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Il prezzo della disuguaglianza e il comportamento delle I.A.



Tra i temi affrontati da papa Leone XIV nei suoi primi mesi di pontificato, due sono quelli trattati più volte e da diverse prospettive: il tema delle disuguaglianze e quello delle Intelligenze artificiali. Due argomenti dal grande impatto sociale a cui è dedicato il primo numero della nostra nuova newsletter «Una storia che continua».

In questo numero, le voci di due economisti – Andrea Boitani e Lorenzo Cappellari – tra gli autori del capitolo dedicato alla «disugualianza» del Dizionario della Dottrina Sociale della Chiesa, l’intervista del nostro direttore Nuno da Silva Gonçalves a p. Paolo Benanti, nominato dal Segretario generale delle Nazioni Unite membro dello High-Level Advisory Body on Artificial Intelligence e molto altro.

Perché una nuova newsletter? Nella sua prima Esortazione apostolica sull’amore verso i poveri, Dilexi te, papa Leone XIV torna a parlare della Dottrina Sociale della Chiesa come «una storia che continua». Non è un capitolo del passato, infatti, ma una parola viva che illumina il presente e orienta il futuro.

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L’IA supporto per il medico, ma non un sostituto della sua umanità



Quali sono i vantaggi dell’Intelligenza Artificiale in campo sanitario e quali, invece, i rischi? È questa la domanda al centro della lectio magistralis del cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, pronunciata lo scorso 15 ottobre 2025 all’Istituto Superiore di Sanità di Roma sul tema «Etica dell’Intelligenza Artificiale», in occasione dell’inaugurazione del Centro di studio e sviluppo dedicato a questa nuova frontiera.

Parolin ha definito l’IA «un orizzonte carico di promesse, ma anche un bivio che ci pone di fronte a una scelta fondamentale. Possiamo scegliere la via di una tecnologia che, inseguendo un’efficienza disumana, finisce per scartare i più deboli e mercificare la cura. Oppure possiamo scegliere di sviluppare e utilizzare un’intelligenza artificiale che sia veramente “intelligente” perché illuminata dall’etica, che sia veramente “al servizio” perché orientata al bene integrale di ogni singola persona»[1].

Nel campo della sanità, ha spiegato Parolin, le potenzialità sono enormi: «algoritmi capaci di analizzare immagini radiologiche con una precisione superiore all’occhio umano, identificando patologie in stadi precoci. Sistemi in grado di accelerare la scoperta di nuovi farmaci analizzando in poche ore una mole di dati che richiederebbe decenni di lavoro a un gruppo di ricercatori. Piattaforme che possono personalizzare le terapie oncologiche sulla base del profilo genetico del singolo paziente, massimizzando l’efficacia e riducendo gli effetti collaterali. Strumenti per ottimizzare la gestione delle risorse ospedaliere, garantendo un accesso più equo alle cure anche nelle regioni più remote e povere del pianeta. Questa è l’intelligenza artificiale che vogliamo: uno strumento potente al servizio della vita, un alleato dell’uomo nella lotta contro la malattia e la sofferenza».

Accanto alle luci, però, il porporato non ha nascosto le ombre che «richiedono un discernimento etico rigoroso». Il primo pericolo, ha avvertito Parolin, è la «de-umanizzazione della cura o la disgregazione dell’atto medico – ha aggiunto Parolin -, un’unica compromissione esistenziale tra medico e paziente, in una serie di calcoli o processi tecnici. La relazione medica non è un semplice scambio di informazioni tra un fornitore di servizi e un utente. È un’alleanza terapeutica, un patto di fiducia tra due persone: il medico, con la sua scienza e la sua coscienza, e il paziente, con la sua fragilità e la sua speranza». Per Parolin, infatti, un algoritmo «può fornire una diagnosi, ma non può offrire una parola di conforto. Può calcolare un dosaggio, ma non può stringere una mano. Può ottimizzare un protocollo, ma non può partecipare con empatia al mistero del dolore. Il rischio è che il medico, oberato da pressioni burocratiche ed economiche, deleghi alla macchina non solo il calcolo, ma anche il giudizio, trasformandosi da clinico saggio a mero supervisore di un processo automatizzato».

Altro nodo critico è la «discriminazione algoritmica», ha aggiunto Parolin. «Gli algoritmi imparano dai dati con cui vengono addestrati. Se questi dati riflettono i pregiudizi e le disuguaglianze esistenti nella nostra società, l’intelligenza artificiale non farà altro che replicarli e amplificarli, creando un nuovo e perverso “apartheid sanitario”. Un sistema addestrato prevalentemente su dati di una specifica etnia o fascia di reddito potrebbe essere meno efficace, o addirittura dannoso, se applicato a popolazioni diverse. Il principio di inclusione ci impone di garantire che i benefici dell’AI in medicina siano veramente per tutti, a cominciare dai più vulnerabili».

Per Parolin, nel campo delle intelligenze artificiali, oggi «è necessario investire non solo in tecnologia, ma anche e soprattutto nella formazione etica di chi la progetta e di chi la utilizza». «La vera piattaforma abilitante che consentirà alle intelligenze artificiali di portare frutti per il bene del mondo non è una tecnologia ma l’essere umano – ha spiegato il Segretario di Stato della Santa Sede -. I medici, gli infermieri, i manager della sanità devono essere dotati degli strumenti culturali e critici per dialogare con queste nuove tecnologie, per comprenderne i limiti e per mantenere sempre il primato della decisione umana. La decisione finale, specialmente quando sono in gioco la vita e la morte, deve sempre rimanere nelle mani di un essere umano, capace di integrare i dati della macchina con i valori della prudenza, della compassione e della saggezza». Nel suo intervento, infine, il segretario di Stato ha ricordato che «ogni vita ha un valore infinito, dal concepimento alla morte naturale, un valore che non dipende dalla sua utilità, dalla sua produttività o dalla sua perfezione fisica. La dignità umana viene prima di ogni calcolo».


[1] osservatoreromano.va/it/news/2…

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Le grandi domande dell’essere umano… a Fumetti



Nelle storie disegnate – strisce a fumetti, graphic novel, manga – si ricerca la grandezza e la complessità del senso della vita. Come ricordava con un’espressione paradossale Umberto Eco: «Quando ho voglia di rilassarmi leggo un saggio di Engels, se invece desidero impegnarmi leggo Corto Maltese». Ogni lettore, dunque, può trovare un proprio senso alla lettura dei fumetti, che sono delle nuvole che passano nel cielo e che permettono di fermarsi e poter riflettere tra un disegno e l’altro, tra un «gulp» e un «gasp» o un «sigh», e scoprire che questi pongono con leggerezza, ironia e semplicità, le grandi domande dell’essere umano.

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Zerocalcare e il suo Armadillo, Jacovitti, Charlie Brown e Snoopy, Mafalda, Dragon Ball, Asterix e molto altro: questa nuova edizione di Accènti raccoglie vari contributi sui fumetti proprio perché in essi appare un paradosso interessante che continua a dare da pensare: in ciò che è piccolo, semplice, è contenuto ciò che è grande, che potremmo sintetizzare nel detto latino sic parvis magna.

Lucy chiede a Charlie Brown: «Perché noi siamo sulla terra?»
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«Accènti» è la collana monografica digitale curata dalla rivista dei gesuiti, che raccoglie, attraverso parole-chiave ispirate dall’attualità, il patrimonio di contenuti e riflessioni accumulato sin dal 1850 da La Civiltà Cattolica.

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IL SUONO DELLA DISTANZA



«Il suono della distanza» rappresenta un viaggio in cui si esplora un tema vivo, che ha profondamente coinvolto, con la sua poetica, la cantautrice Martina Lupi e il pianista Alessandro Gwis.

Ogni brano di questo progetto racconta storie dense di vita, dall’isolamento forzato all’obbligo di lasciare il proprio Paese per andare a combattere, dalle pandemie agli amori impossibili, dalle lontananze alla convivenza con la disabilità in molteplici forme, alle reclusioni e coinvolge emotivamente l’ascoltatore conducendolo a immedesimarsi in vissuti ispiratori.

La musica di Alessandro Gwis, con le sue innumerevoli sfumature, si fonde con la voce di Martina Lupi, che ama esprimersi interpretando testi e melodie dal sapore mediterraneo, talvolta con timbri e colori di sonorità extraeuropee, attraverso l’uso di strumenti, di tecniche e lingue di diverse parti del mondo.

