La Civiltà Cattolica compie 175 anni e si rinnova
Nel 2025 La Civiltà Cattolica compie 175 anni, consolidando così il suo primato di rivista culturale più antica d’Italia. Nell’ultimo anno, il Collegio degli scrittori assieme ai suoi collaboratori ha avviato un processo di rinnovamento della rivista. Si è trattato di un lavoro progettuale, arricchito dal contributo di molti abbonati che hanno fatto pervenire le loro risposte al sondaggio inviato nel mese di dicembre 2023. Rinnoviamo il ringraziamento per i numerosi suggerimenti dati e per il sostegno manifestato.
Alla luce di questo percorso, sono state prese alcune decisioni importanti, di cui i nostri abbonati sono già a conoscenza, ma che ci preme portare all’attenzione di chi ci legge forse per la prima volta. Da gennaio 2025, La Civiltà Cattolica si rinnova e, pur mantenendo chiaramente ciò che è al centro della propria identità e della sua ricca storia di servizio alla Chiesa, dà concretezza ad alcuni cambiamenti con i quali speriamo di andare incontro alle attese dei nostri lettori.
Tra le novità, segnaliamo innanzitutto il cambio della periodicità. La rivista diventa mensile, per cui ogni quaderno accompagnerà i lettori per un periodo di tempo più lungo. Ci sembra che ciò corrisponda meglio al ritmo di lettura dei nostri giorni e favorisca un discernimento autentico delle dinamiche sociali, politiche, tecnologiche, culturali ed ecclesiali contemporanee, che necessitano sempre più di analisi scrupolose e approfondite.
Questa è la «rotta» che rimane e che corrisponde al nostro sguardo sul mondo, tanto quanto possibile uno sguardo che sia a 360º. Ciò che cambia è la velocità con la quale questa «rotta» è percorsa. Ai ritmi frenetici e immediati dell’informazione dei nostri giorni noi preferiamo il ritmo più lento della riflessione e dell’analisi, che era già preponderante nel quindicinale, ma che adesso tenderà ad ampliarsi. Con la scelta di diventare mensili ci allontaniamo un po’ di più dal carattere informativo e dalla cronaca troppo vicina ai fatti, un servizio indispensabile, ma che è già offerto da tanti altri mezzi. A noi spetta prendere tempo e proporre una lettura della realtà lontana dalle emozioni immediate, cercando di capire i contesti, come pure le cause e le conseguenze più profonde dei fatti.
Da gennaio 2025, ci presentiamo anche con una veste grafica rinnovata, e ogni singolo quaderno ha 16 pagine in più. Al posto degli abituali quattro volumi, l’annata della rivista si dividerà da ora in tre. L’organizzazione interna dei quaderni, come si può già osservare in questo numero, diventa esplicitamente tematica, per cui i diversi contenuti sono presentati in sezioni specifiche, con particolare attenzione a Società e politica, Teologia e spiritualità, Vita della Chiesa, Scienze umane, Scienza e tecnologia, Arti e letteratura. Compaiono due nuove sezioni: una foto del mese e l’Attualità culturale che, oltre alle tradizionali recensioni di libri, si occuperà di cinema, arte, mostre e musica.
Le novità segnalate non cambiano la nostra identità e missione. Siamo una rivista culturale della Compagnia di Gesù, fondata nel 1850, che si impegna in una lettura cristiana della società contemporanea, in sintonia con le posizioni del Romano Pontefice e della Santa Sede. Perciò accogliamo fedelmente le parole di papa Francesco, che ha chiesto a La Civiltà Cattolica di «essere una rivista ponte, di frontiera e di discernimento», offrendo a chi ci legge un periodico che si riconosce nella propria storia, con la consueta attenzione alle problematiche dei nostri giorni e la stessa apertura al futuro. Possiamo dire che, proprio guardando all’immagine di un ponte che facilita gli incontri, la nostra rivista ascolta la Chiesa e il mondo; e parla del mondo alla Chiesa e della Chiesa al mondo, consapevole che è proprio nel mondo che la Chiesa è testimone e annunciatrice del Vangelo.
In un mondo diviso, ferito e bisognoso di guarigione, pace, giustizia e riconciliazione, non viene meno per La Civiltà Cattolica l’impegno di diffondere un messaggio di speranza, basato su uno sguardo approfondito sulla realtà che ci circonda. L’indizione del Giubileo 2025, appena iniziato, con una Bolla pontificia dal titolo Spes non confundit, non può che confermarci nell’urgenza di un tale impegno. Infatti, le ragioni per sperare e per far vedere che la speranza non delude sono urgenti e quanto mai necessarie. Perciò papa Francesco, il 31 ottobre 2024, rivolgendosi ai partecipanti all’Assemblea plenaria del Dicastero per la comunicazione, ha voluto ribadire: «Nonostante il mondo sia squassato da terribili violenze, noi cristiani sappiamo guardare alle tante fiammelle di speranza, alle tante piccole e grandi storie di bene».
Nella programmazione della rivista, restiamo consapevoli della diversità e complessità delle problematiche contemporanee, pur riconoscendo che non potremo mai essere del tutto esaurienti. Pensando a coloro a cui ci rivolgiamo, desideriamo continuare a essere una rivista per tutti, credenti o meno, purché accomunati dal desiderio di approfondimento, dalla disponibilità all’incontro e dalla ricerca della verità. Non mutano, nemmeno in questa nuova fase della vita della rivista, il nostro sguardo cattolico, e perciò universale, e il carattere internazionale della rivista, che perseguiamo grazie alla collaborazione di autori di molti Paesi diversi e alle edizioni in sette altre lingue, oltre all’italiano. Continua pure e si diversifica la presenza quotidiana nel mondo digitale: la nostra piattaforma web – arricchita in particolare dai podcast e dalle notizie dell’Osservatorio astronomico vaticano –, i nostri profili social e le newsletter settimanali. Ciò ci permetterà – ce lo auguriamo – una dinamica più bilanciata tra l’edizione cartacea, che rimane indispensabile ed è molto apprezzata dai lettori, e la presenza online nella sua diversità di canali. Infine, vi proponiamo anche il nuovo listino degli abbonamenti, augurandoci che La Civiltà Cattolica possa essere accessibile a un numero sempre più ampio di persone e di istituzioni.
Siamo sicuri e grati del vostro sostegno in questa fase di cambiamento molto significativo.
Buon anno 2025 e buona lettura!
La Civiltà Cattolica
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Influencer: come influenzano?
La maggior parte degli studenti che iniziano gli studi di comunicazione di massa conosce il film Accadde una notte (Frank Capra, 1934), con Clark Gable e Claudette Colbert. A un certo punto dell’intreccio, il personaggio interpretato da Gable, cambiandosi, si toglie la maglietta e rivela di non indossare una canottiera. Gli studenti si sentono dire che le vendite delle canottiere maschili sono crollate drasticamente e che se ne ricava un’indicazione sull’influenza che una stella del cinema può esercitare nei confronti della cultura. Sebbene la storia abbia il suo fascino, probabilmente tale indicazione è infondata, perché quella credenza popolare non trova riscontro nelle cifre delle vendite. E tuttavia illustra il fatto che le persone famose o comunque note sembrano esercitare un’influenza spropositata sulla gente comune. Sulla base di prove aneddotiche, vogliamo crederci.
Il primo studio scientifico che esaminò sistematicamente il tema dell’influenza connessa ai media risale a qualche anno dopo, negli anni Quaranta del secolo scorso. Il sociologo Paul Felix Lazarsfeld indagò sia la pubblicità sia le convinzioni politiche. Sulla scorta di un sondaggio, lo studioso e la sua équipe di ricercatori stabilirono che non esiste un flusso diretto di informazioni dai mass media ai destinatari finali; piuttosto, l’influenza mediatica era veicolata secondo quello che essi chiamarono «un flusso a due fasi», in virtù del quale le persone più sensibili alle notizie riportate dai mass media influenzavano le convinzioni dei loro amici riguardo al comportamento di acquisto o di voto. Essi chiamarono quel processo «influenza personale», perché il legame interpersonale era essenziale; quelli che oggi chiamiamo «gli influencer» vennero allora definiti opinion leader.
Le questioni odierne attinenti agli influencer dei social media derivano direttamente da quella tradizione di credenze e di ricerche sull’influenza. Un influencer dei social media è «un nuovo tipo di “connettore” che fa da ponte tra qualcun altro e il pubblico, di cui plasma gli atteggiamenti attraverso blog, tweet e l’uso di altri social media»[1]. Questi individui, presenti su vari canali di social media, sembrano influenzare i loro follower sulle scelte di acquisto, di voto, sulle pratiche sanitarie o su altri tipi di comportamento. Alcuni di loro vengono pagati per farlo, e altri diventano portavoce non ufficiali di un prodotto o di un’azienda.
Spiegare gli influencer
I ricercatori della comunicazione hanno studiato il fenomeno in vari modi. Innanzitutto, essi prestano attenzione a ciò che affermano gli influencer stessi, attraverso l’analisi dei contenuti di siti e video. In secondo luogo, intervistano i follower online sulle loro reazioni; in particolare, chiedono loro perché seguano determinati influencer e se basino su di loro decisioni che riguardano, per esempio, gli acquisti o il voto. Alcune persone seguono gli influencer per mero intrattenimento e non agiscono necessariamente in base ai loro consigli. In terzo luogo, in una prospettiva che riceve una certa attenzione, i ricercatori tentano di spiegare perché gli influencer siano influenti. Quali specifiche caratteristiche ne spiegano l’influenza? Alcune di queste ricerche seguono la direzione indicata a suo tempo dal sociologo Paul F. Lazarsfeld, considerando i leader d’opinione come l’origine di un flusso a due fasi, in base al quale i follower si fidano del leader per raccogliere le informazioni e farsi guidare nelle loro scelte. Ma che cos’è che fa di qualcuno un opinion leader? Il termine si limita a descrivere un ruolo, ossia afferma che l’opinion leader possiede contatti, svolge attività, ottiene un ritorno e provoca imitazione[2]. Questa leadership può avvenire tramite il contatto faccia a faccia o tramite il «passaparola». Gli opinion leader odierni operano tramite diversi media, ma ciò accadeva in qualche modo anche negli anni passati, in cui venivano impiegati ed emergevano vari portavoce relativi ai brand, in particolare personaggi celebri e stelle del cinema come testimonial pubblicitari.
Questa connessione attraverso la rappresentazione mediatica rientra in quella che i ricercatori chiamano «interazione parasociale». Una relazione parasociale è quella in cui un individuo immagina una relazione con qualcuno che non conosce, in genere una persona famosa o persino il personaggio di un film o di una trasmissione televisiva: si comporta come se quell’individuo fosse suo amico. La ricerca ha dimostrato che più un influencer riesce a coltivare una relazione parasociale, più è probabile che influenzi il comportamento dei follower. I dati evidenziano che fattori come la somiglianza avvertita, la frequenza dell’interazione, l’autenticità, la pubblicazione di storie su eventi familiari e la credibilità percepita contribuiscono a spiegare perché le persone sviluppino relazioni parasociali. Tuttavia l’interazione parasociale di per sé non chiarisce completamente il successo di un influencer.
La disamina di 68 articoli scientifici pubblicati tra il 2007 e il 2020 ha rilevato che in questo ambito opera una costellazione di almeno otto fattori: credibilità, affidabilità, attrattiva, competenza, popolarità, interazione parasociale, sensazione di amicizia e concordanza personale con l’influencer. Più in dettaglio, le spiegazioni teoriche dell’influenza esercitata con successo enumeravano le caratteristiche della fonte (credibilità, attrattiva fisica, familiarità, competenza, affidabilità, popolarità, prestigio), i fattori psicologici (congruenza individuale con l’influencer, empatia, piacevolezza, senso di amicizia, somiglianza, identificazione desiderata, adattamento al marchio) e attributi del contenuto (difformità del prodotto, congruenza visiva, attrattiva visiva, contenuto informativo, contenuto interattivo, originalità ecc.)[3]. Le interazioni parasociali, inoltre, non avvengono in un mondo a parte, ma costituiscono un fattore tra gli altri.
Altri tre modelli teorici – generalmente accettati – che i ricercatori della comunicazione applicano per spiegare l’impatto degli influencer si concentrano sui follower e sui media. La nota teoria degli «usi e gratificazioni» descrive le ragioni per cui le persone si rivolgono ai media della comunicazione. In altre parole, indagano quali bisogni la gente soddisfi attraverso l’utilizzo dei media. Per esempio, le persone possono guardare la televisione per vari motivi: per acquisire notizie o informazioni, per intrattenimento, per passare il tempo, per sentire qualche voce umana nelle loro case e così via. La teoria sostiene che le persone seguono gli influencer perché da questa attività ottengono qualcosa. Oltre a cercare informazioni su prodotti o eventi, i follower soddisfano anche bisogni di realismo, freschezza, novità, presenza, potenziamento dell’autonomia, creazione di comunità e bandwagon effect («effetto carrozzone»)[4].
