito e dichiarò: “In verità, in verità io vi dico: uno di voi mi tradirà”» (Gv 13,21). Dopo l’uscita di Giuda dalla sala, mentre era notte fuori e dentro il traditore (cfr Gv 13,30), Gesù riprende a parlare e, in modo sorprendente, confessa il suo amore per i discepoli, esortandoli ad amare come ha fatto lui: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34); «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9); «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,12).

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I discepoli non sono i servitori, ma gli amici (philoi) di Gesù, a cui il Signore offre tutta la propria vita. C’è una condivisione intima e profonda di Gesù con i discepoli. Proprio con loro egli vuole condividere la gioia paradossale che alberga dentro di sé: «Nessuno ha un amore (agapē) più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici (philoi), se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,13-15). «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). «Perché abbiano in sé stessi la pienezza della mia gioia» (Gv 17,13). Inoltre, Gesù confessa di amare il Padre e di essere amato da lui (cfr Gv 15,9-10; 17,23-26), in una relazione reciproca: «Bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, e come il Padre mi ha comandato, così io agisco» (Gv 14,31).

Al tempo stesso, Gesù invita i suoi discepoli a non rimanere turbati, a superare la paura davanti all’«ora» che lo attende: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. […] Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore» (Gv 14,1.27).

Il lungo discorso di addio (cfr Gv 13–16) e la preghiera di Gesù al Padre (cfr Gv 17) costituiscono insieme quasi un testamento, la Magna Carta per i discepoli di ogni tempo e di ogni luogo. Nell’ambito del quarto Vangelo, essi rappresentano una svolta, perché, quando sarà catturato, Gesù non mostrerà più agitazione e turbamento, ma apparirà sereno e pienamente consapevole di ciò che accade, in cammino verso quella glorificazione che si manifesterà attraverso la croce. È lui che nella passione conduce i giochi, e non appare per nulla in balìa degli eventi e di chi vuole eliminarlo. Il Gesù che va verso la croce è solenne e composto, come chi si avvia verso un’intronizzazione, e non come chi sta andando al patibolo: «Gesù allora, sapendo tutto quello che doveva accadergli, si fece innanzi e disse loro: “Chi cercate?”. Gli risposero: “Gesù, il Nazareno”. Disse loro Gesù: “Sono io!”. Vi era con loro anche Giuda, il traditore. Appena disse loro “Sono io”, indietreggiarono e caddero a terra» (Gv 18,4-6).

Il discepolo che Gesù amava


Nella seconda parte del Vangelo di Giovanni è presente la figura misteriosa del discepolo che Gesù amava, identificato dalla tradizione con l’evangelista (cfr Gv 21,24) e apostolo Giovanni. «Era adagiato nel grembo (kolpon) di Gesù uno dei suoi discepoli, quello che Gesù amava» (Gv 13,23). Questo personaggio esordisce nel racconto dell’Ultima Cena. È uno dei discepoli, che però occupa un posto speciale accanto a Gesù, proprio sul suo grembo. Questo rivela una grande intimità tra lui e il maestro e rimanda il lettore direttamente al Prologo del Vangelo: «Dio, nessuno lo ha mai visto: Il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno (kolpon) del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1,18)[10].

La relazione tra il discepolo e Gesù corrisponde a quella tra Gesù e il Padre. Qui c’è senz’altro una dimensione affettiva, ma anche una teologica: l’intimità con il Verbo incarnato porta direttamente nel grembo della Trinità.

Dopo avercelo mostrato accanto a Gesù, la voce narrante annota che questo discepolo era quello che Gesù amava. Il verbo agapaō all’imperfetto sta a indicare un affetto duraturo, che persiste nel tempo e che caratterizza la relazione di Gesù con questo discepolo. Tale relazione privilegiata con il maestro è testimoniata anche da Pietro, che si rivolge proprio al discepolo amato per sapere di chi stia parlando Gesù quando afferma che qualcuno lo tradirà (cfr Gv 13,21): «Simon Pietro gli fece cenno di informarsi chi fosse quello di cui parlava. Ed egli, chinandosi sul petto di Gesù, gli disse: “Signore, chi è?”» (Gv 13,24-25). Il gesto del discepolo è eloquente: egli si china sul petto di Gesù, mostrando una grande confidenza e familiarità. Il legame tra Gesù e questo discepolo emerge in maniera chiara e forte proprio in un momento di intenso turbamento emotivo per il maestro a causa del tradimento ormai prossimo da parte di uno dei suoi discepoli.

Il discepolo che Gesù amava è presente anche in un altro momento topico del quarto Vangelo: sul Golgota, quando gli viene affidata da Gesù sua madre. Il Signore crea un nuovo legame e una nuova relazione tra i due sotto la croce. È qui l’origine della Chiesa, che nasce dall’«amore» (agapē) di Gesù «fino alla fine» (Gv 13,1): «Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”. E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé» (Gv 19,26-27).