Introduce P. Claudio Zonta S.I., scrittore de La Civiltà Cattolica

  • Alessandro Gwis, pianoforte
  • Martina Lupi, voce e strumenti dal mondo

Ingresso libero fino a esaurimento posti
No Parking

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Lotta agli abusi, la Chiesa deve camminare con le vittime



Il 3 ottobre si è conclusa a Cracovia, in Polonia, l’assemblea plenaria autunnale 2025 della Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori. Si tratta della prima volta che una sessione plenaria dell’organismo pontificio si svolge al di fuori di Roma dalla sua istituzione nel 2014. Allo stesso tempo, rappresenta un ritorno in Polonia per la Commissione, che quattro anni fa, in collaborazione con l’episcopato polacco, aveva organizzato a Varsavia un’importante conferenza internazionale dedicata alla salvaguardia dei minori e degli adulti vulnerabili nelle Chiese dell’Europa centro-orientale.

La scelta della Polonia è stata dettata dalla volontà di proseguire il cammino sinodale di protezione avviato insieme alla Chiesa polacca nel 2021. I lavori si sono aperti in un luogo dal forte valore simbolico per l’intera nazione: il Santuario di Łagiewniki. L’assemblea, iniziata il 29 settembre, ha riunito esperti internazionali nel campo della tutela e rappresentanti regionali, incaricati di portare avanti il mandato della Commissione, in conformità con l’articolo 78 della Costituzione apostolica Praedicate Evangelium. Hanno preso parte all’incontro tutti i membri della Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori; tra loro, oltre a esperti – religiosi e laici – erano presenti anche alcune persone che in passato hanno subito abusi.

Nel suo primo discorso come presidente della Commissione, l’arcivescovo Thibault Verny ha sollecitato un rinnovato e prioritario impegno verso la tutela come espressione imprescindibile dell’identità e della missione della Chiesa. La sua visione si articola su quattro obiettivi strategici: la promozione di una cultura universale della tutela e di un linguaggio comune nelle Linee Guida Universali (Ugf); il potenziamento delle reti regionali, attraverso il Rapporto Annuale sulle Politiche e le Procedure della Chiesa per la Tutela e il rafforzamento del dialogo con le istituzioni civili. Pur riconoscendo i progressi, Verny ha insistito sulla necessità di ascoltare le vittime, di promuovere la trasparenza e di realizzare sistemi di responsabilità. «Non dobbiamo dare per scontato il fatto di essere al sicuro dal rischio di ulteriori abusi – ha affermato l’arcivescovo Thibault Verny – solo perché abbiamo pubblicato delle linee di azione e creato degli uffici».

Il quadro delle Linee Guida Universali ha ricevuto notevole attenzione grazie alle presentazioni dei risultati dei progetti pilota in Zimbabwe, Tonga, Polonia e Costa Rica, oltre a un significativo processo di ascolto sinodale. L’assemblea ha esaminato la bozza finale delle linee guida, integrando riflessioni teologiche e canoniche.

Il secondo Rapporto Annuale sulle Politiche e le Procedure della Chiesa per la Tutela, riferito al 2024, è stato pubblicato oggi, 16 ottobre, in cinque lingue. Il Rapporto continua la sua esplorazione della giustizia riparativa e della guarigione che deriva dall’imperativo teologico della conversione, radicato nei concetti di verità, giustizia, riparazione e riforma istituzionale.

Leggi il Rapporto

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Ierofanie contemporanee



Questo libro è una raccolta di saggi teologici, nati da esperienze artistiche, umane e spirituali. L’A., dopo essere diventato architetto, è entrato nell’Ordine dei domenicani e poi ha studiato teologia a Parigi. Quando è ritornato nella chiesa di San Domenico a Palermo, convinto della capacità che l’arte ha di provocare la riflessione e contribuire a trasmettere la fede, ha invitato, tra il 2016 e il 2023, alcuni artisti a lavorare lì.

L’arte contemporanea ha permesso di annunciare, in modo nuovo e forse più adeguato alla cultura attuale, il contenuto del Vangelo. Secondo papa Francesco, nella nostra «epoca delle immagini», per trasmettere la Parola occorre avere il coraggio di trovare nuovi segni, nuovi simboli che sappiano parlare alle persone.

La chiesa di San Domenico si caratterizza per essere il Pantheon di uomini illustri siciliani – in essa è sepolto, tra gli altri, il giudice Falcone – e per essere un luogo dove si celebra ogni anno la «Giornata della legalità», con eventi artistici e performance laiche in uno spazio sacro (tra cui ricordiamo le Luci dei giusti, del 2016; l’Albero, di Citarella, del 2023; il Branco, di Vitali; la Rivelazione, di Scaringella e il Sacred Earth, di Serradifalco).

Nella cappella del Crocifisso, restaurata, è sepolto Sebastiano Tusa, archeologo siciliano di fama internazionale. La stele funeraria, rea­lizzata da Canzoneri, con le sue onde, richiama il suo forte legame con il mare e l’interesse per la civiltà del Mediterraneo. L’A. mostra come l’opera di questo artista abbia chiesto allo spazio di lasciarsi trasformare, per esaltare la spazialità della cappella e il suo vertice, cioè il Crocifisso ligneo che si conserva in essa.

Un altro interessante elemento di sperimentazione è stato quello dell’«arte partecipata», con Il presepe della Vucciria e People of Vucciria, Emmaus, di Urso, un’avventura artistica, teologica, ma soprattutto umana.

Il libro, scritto con un linguaggio chiaro, mostra il ruolo dell’arte sacra contemporanea nella chiesa. L’A. parte dalle singole esperienze palermitane della chiesa di San Domenico e affronta poi criticamente questioni di natura più generale. Non offre soluzioni, ma interpella il lettore con domande, anche grazie alla sua doppia veste di architetto e di teologo, tenendo sempre come punto focale l’amore per Cristo, e poi l’apostolato attraverso l’arte.

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Poesie mistiche



Cominciamo dalla felice sottrazione dell’io – «il più lurido dei pronomi», diceva Gadda –, evidente nel sobrio commento dell’A. sul titolo della raccolta: scelta dell’editore, perché magari il poeta ne avrebbe fatto volentieri a meno, forse preferendogli una pagina intonsa. E proseguiamo con la dedica: «A chi non crede in Dio ma segretamente ama e onora il Dio vivente». Così, ancor prima di iniziare la lettura dei testi composti da Arnoldo Mosca Mondadori (Milano, 1971) tra il 2010 e il 2021, già sappiamo che ci stiamo inoltrando in una landa lirica fertile e generosa, con lo sguardo che punta al cielo e alla terra, e non all’ombelico: Io non sono più / nulla e tu non sei più nulla. Qui ti dilati. E così accade allo spirito di chi scorre queste pagine.

Le bellissime poesie sono la precipitazione di un dialogo senza tempo tra la nostra scheggia divina in corpo mortale e la terra e il cielo ricolmi di Dio; l’uomo e il Creatore di tutte le cose, a intrecciare lingua e orecchio; e il poeta a testimoniare, con cristallina limpidezza e la versificazione in prosa, il mistero ineludibile, la certissima Presenza, anche quand’essa si cala nell’eco assordante della nostra supplica solitaria, nei nostri occhi levati verso il cielo, che è poi tutto quello che ci occorre fare, secondo la lezione di Simone Weil: Che voce hai, padre inconoscibile? / Perché il tuo amore è tremendo? Ma la sinfonia, la avverto / La sinfonia potente. / È là nel fondo / Ultimo luogo. / Là dove non esiste pensiero ma magma, /magma d’amore / laggiù non c’è più nulla / e tu tremi di tenerezza per noi.

Quello dell’A. è anche un implicito atto di fede nella potenza generativa, e non soltanto illustrativa, del linguaggio poetico: nel verso c’è azione, non solo rappresentazione. L’invocazione si fa militanza, lotta con l’angelo, forse l’unica ragione poetica, l’unica preghiera che sia rilevante e rivelante a un tempo.

In «un gorgo d’amore», per citare di nuovo l’A., che ricorre spesso a vertiginose allegorizzazioni della natura e del suo specifico lessico: «mare in fiamme», «strapiombo del suo amore», e poi vulcani, foreste e rocce. Soffia un maestrale tardo-romantico in questo apparentamento del divino alla natura, i suoi idilli, le tempeste, i processi di trasformazione e di trasfigurazione: Tu fermenti sotto il respiro della morte.

Ma c’è un’altra Presenza, nei versi, che consustanzia il Cristo con il penare umano dei dannati della Terra, e che chiude il cerchio tra il poeta e l’uomo, da tempo schierato con le opere, e non solo con le parole, dalla parte degli ultimi (da un’idea dell’A. nasce, nel 2016, nel carcere di Opera, il progetto «Il senso del Pane» – oggi con laboratori in tutto il mondo –, dove «assassini pentiti talvolta condannati all’ergastolo», di ogni credo e nazione, producono ostie per centinaia di parrocchie e monasteri): Delle cattedrali dei poveri che si innalzano / invisibili nella nebbia nessuno parla. / Sono in cerca delle tue città segrete. / Il tuo regno è qui, nascosto nelle cattedrali dei poveri.