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La teoria dell’agenda setting, spesso utilizzata negli studi sui nuovi media, dimostra che i temi trattati dalle notizie possono influenzare ciò di cui le persone parlano, se non le loro convinzioni effettive. Qualcosa di simile accade con gli influencer: i problemi e i prodotti di cui discutono rendono quegli argomenti più significativi per una popolazione più ampia. Questa teoria non spiega in alcun modo il successo della persuasione da parte degli influencer, ma solo la loro capacità di amplificare l’importanza di alcune cose, di creare attorno a loro una sensazione di importanza. Una teoria correlata, quella del priming («innesco»), descrive come i contenuti presentati attraverso i media possano fornire un contesto che guiderà l’interpretazione o la valutazione di un follower in base al messaggio di un influencer. Se un influencer, per esempio, dice che una marca di scarpe è più comoda di un’altra, con ciò predispone il pubblico a giudicare le scarpe in base alla comodità.
Alcune qualità specifiche fanno sì che un individuo abbia più successo come influencer? Concentrandosi innanzitutto su ciò che fa di un opinion leader un leader, i ricercatori hanno identificato alcune caratteristiche, tra cui la visibilità, la personificazione di determinati valori, la competenza, la posizione sociale, la credibilità, l’attrattiva, la perizia, il contenuto informativo, il potere (inteso come capacità di coinvolgere il pubblico) e il contagio sociale (ovvero, ciò che pensano gli amici)[5]. Più una persona possiede tali qualità, più è probabile che altre persone la seguano.
Altri ricercatori esaminano le caratteristiche psicologiche che preludono alla popolarità. Fra esse, diversi livelli di estroversione, affidabilità, competenza, similarità, attrattiva, nevroticismo, gradevolezza, coscienziosità, apertura alle esperienze, impegno intellettuale, popolarità, prestigio, autoefficacia e coinvolgimento non verbale (come lo sguardo o il sorriso)[6].
Infine, l’aspettativa di influenza può di per sé far prevedere una maggiore influenza. Una combinazione di tre elementi forma una sorta di circolo autorinforzante: l’esposizione presunta (le persone presumono che altri abbiano osservato l’influencer); l’influenza presunta (le persone presumono che un individuo possa influenzare gli altri); e l’influenza dell’influenza presunta (le persone presumono che l’influenza funzioni, proprio come quei critici del film Accadde una notte presupponevano, nonostante le evidenze, che le scelte di costume avrebbero influenzato gli altri)[7].
Alcuni spiegano il presunto successo degli influencer facendo riferimento alle caratteristiche dei mezzi di comunicazione che essi usano. Parte dell’equazione dell’influenza include il «canale sociale», ossia l’insieme delle conoscenze comuni in una società. La gente presume che le credenze in linea con quelle conoscenze siano ampiamente condivise e debbano avere un’origine; più un influencer le condivide, maggiore sarà la presunta influenza. I diversi canali dei social media, con la loro promozione dell’interazione parasociale, del senso di appartenenza e l’incoraggiamento all’autoespressione, offrono agli utenti un’aspettativa di attaccamento emotivo e, di conseguenza, una predisposizione a credere alle personalità online.
Le varie analisi teoriche mostrano tutte un percorso plausibile per le personalità online nell’influenzare gli altri; riconoscono anche la difficoltà di prevedere direttamente l’influenza, date le molte variabili che contribuiscono al fenomeno, fra cui «simbolismo del mezzo, ambiguità del messaggio, distanza tra i partner del messaggio, ricchezza mediatica percepita, numero di destinatari del messaggio e atteggiamenti percepiti dei destinatari del messaggio»[8], nonché elementi esterni, quali la pubblicità e le promozioni (per influenzare le vendite) e le campagne politiche (per influenzare la politica).
Infine, diversi teorici aderiscono a una più generale teoria delle molteplici influenze e alla convinzione che l’«effetto della terza persona» – una teoria ampiamente testata, che propone che gli individui ritengano che i contenuti mediatici influenzino gli altri (la «terza persona») più di quanto influenzino loro stessi, portandoli così a sopravvalutare l’influenza dei contenuti mediatici – amplifichi la disponibilità delle persone a credere nel potere degli influencer.
Che cosa indagano gli studi sugli influencer
Quasi ovunque ci siano social media, ci sono anche influencer. Essi raccomandano idee di moda, prodotti di bellezza, cura degli animali domestici, attività per la famiglia, libri e film, opinioni politiche, pratiche sanitarie, idee sulla preghiera, musica: praticamente qualsiasi cosa su cui si possa avere un’opinione. Di recente gli studiosi si sono concentrati sugli influencer nel marketing, nella politica, nella salute, nelle notizie e negli stili di vita.
L’attività forse più ampiamente studiata degli influencer nei social media è quella che riguarda il marketing e le vendite. Le aziende assumono influencer per raccomandare i loro prodotti e, ovviamente, vogliono sapere quali individui possano servire meglio i loro interessi. Di solito le aziende utilizzano influencer o opinion leader per una serie di motivi: per «accrescere la visibilità delle loro aziende sui media, migliorare la reputazione dell’azienda, aumentare la conversazione nelle comunità virtuali, informare gli stakeholder e far conoscere i loro nuovi prodotti»[9]. Le aziende integrano l’uso degli influencer nelle loro strategie di marketing e pubblicità, e in ciò lasciano ben poco al caso, tenendo conto del fatto che gli influencer creano contenuti, li distribuiscono, agiscono come portavoce e raccomandano sia i prodotti sia i loro usi.
Quando si tratta di scegliere un influencer, si calcolano vari fattori: l’adeguatezza rispetto al marchio, il numero di follower, la probabilità che le persone agiscano in base alle loro raccomandazioni e così via. D’altro canto, le aziende cercano di limitare l’influenza delle critiche negative. A differenza di altre aree di espressione online, l’influenza del marketing deve fare i conti con la regolamentazione governativa in termini di sponsorizzazioni a pagamento, pubblicità veritiera e divulgazione delle relazioni con gruppi aziendali. I livelli di regolamentazione variano a seconda delle giurisdizioni legali, con requisiti più severi negli Stati Uniti e in Canada, e più variabili in Europa e Asia. Le norme e le pratiche degli influencer riflettono anche le differenze culturali nelle aspettative che le persone ripongono in loro e nelle loro attività, come registrato da studiosi in Vietnam, Indonesia, India, Iran, Cina, Spagna e Stati Uniti ecc.
Come influencer di prodotti, i follower e i clienti sembrano preferire persone comuni piuttosto che star dello sport o celebrità mediatiche, perché sentono i primi più simili a loro – cioè, possono identificarsi con loro – e meno suscettibili di apparire come rappresentanti delle aziende. Analogamente, i ricercatori hanno notato una relazione a U invertita tra numero di follower e coinvolgimento; in altre parole, all’inizio il coinvolgimento con un influencer aumenta con l’aumento della fama o del numero dei follower, ma a un certo punto un numero maggiore di follower porta a un minore coinvolgimento, ancora una volta probabilmente perché le persone molto famose sembrano troppo diverse dall’individuo comune. Altri riferiscono che i follower apprezzano l’originalità dell’espressione e la rilevanza del prodotto.
Anche gli influencer politici ricevono molta attenzione da parte dei ricercatori. Questo interesse prosegue nella linea del processo iniziato settant’anni fa con i primi studi sull’influenza e sul concetto di leader di opinione che plasma le opinioni politiche delle persone. Sebbene solo pochi studi empirici abbiano misurato l’influenza effettiva di questo gruppo, essi sono importanti nella ricerca sulla comunicazione politica, perché esplorano ciò che può accadere sulle nuove piattaforme digitali quando si coinvolgono gli altri in modi innovativi[10]. L’influenza avviene in forma mediata piuttosto che in una situazione faccia a faccia. Ciò porta a una nuova comprensione della leadership di opinione: oltre ad avere le due parti previste dal modello originale – il leader e la persona che cerca consigli –, il mondo digitale mostra che alcuni individui assumono entrambi i ruoli, dando e cercando informazioni. Questi individui con duplice ruolo tendono a consumare più notizie e a utilizzare più media informativi e sono più attivi politicamente rispetto ad altri[11]. Spesso cercano consapevolmente di influenzare gli altri e di diffondere ampiamente le loro opinioni.
Gli influencer politici digitali si suddividono in due gruppi: coloro che sostengono direttamente candidati o cause politiche, e coloro che commentano questioni sugli stili di vita che possono avere implicazioni politiche, come la scuola, la criminalità, la salute o l’abitazione. Quest’ultimo tipo di influenza può avvenire su qualsiasi piattaforma e da parte di qualsiasi tipo di influencer: per esempio, potrebbe avvenire quando un influencer che si occupa di genitorialità commenta le politiche scolastiche dello Stato o della comunità. Per questo gruppo, che spesso comprende personaggi dello spettacolo e atleti, i commenti politici appaiono effimeri e spesso sono incorporati in altri contenuti. D’altro canto, il primo gruppo – quello composto da coloro che commentano specificamente candidati o questioni politiche – può essere costituito da attivisti elettorali o da persone reclutate da operatori politici, che cercano di coordinare i loro post con gli eventi della campagna elettorale. In entrambi i casi, il miglior predittore dell’influenza effettiva è una somiglianza percepita tra il follower e l’influencer[12].
I ricercatori hanno scoperto che la disinformazione o la cattiva informazione si verificano più di frequente tra gli influencer nella comunicazione politica che tra quelli nel marketing, molto probabilmente perché gli sponsor aziendali richiedono solo informazioni accurate sui prodotti e perché i requisiti legali in molte giurisdizioni impongono la «verità nella pubblicità». Inoltre, le garanzie sulla libertà di espressione impediscono a molti Paesi di porre limiti al discorso politico. La disinformazione politica – ciò che le ricerche di un tempo spesso classificavano come «propaganda» – avviene su tutte le piattaforme di social media e si concentra soprattutto su argomenti come la politica internazionale, quella nazionale, l’economia, le questioni ambientali e sociali. Le agenzie di intelligence governative in diversi Paesi occidentali hanno affermato che alcune forme di disinformazione politica hanno origine da governi ostili ai loro interessi. I ricercatori hanno anche misurato i livelli di inciviltà nel discorso degli influencer politici, collegandoli all’identità sociale e all’estensione dell’attività politica personale.
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE
Da parecchio tempo, le cronache italiane sono colme di delitti perpetrati contro le donne. Il fenomeno riguarda tutte le età e condizioni sociali, tanto da sembrare endemico nella nostra società. A questo tema è dedicato un episodio monografico di Ipertesti Focus, il podcast de «La Civiltà Cattolica».
Un terzo settore di studio sugli influencer si concentra sulla comunicazione sanitaria. Queste ricerche differiscono da molti degli studi sugli influencer nel marketing e nella politica in quanto in genere utilizzano un metodo di ricerca analitico dei contenuti, con il quale i ricercatori tentano di specificare e quantificare ciò che gli influencer comunicano, in particolare riguardo a questioni di salute pubblica, come le vaccinazioni contro il Covid-19 o le misure profilattiche per prevenire le malattie. La pandemia ha consentito un esperimento naturale con cui le autorità sanitarie pubbliche sono state in grado di testare diversi contenuti di messaggi con gli influencer che hanno reclutato; hanno raffrontato «influencer esperti» – medici, per esempio – con influencer emozionali. Altri gruppi hanno identificato tre funzioni delle reti di influenza: fornire informazioni; convalidare le informazioni; offrire supporto emotivo per la gestione delle emozioni[13]. Negli Stati Uniti, un comitato di salute pubblica ha sperimentato la tecnica di reclutamento di influencer per messaggi antifumo, scoprendo che diffondere il messaggio con un numero maggiore di piccoli influencer (quelli con meno di 100.000 follower) funzionava meglio che divulgare messaggi con pochi influencer molto popolari, notando che le persone si fidavano più facilmente delle celebrità locali. Altri hanno scoperto che le avvertenze sanitarie sulle sigarette elettroniche mitigavano gli effetti persuasivi dei messaggi incoraggianti riguardo a tali sigarette che provenivano da personalità famose.
Un altro settore di studi sulla comunicazione sanitaria degli influencer esamina le pratiche di fitness e salute. In questo caso, alcuni influencer, come quelli nel marketing, possono essere sponsorizzati da aziende di attrezzature sportive o collaborare con palestre. Gli influencer nella fitness tendono ad avere un certo successo nel motivare gli altri a seguire buone pratiche di salute. Infine, come si è notato negli studi sulla pandemia, un’area importante del lavoro degli influencer riguarda la fornitura di informazioni sulla salute, in particolare a gruppi tradizionalmente poco serviti.
Molte delle teorie originali sull’influenza si sono sviluppate a partire da indagini su come i leader di opinione comunicano le notizie (politiche) a un pubblico più ampio, non direttamente influenzato dai media. Diverse ricerche più recenti hanno confermato questa teoria: le persone seguono effettivamente l’esempio di coloro che sono considerati più informati sulle notizie. Questi studi dimostrano anche che i leader di opinione odierni tendono ad avere più fonti di notizie e aggregano queste informazioni per i loro follower.