A Pasqua, il discepolo amato è colui che corre al sepolcro vuoto, vede e crede (cfr Gv 20,8), a differenza di Pietro, ed è capace di riconoscere i segni della risurrezione nell’assenza del corpo di Gesù. «[Maria di Magdala] corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!”» (Gv 20,2).

Anche nel terzo racconto della risurrezione compare nuovamente questo discepolo, che il narratore presenta ancora come «colui che Gesù amava». Egli è il primo a riconoscere Gesù: «Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: “È il Signore!”. Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare» (Gv 21,7).

Mentre Gesù dialoga con Pietro – «Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?» (Gv 21,15) –, il discepolo che Gesù amava è presente. Il narratore lo richiama attraverso un flashback che rimanda alla sua prima comparsa nel racconto giovanneo: «Pietro si voltò e vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava, colui che nella cena si era chinato sul suo petto e gli aveva domandato: “Signore, chi è che ti tradisce?”» (Gv 21,20). In questo contesto, il discepolo che Gesù amava, sulla cui sorte Pietro rivolge una domanda a Gesù (cfr Gv 21,21-23), viene identificato come il testimone veritiero che ha scritto il Vangelo: «Questi è il discepolo che testimonia queste cose e le ha scritte, e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera» (Gv 21,24).

Solo l’amore permette di conoscere e penetrare il mistero del Dio fatto carne che viene nel mondo. Questa è la strada per ogni discepolo e per il lettore del Vangelo, che può identificarsi in questo testimone anonimo e raccontare l’amore ricevuto da Gesù.

* * *


Parlare delle emozioni e degli affetti di Gesù nel Vangelo di Giovanni non è facile, perché il racconto su Gesù viene letto attraverso le lenti della peculiare teologia giovannea. Il Verbo incarnato rimane Dio, ma, una volta fattosi carne, assume tutta la precarietà e fragilità dell’essere umano.

Il Gesù onnisciente e il Gesù turbato sono la stessa persona. Colui che confida nel Padre e colui che piange il dolore degli uomini sono la stessa persona. Gesù non è un essere scisso o schizofrenico, ma è lo stesso Gesù, uomo-Dio, che soffre e ama fino alla fine, totalmente. In lui c’è la rivelazione di un Dio che è appassionato per l’uomo. Non è il dio imperturbabile e impassibile dei filosofi[11], ma è il Dio vivo e vivace, agitato e irrequieto, pieno di compassione. Come testimonia anche il profeta Osea, dando voce all’amore viscerale e vibrante di Dio: «Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione» (Os 11,8).

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[1]. Cfr J. Tripp, «Jesus’s Special Knowledge in the Gospel of John», in Novum Testamentum 61 (2019/3) 269-288.

[2]. Nei Vangeli sinottici, invece, questa azione di Gesù è collocata prima della sua passione e morte (cfr Mt 21,8-19; Mc 11,7-19; Lc 19,45-48).

[3]. L’espressione ebraica el-kana (cfr Dt 4,24; 5,9; 6,15; e anche Es 20,5; 34,14) di solito viene tradotta con «Dio geloso»; più propriamente la si potrebbe tradurre con «Dio appassionato», indicando la dimensione affettiva ed emotiva di un Dio che coniuga insieme giustizia e misericordia. Per un’approfondita trattazione di questo argomento, cfr D. Markl, «Ein “leidenschaftlicher Gott”. Zu einem zentralen Motiv biblischer Theologie», in Zeitschrift für Katholische Theologie 137 (2015) 193–205.

[4]. Qui viene usato il verbo phileō. Riguardo ai termini philia, agapē ed eros, papa Benedetto XVI afferma: «Quanto all’amore di amicizia (philia), esso viene ripreso e approfondito nel Vangelo di Giovanni per esprimere il rapporto tra Gesù e i suoi discepoli. La messa in disparte della parola eros, insieme alla nuova visione dell’amore che si esprime attraverso la parola agapē, denota indubbiamente nella novità del cristianesimo qualcosa di essenziale, proprio a riguardo della comprensione dell’amore. […] In opposizione all’amore indeterminato e ancora in ricerca, questo vocabolo esprime l’esperienza dell’amore che diventa ora veramente scoperta dell’altro, superando il carattere egoistico prima chiaramente dominante. Adesso l’amore diventa cura dell’altro e per l’altro. Non cerca più se stesso, l’immersione nell’ebbrezza della felicità; cerca invece il bene dell’amato: diventa rinuncia, è pronto al sacrificio, anzi lo cerca» (Benedetto XVI, Deus caritas est,nn. 3; 6).

[5]. Cfr Eschilo, I sette contro Tebe, 460–464. Nel Nuovo Testamento, il verbo embrimaomaiviene utilizzato in Mt 9,30: «Quindi Gesù li ammonì dicendo: “Badate che nessuno lo sappia!”»; in Mc 1,43: «E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito»; e in Mc 14,5: «Ed erano infuriati contro di lei». La connotazione del verbo è negativa.