La potenza maggiore la si avverte nei frammenti più scorciati, icastici e ustori, come la verità che affiora prepotente, somministrata per incursione nel nostro essere, non come esercizio di pacata argomentazione. Se ne esce scottati e rinfrescati, come se la sferzata fosse il suo medesimo balsamo: Dio non vive. Dio muore. / Questa è la resurrezione.

Queste raccolte di una decade di vita e scrittura sono, evidentemente, anche un Credo personale, un diario dell’anima; un giornale di bordo che registra il costante trafficare con i marosi e con l’imprevedibilità, l’inconoscibilità del divino, con le sue correnti ascensionali, ma anche durante la bonaccia del silenzio, dell’attesa. E sono una testimonianza di passione e di promessa, che non distingue tra il «qui e ora» di questo mondo e la trascendenza del passaggio ultramondano: in fondo, l’una e l’altra cosa sono la stessa sostanza del Padre. E in quel permanere dell’essere e della speranza il poeta ci riconsegna davvero e sempre al Dio vivente: Cristo eternamente morto d’amore, / eternamente risorto nei fiumi di pace. / Le guerre si spengono nel profumo di Cristo.

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All’origine della nostra fede


Mater Ecclesiae (Foto Alamy)
Coloro che credono sono consapevoli di vivere un mistero. Non finiscono mai di approfondire il senso della loro fede, i motivi che li conducono a credere, l’origine dell’incrollabile certezza che li anima. La loro riflessione non è soltanto individuale; essa è stimolata e aiutata dalla riflessione della Chiesa, che cerca di cogliere meglio ciò che crede, e di esprimerlo più chiaramente.

In questo sforzo di riflessione è importante ritornare alla fonte. All’origine della fede cristiana si trova la fede di Maria. La tradizione giudaica aveva sviluppato la fede nel Dio unico e vero, e l’Antico Testamento ci presenta numerosi esempi di questa fede. Maria è stata la prima a passare dalla fede giudaica alla fede in Cristo. Per meglio scoprire la natura di questa fede è necessario dunque meditarne il primo scaturire nella Vergine di Nazaret.

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Vi è infatti un aspetto della personalità spirituale di Maria che non sempre è stato posto abbastanza in evidenza, pur essendo di un valore primordiale. Esso attira la nostra attenzione su quello che vi è di comune tra lei e noi. Altri aspetti della figura di Maria la pongono a un’altezza inaccessibile per noi: la pienezza di grazia, con una santità perfetta che è iniziata fin dal primo istante; il concepimento verginale e la maternità divina; la cooperazione materna all’insieme dell’opera redentrice e al sacrificio della croce; il mistero dell’assunzione con l’esercizio della maternità universale nello sviluppo della vita della Chiesa. Evidentemente questi privilegi non sono destinati a separare Maria dal popolo cristiano; anzi, le sono accordati proprio per questo popolo, affinché ella possa compiere tutta la missione che le è stata affidata nell’opera di santificazione dell’umanità. Ma siccome questa missione è unica, essi sono di ·esclusiva pertinenza di Maria, la quale si distingue così da tutti gli altri membri della comunità cristiana. Per contro, la fede costituisce un’intima disposizione che avvicina a noi la madre di Gesù; essa testimonia che Maria ha condiviso la nostra condizione e ha dovuto seguire un cammino spesso arido e oscuro, cercare e trovare la luce.

A volte ci è stata presentata la madre di Dio come beneficiante sulla terra di un’illuminazione che la dispensava da ogni sforzo di fede e che anticipava in qualche modo, per lei, la perfetta chiarezza della visione beatifica; si pensava che questa chiarezza interiore dovesse necessariamente appartenere a colei che viveva così vicino al Salvatore. Ma la pienezza di grazia accordata da Dio a Maria, non la toglieva affatto dalla condizione ordinaria della vita terrestre. Gesù stesso è vissuto sulla terra in uno stato di kenosi, ossia di spoliazione interiore e di umile oscurità; la coscienza umana della sua filiazione divina si è sviluppata in lui in una maniera adatta alla crescita di una psicologia umana e si è manifestata con una notevole modestia. Non meno di suo figlio, Maria non è stata immersa nella gloria prima di giungere nell’aldilà. Secondo l’espressione usata dal Concilio, ella ha dovuto avanzare nella «peregrinazione della fede»[1]. Mediante questa solidarietà, ella può guidare tutti quelli che sono ancora impegnati in questo pellegrinaggio: tutti sono invitati a considerarla come colei che ha aperto la via della fede in Cristo.

Le informazioni dei Vangeli concernenti Maria ci permettono di comprendere in che modo la sua fede si è affermata. I testi sono concisi, ma, analizzandoli, possiamo entrare un poco nell’ambito delle intime disposizioni della Vergine di Nazaret.

Il primo atto di fede in Cristo


Nell’Annunciazione è stato chiesto a Maria un atto di fede essenziale. L’angelo le espone il progetto divino di maternità, sollecitando il suo consenso. In ciò vi è una novità, perché negli annunci precedenti di una maternità accordata da Dio, il consenso della madre non era stato richiesto: era semplicemente l’annuncio di una buona novella, che non poteva non suscitare la gioia di una donna sterile, rispondendo al suo desiderio di avere un figlio. Ma qui, colei che riceve l’annuncio è chiamata a dare una risposta personale. Dio vuole stabilire un’alleanza definitiva con l’umanità e chiede la cooperazione umana a questa alleanza. Maria è invitata a esprimere l’accoglienza di tutta l’umanità alla venuta del Salvatore e a ricevere così in sé l’alleanza destinata a rimanere per sempre[2]. Le parole «rallegrati» e «il Signore è con te», lasciano capire che ella è considerata come la rappresentante del popolo messianico. «Rallegrati» era l’invito rivolto in precedenza alla figlia di Sion[3]; e la garanzia dell’assistenza del Signore era stata data ai rappresentanti del popolo per la missione loro affidata. Il consenso al progetto divino implicava un atto di fede. Maria doveva credere alla verità delle parole dell’angelo per accettare il loro compimento. Prima di formulare il suo consenso, ella presenta una difficoltà: «Come avverrà questo, poiché io non conosco uomo?» (Lc 1,34).

Già questa domanda mostra che Maria non agisce come un automa che registra semplicemente quello che gli viene detto per realizzarlo. Bisogna sottolineare che Maria non pone in discussione il compimento del progetto. Ella dice, letteralmente: «Come sarà questo?». Crede che questo «sarà», ma chiede «come». La traduzione: «Come è possibile?», che non corrisponde al testo, indebolisce l’espressione; Maria non interroga su una possibilità, ma su un fatto che si produrrà.

Ella manifesta così la sua fede, ma sollecita tuttavia una nuova luce. Questa luce le è donata: «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo» (Lc 1,35).La via scelta dal progetto divino risponde al suo desiderio di conservare la verginità. Ma è una via tutta nuova, che non era mai stata annunciata nella tradizione giudaica.

Quando Maria risponde: «Avvenga di me quello che hai detto», esprime una completa disponibilità fondata sulla fede nella parola che viene da Dio. Accettando la maternità verginale, ella mostra una fede superiore a quella giudaica anteriore. Qui si compie il passaggio alla fede cristiana e alla sua novità.

È un credere nel Messia, perché l’angelo aveva descritto il bambino come destinato a occupare «il trono di Davide, suo padre», a «regnare per sempre sulla casa di Giacobbe» (Lc 1,32-33). Insistendo sulla grandezza del bambino e sull’eternità del suo regno, l’annuncio gli riconosceva gli attributi più elevati che l’AT aveva individuato nei re messianici del futuro. Ma la maternità verginale, che giustifica il nuovo titolo di «Figlio di Dio», pone questo Messia — concepito dallo Spirito Santo — al di sopra di tutto quello che era atteso nella speranza giudaica. Maria crede a questo Messia superiore, senza alcun dubbio né esitazione.

Le circostanze dell’Annunciazione mettono in rilievo una caratteristica essenziale della fede. È una fede nella parola.

Secondo il racconto di Luca, Maria non ha avuto una visione, a differenza di Zaccaria; ella ha sentito unicamente una voce, perché il turbamento prodottosi in lei in quel momento, era dovuto al saluto che le era stato rivolto. La chiamata a una fede più spoglia, più libera da ogni appoggio sensibile, si manifesta anche con il fatto che il quadro dell’intervento celeste non è citato con precisione, segno che non comportava nulla di speciale, mentre Zaccaria riceve il messaggio a Gerusalemme, nel santuario, durante un esercizio unico di funzione sacerdotale. Per Maria tutto si concentra nella sola parola che viene dall’alto, senza alcun’altra garanzia. A questa parola ella aderisce senza riserve.