Anche la religione ha la sua parte di influencer. Alcune chiese inseriscono la pratica dell’influenza nella loro strategia di pubbliche relazioni o di sensibilizzazione, perché vedono l’uso di «influencer spirituali» come parte della loro missione di evangelizzazione. L’ufficio di comunicazione di una chiesa può, per esempio, rielaborare prediche e preghiere di un noto leader religioso per i social media con l’intento di guidare verso Dio i propri fedeli e chi è alla ricerca. Altri influencer religiosi operano indipendentemente da qualsiasi denominazione o chiesa, caratterizzando il loro lavoro come risposta a una chiamata divina; pubblicano materiali sull’illuminazione spirituale, sulla dottrina, sull’evangelizzazione e sull’intrattenimento, quest’ultimo per aumentare la relazione parasociale con i loro follower. Molti cercano di costruire una comunità religiosa di interesse, caratterizzata da un’attenzione alla fede più personale che confessionale[14].
L’immagine popolare degli influencer spesso li identifica con gli influencer culturali, ossia con quelli che si occupano di moda o di media. Alcuni studiosi della comunicazione hanno indagato su queste persone, in particolare in termini di leadership di opinione e di impatto. L’interazione parasociale – i follower li vedono come amici o persone amichevoli che li intrattengono – li rende popolari. Essi possono influenzare gli altri attraverso l’innovazione nella moda, per esempio, ma i ricercatori hanno avuto difficoltà a identificare in concreto le decisioni di acquisto tra i loro follower. L’identità del marchio, i prezzi e il consumo di altri media hanno tutti un ruolo importante nelle decisioni di acquisto.
Altri studi hanno esaminato il ruolo degli influencer nelle decisioni di assistere a proiezioni cinematografiche, anche in questo caso con risultati contrastanti. Le persone hanno segnalato una complessa serie di relazioni tra l’uso dei social media, le opinioni, la visione di film al cinema e il capitale sociale, espresso come «paura di perdersi»[15]. In quasi tutti i casi studiati, gli influencer sui social media hanno svolto il ruolo di una fra le tante spiegazioni per le azioni delle persone.
Preoccupazioni sugli influencer
Il crescente mondo degli influencer ha sollevato una serie di questioni, per lo più legate all’etica dell’influenza, in particolare di quella sponsorizzata o a pagamento. Il modello originale dell’influenza – proposto nella teoria del flusso in due fasi – prevedeva un’influenza faccia a faccia, esercitata da amici o conoscenti, solitamente in contesti domestici o sociali. Mentre il mondo della pubblicità si è basato su questo modello per conferire ai personaggi popolari la rappresentazione dei propri prodotti, l’influenza sui social media odierni avviene principalmente attraverso estranei, la cui celebrità può esistere solo online; in genere i follower hanno con gli influencer dei social media solo una relazione parasociale. Sia la distanza sociale sia l’anonimato del processo sollevano interrogativi sui fondamenti della fiducia e sulla capacità di rilevare gli inganni.
Una revisione della legislazione dell’Ue del 2024 ha indicato che solo Francia e Spagna possedevano linee guida che richiedevano trasparenza per gli influencer e una netta separazione tra fatti e opinioni, in genere in situazioni di pubblicità di prodotti. La Repubblica ceca sta sviluppando un «Codice etico per influencer corretti», elogiato da associazioni di consumatori. Mentre gli Stati Uniti hanno leggi sulla tutela dei consumatori riguardo alla pubblicità, esse non sono ben comprese relativamente agli influencer, il che ha spinto studiosi a richiedere un codice etico anche per gli Stati Uniti.
Studiando la disinformazione nel riportare eventi di cronaca (una sparatoria in una scuola negli Stati Uniti), alcuni ricercatori hanno scoperto che le persone del luogo apparivano più credibili e che i follower riconoscevano rapidamente le narrazioni false diffuse da opinion leader più noti, ma distanti. Questo tipo di risultati ha portato alla richiesta di un programma di educazione mediatica per gli utenti dei social media, in modo che possano individuare più facilmente le mistificazioni e l’influenza a pagamento. Questo vale in particolare per il pubblico dei bambini e degli adolescenti, nonché per gli influencer bambini e adolescenti, che potrebbero non comprendere appieno le forze in gioco nel mondo degli influencer.
Altri studiosi hanno sollevato interrogativi sull’uso di «influencer virtuali», ovvero personaggi animati o addirittura creati dall’intelligenza artificiale per rappresentare aziende, marchi o partiti politici. Anche se essi possono offrire un maggiore controllo sull’influencer da parte dei loro sponsor, rimangono falsi e oscuri, e pertanto rendono difficile l’attribuzione di qualsiasi responsabilità morale o giuridica.
Conclusioni
Il proprietario di un grande magazzino di Philadelphia del XIX secolo, John Wanamaker, avrebbe detto: «So che metà della mia pubblicità è efficace, ma non so quale metà». Sembra un rilievo pertinente per lo studio degli influencer. Sebbene esista una grande quantità di informazioni aneddotiche sull’impatto degli influencer, ci sono molte meno prove empiriche a supporto della loro efficacia. Come il pubblico cinematografico degli anni Trenta, le persone vogliono credere che le celebrità – anche le micro-celebrità – persuadano gli altri. Ma un’analisi più approfondita sembra indicare che gli influencer costituiscono un fattore tra i tanti per spiegare i comportamenti delle persone. Gran parte dei dati raccolti tra i follower valuta l’intenzione di acquistare, votare o credere, ma non se le persone portino a termine tali intenzioni. La ricerca sulla comunicazione ha appreso molto su ciò che rende una persona un influencer, su ciò che attrae i follower e persino sul processo di una influenza, ma fatica a misurare l’influenza effettiva.
L’indagine ha illustrato un aspetto importante del processo di ricerca sulla comunicazione. Molti degli studi sugli influencer prendono in considerazione i fattori culturali: il processo di influenza differisce in Vietnam, Iran, Francia, Spagna, Repubblica Ceca, Corea, Stati Uniti ecc. Almeno in questa area di studio i ricercatori si sono astenuti dall’offrire un’unica teoria generale.
La disamina degli studi sugli influencer, anche su un breve lasso di tempo, mostra chiaramente la difficoltà di stare al passo con le tecnologie dei social media in rapida evoluzione. Solo negli ultimi 10 anni gli influencer sono apparsi su – e talvolta hanno proseguito oltre – YouTube, Facebook, X, Telegram, Instagram e TikTok. Questo cambiamento delle preferenze degli utenti dei social media e la rapida evoluzione dell’età degli utenti rendono difficile, sia per le aziende sia per i ricercatori, tenere il passo. Le strutture dei social media modificano anche le strutture di influenza originarie, che presupponevano un’influenza personale faccia a faccia. La facilità online nel commentare, condividere e seguire significa che l’influenza si manifesta attraverso molti media e in modi non sempre previsti dalle teorie dell’influenza.
Infine, i diversi canali dei social media e le svariate modalità del loro utilizzo sollevano la questione se il termine «influencer» si riferisca allo stesso fenomeno in tutte le piattaforme. Sebbene i ricercatori abbiano applicato molte teorie e modelli tradizionali al suo studio e sebbene si possa discernere una generica somiglianza, si può comunque notare che nei diversi ambiti in cui operano gli influencer (marketing, politica, salute pubblica, intrattenimento, religione e così via), ognuno va in cerca di un risultato diverso. Ciò che rende un individuo un influencer di successo in un ambito non può essere trasferito facilmente a un altro. Come amano dire gli studiosi, «sono necessarie ulteriori ricerche».
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Riproduzione riservata
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[1]. K. Freberg – K. Graham – K. McGaughey – L. A. Freberg, «Who are the social media influencers? A study of public perceptions of personality», in Public Relations Review 37 (2011/1) 90.
[2]. Cfr K. Jungnickel, «New methods of measuring opinion leadership: A systematic, interdisciplinary literature analysis», in International Journal of Communication 12 (2018) 2702.
[3]. Cfr D. Vrontis – A. Makrides – M. Christofi – A. Thrassou, «Social media influencer marketing: A systematic review, integrative framework and future research agenda», in International Journal of Consumer Studies 45 (2021/2) 628 s.
[4]. Cfr C. Lou – C. R. Taylor – X. Zhou, «Influencer marketing on social media: How different social media platforms afford influencer-follower relation and drive advertising effectiveness», in Journal of Current Issues & Research in Advertising (Routledge) 44 (2023/1) 60.
[5]. Cfr G. Weimann, «The influentials: Back to the concept of opinion leaders?», in Public Opinion Quarterly 55 (1991/2) 267-279; S. Aral, «Identifying social influence: A comment on opinion leadership and social contagion in new product diffusion», in Marketing Science 30 (2011/2) 217-223; T. Gnambs – B. Batinic, «A personality-competence model of opinion leadership», in Psychology & Marketing 29 (2012) 606-621; D. Bakker, «Conceptualizing influencer marketing», in Journal of Emerging Trends in Marketing and Management 1 (2018/1) 79-87; C. Ki – Y. Kim, «The mechanism by which social media influencers persuade consumers: The role of consumers’ desire to mimic», in Psychology & Marketing 36 (2019) 905-922; N. Jung – S. Im, «The mechanism of social media marketing: Influencer characteristics, consumer empathy, immersion, and sponsorship disclosure», in International Journal of Advertising 40 (2021) 1265-1293.
[6]. Cfr T. Gnambs – B. Batinic, «A personality-competence model of opinion leadership», cit., 611.
[7]. Cfr H. Cho – L. Shen – L. Peng, «Examining and extending the influence of presumed influence hypothesis in social media», in Media Psychology 24 (2021/3) 413-435.
[8]. L. K. Treviño – J. Webster – E. W. Stein, «Making connections: Complementary influences on communication media choices, attitudes, and use», in Organization Science 11 (2000/2) 163-182.
[9]. B. Bahar, «La collaboration des entreprises avec des leaders d’opinion: une étude qualitative. Companies Collaboration with Opinion Leaders: A Qualitative Study», in Ileti-s-Im 30 (2019) 1.
[10]. Cfr M. J. Riedl – J. Lukito – S. C. Woolley, «Political influencers on social media: An introduction», in Social Media + Society 9 (2023/2) 1-9.
[11]. Cfr J.-Y. Jung – Y.-C. Kim, «Are you an opinion giver, seeker, or both? Re-examining political opinion leadership in the new communication environment», in International Journal of Communication 10 (2016) 4439-4459.
[12]. Cfr B. Naderer, «Influencers as political agents? The potential of an unlikely source to motivate political action», in Communications: The European Journal of Communication Research 48(2023/1) 93-111.
[13]. Cfr A. Wagner – D. Reifegerste, «“The part played by people” in times of Covid-19: Interpersonal communication about media coverage in a pandemic crisis», in Health Communication 38 (2023) 1014-1021.
[14]. Cfr B. G. Smith – D. Hallows – M. Vail – A. Burnett – C. Porter, «Social media conversion: Lessons from faith-based social media influencers for public relations», in Journal of Public Relations Research 33 (2021/4) 231-249.
[15]. A. C. Tefertiller – L. C. Maxwell – D. L. Morris II, «Social media goes to the movies: Fear of missing out, social capital, and social motivations of cinema attendance», in Mass Communication & Society 23 (2020/3) 378-399.
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Trump è di nuovo presidente degli Stati Uniti: come governerà?
Il 20 gennaio 2025 Donald J. Trump verrà insediato come 47° presidente degli Stati Uniti d’America. Com’è prescritto dalla Costituzione statunitense, pronuncerà la formula rituale del giuramento nelle mani del presidente della Corte Suprema, John Roberts, dopo di che si rivolgerà alla nazione. La cerimonia avrà luogo sul lato ovest del Campidoglio, sede delle inaugurazioni presidenziali dal 1989. Un luogo ricco di un ambiguo simbolismo: se è vero infatti che il suo stesso nome, Capitol Hill, e la sua architettura evocano l’eredità classica della Repubblica romana e si affacciano sui memoriali degli statisti statunitensi George Washington e Abraham Lincoln, d’altra parte oggi quel luogo è anche noto in tutto il mondo come la cornice dei disordini del 6 gennaio 2021.
Trump si è assicurato l’elezione il 5 novembre 2024, diventando così il primo presidente degli Stati Uniti, dopo Grover Cleveland (1885-1889 e 1893-1897), a ricoprire due mandati non consecutivi. Questa vittoria elettorale rafforza il suo predominio sul partito repubblicano, ma allo stesso tempo conferma la relativa instabilità della politica statunitense, in cui nessuno dei due partiti riesce a mantenere il controllo a lungo termine sulla Casa Bianca.
Mentre si approssima il 250° anniversario dell’indipendenza dall’Inghilterra, che giungerà nel 2026, gli Stati Uniti sembrano aver nuovamente abbracciato un sentimento anti-incumbent (ossia, la tendenza a punire i governi uscenti, ritenuti inefficienti), che rivela uno spirito di profonda insoddisfazione per lo status quo, con poche garanzie che il 2028 o il 2032 saranno diversi. Ciò solleva interrogativi non solo sulla politica interna degli Usa, ma anche sul loro ruolo globale.