[6]. Come intendono i Padri della Chiesa.

[7]. Invece, il sostantivo dakruon («lacrima») nel Nuovo Testamento si trova anche in Mc 9,24 (alcuni manoscritti); Lc 7,38.44; At 20,19.31; 2 Cor 2,4; 2 Tm 1,4; Eb 5,7; 12,17; Ap 7,17; 21,4.

[8]. Cfr Gv 2,19-21; 3,3-5; 4,10-15; 4,31-34; 6,32-35; 6,51-53; 7,33-36; 8,21-22; 8,31-35; 8,51-53; 8,56-58; 11,11-15; 11,23-25; 12,32-34; 13,36-38; 14,4-6; 14,7-9; 16,16-19.

[9]. Il Vangelo di Giovanni è il Vangelo dell’amore che si dona incondizionatamente, espresso attraverso il verbo agapaō, che compare 37 volte (il sostantivo agapē, invece, ha 7 occorrenze). In Mt il verbo agapaō ricorre 11 volte, in Mc 8, in Lc 15. Anche il verbo phileō («voler bene») in Gv compare 13 volte, con un’evidente sproporzione rispetto a Mt (5), Mc (1) e Lc (2).

[10]. Riguardo alla traduzione di kolpos come «grembo», cfr D. F. Stramara, Jr., «The Kolpos of The Father (Jn. 1:18) As The Womb of God in The Greek Tradition», in Magistra 22 (2016/2) 37-53.

[11]. Per i filosofi greci, l’atarassia è l’imperturbabilità, ossia lo stato di annientamento di tutti i desideri e impulsi naturali e la rimozione di tutte le paure che consente all’uomo di sperimentare la piena felicità. Al contrario, Gesù, uomo-Dio, non è indifferente, ma passionale, come conferma anche la presenza del verbo tarassō (cfr Gv 11,33; 12,27; 13,21), che letteralmente è l’opposto di a-tarassia («mancanza di turbamento»). Gesù è turbato per il suo amore per l’uomo.

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Memoria del 16 ottobre 1943, deportazione degli ebrei di Roma: sabato 8 ottobre ore 18,45 marcia da Piazza Santa Maria in Trastevere al Portico d'Ottavia


Immagine/foto Ci avviamo a ricordare il 16 ottobre 1943. Una delle date più buie della storia della città di Roma. Una memoria che la Comunità di Sant'Egidio e la Comunità ebraica di Roma hanno custodito in (...)>


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Identità Alterità Riconoscimento


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In questo libro Marcello Paradiso, docente di teologia sistematica presso l’Istituto teologico abruzzese-molisano di Chieti, affronta tematiche classiche del pensiero occidentale, trattate non soltanto da pensatori cristiani, ma anche da autori comunemente presentati come critici verso l’eredità del pensiero giudaico-cristiano. Le correnti del personalismo, esistenzialismo, dialogismo, e categorie filosofiche come identità, alterità, riconoscimento, relazione, incontro sono il terreno fertile sul quale si fonda la società europea, pur nelle sue diverse declinazioni e versioni, a volte aspre e conflittuali.

La tesi proposta nel libro è che nella cultura europea continua a scorrere un fiume carsico di linfa cristiana, nonostante emergano posizioni estremamente dialettiche. Un pensiero onestamente critico non può non riconoscerlo. Non è illusorio ottimismo nutrire la speranza che tale eredità continui a essere indispensabile per il futuro della nostra civiltà. L’autore non nasconde la pretesa di affrontare problematiche attuali e interrogativi presenti nell’agorà della cultura contemporanea, non tanto per offrire risposte preconfezionate, quanto per contribuire al confronto e al dialogo tra diverse prospettive.

Il libro si articola in quattro capitoli, preceduti da una premessa e un preludio (che precisa i concetti presi in esame) e seguiti da un’appendice. Il primo capitolo è uno sguardo filosofico che va da Hegel fino a Ricœur, passando per alcune figure singolari come Kierkegaard, Heidegger, Sartre, Lévinas, e indaga i registri con i quali il percorso filosofico della modernità e contemporaneità si è cimentato riguardo alle questioni fondamentali dell’identità, alterità, riconoscimento, differenza e relazioni.

Il secondo capitolo è uno sguardo biblico, quasi una modalità di approccio al contenuto della rivelazione dal punto di vista dell’incontro tra Dio e l’uomo.

Il terzo capitolo – che vuol essere il cuore della proposta dell’autore – tratteggia il mistero delle relazioni tra le Persone divine.

Il quarto capitolo è uno sguardo sulla realtà della Chiesa nell’attuale contesto, insistendo sul tema dei suoi rapporti con il mondo, oltre che al suo interno. Il testo si conclude, nell’appendice, con una riflessione sulla preghiera come luogo dell’incontro tra Dio e l’uomo.

MARCELLO PARADISO
Identità Alterità Riconoscimento. Sulle relazioni umane e divine
Assisi (Pg), Cittadella, 2021, 232, € 17,90.

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