Nello stesso tempo la sua fede, accoglienza della parola, è un attaccamento alla persona di Cristo. Sarà una proprietà della fede cristiana l’essere adesione sia a una parola, sia a una persona. Come attaccamento alla persona di Cristo, la fede comporta un aspetto di amore e di dono di sé. Le parole: «Avvenga di me…», formulate nella maniera non solo di un’accettazione ma di un auspicio[4], vogliono esprimere un impegno di tutte le forze personali e un impegno che si assume volentieri. Maria comincia a darsi interamente a suo figlio.

Prima di vedere Gesù, Maria ha creduto in lui. La sua fede era richiesta anzitutto per la venuta del Salvatore in questo mondo. Il piano divino non aveva previsto solo l’invio di questo Salvatore, ma un’accoglienza anteriore all’invio stesso. Questa accoglienza consisteva in un atto di fede compiuto a nome dell’umanità. In virtù della volontà divina il compimento del mistero dell’Incarnazione è stato condizionato dalla fede di Maria, sospeso al suo. consenso. Questo condizionamento mostra la realtà dell’alleanza e l’importanza primordiale attribuita alla fede nei disegni divini. L’Annunciazione ha suscitato il primo atto di fede cristiana, di una fede che ha contribuito alla venuta di Cristo in mezzo agli uomini.

La prima beatitudine


L’esclamazione di Elisabetta, al momento della visitazione, illumina il valore di questa fede: «Beata colei che ha creduto, perché si compirà ciò che le è stato detto da parte del Signore» (Lc 1,45). Nell’episodio, la proclamazione di questa beatitudine viene da colei che ha sofferto per l’incredulità di Zaccaria e ne ha constatato le penose conseguenze. Il saluto rivolto da Maria alla sua parente, che fa contrasto con il silenzio di Zaccaria, testimonia che ella non ha ceduto alla tentazione dell’incredulità e che possiede la felicità della fede. Al di là di queste circostanze è la felicità di ogni fede che è proclamata in quella di Maria. Elisabetta parla sotto l’influsso dello Spirito Santo, di cui è riempita, ed enuncia la prima beatitudine, del Vangelo. Vi è una felicità nel credere: non semplicemente la gioia spontanea che accompagna lo slancio della fede, ma la gioia più profonda che viene da Dio. Nella nuova alleanza Maria è stata la prima a conoscere questa felicità.

Quando Gesù proclamerà più tardi le beatitudini, presenterà una serie di situazioni o disposizioni personali alle quali è promessa la felicità dall’alto: di queste situazioni o disposizioni egli è il primo modello, perché si deve riconoscere in lui, per eccellenza, il povero, il mite, l’afflitto, colui che ha fame e sete di giustizia, il misericordioso, il cuore puro, l’artefice di pace, il perseguitato. Ma egli non è, chiaramente, il modello della fede, perché la coscienza della sua filiazione divina lo pone a un livello superiore alla fede[5]. La beatitudine della fede ha Maria come primo modello; poiché la sua fede in Cristo ha preceduto la venuta stessa di Cristo, essa meritava di essere al primo posto nelle beatitudini.

Si può osservare che la proclamazione di questa prima beatitudine concorda con quello che Gesù dirà durante la vita pubblica. Il Maestro reagirà all’elogio rivolto a sua madre situando la sua felicità in un’altra prospettiva: «Beati piuttosto quelli che ascoltano la parola di Dio e la osservano!» (Lc 11,28). Senza citare espressamente la fede, Gesù, vi fa allusione affermando la beatitudine di coloro che ascoltano la parola.

Egli indica così il motivo fondamentale della beatitudine di sua madre. Non è il semplice fatto della maternità che costituisce la felicità di Maria, ma il suo atteggiamento di fede nella parola, che ha determinato il suo accesso alla maternità e che può essere condiviso da tutti. Mentre la qualità di madre di Gesù è unica, quella di credente è comune ad altri, e la felicità di ascoltare la parola è accessibile alla donna del popolo che, ammirando Gesù, si rammaricava di non essere la madre di un simile uomo.

Nella ricerca della felicità, che caratterizza l’esistenza umana, conviene dare tutto il suo valore alla prima beatitudine. La prima felicità non dev’essere cercata altrove, ma nella fede. L’affermazione è sorprendente, come quella delle altre beatitudini, e non può essere accolta che da quelli che si aprono alle realtà superiori ·alla vita terrestre. Coloro che si rinchiudono nell’orizzonte immediato delle realtà visibili, non possono considerare la fede che come un atteggiamento secondario e marginale, se non superfluo, e ritenere che essa è senza effetto sulla felicità. La beatitudine che si è verificata in Maria rimane una luce che tende a dissipare la corsa illusoria a felicità esclusivamente terrene. Credere in Cristo è e rimane la prima parola di felicità per l’umanità.

Enunciando questa beatitudine, Elisabetta ne indica il motivo. «Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore» è una traduzione grammaticalmente possibile del testo greco, ma che non risponde al suo vero senso. Il testo permette due interpretazioni: «Colei che ha creduto che si adempiranno…», o «Colei che ha creduto perché si adempiranno…»[6]. La prima interpretazione ridurrebbe l’affermazione a una banalità; credere, in questo contesto, significa credere nel compimento della parola. La seconda interpretazione s’impone, perché il motivo della beatitudine chiede di essere indicato, come nelle beatitudini pronunciate da Gesù: così, per esempio, i misericordiosi sono beati perché otterranno misericordia. Colei che ha creduto è beata perché «si compirà ciò che le è stato detto da parte del Signore».

Questo motivo è di grande importanza; corrisponde a una verità che troverà la sua illustrazione in molti episodi evangelici: la fede contribuisce al compimento delle meraviglie divine. Spesso, infatti, Gesù reclamerà la fede per i miracoli che desidera operare.

Non esiterà ad attribuire alla fede la salvezza accordata sotto il segno della guarigione miracolosa: «La tua fede ti ha salvato», dice al cieco Bartimeo, all’emorroissa, ad altri ancora[7]. Non meno significativa è la proporzione che egli enuncia tra la misura della fede e quella dell’avvenimento auspicato. Al centurione risponde: «Ti sia fatto come hai creduto» (Mc 8,13); colui che aveva chiesto il miracolo a distanza l’ottiene. Al padre dell’epilettico, che testimoniava una fede troppo debole, vacillante, dona coraggio con un’affermazione stupenda: «Tutto è possibile a colui che crede» (Mc 9,24).

L’efficacia della fede mostra l’esigenza della cooperazione umana ai disegni di Dio. L’onnipotenza divina potrebbe realizzare i suoi progetti senza ricorrere a questa cooperazione, ma non è il cammino che ha deciso di seguire. Essa opera dove incontra l’accoglienza e la collaborazione della fede, di modo che la fede esercita un reale influsso sul corso degli avvenimenti.

Lo stesso è per il progetto dell’entrata del Figlio di Dio nell’umanità. L’angelo ha esposto questo progetto a Maria perché potesse, con la sua fede, contribuire al suo compimento. La fede è all’origine della sua maternità, come hanno dichiarato i Padri della Chiesa e in particolare sant’Agostino: Maria ha concepito mediante la fede[8]. Il concepimento è stato opera dello Spirito Santo, ma un’opera alla quale ha contribuito la fede di Maria.

Come viene pronunciata da Elisabetta, la beatitudine della fede è legata al compimento futuro del messaggio dell’Annunciazione. Maria non ha contribuito soltanto con la sua fede al concepimento del bambino, ma anche alla realizzazione di tutto quello che è stato detto dall’angelo riguardo al destino di Gesù, perché la sua adesione concerne la totalità del messaggio. Credendo a queste parole, ella ha cooperato a tutto lo sviluppo della missione del Salvatore.

La crescita della fede


La fede che si è formata in Maria al momento dell’annunciazione ha dovuto svilupparsi, perché non le era stata data tutta la luce della fede cristiana. Un primo notevole sviluppo si produsse al momento della presentazione del bambino al tempio. Mentre l’angelo non aveva parlato a Maria del grande sacrificio che un giorno avrebbe comportato la sua maternità, Simeone le ha svelato l’itinerario doloroso che avrebbe caratterizzato la missione salvatrice di Gesù. Le predisse la spada che avrebbe trafitto il suo cuore.