Le elezioni in cifre
Tecnicamente, Trump non ha vinto le elezioni a novembre, perché, come molti Paesi, gli Stati Uniti non eleggono direttamente il capo del loro governo. Piuttosto, egli è stato eletto dal Collegio elettorale il 17 dicembre. Ma nella competizione di novembre ha conquistato 31 Stati, e ciò gli ha garantito 312 voti nel Collegio elettorale contro i 226 di Kamala Harris. Anche se il presidente non viene eletto direttamente dal voto popolare nazionale, Trump ha ottenuto circa 77 milioni di voti rispetto ai 74,6 milioni di Harris, poco meno del 50% rispetto al 48,3% di Harris.
Gli Stati Uniti rimangono profondamente divisi: l’interpretazione dei risultati elettorali subirà prevedibilmente forti contestazioni e non sarà facile governare dopo un’elezione così divisiva. Il risultato ottenuto da Trump nel Collegio elettorale è stato simile ai 304 voti che aveva ottenuto nel 2016 e ai 306 di Biden nel 2020, e il margine della sua vittoria nel voto popolare nazionale è stato uno dei più stretti dal 1976, eccetto che per le due elezioni in cui il vincitore del Collegio elettorale aveva perso al voto popolare (Bush nel 2000 e lo stesso Trump nel 2016). Tuttavia, il 2024 fa segnare la prima vittoria del voto popolare nazionale di Trump nelle sue tre campagne presidenziali[1].
In un sistema elettorale profondamente federale come quello degli Stati Uniti, la geografia politica degli Stati è fondamentale per comprendere le elezioni nazionali. Nelle recenti elezioni presidenziali la maggior parte degli Stati era prevedibilmente schierata per un voto repubblicano o democratico, sicché l’attenzione delle campagne politiche, dei media e dei sondaggi si concentrava sugli Stati i cui voti erano meno scontati: gli swing States («Stati indecisi»), chiamati così perché oscillano fra un partito e l’altro. È un termine impreciso, più affine al giornalismo politico che alla politologia, ma almeno chiarisce che in qualsiasi elezione presidenziale il candidato di ogni partito principale si trova in gran parte a dipendere da un insieme di Stati considerati «sicuri», e tuttavia, per ottenere la maggioranza dei voti nel Collegio elettorale, dovrà elaborare una strategia che lo porti a conquistarsi il sostegno di un numero sufficiente di altri Stati.
Trump ha vinto in tutti gli Stati che di recente avevano votato repubblicano alle elezioni presidenziali, in particolare nel Sud e nel Midwest, e in tutti e sette gli Stati che erano generalmente ritenuti «Stati indecisi» nelle elezioni del 2024[2]. Tre di essi – Pennsylvania, Michigan e Wisconsin – erano considerati essenziali per la vittoria di Harris e al tempo stesso erano risultati importanti per la vittoria di Trump del 2016 su Hillary Clinton. Questa volta in quei sette Stati Trump ha vinto con un margine di circa 760.000 voti, assicurandosi 93 voti elettorali. In particolare, è stata la vittoria in Pennsylvania, ottenuta con un margine di circa 120.000 voti, a portarlo in testa.
L’affluenza alle urne nel 2024 è diminuita rispetto al 2020 (circa il 64% contro il 66%), soprattutto al di fuori degli Stati indecisi, e conviene ricordare che talvolta chi non è andato a votare è tanto importante quanto chi ci è andato[3]. La minore affluenza ha probabilmente danneggiato Harris, che ha ottenuto risultati inferiori a quelli di Biden nel 2020 in settori chiave del Paese[4]. In sostanza, la candidata democratica avrebbe probabilmente prevalso nel voto popolare nazionale se gli elettori che nel 2020 avevano votato per Biden si fossero presentati a sostenerla[5].
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Presso l’elettorato del 2024 Trump ha incrementato i suoi margini, attingendo a un’ampia gamma di fasce demografiche statunitensi, in particolare tra gli uomini non bianchi: tra gli elettori afroamericani e ispanici si è guadagnato livelli storici di sostegno per un candidato repubblicano alla presidenza[6]. Gli elettori si sono divisi anche in base al livello culturale. Trump ha continuato ad avere successo tra gli elettori bianchi senza istruzione universitaria, con un vantaggio del 34% su Harris, sebbene sia leggermente calato tra gli elettori bianchi dotati di istruzione universitaria. Trump ha anche goduto di un accresciuto sostegno tra gli elettori giovani, in particolare la «Gen Z», mentre ha subìto un piccolo calo tra gli anziani. I suoi numeri sono migliorati anche tra le donne: un fatto sorprendente, dato che la sua avversaria, a sua volta donna, ha incentrato la propria campagna sui diritti femminili.
Data la fluidità della politica americana, resta da vedere se questa coalizione di voti durerà oltre il 2024 e, per esempio, se aiuterà il Partito repubblicano (GOP) a mantenere il controllo della Camera dei rappresentanti nel 2026 e a garantire l’elezione di un altro presidente repubblicano nel 2028.
Come ha fatto Trump a vincere?
In un momento in cui «raccontare storie» (storytelling) coincide con «vendere storie» (storyselling)[7], negli Stati Uniti abbondano le narrazioni su come Trump sia riuscito a vincere.
Per la maggior parte dei politologi, le elezioni presidenziali si riducono all’economia. Secondo gli exit poll, l’economia era la preoccupazione principale del 39% degli elettori[8]. Pur se in vista delle elezioni molti commentatori sostenevano che l’economia sotto Biden stava migliorando, una parte significativa degli elettori non era d’accordo[9]. In considerazione di ciò, Harris ha dovuto affrontare una battaglia in salita: aveva infatti l’ulteriore svantaggio di dover sviluppare un messaggio convincente di insoddisfazione per l’economia senza criticare direttamente il presidente Biden[10].
Oltre all’insoddisfazione per l’economia, un altro fattore decisivo è stato il già citato sentimento anti-incumbent negli Stati Uniti e nel mondo. Il 2024 è stato definito un «anno elettorale», ma è stato anche un anno di ostilità verso chi è al potere, tradottasi nella caduta dei governi di molti Paesi, o in loro nette battute di arresto elettorali. Questo schema è da qualche tempo caratteristico della politica statunitense, dove i repubblicani e i democratici si sono alternati al controllo della Casa Bianca nelle ultime tre elezioni. Se il singolo mandato di Jimmy Carter (1977-1981) per un certo periodo era stato l’eccezione, da allora in avanti l’ultimo presidente a vincere due mandati consecutivi è stato Barack Obama (2009-2017). È stato questo sentimento, ovviamente, che ha contribuito alla vittoria di Trump nel 2016.
Oltre all’economia, l’ingresso tardivo di Harris nella corsa ha significato che si è ritrovata a dover dare forma a una narrazione su chi fosse e per che cosa stesse conducendo la campagna elettorale, dopo che quell’opportunità le era stata negata all’inizio del 2024 e che la sua campagna per le primarie presidenziali del 2020 era stata interrotta nel 2019. Lei deve il suo ritardato ingresso a Biden, che si è ritirato dalla competizione solo a luglio 2024. Molti davano per scontato che Biden non si sarebbe candidato per un secondo mandato, come egli stesso aveva annunciato nel 2020. Ma poi non si è fatto da parte. Sebbene alla fine una serie di eventi clamorosi abbiano portato al suo ritiro, esso non è stato abbastanza tempestivo da giovare ad Harris, come pochi giorni dopo le elezioni ha dichiarato al New York Times Nancy Pelosi, ex speaker della Camera e leader democratica[11].
Per molti osservatori, la sconfitta di Harris dimostra che la centralità data all’aborto e ad altre questioni sociali non le ha giovato, perché l’ha posizionata a sinistra rispetto a molti elettori. Privilegiando l’aborto nella sua campagna, Harris sperava di attrarre le donne e di mobilitare gli elettori dopo la sentenza della Corte Suprema del 2018 nel caso Dobbs contro Jackson Women’s Health Organization, che ha ribaltato la sentenza Roe contro Wade del 1973, rigettando l’idea che nella Costituzione degli Stati Uniti ci sia un diritto all’aborto[12]. D’altro canto, il consenso ottenuto da Trump non ha avuto a che fare con i referendum sull’aborto. Come ha scritto Charlie Camosy in First Things, «il sostegno a Donald Trump e al GOP non si è tradotto in vittorie pro-life. Trump ha vinto in Arizona, Missouri e Montana, ma tutti e tre quegli Stati hanno agevolmente approvato le loro misure di voto pro-aborto». In breve, «Trump e il GOP hanno condotto una campagna pro-choice e hanno vinto alla grande»[13].
Per quanto riguarda la candidatura di Trump, la sua immagine pubblica di figura anti-establishment si è inevitabilmente adattata allo stato d’animo di una decisiva pluralità di elettori. Nonostante sia già stato presidente per un mandato, nel 2024 è riuscito a presentarsi come un outsider. Come ha detto un commentatore a lui favorevole: «Due impeachment, incessanti battaglie legali e innumerevoli accuse penali, due tentativi di assassinio e un coro incessante dei media più potenti della nazione che lo definiscono “fascista” non sono riusciti a fermare Trump. In mezzo a tutte queste avversità, Trump è solo diventato più forte. E ora ha il mandato simbolico ma potente della maggioranza del voto popolare»[14].
Fatto non meno importante, nel mese di marzo del 2024 la Corte Suprema ha respinto le tesi secondo cui Trump non era idoneo a candidarsi per una carica pubblica in base al 14° emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, e in particolare «là dove il testo afferma che nessun funzionario amministrativo o giudiziario possa assumere una carica se ha preso parte a un’insurrezione»[15]. Questa decisione, che rientra nelle ricadute della storica violenza del 6 gennaio 2021 a Capitol Hill, ha tenuto aperta la strada al secondo mandato di Trump[16].
Sotto il profilo dei numeri, la vittoria di Trump è avvenuta nel periodo di incertezza nella politica statunitense, in cui gli elettori votano costantemente «contro» gli incumbents, i titolari, almeno quanto lo fanno «a favore» di qualsiasi alternativa. Tuttavia, è stato ampiamente riconosciuto che la coalizione di Trump del 2024 è qualcosa di unico. Le principali élite repubblicane hanno cercato di inquadrare il GOP come il partito dei lavoratori, sostenendo che i democratici hanno abbandonato gli elettori della classe operaia, comprese le minoranze razziali ed etniche, a favore dell’economia globalizzata[17]. Se è così, dato il tenore della politica statunitense, resta comunque aperta la questione se l’amministrazione Trump riuscirà a risolvere le tensioni tra il suo ampiamente attestato schieramento per il libero mercato e il presunto impegno nei confronti dei lavoratori, e quindi a prendere una coalizione costruita in parte come un voto contro lo status quo e a cementarla in vista di qualcosa di nuovo.
Il Congresso degli Stati Uniti e il nuovo equilibrio di potere
Le elezioni statunitensi di novembre erano finalizzate anche a nominare tutti i membri della Camera dei rappresentanti, ovvero la Camera bassa del Congresso degli Stati Uniti, e un terzo dei componenti del Senato, la Camera alta. L’equilibrio di potere che ne è risultato ha importanti conseguenze per l’agenda del presidente Trump: la Costituzione degli Stati Uniti richiede infatti che il Congresso e la Presidenza lavorino a stretto contatto, assegnando ad essi ruoli distinti ma sovrapposti nella politica statunitense.
Prima delle elezioni, le Camere erano divise: i democratici detenevano la Camera alta, con una stretta maggioranza, grazie al supporto di membri indipendenti (51 a 49), e i repubblicani controllavano la Camera bassa (220 a 212, con 3 seggi vacanti). Dopo le elezioni, i repubblicani hanno riconquistato il Senato con uno stretto margine (53 a 47) e hanno mantenuto la Camera (220 seggi). È interessante notare che Trump ha vinto in quattro Stati dove i repubblicani hanno perso le elezioni senatoriali: Arizona, Michigan, Nevada e Wisconsin[18].
Il controllo repubblicano del Congresso probabilmente agevolerà l’attuazione dell’agenda politica di Trump. Conquistare il Senato era fondamentale per uno dei suoi obiettivi principali: nominare giudici federali, e in particolare giudici della Corte Suprema. Ma la questione fondamentale sarà l’unità dei repubblicani. Sapranno collaborare tutti insieme in ciascuna Camera e tra le due Camere? O si spaccheranno e si frammenteranno per motivi ideologici? Il rischio di defezione è particolarmente alto alla Camera, in cui i repubblicani hanno solo una risicata maggioranza e una storia di discordie interne. Una simile instabilità legislativa esaspererebbe quella che probabilmente è già una caratteristica dell’amministrazione Trump, ossia il ricorso a un ampio uso di ordini e atti esecutivi piuttosto che ad azioni legislative approvate dal Congresso.
Ne ha dato una prima riprova l’elezione del nuovo leader della maggioranza al Senato, colui che guiderà i repubblicani nel Senato degli Stati Uniti e quindi eserciterà un’autorità significativa sulle operazioni quotidiane di quella istituzione. Il senatore repubblicano Mitch McConnell, veterano legislatore del Kentucky e leader della maggioranza al Senato durante il primo mandato di Trump, aveva avuto molti contrasti con il presidente; quindi si presumeva che il GOP avrebbe preferito puntare su qualcuno della cerchia a lui più vicina. Ma, nonostante il presidente eletto e diversi suoi alleati fossero notoriamente favorevoli a Rick Scott della Florida per quella carica, i repubblicani hanno eletto il senatore John Thune del South Dakota. Thune è una figura più istituzionale di Scott e in passato non ha risparmiato critiche a Trump, eppure al momento della sua elezione ha detto che non vedeva l’ora di promulgare le politiche trumpiane[19].
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE
Da parecchio tempo, le cronache italiane sono colme di delitti perpetrati contro le donne. Il fenomeno riguarda tutte le età e condizioni sociali, tanto da sembrare endemico nella nostra società. A questo tema è dedicato un episodio monografico di Ipertesti Focus, il podcast de «La Civiltà Cattolica».
Come sarà l’amministrazione Trump?
Una delle questioni più rilevanti, nel caso della presidenza Trump, riguarda le politiche che adotterà. La piattaforma repubblicana del 2024 era succinta e povera di dettagli, e la campagna successiva ha fatto poco per chiarirne ulteriormente le posizioni, salvo forse i due temi principali dell’immigrazione e dei dazi doganali. D’altra parte, Harris ha imperniato la sua campagna sul presunto sostegno dato dal suo avversario al «Project 2025», una piattaforma politica elaborata da un think tank statunitense che Trump ha ripetutamente sconfessato. Inoltre, molti esponenti della destra intellettuale erano entusiasti della prospettiva di un’agenda politica «post-liberale» nel segno del candidato vicepresidente di Trump, J. D. Vance. Quindi, che cosa possiamo aspettarci?
Come affermano molti politologi, «il personale è politica»: le figure che Trump nomina nelle posizioni chiave dicono molto su come egli intende governare. Finora, i candidati da lui proposti sono stati una combinazione di fedelissimi della sua prima amministrazione, alcuni politici esperti e personalità pubbliche provocatorie. Essi offrono dunque indizi contraddittori sulla determinazione della futura amministrazione a perseguire i suoi obiettivi politici[20]. Per esempio, la rapida «ascesa e caduta» dell’ex deputato Matt Gaetz, in lotta per la carica di procuratore generale, suggerisce che la seconda amministrazione Trump incontrerà le stesse difficoltà che aveva avuto la prima al momento di inserire i suoi esponenti nell’amministrazione[21].
La sfida centrale per l’amministrazione Trump sarà l’economia. In che modo il cambiamento economico influenzerà la sua capacità di governo? In che modo le sue politiche incideranno sull’inflazione e sui prezzi crescenti dei beni di prima necessità? Per quanto riguarda la tassazione, una delle principali leggi fiscali approvata nel primo mandato di Trump, il Tax Cuts and Jobs Act del 2017, scadrà nel 2025. Rinegoziare tale legge sarà un obiettivo legislativo centrale del suo secondo mandato. Sebbene Trump nella campagna elettorale abbia annunciato il desiderio di estendere i tagli fiscali, i negoziati con il Congresso riguardo a quella legislazione costituiranno un test importante sulla loro possibilità di collaborare[22]. Sarà anche un banco di prova per il suo impegno nei confronti degli elettori della classe operaia, in cui tra l’altro verrà alla luce se effettivamente intende allargare e potenzialmente ampliare nella legge il credito d’imposta per i figli.
L’immigrazione e la sicurezza delle frontiere hanno avuto un ruolo importante nella campagna 2024 di Trump, che ha spesso preconizzato «deportazioni di massa», raccogliendo il favore degli elettori, che per il 20% hanno indicato questo tema come il loro problema principale. Sebbene i costi saranno probabilmente elevati, le preoccupazioni umanitarie pressanti e l’opposizione significativa, Trump agirà quasi certamente in coerenza con tali promesse[23]. Nel frattempo, sono vent’anni che il Congresso degli Stati Uniti non riesce ad approvare una riforma importante della politica migratoria.
L’amministrazione Trump abbraccerà l’agenda politica delineata nel «Project 2025», la proposta avanzata dal think tank attivista Heritage Foundation[24]? In una certa misura sì, dal momento che in gran parte essa rispecchia quel conservatorismo che sarà un connotato indiscutibile del governo. Trump sta già attingendo ad alcuni degli autori del Project per le sue nomine. Alcune delle parti più controverse di quel progetto riguardano la sua proposta di riforma della burocrazia statunitense. Trump, come molti presidenti, ha promesso di limitare il potere della burocrazia e di porla sotto il suo diretto controllo, sebbene resti da vedere in quali termini, forse discutibili, vorrà interpretare la carica di «funzionario pubblico». Una delle sue prime nomine significative è stata quella di Elon Musk e Vivek Ramaswamy come suoi plenipotenziari della burocrazia.
Ma uno degli ambiti politici più misteriosi della seconda amministrazione Trump è probabilmente la politica estera, che ovviamente è una questione di grande interesse per gli osservatori stranieri, soprattutto per quanto riguarda il peso che essa avrà sui conflitti in corso in Ucraina e in Medio Oriente. La politica estera è in genere una preoccupazione marginale delle elezioni presidenziali statunitensi: secondo alcuni exit poll, solo il 3% degli elettori la considerava tra i problemi principali. Ciò che un candidato alla presidenza rivela sulla sua politica estera è spesso piuttosto vago e più incentrato sul messaggio che vuole mandare al pubblico interno che sulla sostanza.
Gli analisti non sono d’accordo neanche sul fatto che Trump abbia una politica estera definita. Nella misura in cui ce l’ha, è una politica non convenzionale, che riflette il suo programma «America First». Si può ragionevolmente affermare che egli consideri insoddisfacente un ordine internazionale in cui gli Stati Uniti sono sovraesposti e coinvolti in troppi conflitti a proprio svantaggio e ricevono scarso supporto dai loro alleati tradizionali. In questa prospettiva, ci si può aspettare che Trump insista affinché la Nato e l’Ue divengano meno dipendenti dagli Stati Uniti e che i conflitti di lunga data vengano risolti rapidamente[25].
Quali che siano le prossime decisioni e azioni di Trump in questi settori, la sua campagna ha confermato l’importanza delle scelte normative per la vita politica statunitense. Mentre egli si è battuto con accenti populisti contro la «governance degli esperti», ha anche fatto molte promesse sullo stimolo dell’economia, sulla creazione di posti di lavoro americani e sulla ricostruzione delle infrastrutture statunitensi, tutte questioni decisamente politiche. La «trappola politica» (policy trap), identificata da studiosi come Orren e Skowronek, mette in evidenza la difficoltà degli Stati moderni a mantenere le proprie promesse rispetto alle crescenti aspettative politiche suscitate nella campagna elettorale[26]. E Trump non ne è stato immune.
I cattolici statunitensi
Come hanno votato i cattolici americani nelle elezioni presidenziali del 2024? Quale posizione assumeranno durante il secondo mandato di Trump? La maggioranza dei cattolici ha votato per Trump, in gran parte a causa di uno spostamento dei cattolici ispanici verso di lui. Secondo i dati preliminari, quei cattolici latinoamericani che nel 2020 avevano votato per il 71% contro il 28% per Biden, nel 2024 si sono espressi per il 53% contro il 46% per Trump[27].
I cattolici probabilmente svolgeranno un ruolo curioso nell’amministrazione Trump: questi, che non è cattolico, succede al cattolico Biden e porta con sé come vicepresidente J. D. Vance, che nella storia degli Usa è il secondo vicepresidente cattolico dopo Biden stesso, che lo era stato sotto Barack Obama. Il ruolo della vicepresidenza degli Stati Uniti è vago e ampiamente soggetto al presidente, e quindi la rilevanza del cattolicesimo di Vance dipenderà molto dalle scelte di Trump. A mantenere l’interesse dei circoli cattolici nei suoi confronti potrebbe essere il suo status di probabile candidato presidenziale nel 2028[28]; se dovesse diventare un serio candidato alla presidenza, ne risulterebbe notevolmente amplificato il dibattito sul ruolo del cattolicesimo nella vita pubblica degli Stati Uniti.
Ci sono grandi preoccupazioni circa le politiche migratorie proposte da Trump[29]. Per esempio, il Center for Migration Studies, un think tank di New York e membro dello Scalabrini International Migration Network, ha pubblicato un rapporto che anticipa la probabile «devastazione delle deportazioni di massa sia per i residenti irregolari sia per le loro famiglie e comunità legalmente riconosciute» nel caso in cui le politiche di deportazione promulgate da Trump venissero attuate, e ha parlato di «una crisi morale, legale e di sicurezza pubblica causata dallo scatenamento delle operazioni di ricerca e sequestro di massa in tutta la nazione»[30]. Il vescovo Mark Seitz, pastore di El Paso (Texas) e portavoce dei vescovi per la politica sull’immigrazione, dopo le elezioni ha dichiarato che i vescovi non rimarranno in silenzio se si verificheranno deportazioni di massa[31].
Durante la campagna elettorale Trump e Vance hanno espresso il loro sostegno anche ai finanziamenti federali per la fecondazione in vitro (FIV), e ciò potrebbe rappresentare un’ulteriore fonte di disaccordo con la Chiesa statunitense[32]. Certamente anche i singoli vescovi si esprimeranno al riguardo. Più in generale, i cambiamenti culturali negli Stati Uniti rappresentano opportunità e sfide per l’evangelizzazione. Il fatto stesso che i cattolici statunitensi siano più che mai privi di una chiara collocazione politica dovrebbe indurne alcuni a mettere in discussione la propria adesione a partiti politici e ideologie, nonché i luoghi comuni che fanno da tramite tra la loro fede e la vita politica e sociale. La diffusa sfiducia nelle istituzioni limiterà pure la credibilità della Chiesa statunitense, ma il desiderio di appartenenza e di contatto con la verità rimane forte come non mai. Questa è la paradossale situazione di gran parte della vita moderna negli Stati Uniti, in cui la richiesta diffusa di «radere al suolo tutto» nasce da un profondo desiderio di comunione con gli altri[33]. Come sempre, i cattolici avranno l’opportunità di dimostrare che la loro preoccupazione affonda le radici nel Vangelo, non nella rivendicazione d’influenza pubblica o di potere politico… nasce dalla volontà di testimoniare una verità che non è una mera maschera del potere.
Che cosa riserva il futuro alla politica statunitense?
Se figure così diverse come Burke, Rousseau, Herder e Marx ci ricordano che la resistenza alla modernità liberale è praticamente coestensiva con la modernità a cui si oppone, allora la sfida della politica statunitense comincia a sembrare quasi insormontabile: come si farà a trasformare la diffusa insoddisfazione e l’alienazione dalla società contemporanea in un programma positivo e proattivo per una riforma sostenibile e un cambiamento significativo? Alla luce di questa sfida, Yuval Levin lancia un avvertimento ai repubblicani: «Non confondete la vittoria elettorale con un mandato!». Egli afferma: «Questa è la trappola in cui tendono a cadere i nostri presidenti del XXI secolo. Vincono le elezioni perché i loro avversari erano impopolari e poi, immaginando che il pubblico abbia approvato il programma degli attivisti del loro partito, usano il potere della loro carica per rendersi impopolari. Ecco perché il pubblico si è spostato a sinistra su questioni chiave durante il primo mandato di Trump, e a destra durante quello di Biden. Gli elettori in queste elezioni hanno respinto gli eccessi e i fallimenti della sinistra molto più di quanto abbiano approvato la destra o qualsiasi altra cosa»[34].
Resta molto da scoprire sul futuro degli Stati Uniti. Ma di certo il mondo osserverà come si svilupperà.
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Riproduzione riservata
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[1]. Cfr Z. B. Wolf, «Trump’s win was real but not a landslide. Here’s where it ranks», in CNN Politics (edition.cnn.com/2024/11/09/politics/donald-trump-election-what-matters/index.html), 9 novembre 2024.
[2]. Cfr A. Chasen, «These are the battleground states that decided the 2024 election», in CBS News (cbsnews.com/news/battleground-…), 9 novembre 2024.
[3]. Cfr P. Bump – L. Bronner, «What the numbers actually say about the 2024 election», in The Washington Post (washingtonpost.com/politics/20…), 12 novembre 2024.
[4]. Cfr M. C. Bender, «Why Was There a Broad Drop-Off in Democratic Turnout in 2024?», in The New York Times (nytimes.com/2024/11/11/us/poli…), 11 novembre 2024.
[5]. Cfr D. Weigel, «Democratic turnout plummeted in 2024 – but only in safe states», in Semafor (semafor.com/article/11/15/2024…), 15 novembre 2024; S. Kornaki, «Steve Kornacki: The key voter shifts that led to Trump’s battleground state sweep», in NBC News (nbcnews.com/politics/2024-elec…), 17 novembre 2024.