Il racconto evangelico si limita a dirci che, in seguito, Maria ha compiuto tutto quello che era conforme alla legge del Signore (Lc 2,39), ossia che ella ha offerto suo figlio. È sottinteso che ella ha accettato tutto quello che le era stato detto profeticamente sul senso di questa offerta. A differenza di Pietro, che più tardi si ribellerà al primo annuncio della passione del Maestro, Maria ha accolto con fede le parole di rivelazione che le erano state destinate. Ormai la sua fede nel Messia è diventata una fede in colui che doveva compiere il suo ruolo messianico a prezzo di un’immensa sofferenza.

All’età di dodici anni, Gesù stesso conferma quest’orientamento quando, sottraendosi a Maria e a Giuseppe per rimanere nel tempio, trasforma la fine del loro pellegrinaggio a Gerusalemme in un dramma angoscioso. Agisce in questo modo solo perché li vuole associare al mistero della sua sofferenza redentrice. Più precisamente, fa vivere in anticipo a Maria l’intervallo così doloroso dei tre giorni che separerà la morte dalla risurrezione. L’episodio prefigura infatti il mistero pasquale[9]. Ciò fa comprendere meglio a Maria quello che aveva offerto durante la presentazione al tempio. È in riferimento a questo gesto che Gesù pronuncia le parole: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo essere nella casa del Padre mio?» (Lc 2,49).

Queste parole, che contenevano il segreto della condotta sorprendente di un bambino abitualmente sottomesso ai suoi genitori, non sono state comprese. Ma esse hanno contribuito a far progredire notevolmente la fede di Maria. Perché non sono state comprese? Il racconto evangelico ne dà una sufficiente indicazione. Maria aveva detto a suo figlio: «Tuo padre e io ti cercavamo angosciati», e Gesù risponde: «Nella casa del Padre mio», parlando di un altro padre e non di Giuseppe. In aramaico l’equivoco doveva essere più forte ancora: «Abba (papà) e io» e «Nella casa di Abba (di papà)». Non si trattava dello stesso padre, dello stesso abba.

Dichiarando che egli dev’essere nella casa di colui che chiama Abba (papà), Gesù vuol mostrare a Maria che il suo vero padre è il Padre celeste e che nei suoi confronti si trova nella posizione di un figlio verso suo padre, vale a dire che egli è in senso proprio Figlio di Dio. Offre questa rivelazione a sua madre come un mistero. Anche se non comprendeva, Maria conservava le parole e le meditava nel suo cuore (Lc 2,51,19)[10]. Ella ha cercato perciò di coglierne la portata, confrontandole con tutta la condotta di suo figlio. La sua fede ha fatto uno sforzo per entrare più profondamente nel mistero di Gesù. Certamente ella ha cercato di scoprire nel volto di suo figlio il riflesso dei tratti del volto divino di colui che egli chiamava suo Padre. In mancanza d’informazioni su questo sviluppo della fede durante molti anni, constatiamo che il frutto della meditazione prolungata delle parole di Gesù, si manifesta all’inizio della vita pubblica. L’episodio di Cana fa apparire, nel suo vigore, la fede di Maria, ed è una fede nella divinità onnipotente di Gesù.

La fede di Maria e il primo miracolo


Quando la festa nuziale è minacciata da una misera fine per la mancanza di vino, Maria non esita a ricorrere a suo figlio. Dicendogli: «Non hanno più vino) (Gv 2,3), ella mette nelle sue mani questa situazione imbarazzante, Maria dà prova di una fede audace, perché fino a questo momento Gesù non aveva operato alcun miracolo. Durante i trent’anni di Nazaret egli non aveva mai compiuto il minimo prodigio, e dall’inizio del suo ministero pubblico nessuna azione straordinaria aveva accompagnato la sua predicazione. Senza aver visto miracoli, Maria credeva al potere miracoloso di Gesù. In lei si verifica quello che dirà più tardi Gesù risorto a Tommaso: «Beati quelli che pur non avendo visto credono» (Gv 20,29), Come la sua fede aveva preceduto la venuta di Cristo nel mondo, essa precede il primo miracolo.

Chiedendo un miracolo, Maria non spera soltanto di ottenere la continuazione della festa ed evitare l’umiliazione degli sposi, ma di affrettare la rivelazione del potere salvifico posseduto da Gesù. Da molto tempo ella attende l’ora di questa rivelazione e coglie l’occasione che le viene offerta. Tuttavia ella riceve una risposta poco incoraggiante. Mentre si poteva attendere, da parte di colui che poteva fornire vino a volontà, una pronta accoglienza della richiesta di sua madre, si assiste a una resistenza che stupisce ancora oggi i lettori del Vangelo: «Che ho da fare con te, o donna? La mia ora non è ancora giunta». Chiamando Maria «donna» e non «madre», Gesù le ricorda la distanza che si è stabilita tra essi, dal momento in cui egli ha iniziato la sua opera di predicazione. Le fa comprendere che la sua qualità di madre non è sufficiente a ottenere il favore chiesto: nel compimento della sua missione egli si comporta non secondo i desideri dei membri della sua famiglia, ma conformemente ili piano del Padre. E, secondo questo piano, la sua ora non è ancora venuta.

Qual è questa ora? Da quando sant’Agostino l’ha interpretata come l’ora della Passione, molti esegeti hanno adottato questo senso. Altri l’intendono piuttosto come l’ora della glorificazione, del ritorno al Padre. Il motivo è che altrove, in altri testi giovannei, l’ora si riferisce sia alla Passione, sia alla glorificazione. Ma, in realtà, il senso dell’affermazione «viene l’ora» o dell’espressione «la mia ora» è determinato ogni volta dal contesto, e dev’essere così nel racconto di Cana. Questo è quanto hanno compreso gli esegeti i quali, senza negare una referenza a tutta l’opera rivelatrice, considerano l’ora come quella del miracolo[11]. Infatti Gesù risponde a sua madre e vuole significare che l’ora del primo miracolo non è ancora venuta. Più esattamente egli risponde al profondo desiderio di Maria che chiedeva la rivelazione del suo potere salvifico: è l’ora della rivelazione che non è prevista in queste circostanze dal piano del Padre. L’ora della prima manifestazione darà inizio allo sviluppo di una rivelazione che culminerà nella risurrezione.

Si comprende d’altronde perché quest’ora non fosse giunta a Cana. Dare del vino a una festa nuziale non sembrava un miracolo di grande importanza, e non ci si può stupire che non sia stato scelto, nel piano divino, come prima rivelazione del Salvatore. La richiesta di vino disturbava questo piano. Pur cogliendo la portata dell’obiezione, Maria non abbandona la sua domanda. Messa alla prova, la sua fede persevera. Ella va dai servi per raccomandare loro di obbedire all’ordine che riceveranno, anche se non ne comprendono la portata: «Qualsiasi cosa egli vi dirà fatela»[12]. Maria lascia capire che si aspetta un ordine strano e che i servi saranno tentati di non eseguirlo; ella conta quindi sul miracolo.

La sua fede ottiene soddisfazione; in modo sorprendente, l’ora che non era venuta, viene. A Cana si applicano le parole evangeliche già citate: «Ti sia fatto come tu hai creduto»; «Tutto è possibile a colui che crede», Particolarmente notevole è il fatto che la fede di Maria ha ottenuto l’anticipazione dell’ora della rivelazione del Salvatore: Gesù stesso, affermando che la sua ora non era venuta, poi operando il miracolo, ha fatto comprendere che la fede può ottenere la modifica del programma stabilito dal Padre.

Alcuni commentatori del racconto sono stati tentati d’indietreggiare davanti all’audacia di questa conclusione, ma il Vaticano II non ha esitato a dire che Maria ha ottenuto, con la sua intercessione, l’inizio dei miracoli[13]. Questa efficacia del suo intervento, con la possibilità di ottenere una modifica dei disegni divini in un caso particolare, è confermata dall’episodio della cananea. Questa donna era venuta da lontano per chiedere la guarigione di sua figlia; per due volte, in un dialogo con i discepoli e poi in una risposta alla donna stessa, Gesù oppone il piano del Padre, che limita la sua missione alle pecore perdute della casa d’Israele. Ma di fronte all’insistenza della fede egli cede e opera il miracolo, derogando dal piano prestabilito: «Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri» (Mt 15,28).

Si può aggiungere che già l’AT aveva fornito l’esempio di preghiere che ottenevano un cambiamento nelle intenzioni divine. L’intercessione di Abramo in favore di Sodoma mostra come Dio accetti di rinunciare al suo progetto di castigo a motivo della presenza di un certo numero di giusti (Gn 18,16-32). Parimenti, dopo aver ricevuto dal profeta Isaia l’annuncio che morirà, il re Ezechia si mise in preghiera e Jahvè gli accordò ancora quindici anni di vita (2 Re 20,1-11). L’efficacia della preghiera implica che l’uomo può esercitare un certo influsso sulle decisioni divine. Questo influsso è desiderato e voluto dal Padre nel suo amore per gli uomini.