[6]. Cfr Z. B. Wolf – C. Merrill – W. Mullery, «Anatomy of three Trump elections: How Americans shifted in 2024 vs. 2020 and 2016», in CNN Politics (edition.cnn.com/interactive/20…), 6 novembre 2024.
[7]. Cfr Cfr Byung-Chul Han, La crisi della narrazione, Torino, Einaudi, 2024.
[8]. Cfr B. McGill – A. DeBarros – C. Ostroff, «How Different Groups Voted in the 2024 Election», in The Wall Street Journal (wsj.com/politics/elections/ele…), 11 novembre 2024.
[9] . Cfr A. Bhattarai – J. Stein, «Americans deliver message to Democratic Party: The economy isn’t working», in The Washington Post (washingtonpost.com/business/20…, edition.cnn.com/2024/11/06/eco…), 9 novembre 2024.
[10]. Cfr M. Tomaski, «Why Does No One Understand the Real Reason Trump Won?», in The New Republic (newrepublic.com/post/188197/tr…), 8 novembre 2024.
[11]. Cfr R. J. Epstein, «Pelosi Laments Biden’s Late Exit and the Lack of an “Open Primary”», in The New York Times (nytimes.com/2024/11/08/us/poli…), 8 novembre 2024.
[12]. Cfr A. M. Ollstein – M. Messerly, «Harris hoped to ride abortion to another post-Dobbs Democratic victory. It didn’t work», in Politico (politico.com/news/2024/11/06/a…), 6 novembre 2024.
[13]. C. C. Camosy, «Mixed Pro-Life News and Lessons from Election Night», in First Things (firstthings.com/web-exclusives…), 8 novembre 2024.
[14]. D. McCarthy, «The Trump Mandate», in The American Conservative (theamericanconservative.com/th…), 6 novembre 2024.
[15]. S. Bomboy, «Explaining Donald Trump’s 14th Amendment case at the Supreme Court», in National Constitution Center (constitutioncenter.org/blog/ex…), 5 febbraio 2024.
[16]. Cfr Supreme Court of the United States, no. 23-719, 4 marzo 2024 (supremecourt.gov/DocketPDF/23/…).
[17]. Cfr M. Barone, «Trump gains among nonwhite people: Historical precedents and possible harbinger», in Washington Examiner (washingtonexaminer.com/opinion…), 19 novembre 2024.
[18]. Cfr G. Skelley, «How Democrats won Senate seats in states that Trump carried», in ABC News (abcnews.go.com/538/democrats-w…), 11 novembre 2024.
[19]. Cfr U. Perano – A. Adragna – K. Tully-McManus, «GOP senators brush off concerns about Thune’s relationship with Trump», in Politico (politico.com/news/2024/11/13/t…), 13 novembre 2024.
[20]. Cfr S. Collinson, «Trump’s emerging team of loyalists is primed for a fast start in his second term», in CNN Politics (edition.cnn.com/2024/11/12/pol…, wsj.com/opinion/behind-trumps-…), 12 novembre 2024.
[21]. Cfr J. Sheerin, «The rise and fall of Matt Gaetz in eight wild days», in BBC News (bbc.com/news/articles/c99r2m4y…), 22 novembre 2024.
[22]. Cfr T. Luhby – K. Lobosco, «Here’s what Harris and Trump are proposing for the economy», in CNN News 2024 (edition.cnn.com/2024/10/27/pol…), 28 ottobre 2024.
[23]. Cfr C. Johnson, «Trump win opens door to major shift in US immigration policies», in Roll Call (rollcall.com/2024/11/06/trump-…), 6 novembre 2024.
[24]. Cfr P. Dans – S. Groves(edd.), Mandate for Leadership. The Conservative Promise, Washington, The Heritage Foundation, 2023 (static.project2025.org/2025_Ma…).
[25]. Cfr President Trump, Foreign Policy (trumpwhitehouse.archives.gov/i…).
[26]. Cfr K. Orren – S. Skowronek, The Policy State: An American Predicament, Cambridge, MA, Harvard University Press, 2017.
[27]. Cfr Election Day in America. Election 2024: Exit Polls (edition.cnn.com/election/2024/…).
[28]. Cfr S. P. White, «Has Trump Made the Catholic Vote Matter Again?», in National Review (nationalreview.com/2024/11/has…), 20 novembre 2024.
[29]. Cfr J. Lavenburg, «On presidential election result, American bishops emphasize longtime pastoral priorities», in Crux (cruxnow.com/church-in-the-usa/…), 13 novembre 2024.
[30]. M. Lisiecki – G. Apruzzese, «Proposed 2024 Mass Deportation Program Would Socially and Economically Devastate American Families» (cmsny.org/publications/2024-ma…).
[31]. Cfr J. Lavenburg, «On presidential election result…», cit.
[32]. Cfr J. Flynn, «The USCCB’s JD problem», in The Pillar (pillarcatholic.com/p/the-usccb…), 8 novembre 2024.
[33]. Cfr J. Liedl, «How Trump’s Win Could Impact the US Bishops’ Agenda», in National Catholic Register (ncregister.com/news/trump-s-20…), 7 novembre 2024.
[34]. Cfr Y. Levin, «What Trump’s Win Doesn’t Mean», in The Dispatch (thedispatch.com/article/what-t…), 11 novembre 2024.
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L’Egitto e i Fratelli Musulmani
Tra l’Egitto e il movimento fondamentalista dei Fratelli Musulmani esiste un rapporto molto stretto, per almeno due ragioni: il movimento è nato subito dopo la Prima guerra mondiale sulle rive del Nilo, per poi espandersi in tutto il Medio Oriente; inoltre, la storia moderna dell’Egitto è stata interamente attraversata, fino ai nostri giorni, dal confronto con la Fratellanza.
Il generale Abdel-Fattah al-Sisi, al governo del Paese già dal 2013, in seguito a un’insurrezione popolare, al tempo capeggiata dalle forze laiche ostili al governo islamista della Fratellanza, era riuscito a deporre l’esecutivo in carica dalla guida del Paese e aveva subito iniziato una dura repressione nei confronti dei Fratelli Musulmani: molti capi furono incarcerati, altri lasciarono il Paese.
Nell’ottobre del 2021, il regime egiziano ha rimosso lo stato di emergenza istituito contro gli islamisti dopo il colpo di Stato del 2013, ma le principali misure repressive – limitazione del diritto di associazione, compressione di molte libertà civili – sono rimaste in vigore. Nel luglio 2022 le forze di opposizione hanno accolto con freddezza il lancio, da parte del governo in carica, di una proposta di dialogo nazionale tra le fazioni politiche. Questo avveniva in un momento in cui la crisi economica rischiava di far implodere il Paese e quando molti egiziani migravano verso l’Europa per sfuggire alla povertà: ad esempio, in Italia, in questi anni sono approdati più di 200.000 cittadini egiziani.
Negli ultimi tempi l’Egitto ha normalizzato le sue relazioni con numerosi Paesi e, in particolare, ha intensificato i rapporti con quelli geograficamente più vicini: i Paesi del Golfo, l’Arabia Saudita e il Qatar. Quest’ultimo, fino a poco tempo prima, era stato giustamente accusato dal Cairo di sponsorizzare e finanziare i Fratelli Musulmani e altre frange dell’islamismo radicale. Sono ripresi anche i rapporti con la Turchia, che erano diventati molto freddi a causa della vicinanza politico-ideologica di Erdoğan con la Fratellanza.
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Nel dicembre del 2023, il presidente al-Sisi ha vinto la sua terza competizione elettorale, con l’89,6% dei voti[1]. Aveva dovuto sfidare altri tre candidati, in realtà poco conosciuti e politicamente poco influenti[2]. L’affluenza alle urne è stata del 67% degli aventi diritto, decisamente più alta che nel passato. Molti tra gli osservatori e gli oppositori politici hanno parlato di «elezioni truccate» e di «elezioni farsa»[3]. Nei mesi successivi, soprattutto dopo l’inizio della guerra tra Israele e Hamas e l’invasione israeliana di Gaza, la crisi economica è peggiorata: l’inflazione ha superato il 40%, aggravata, inoltre, dalla parziale chiusura del Canale di Suez in seguito agli attacchi degli Houthi alle navi commerciali, e dal crollo del turismo, che rappresenta il 5% del Pil nazionale. Le decisioni di al-Sisi in materia economica non hanno fatto migliorare la situazione: egli si è rifiutato di ridurre l’impero economico dell’esercito, che «spiazza» il settore privato, e di bloccare la spesa statale per megaprogetti faraonici – come quello di costruire una nuova capitale per l’Egitto – e per l’acquisto di armi[4].
Negli ultimi tempi, con la guerra di Gaza, che ha provocato l’ammassarsi di centinaia di migliaia di profughi al confine egiziano[5], l’Egitto è divenuto un attore centrale in ordine alla risoluzione della crisi. Al Cairo, nel febbraio 2024, si sono tenuti importanti incontri tra i dirigenti della Cia e del Mossad, nei quali, con la mediazione dell’Egitto e del Qatar, si è discussa la possibilità di una tregua temporanea sulla Striscia di Gaza. A causa dell’indisponibilità degli attori principali (Hamas e Israele) a raggiungere un accordo, il negoziato si è arenato. Le parti hanno poi continuato a vedersi e a trattare a Parigi, a Doha e altrove, anche se spesso i risultati che sembravano raggiunti – cioè, un possibile cessate il fuoco fra le parti e il rilascio degli ostaggi – venivano smentiti dalla controparte. Il Qatar, che precedentemente si era ritirato nelle trattative tra Israele e Hamas e aveva invitato gli attivisti di questa organizzazione, che ha protetto per anni, a lasciare il Paese, l’8 dicembre ha ritrattato tale decisione[6].
Alcuni mesi fa sono aumentate le tensioni tra Israele e l’Egitto. Quest’ultimo, infatti, era preoccupato che centinaia di migliaia di profughi palestinesi potessero riversarsi nel proprio territorio. Finora il Cairo, nonostante le pressioni internazionali, ha preso la ferma decisione di tenere chiusi i confini, eccetto per gli aiuti umanitari concordati. Per evitare un attacco israeliano a Rafah, il governo egiziano ha anche minacciato di sospendere il trattato tra Egitto e Israele del 1979 – che costituisce la maggiore garanzia di stabilità della regione –, nel caso ci sia un illegale attraversamento di confini da parte dei palestinesi in fuga[7]. Il che, in realtà, «farebbe il gioco di Israele, che sarebbe così libero di ripopolare la Striscia»[8], come in più occasioni hanno dichiarato alcuni esponenti della destra governativa.
L’Egitto, dal canto suo, si è adoperato per rafforzare la frontiera con la Striscia di Gaza, costruendo anche un muro di cemento armato, nonché inviando truppe. Inoltre, ha creato nel deserto una zona cuscinetto per evitare di essere invaso dai profughi palestinesi. Alcuni palestinesi, però, riescono ad abbandonare la Striscia servendosi di visti turistici rilasciati da agenzie di viaggio egiziane[9].
Il Cairo teme che i rifugiati palestinesi si uniscano ai ribelli islamisti locali, e in particolare alle cellule ancora in vita dei Fratelli Musulmani, facendo così precipitare il Paese nel caos. Non dimentica, infatti, che il movimento di Hamas è una costola della Fratellanza, e che ogni occasione è buona per ricompattarlo. Pertanto i Fratelli Musulmani, a 10 anni di distanza, continuano a rappresentare per l’Egitto di al-Sisi un problema aperto, una ferita che non si riesce a rimarginare.
Il 17 marzo 2024 la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha firmato in Egitto, insieme ai capi di governo dell’Italia, della Grecia e dell’Austria, un partenariato strategico che prevede aiuti all’Egitto di 7,4 miliardi di euro, di cui 200 milioni per la gestione delle migrazioni[10]. Gli europei sono preoccupati per l’aumento dell’immigrazione irregolare provocata dalla guerra di Gaza, nonché per gli attacchi degli Houthi alle navi mercantili occidentali che attraversano il Mar Rosso. Questo accordo, sottoscritto al Cairo, è simile a quelli già firmati dall’Ue con altri leader – ad esempio, quelli del Niger –, allo scopo di frenare o limitare le migrazioni in Europa.
Tali patti possono essere comprensibili, dato lo stato di necessità; il problema, però, è se siano utili. Di solito di questi generosi stanziamenti beneficiano le éliteal potere, che così si rafforzano, e non la popolazione, spesso indigente. In ogni caso, i confini dell’Egitto sono e resteranno aperti, e i migranti potranno entrare e uscire liberamente, per cui, secondo alcuni osservatori, «milioni di euro sono stati gettati nella sabbia»[11].
Infine, alcuni critici del regime di al-Sisi da qualche anno denunciano la mania di grandezza dell’ex «maresciallo». Il suo antico progetto era di fare dell’Egitto un Paese all’avanguardia, aperto alla modernità e alle innovazioni tecnologiche, sul modello delle monarchie del Golfo. Per questo egli ha fatto costruire un nuovo Canale di Suez, parallelo al precedente, e una dozzina di nuove città. Inoltre, alla periferia del Cairo si sta lavorando alla costruzione di una nuova capitale, che verrebbe a costare 58 miliardi di dollari, e dell’edificio più alto dell’Africa. Con questi interventi costosi al-Sisi ha portato l’economia egiziana quasi al collasso: il debito assorbe oltre la metà del bilancio dello Stato, e l’inflazione alimentare è del 60%[12].
Certo, i progetti di modernizzazione in diversi settori – infrastrutture, informatica ecc. – hanno recato notevoli vantaggi al Paese. Anche alcune riforme in ambito giuridico, come quelle sull’abolizione delle norme che limitavano le riparazioni delle chiese cristiane (soprattutto copte) e quelle sull’emancipazione delle donne, sia nel diritto ereditario sia nel costume, sono certamente da apprezzare. I costi di tale «modernizzazione accelerata» stanno creando però difficoltà non solo di ordine economico, ma anche di ordine politico, e in alcune regioni dell’Egitto molti attivisti islamici rimpiangono i tempi in cui la Fratellanza faceva da argine a simili innovazioni. Inoltre, alcuni contestano lo spirito totalitario del regime e le ambizioni del suo capo. Pare che nelle prigioni egiziane siano ancora detenuti molti oppositori politici. Secondo alcuni osservatori, l’impopolarità di al-Sisi sta crescendo, e questo non depone bene per il futuro di un grande Paese che oggi ha più di 106 milioni di abitanti[13] e che non ha dimenticato l’esperienza, sia pure fallimentare, dei Fratelli Musulmani.
Nascita dei Fratelli Musulmani
La nascita dei Fratelli Musulmani avvenne verso la fine degli anni Venti del secolo scorso, quando l’Egitto iniziava ad affacciarsi alla modernità, secolarizzando le sue istituzioni e sperimentando un nuovo modo di vita e nuove forme di attività politica. Nel 1922, la Gran Bretagna, che da tempo dominava il Paese, concesse unilateralmente l’indipendenza e portò sul trono una sua creatura, il re Fu’ad. Negli anni successivi si tennero elezioni politiche con partiti formati secondo modelli occidentali. In quel periodo l’islam, che fino ad allora era stato al centro della società egiziana, fu estromesso dalla vita pubblica e dalla politica.
L’ascesa dei Fratelli Musulmani avvenne in tale contesto storico, segnato dalla crisi della cultura islamica e della sua spiritualità, e da qui prese lo slancio necessario per riconquistare la società egiziana, indirizzandola verso la «retta via». Il primo nucleo dei Fratelli fu fondato nel 1928 a Ismailia, nei pressi del Canale di Suez, dal maestro di scuola elementare Hasan al-Banna, affiliato a una confraternita mistica del luogo[14]. Il suo programma si basava su due idee centrali: lotta contro i dominatori stranieri corruttori della società egiziana e della sua antica cultura e, soprattutto, ritorno all’islam delle origini, denunciando le nuove eresie messe in circolazione dagli azharisti e dagli imam secolarizzati, assoldati dalla monarchia al potere.
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE
Da parecchio tempo, le cronache italiane sono colme di delitti perpetrati contro le donne. Il fenomeno riguarda tutte le età e condizioni sociali, tanto da sembrare endemico nella nostra società. A questo tema è dedicato un episodio monografico di Ipertesti Focus, il podcast de «La Civiltà Cattolica».
Secondo al-Banna, la ricostituzione della comunità dei fedeli, la Umma, doveva basarsi su una reale riforma della coscienza religiosa dei singoli credenti. Rieducare sé stessi, secondo il Corano, è fare il primo passo verso la creazione della società islamica. Il credente, compiuta la cosiddetta «riforma di sé», deve poi trasmettere questi valori alla sua famiglia, e infine impegnarsi perché l’intera società venga plasmata dall’autentica fede islamica[15]. Per questo i Fratelli Musulmani, a differenza di altri movimenti di rinnovamento spirituale sorti in quel periodo, attribuivano un’importanza decisiva all’insegnamento. Ciò rappresentò l’anello di congiunzione tra la riscoperta dei valori islamici tradizionali e l’innovativa propensione alla prassi, che caratterizzerà tutta l’attività della Fratellanza.
Il movimento «neoconservatore» dei Fratelli Musulmani ebbe una rapida espansione all’interno della società egiziana e si strutturò come un’organizzazione efficiente e molto attiva nel territorio. Subito dopo la Seconda guerra mondiale, contava già circa 1.500 «filiali», alle quali facevano capo più di 500.000 aderenti, fino a raggiungere nei decenni successivi il numero di un milione. Secondo al-Banna, la reislamizzazione dell’Egitto e del mondo arabo, che era il compito primario del movimento, non doveva essere frutto di un’imposizione dall’alto, ma di una crescita e di una presa di coscienza dal basso; in tal modo veniva rifiutato il ricorso alla violenza come strumento di penetrazione religiosa o di lotta ideologico-politica. La Fratellanza, soprattutto negli anni del dopoguerra, si espanse oltre i confini dell’Egitto: nuove filiali vennero infatti aperte nei Paesi del Vicino Oriente e dell’Africa, in particolare in Siria, Giordania, Tunisia, Marocco, Sudan ecc. Attraverso il moderno fenomeno dell’immigrazione araba in varie parti del mondo, i Fratelli Musulmani oggi sono presenti in molti Paesi occidentali, come gli Stati Uniti, la Francia, la Germania, e anche l’Italia[16].
L’immediato successo dei Fratelli Musulmani fu favorito, da un lato, dalla loro rigida ed efficiente organizzazione gerarchica e, dall’altro, dal loro radicamento sociale sia nelle classi povere sia nella media borghesia. La Fratellanza fu il primo movimento islamico in Egitto a combattere per l’alfabetizzazione, persino con programmi concordati con l’autorità pubblica. Significativa è stata la sua attività nella realizzazione di opere di assistenza sanitaria, come dispensari e ospedali, nonché nell’istituire borse di studio a favore di studenti non abbienti.
Negli anni successivi, la persecuzione e, in diverse occasioni, la soppressione del movimento islamista – accusato di favorire il fanatismo religioso e di complottare contro lo Stato – per motivi di ordine politico da parte dei nuovi rais dell’Egitto, sia socialisti (Nasser, 1956-1970) sia modernizzatori (Mubarak, 1981-2011), non hanno certamente favorito la pacificazione della nazione. Soltanto il presidente Sadat (1970-1981), anche per motivi di propaganda politica, liberò dal carcere migliaia di Fratelli Musulmani, i quali ricostituirono il movimento. Così esso ridivenne uno dei maggiori protagonisti della vita politica egiziana, anche se non approvò le ultime scelte politiche di Sadat, in particolare il trattato di pace con Israele.
Ascesa e declino della Fratellanza
A partire dal 2000 il Movimento, che era rappresentato in Parlamento da 17 membri, si rese protagonista, insieme ad altri partiti, di diverse iniziative volte a chiedere al regime di Mubarak più democrazia nella gestione dello Stato e l’adozione di un sistema di riforme sociali e morali capaci di ridurre le sacche di povertà esistenti nel Paese e di rimettere in moto la società egiziana, paralizzata dalla corruzione e dall’immobilismo economico e politico. Questo atteggiamento legalista si inquadra bene nella storia della Fratellanza e anche nella migliore tradizione islamica, attenta agli aspetti sociali e comunitari e alle questioni di carattere giuridico. Ciò ha permesso alla Fratellanza di avvicinarsi a un più laico trend di opposizione al regime, che dai primi anni del nuovo secolo ha rivendicato maggiore democratizzazione nel Paese e maggiore rispetto dei diritti umani, secondo lo spirito delle carte internazionali sui diritti dell’uomo.
Le rivolte che hanno infiammato il mondo arabo nella primavera del 2011 costituiscono uno degli eventi storici più importanti degli ultimi tempi. Esse coinvolsero, dal punto di vista politico, economico e diplomatico, non soltanto l’area direttamente interessata, ma l’intero sistema geopolitico internazionale. Il cosiddetto «Partito per la libertà e la giustizia», capeggiato da Mohamed Morsi, assunse la guida del Paese. L’accentramento del potere nelle mani delle nuove élite politico-religiose e la crisi economica molto forte, che scontentava i ceti popolari, spinsero nel 2013 gli egiziani – in particolare i partiti laici – a tornare in piazza, inducendo l’esercito a intervenire contro il governo in carica[17].
Precedentemente, in Egitto tali insurrezioni, che avevano come punto di aggregazione Piazza Tahrir al Cairo, dopo giorni di lotta erano riuscite a «detronizzare» Mubarak e a indurlo ad andare in esilio. I Fratelli Musulmani che, come è stato sottolineato da molti osservatori politici, non sono stati all’origine del movimento insurrezionale di piazza, ne hanno presto assunto la guida politica attraverso l’attivista Morsi, il quale aveva promesso nuove elezioni politiche democratiche e una nuova Costituzione. A prescindere dalle idealità e dagli scopi che il movimento della Fratellanza si proponeva, è indubbio che il nuovo governo Morsi, che nel giugno 2012 fu votato dal 51% degli elettori, ha avuto un ruolo molto importante nel processo di democratizzazione e modernizzazione del Paese.
La reazione delle monarchie del Golfo – ad eccezione del Qatar – all’ascesa della Fratellanza al potere in Egitto fu sin dall’inizio di aperta ostilità. Ciò portò all’immediata decisione di Riyad di fornire un sostegno finanziario e politico al generale al-Sisi, ministro della Difesa sotto il governo Morsi. Questi nel 2013 organizzò un colpo di Stato, riportando al potere in Egitto i militari e lanciando una durissima campagna di repressione contro i Fratelli Musulmani.
Di fatto la Fratellanza costituisce ancora, dopo tanti anni, un problema politico per al-Sisi. La repressione da lui posta in essere non è sufficiente per cancellare la forza delle idee, soprattutto quando esse hanno una forte matrice religiosa. La sua preoccupazione di un eventuale legame tra le frange ancora in vita della Fratellanza egiziana e i militanti di Hamas in fuga dalla Striscia non è del tutto infondata, perché esso potrebbe nel tempo incendiare il fragile assetto politico dell’Egitto e dell’intera regione.
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[1]. Cfr «Al Sisi wins another stage-managed election in Egypt», in The Economist, 18 dicembre 2023.
[2]. Secondo molti egiziani, non esisterebbe oggi in Egitto una vera alternativa politica ad al-Sisi. Molti lo hanno votato per evitare il caos politico: cfr «Egyptians are disgruntled president al Sisi», in The Economist, 15 gennaio 2023.
[3]. Cfr «Al Sisi wins another stage-managed election in Egypt», cit.
[4]. Cfr ivi.
[5]. Cfr N. Doukhi, «Senza via di fuga», in Internazionale, 16 febbraio 2024, 18.
[6]. Cfr «Quitting Qatar is the least of Hamas’s problems», in The Economist, 14 novembre 2024.
[7]. Cfr «I timori del Cairo», in Internazionale, 16 febbraio 2024, 19.
[8]. S. al Ajrami, «L’Egitto è la nostra speranza per arrivare a un accordo di pace o per fuggire in Europa», in Corriere della Sera, 22 febbraio 2024.
[9]. Cfr ivi.
[10]. Cfr «Tutto al faraone», in Internazionale, 22 marzo 2024, 28.
[11]. B. Dorries, «Accordo insensato con l’Egitto», in Internazionale, 22 marzo 2024, 17.
[12]. Cfr «Egyptians are disgruntled with President al-Sisi», in The Economist, 15 giugno 2023.
[13]. Cfr ivi.
[14]. Sulla nascita e sullo sviluppo dei Fratelli Musulmani, cfr R. P. Mitchell, The Society of the Muslim Brothers, London, Oxford University Press, 1969; O. Carré – G. Michaud, Les Frères Musulman (1928-1982),Paris, Gallimard, 1983; M. Campanini, Storia dell’Egitto contemporaneo. Dalla rinascita ottocentesca a Mubarak, Roma, Edizioni Lavoro, 2005.
[15]. Sul pensiero religioso e politico di al-Banna, cfr M. Campanini, L’alternativa islamica. Aperture e chiusure del radicalismo, Milano, Mondadori, 2012, 94 s.
[16]. Cfr B. Lia, The Society of the Muslim Brothers in Egypt: The Rise of an Islamic Mass Movement, 1928-1942, Reading, Ithaca, 1998, 282.
[17]. Cfr M. Campanini – S. M. Torelli, Lo scisma della mezzaluna, Milano, Mondadori, 2017, 122.
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La bellezza nella Bibbia
La bellezza è tale in riferimento al suo Autore.
La Bibbia presenta, in modo ancora più rilevante del pensiero greco, la «circolarità della bellezza»: questa non è mai lodata come proprietà isolata, ma sempre in relazione ad altro[1]. Si può denominare «bella» una creatura solo perché partecipa della Bellezza e della Sapienza di Dio, di cui costituisce un riflesso vivente. Questa molteplice sfaccettatura del bello si mostra già a livello semantico.