Ciò che importa notare è che la fede di Maria ottiene un miracolo che la sua sola qualità di madre non avrebbe potuto rivendicare. Questo miracolo è «l’inizio dei segni», manifestazione di gloria che fa scattare la fede dei discepoli, dice san Giovanni (2,11). Con la sua iniziativa Maria ha quindi apportato un contributo decisivo alla rivelazione del Salvatore. Gesù ha pienamente integrato questo miracolo nella sua missione facendone il simbolo dell’abbondanza della vita di grazia, delle nozze di Dio con l’umanità, dell’Eucaristia[14]. Con ciò egli ha risposto completamente alla fede di Maria col suo potere salvifico.

Podcast | DIRITTO E FEDE: ROSARIO LIVATINO, UN ESEMPIO PER GLI OPERATORI DI GIUSTIZIA


Quest’anno ricorre il 35° anniversario della morte del giudice siciliano assassinato dalla mafia proclamato beato nel 2021. La sua testimonianza sul ruolo del giudice e il suo pensiero sul rapporto tra fede e giustizia nelle parole del collega e amico Salvatore Cardinale.

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La prova suprema della fede


La presenza di Maria nel dramma del Calvario è piena di significato. Non è soltanto la presenza di una madre presso suo figlio nel momento della prova, ma una testimonianza di fede e di speranza in colui che sembra aver perso tutto. Infatti, se Maria si trova così vicina alla croce di Gesù, è perché ha voluto essere là. A differenza dei discepoli che sono fuggiti al momento dell’arresto di Gesù, Maria si è avvicinata a suo figlio per offrirgli interamente la fedeltà della sua fede e del suo amore.

Gesù aveva annunciato ai suoi discepoli la crisi di fede che la Passione avrebbe provocato in essi: «Simone, Simone, ecco Satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22,31-32). Queste parole ci fanno comprendere che tutti quelli che erano uniti al Maestro hanno vissuto la prova della croce come prova ai fede. La condanna del Maestro, il suo supplizio e la sua morte ponevano un problema a tutti coloro che credevano in lui. E, come lo sottolinea Gesù, l’influsso di Satana si esercita particolarmente in questo momento; la tentazione di abbandonare la fede era molto viva.

Maria non è sfuggita a questa tentazione, ma, con la fede audace che aveva manifestato all’Annunciazione e a Cana, ha reagito con vigore a ogni eventualità di cedimento. In lei la fede non aveva cessato di svilupparsi già da trent’anni; essa apparteneva alla sua vita più profonda e animava tutta la sua condotta. Maria non avrebbe potuto vivere senza credere in suo figlio. Inoltre, molto meglio dei discepoli, ella era stata preparata al sacrificio. Le parole pronunciate da Simeone si erano impresse nel suo spirito e aveva no orientato la sua vita materna verso un evento messianico che si sarebbe compiuto attraverso la contraddizione e che avrebbe com portato una prova molto dolorosa. Maria sapeva che un giorno la sua anima sarebbe stata trafitta da una spada. Non solo ella lo prevedeva, credendo alla profezia che le era stata rivolta, ma l’aveva accettata e si era abituata a vivere in questa prospettiva.

Ciò che ha contribuito a turbare gli apostoli è stato il fatto che essi credevano in Gesù come in un Messia che doveva essere essenzialmente glorioso. Malgrado le predizioni fatte loro della sua Passione e della sua morte, conservavano in essi l’immagine di un Messia trionfante, proveniente dalla tradizione popolare giudaica. Così la loro fede fu molto scossa. Maria, al contrario, si era lasciata penetrare dall’annuncio dell’itinerario doloroso del Messia: ella credeva in un Messia destinato alla sofferenza e così la sua fede ha potuto resistere più facilmente e consolidarsi nell’ora della prova.

Questa fede in un Messia sofferente aveva pure permesso a Maria di cogliere meglio il senso degli avvenimenti che segnavano il ministero pubblico di Gesù. Essendo consapevole che suo figlio doveva essere nella casa del Padre, Maria discerneva più chiaramente ciò che faceva prevedere una partenza verso il Padre, un ritorno a lui. Constatando l’ostilità crescente incontrata da Gesù, con i tentativi di farlo morire, ella vedeva avvicinarsi il momento del sacrificio. Maria non considerava semplicemente questa opposizione come un increscioso incidente, una difficoltà momentanea che poteva essere superata. Conosceva la pericolosità di certi avversari, che si manifestò sotto i suoi occhi a Nazaret, quando inseguirono Gesù, cercando di gettarlo giù da un precipizio. In questi spiacevoli avvenimenti ella riconosceva soprattutto il disegno misterioso che la conduceva infallibilmente alla spada che le era stata predetta.

Animata da questa fede, Maria è entrata nel dramma della Passione con la volontà di condividere integralmente il destino doloroso di Gesù. Colpita nel suo cuore materno dalla prova, ella soffriva più profondamente dei discepoli. Ma si univa maggiormente al Salvatore, certa che mediante il suo sacrificio, egli compiva la sua missione. Quando san Giovanni dice che Maria «stava presso la croce di Gesù» (19,25), lascia capire che l’atteggiamento di Maria era, esteriormente, quello della fermezza e del coraggio. Ella non si lasciava abbattere dal dolore. Possiamo immaginare che ciò che la sosteneva fosse una fede colma di speranza.

Le parole che le rivolge il Crocefisso rispondono a questa fede e a questa speranza: «Donna, ecco tuo figlio». Chiedendole di assumere una nuova maternità, segno di una missione materna nella vita della Chiesa, Gesù mostra a Maria che ella ha ragione di credere in lui come Salvatore, e nello stesso tempo si afferma padrone dell’avvenire, al di là della sua morte. È solo in un contesto di fede che queste parole assumono il loro senso. È importante notare che la prima preoccupazione di Gesù non è di affidare sua madre al discepolo prediletto, ma piuttosto di affidare il discepolo a sua madre. Maria riceve una nuova responsabilità, un nuovo incarico. Nella sollecitudine materna che è chiamata a esercitare presso il discepolo, la missione di sviluppare e di sostenere la fede, non potrebbe essere assente. Se ci si ricorda che, secondo l’indicazione data prima da Gesù, la fede dei discepoli era in pericolo in quest’ora drammatica, si deve pensare che l’intenzione del Redentore fosse di fornire a questa fede l’aiuto di colei che fu la prima a credere e che non attenuò mai la sua fede. Per questa fedeltà, Maria è particolarmente atta a incoraggiare coloro che attraversano prove e si sentono scossi o turbati nella loro adesione a Cristo[15].

Chiamando sua madre «donna», Gesù la considera come la donna che coopera all’opera redentrice; come a Cana, dove l’aveva pure chiamata «donna», la prima cooperazione femminile è quella della fede, una fede orientata verso la manifestazione delle meraviglie di Dio in questo mondo. Al Calvario la fede di Maria è animata dalla speranza della risurrezione che Gesù aveva annunciato a più riprese per il terzo giorno dopo la sua morte.

Lo sviluppo della fede di Maria non si è fermato al Calvario. L’avvenimento della risurrezione ha dato a questa fede una forza nuova e le ha aperto un nuovo orizzonte. La presenza della madre di Gesù nell’assemblea riunitasi dopo l’Ascensione per attendere l’effusione dello Spirito Santo (At 1,14), segna l’ultima tappa di una fede ormai rivolta verso la formazione e la crescita della Chiesa. Se, come dice il Concilio, Maria è «madre nell’ordine della grazia»[16], ella è più particolarmente madre nel campo della fede. Ella è stata chiamata a credere per prima, per poter trasmettere e irradiare la sua fede nella comunità cristiana.

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[1] Lumen gentium, n. 58: In peregrination fidei processit.

[2] In proposito si può ricordare l’affermazione di san Tommaso: «Con l’Annunciazione era atteso il consenso della Vergine in luogo e al posto della natura umana» (S. Theol. III, q. 30, a. 1).

[3] Sof 3,14-17; Zc 9,9; Gl 2,21-27.

[4] L’ottativo greco genoito comporta questa sfumatura di augurio.

[5] Cfr J. GALOT, Gesù ha avuto la fede?, in Civ. Catt. 1982 III 460-472.

[6] La congiunzione greca hoti si può tradurre «che» o «perché». Sui motivi per adottare la traduzione «perché». cfr J. GALOT, La fede di Maria e la nostra, Cittadella. Assisi 1973, 4-46; ID., La force de la foi en Marie et en nous, Louvain 1984.

[7] Mc 10,52; 5,34; Mt 9,22; Lc 7,50; 8,48; 17,19; 18,42; cfr Mt 9,29; 15,28.

[8] Per esempio AGOSTINO, Sermo 13 in Nat. Dom., PL 38, 1019; Enarr. in Ps. 67, PL 36, 826; Sermo 293, PL 38, 1327.

[9] Cfr R. LAURENTIN, Jésus au temple. Mystère de Pâques et foi de Marie, Gabalda, Paris 1966; J. GALOT, Le mystère de Jésus retrouvé au temple, in Diaconia Pisteos, Granata 1969, 241-256.

[10] A. SERRA (Sapienza e contemplazione di Maria secondo Luca 2,19, 51 b, Marianum, Roma 1982) dà a sumballein il senso d’interpretare. Tuttavia gli esempi da lui citati di questo verbo confermano il senso di meditare.

[11] Cfr G. FERRARO, L’«ora» di Cristo nel quarto Vangelo, Herder, Roma 1974, 112-116; J. GALOT, Marie dans l’Evangile, DDB, Paris-Bruges 1965, 127-135; ID., Maria, la donna nell’opera di salvezza, PUG, Roma 1984, 63-65.

[12] Gn 2,5. La particella greca an aggiunge una sfumatura d’indeterminazione.

[13] Lumen gentium, n. 58: Initium signorum Iesu Messiae intercessione sua induxit.

[14] La ricchezza di senso del miracolo è molto ampia. A. SERRA (Maria a Cana e presso la croce, Centro di Cultura Mariana «Mater Ecclesiae», Roma 1978, 47-53) presenta il vino come simbolo della parola e della rivelazione escatologica di Cristo; altri commentatori vi discernono altri significati simbolici. Cfr anche I. DE LA POTTERIE, La Madre di Gesù e il mistero di mistero di Carla, in Civ. Catt. 1979 IV 425-440.

[15] M. Gourgues interpreta le parole di Gesù nel senso che Maria, la prima a credere, «è la madre dei credenti rappresentati dal discepolo prediletto» (Marie la «femme» et la «mère» de Jean, in Nouvelle Revue Théologique 108 [1986] 191). Conviene tuttavia aggiungere che la maternità di Maria, enunciata in modo generale, non si limita a questo aspetto.

[16] Lumen gentium, n. 61.

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Modelli di missione



«Non viviamo in un’epoca di cambiamento, viviamo un cambiamento d’epoca»: questa affermazione, più volte ribadita da papa Francesco, nell’ambiente missionario viene ripresa «per rafforzarne un’altra di uso frequente: il “cambiamento di paradigma” della missione di oggi. L’uso di queste due espressioni consacra, da una parte, l’idea di processo radicale di trasformazione e, dall’altra, quella di cambiamento di modello di missione, quasi ci fosse un solo, unico modello» (p. 9). L’A., missionario comboniano portoghese, «si propone di riflettere sui modelli di missione che si sono imposti nella Chiesa del postconcilio e di illuminare questa riflessione con il contributo degli ultimi pontificati, in particolare di quello francescano» (p. 11).

Il saggio si articola in 13 capitoli, di cui i primi tre chiarificano i termini utilizzati nel titolo: in quale senso si parla di «modelli» e cosa si intende per «riconfigurazione». La riflessione non «ha pretese teologiche o ecclesiologiche quanto al contenuto, né accademiche quanto alla forma. Cercherà di costruirsi come saggio esplorativo, dalla finalità divulgativa» (p. 15). In questa prospettiva, i modelli di missione vanno intesi «come concetti di riferimento spirituale, fonte di ispirazione e di motivazione che orientano l’impegno» (p. 16). L’intento è dialogico e propositivo, «offrendo soprattutto le ragioni per capire i diversi modelli e, eventualmente, preferire l’uno o l’altro» (p. 18), con una particolare attenzione all’insegnamento di papa Francesco: «La conversione (termine da lui usato) può essere vista come punto di partenza che porta alla riconfigurazione (termine del nostro sottotitolo) della vita della Chiesa in tutte le sue dimensioni» (p. 20).

Un capitolo è dedicato all’insegnamento di Francesco su temi che attraversano in modo trasversale i diversi modelli. La gioia del Vangelo, la Chiesa in uscita, i quattro princìpi enunciati nell’Evangelii gaudium (cfr nn. 222-237), che «possono essere applicati con profitto a ogni modello della missione e possono fungere da bussola» (p. 27); la santità come il volto più bello della Chiesa, che si può riprendere «anche in relazione ai missionari e ai modelli di missione.

L’A. esamina sei modelli possibili di missione, per ciascuno dei quali viene data una breve presentazione, richiamato il fondamento biblico, delineato un sommario percorso storico, illuminato l’apporto di papa Francesco, valutati i punti forti e i punti deboli.

Si susseguono i modelli di missione come annuncio, come incontro, come servizio, come fraternità, come liberazione, e infine, come ecologia integrale, che «appare come un modello in progress» (p. 156). Gli Istituti missionari sono nati nell’Ottocento e rispondevano alle esigenze di un contesto sociale ed ecclesiale molto diverso da quello attuale. La crisi del paradigma missionario ne interroga l’identità e stimola l’approfondimento del carisma fondazionale: «Il papa sembra suggerire un cambiamento di prospettiva: non siamo noi a possedere definitivamente un carisma, è il carisma che, in modo dinamico e come grazia divina, possiede noi nelle stagioni della nostra vita, nelle varie epoche e generazioni di un istituto o comunità» (p. 185). Da qui anche la riflessione sul rapporto tra il carisma e l’istituzione, che fa fatica a tenere il passo: «Troviamo più ispirazione, carisma e profetismo riguardo alla missione nelle parole e nei gesti di papa Francesco che non nelle strutture deputate all’accompagnamento e al sostegno della missione» (p. 201).

Secondo l’A., la riforma della Curia con la costituzione Praedicate Evangelium, se da una parte sembra proporre la riconfigurazione missionaria della Chiesa, istituendo al primo posto fra i dicasteri quello per l’evangelizzazione, presieduto direttamente dal Pontefice, dall’altra «non mancherà di suscitare qualche viva inquietudine tra i missionari» (p. 203). Questi già con la riforma della Curia di Giovanni Paolo II erano passati dalla giurisdizione canonica della Congregazione «De Propaganda Fide», sotto il cui patrocinio erano nati e ricevevano sostegno, a quella per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, che di fatto ha sfaldato l’attenzione alla missione e ai missionari e spostato l’accento della loro identità: «I missionari sono passati così a essere visti come religiosi (anche) missionari, anziché missionari (anche religiosi)» (p. 199).

«Quella degli istituti missionari nati nell’Ottocento è una storia bella, che risveglia la speranza e ci fa sperare in cose nuove» (p. 210), in una Chiesa che non ha una missione, ma è missione. Come scrive il card. José Tolentino de Mendonça nella Prefazione: «La complessità della presente stagione non dovrebbe […] essere letta come un ostacolo, ma come una opportunità» (p. 6).

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Commentario Biblico per il XXI secolo



Esistono opere che è corretto definire «monumentali», ma non tanto per la loro mole o il numero di pagine quanto per la completezza e l’autorevolezza sia del testo sia degli autori. In questa categoria rientra senza dubbio il Commentario biblico per il XXI secolo, che in ambito internazionale è meglio noto con il suo titolo originale: The Jerome Biblical Commentary (JBC). Jerome è un chiaro riferimento a san Girolamo e vuole marcare un tributo di riconoscenza e di ispirazione nei confronti della sua famosa Vulgata, risalente alla fine del IV secolo.

Fin dalla prima edizione statunitense del 1968, il volume si caratterizza come un ampio manuale di base di sicuro riferimento per l’esegesi biblica di ambito cattolico, ma in generale è apprezzato dagli studiosi e dagli uomini di cultura di tutte le confessioni religiose, senza tuttavia escludere i laici non credenti interessati ad approfondire la lettura delle Sacre Scritture.

La traduzione in lingua italiana è condotta sulla terza edizione, pubblicata in lingua inglese nel 2022, e tutto il Commentario è stato completamente riveduto e aggiornato non soltanto per tener conto dei progressi negli studi biblici verificatisi dal 1990 (data della seconda edizione) ai giorni nostri, ma anche per renderlo maggiormente fruibile alle persone del nostro secolo.

I testi sono tutti redatti da specialisti per ogni singola materia (se ne contano almeno una novantina). Come viene riconosciuto nella Prefazione, oggi sono a disposizione dei commentatori molteplici strumenti, che vanno dal metodo storico-critico all’analisi retorica, dall’approccio canonico all’analisi narrativa, dall’indagine semiotica agli approfondimenti sociologici, antropologici, culturali e psicologici; e si può ben dire che gli autori dei singoli commenti facciano ricorso a svariati di essi, con talvolta punti di vista o prospettive di approccio chiaramente differenti, che contribuiscono a fornire al lettore un quadro d’insieme pluralistico, al passo con i tempi e teologicamente stimolante.

La prima parte del Commentario è costituita da una serie di articoli introduttivi dedicati alla geografia biblica, all’archeologia dell’Antico e del Nuovo Testamento, alla storia d’Israele, al Gesù storico e alla prima comunità cristiana: articoli propedeutici certamente indispensabili per calare nel contesto storico-ambientale originale gli scritti del canone biblico cattolico.

La seconda e la terza parte sono rispettivamente dedicate ai testi dell’antica e della nuova Alleanza, con uno schema didascalico molto appropriato, perché ogni libro della Bibbia viene affrontato tramite un’ampia introduzione e un puntuale commento, corredandolo infine con una strutturata bibliografia, molto utile per coloro che vogliono indagare ulteriormente i singoli aspetti trattati.

La quarta e ultima parte è interamente dedicata agli approfondimenti di ordine generale. In essa si trattano argomenti complementari ai commenti biblici, ma tutt’altro che secondari, come per esempio la storia dell’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, le questioni connesse alla natura della Rivelazione biblica, all’ispirazione e al canone, nonché alla liturgia, all’etica, all’ecumenismo e ai punti di vista interpretativi degli esegeti di differenti aree geopolitiche (africana, latinoamericana, nordamericana, asiatica e, ovviamente, europea).

Particolarmente importante è infine la Prefazione di papa Francesco, che rappresenta uno dei suoi ultimi scritti prima di tornare alla casa del Padre. In essa Francesco ricorda come «la relazione tra il Signore risorto, la comunità dei credenti e la Sacra Scrittura sia essenziale per la nostra identità di cristiani», tanto è vero che «San Gerolamo ha potuto affermare che l’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo» (p. 9). La Bibbia dunque «unisce i credenti e li rende un popolo», e pertanto è indispensabile non soltanto leggerla quotidianamente, ma anche conoscerla in profondità per ricavarne tutta l’ispirazione che da essa promana in diversi rivoli e in differenti strati.

Francesco riteneva fondamentale il contributo della scienza biblica alla Chiesa, così come si è espresso in questo autorevole Commentario; infatti, «il ministero di chi disvela la parola di Dio al popolo di Dio è un compito sacro che richiede studio serio, amore profondo e apertura alla bellezza e alla potenza delle Scritture» (p. 10). Lo studio attento e contemplativo della Bibbia fa comprendere ai suoi lettori, e tra loro soprattutto ai credenti, di essere «depositari di un bene che rende più umani e aiuta a condurre una vita nuova» (ivi). A ben guardare, non c’è dunque niente di più prezioso della fede contenuta nei testi sacri per tracciare una rotta sicura per la propria esistenza.

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Giubileo della Spiritualità Mariana: la fede di Maria


Annunciazione, opera di fra Giovanni da Fiesole detto Beato Angelico.
L’11 e il 12 ottobre si terrà a Roma il Giubileo della Spiritualità Mariana. Un evento atteso da tantissimi fedeli e che vedrà la presenza della statua originale della Madonna di Fatima durante le celebrazioni e i momenti di preghiera. L’immagine della Vergine, simbolo della «Speranza che non delude», sarà presente tra i fedeli in occasione del «Rosario per la pace» voluto da papa Leone XIV in Piazza San Pietro, sabato 11 ottobre, giorno nel quale la Chiesa ricorda san Giovanni XXIII, il Papa della Pacem in terris che implorò in un radiomessaggio i leader di Usa e Urss di «salvare la pace» durante la crisi dei missili cubana. L’11 ottobre, inoltre, è anche il giorno dell’apertura del Concilio Vaticano II, nel 1962, e del «discorso alla luna» di papa Roncalli, al termine di una «grande giornata di pace»[1].

Il 12 ottobre, XXVIII domenica del Tempo Ordinario, invece, alle ore 10.30, il Santo Padre Leone XIV presiederà la Celebrazione Eucaristica sul sagrato della Basilica di San Pietro. «Il Papa ha voluto che la veglia dedicata in questa circostanza al Giubileo della spiritualità Mariana fosse dedicata a un’intensa preghiera per la pace», ha ricordato monsignor Rino Fisichella, pro-prefetto del Dicastero per l’Evangelizzazione durante un incontro all’università LUMSA lo scorso 24 settembre. Fisichella ha inoltre sottolineato che è attesa «una partecipazione numerosa proprio perché il grido di pace che il Papa vuole far giungere possa arrivare dove deve arrivare»[2].

Un giubileo importante che ci porta all’origine della fede cristiana, ovvero alla fede di Maria. La tradizione giudaica aveva sviluppato la fede nel Dio unico e vero, e l’Antico Testamento ci presenta numerosi esempi di questa fede. Maria è stata la prima a passare dalla fede giudaica alla fede in Cristo. Per meglio scoprire la natura di questa fede è necessario dunque meditarne il primo scaturire nella Vergine di Nazaret. Vi è infatti un aspetto della personalità spirituale di Maria che non sempre è stato posto abbastanza in evidenza, pur essendo di un valore primordiale. Esso attira la nostra attenzione su quello che vi è di comune tra lei e noi.

Leggi l’articolo: All’origine della nostra fede. La fede di Maria.


[1] vaticannews.va/it/papa/news/20…

[2] vaticannews.va/it/chiesa/news/…

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Memoria del 16 ottobre 1943, deportazione degli ebrei di Roma: sabato 8 ottobre ore 18,45 marcia da Piazza Santa Maria in Trastevere al Portico d'Ottavia


Immagine/foto Ci avviamo a ricordare il 16 ottobre 1943. Una delle date più buie della storia della città di Roma. Una memoria che la Comunità di Sant'Egidio e la Comunità ebraica di Roma hanno custodito in (...)>


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Identità Alterità Riconoscimento


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In questo libro Marcello Paradiso, docente di teologia sistematica presso l’Istituto teologico abruzzese-molisano di Chieti, affronta tematiche classiche del pensiero occidentale, trattate non soltanto da pensatori cristiani, ma anche da autori comunemente presentati come critici verso l’eredità del pensiero giudaico-cristiano. Le correnti del personalismo, esistenzialismo, dialogismo, e categorie filosofiche come identità, alterità, riconoscimento, relazione, incontro sono il terreno fertile sul quale si fonda la società europea, pur nelle sue diverse declinazioni e versioni, a volte aspre e conflittuali.

La tesi proposta nel libro è che nella cultura europea continua a scorrere un fiume carsico di linfa cristiana, nonostante emergano posizioni estremamente dialettiche. Un pensiero onestamente critico non può non riconoscerlo. Non è illusorio ottimismo nutrire la speranza che tale eredità continui a essere indispensabile per il futuro della nostra civiltà. L’autore non nasconde la pretesa di affrontare problematiche attuali e interrogativi presenti nell’agorà della cultura contemporanea, non tanto per offrire risposte preconfezionate, quanto per contribuire al confronto e al dialogo tra diverse prospettive.

Il libro si articola in quattro capitoli, preceduti da una premessa e un preludio (che precisa i concetti presi in esame) e seguiti da un’appendice. Il primo capitolo è uno sguardo filosofico che va da Hegel fino a Ricœur, passando per alcune figure singolari come Kierkegaard, Heidegger, Sartre, Lévinas, e indaga i registri con i quali il percorso filosofico della modernità e contemporaneità si è cimentato riguardo alle questioni fondamentali dell’identità, alterità, riconoscimento, differenza e relazioni.

Il secondo capitolo è uno sguardo biblico, quasi una modalità di approccio al contenuto della rivelazione dal punto di vista dell’incontro tra Dio e l’uomo.

Il terzo capitolo – che vuol essere il cuore della proposta dell’autore – tratteggia il mistero delle relazioni tra le Persone divine.

Il quarto capitolo è uno sguardo sulla realtà della Chiesa nell’attuale contesto, insistendo sul tema dei suoi rapporti con il mondo, oltre che al suo interno. Il testo si conclude, nell’appendice, con una riflessione sulla preghiera come luogo dell’incontro tra Dio e l’uomo.

MARCELLO PARADISO
Identità Alterità Riconoscimento. Sulle relazioni umane e divine
Assisi (Pg), Cittadella, 2021, 232, € 17,90.

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