La parola ebraica tôb indica sia la bellezza sia la bontà, la verità, l’efficacia, insieme a un’infinità di altri termini a essa collegati: «piacevole, allietante, soddisfacente, gradevole, favorevole, pratico, idoneo, retto, utile, abbondante, bello proporzionato, profumato, benevolo, clemente, lieto, onesto, valoroso, vero ecc.»[2]. Questo termine ricorre ben 741 volte nella Bibbia ebraica; nella versione greca dei LXX viene reso con tre differenti termini: agathos (buono), kalos (bello), chrēstos (utile). La parola kalos, utilizzata più di 100 volte nel Nuovo Testamento, e la parola agathos compaiono sostanzialmente come sinonimi[3].
La Bibbia, pur non entrando esplicitamente nel merito di una trattazione di tipo metafisico, riconosce il profondo legame con le proprietà trascendentali dell’essere: la bellezza viene naturalmente posta in relazione alla dimensione morale, cognitiva e decisionale della vita, mostrando per attrazione la via della sapienza. Da qui il suo carattere «simbolico»; essa parla del suo Artefice in modo silenzioso, ma eloquente, mediante il suo stesso essere: «La creazione, come le parole di un libro, rimanda per l’ordine e l’armonia al suo creatore e Signore»[4].
Questa simbolicità è espressa anche dalla ghematria, quella caratteristica peculiare del pensiero biblico che vede nei numeri il simbolo di una realtà fondamentale dell’universo. E non a caso il termine tôb ritorna 7 volte nel primo racconto della creazione, a simboleggiare la sua totalità piena e compiuta (cfr Gen 1,4.10.12.18.21.25.31). È un vero e proprio ritornello, che scandisce e commenta la perfezione del progetto di Dio; ogni cosa, appena esce dalle sue mani, è perciò stesso bella: «La bellezza/bontà di ciò che è stato creato non è qualcosa di aggiunto dopo la sua creazione, ma appartiene allo statuto della creazione»[5].
Tôb è dunque radicato nell’essere stesso delle cose. La bellezza, pur legata al piacere e alla gioia di chi la contempla, non è qualcosa di soggettivo, dipendente dal gusto e dalle preferenze del singolo, non nasce dalla valutazione di chi riesce a coglierla, ma si presenta come una proprietà intrinseca alle cose, espressione del loro anelare a Dio: «In rapporto alle otto opere di Dio la parola [tôb] ricorre sette volte: secondo la tradizione rabbinica non è detta dell’opera del secondo giorno perché in essa Dio compie la separazione delle acque dalle acque, della terra dal cielo, che sembra contraddire alla bellezza come unità e corrispondenza. Ciò significa che il creato è bello perché è domanda, desiderio del cielo»[6].
Un altro elemento strettamente connesso alla bellezza è lo «stupore», l’atteggiamento esattamente antitetico all’abitudine, all’indifferenza, alla superficialità di chi dà tutto per scontato. Non c’è limite alle meraviglie riscontrate nella creazione, sia nel loro numero sia nella loro perfezione: «L’una [cosa] conferma i pregi dell’altra: chi si sazierà di contemplare la sua gloria?» (Sir 42,25).
Lo stupore di fronte alla bellezza e alla perfezione del creato è, per lo scrittore biblico, la firma più autentica del suo Autore, che, come un artista, ha predisposto tutto secondo ordine e misura: «Neppure ai santi del Signore è dato di narrare tutte le sue meraviglie, che il Signore, l’Onnipotente, ha stabilito perché l’universo stesse saldo nella sua gloria […]. Ha disposto con ordine le meraviglie della sua sapienza, egli solo è da sempre e per sempre: nulla gli è aggiunto e nulla gli è tolto, non ha bisogno di alcun consigliere. Quanto sono amabili tutte le sue opere! E appena una scintilla se ne può osservare» (Sir 42,17.21-22; cfr Sap 11,20).
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Non manca tuttavia il rilievo critico circa l’ambiguità della bellezza, soprattutto qualora essa venga separata dalla verità e dalla bontà. In tal caso, essa diventa motivo di rovina, smarrendo il suo significato. La bellezza è una via a Dio, ma può anche irretire, sviare, impedendo all’uomo di cogliere il rimando al suo Autore, portandolo a idolatrare le creature. La loro bellezza è simbolo del magis,del «tanto più» del loro Artefice in termini di arte, genialità e generosità: in questa simbolicità consiste la sua verità e bontà. L’autore biblico, pur denunciando la gravità di questo sviamento, sembra tuttavia comprendere e quasi giustificare coloro che vi sono incorsi, perché catturati dallo splendore di ciò che contemplano: «Se, affascinati dalla loro bellezza, li hanno presi per dèi, pensino quanto è superiore il loro sovrano, perché li ha creati colui che è principio e autore della bellezza» (Sap 13,3). La perfezione e l’armonia della natura sono la prima manifestazione della bellezza, perché portano impresso il riferimento a Dio, sono il sigillo e il marchio di qualità del suo Autore. Lo stupore di fronte alla bellezza delle cose si traduce così nel ringraziamento e nella lode.
Tutto ciò rimanda a un altro tema, strettamente collegato alla bellezza; la liturgia e le opere d’arte che la esprimono modellano lo spazio sacro in cui tutte le creature, di cui l’uomo si fa portavoce, si relazionano a Dio, che le vuole partecipi del suo disegno di salvezza: «Nella “creazione artistica” l’uomo si rivela più che mai “immagine di Dio”, e realizza questo compito prima di tutto plasmando la stupenda “materia” della propria umanità e poi anche esercitando un dominio creativo sull’universo che lo circonda. L’Artista divino, con amorevole condiscendenza, trasmette una scintilla della sua trascendente sapienza all’artista umano, chiamandolo a condividere la sua potenza creatrice»[7].
La presenza del male
Il mistero della sofferenza e del male non cancella la bellezza della creazione. Nella splendida sezione finale del libro di Giobbe (cfr Gb 38–39), 16 grandi strofe mostrano il progetto del disegno di Dio, che rimane incomprensibile all’uomo: la corsa del sole, le profondità dell’abisso, i serbatoi della neve, i confini del mare, i mostri acquatici, la misteriosa capacità dell’ibis di conoscere i ritmi del tempo… Davanti a Giobbe scorrono dunque, come un filmato, a velocità vertiginosa, l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, di fronte ai quali egli deve riconoscere la propria incompetenza a giudicare. La complessità misteriosa della sapienza, che si mostra nel numero incalcolabile delle sue creature, dice anche all’uomo che non può essere giudice di esse: la dimensione dell’«oltre», mostrata e allusa dalla complessità del creato, rivela un «tanto più» che supera ogni intelligenza e comprensione. Perché di questa Sapienza l’uomo non è la misura.
Nel Nuovo Testamento, Gesù è riconosciuto come colui che «ha fatto bene [kalos] ogni cosa» (Mc 7,37), e i suoi gesti sono in perfetta armonia con le sue parole. La predicazione di Gesù invita a contemplare nella meravigliosa varietà delle creature la presenza di Dio e insieme il mistero profondo del suo Regno. La bellezza della natura diviene il punto di arrivo del riconoscimento intelligente – intelligente, perché umile, consapevole dei propri limiti –, che sa stupirsi di come sono le cose. Questa paradossalità viene spesso mostrata dalle parabole: il seme che dà frutto solo morendo, producendo fino a cento volte tanto, il piccolo granello di senapa che diventa un immenso albero, il tesoro nel campo, la perla di grande valore…
Gesù stesso si presenta come un pastore «bello» (cfr Gv 10,11.14), e questo non a motivo dei suoi tratti fisici, ma perché è «buono», è disposto a dare la vita per le sue pecore (letteralmente: a «rischiare la pelle» per esse, un atto che indica un confronto continuo con la morte). «Morire» può essere il gesto di un momento, magari neppure veramente preso in considerazione. Il pastore bello è tale perché, per amore dei suoi, affronta continuamente la morte e il pericolo. La bellezza si rivela come il sigillo di un amore fedele, tenero, che non conosce smentita, fino a dare tutto sé stesso per chi si ama.
Una Bellezza crocifissa
Si è visto come la bellezza possa diventare preda della manipolazione, del narcisismo e della dissolutezza, portando alla rovina[8]. Per Dostoevskij, essa può essere preservata da questo pericolo mortale unicamente con la sofferenza e la bontà, le sole capaci di rivelarne l’autentico valore, salvando l’uomo dall’orgoglio[9]. Bontà e sofferenza, dunque, come espressione di una possibile bellezza salvifica: due realtà apparentemente antitetiche, che trovano il loro unico punto d’incontro nei due legni della croce.
Questo paradosso viene confermato anche in sede di celebrazione liturgica. Come fa notare Enzo Bianchi, è singolare che la festa della Trasfigurazione, luogo per eccellenza della manifestazione della bellezza, cada in una data storicamente «sinistra»: il 6 agosto (in cui ricorre una delle poche feste celebrate nello stesso giorno sia dall’Oriente sia dall’Occidente) è anche il giorno in cui venne sganciata la prima bomba atomica su Hiroshima, e frequentemente (a motivo del calendario lunare) esso viene fatto coincidere con la data della distruzione del Tempio, del primo (586 a. C.) come del secondo (70 d. C.): «L’autentica bellezza cristiana non evade dalla storia, ma la assume e vi apre orizzonti di senso, non rimuove il dolore e la sofferenza ma li condivide, non elimina il peccato ma perdona. La bellezza cristiana è profezia e compassione. E in questo è linguaggio universale. Linguaggio che non abbisogna di parole, ma di credenti che si facciano presenza»[10].
Questo aspetto sconcertante è forse ciò che maggiormente differenzia la Bibbia da altre proposte volte più a rassicurare o fornire risposte precise e dettagliate; questo libro sembra non aver timore di sconvolgere il lettore e lo invita a un dialogo sui luoghi in cui si trova a disagio: un dialogo che talvolta diventa scontro o smarrimento, ma in cui egli può ritrovare la verità di sé stesso.
È sempre l’episodio della Trasfigurazione a racchiudere in sé questi molteplici insegnamenti. In esso si manifesta un anticipo dello splendore della vita divina, che suscita la reazione stupita e affascinata di Pietro («Signore, è bello per noi essere qui!»). Eppure esso viene presentato subito dopo il primo annuncio della passione, morte e risurrezione di Gesù, in cui egli svela la sua vera identità e missione (cfr Mt 16,21; Mc 8,31; Lc 9,22). La manifestazione della bellezza suprema si mostra sia nello scandalo della croce sia nella gloria della luce pasquale: tra i due eventi vi è sempre una stretta continuità nei Vangeli. La bellezza divina risplende anche nella sua negazione, perché nulla è in grado di spegnerla.
La stessa esperienza della Trasfigurazione presenta entrambi questi aspetti: è insieme abbagliante e sconcertante. Riunisce i due tratti da sempre riconosciuti come propri della manifestazione del divino: il tremendum e il fascinosum[11]. I racconti evangelici precisano che negli apostoli vi era un misto di sentimenti, di stupore e meraviglia, ma anche di torpore, turbamento e paura di fronte a questa esperienza travolgente. Essi però vengono rassicurati dal Signore: «I discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: “Alzatevi, e non temete”» (Mt 17,6-7). Tutto ciò è anche ben rappresentato artisticamente dall’icona della Trasfigurazione di Novgorod di Teofane il Greco (XV secolo). In essa Mosè ed Elia si trovano su dei picchi di montagna, come in equilibrio precario e sofferto, mentre Pietro, Giacomo e Giovanni sono raffigurati riversi all’indietro: uno addirittura si copre il viso con le mani, come a dire che la luce del Tabor risulta troppo abbagliante per la loro comprensione e capacità.
Anche la tradizione ebraica non ha timore di affrontare ciò che sembra negare la bellezza: questo perché la sua più profonda verità scaturisce dal confronto con il paradossale e lo sconcerto. Si pensi alla mistica dello Zohar, del ritirarsi di Dio dal mondo (che potrebbe essere accostato al tema della «notte oscura» dei mistici cristiani). Questo ritrarsi è un aspetto del rimando a ciò che non può essere espresso, raffigurato. Esso è proprio della nostalgia evocata dalla bellezza, dal sogno, dall’utopia; è l’anelito a una pienezza di cui al presente si può intravedere solo un frammento. La bellezza rinuncia alla sua potenza e maestosità per farsi tenerezza, vicinanza alla fragilità e alla miseria del sofferente. È anche uno dei nomi di Dio evocati dalla Kabbalà: «Rachamim [misericordia] o Tif’ereth [bellezza], misericordia e bellezza in Dio sono sinonimi, perché il Dio d’Israele è essenzialmente un Dio di tenerezza e di pietà»[12].
La tradizione ebraica, non solo nei testi biblici, come i celebri Canti del Servo del Signore (Is 42,1-4; 49,1-6; 50,4-9; 52,13–53,12), aveva individuato nella spogliazione la principale caratteristica del Messia, perché egli dovrà assumere tutto dell’uomo, soprattutto la sua fragilità e bruttezza: «Nel Talmud babilonese si narra che un giorno Rabbi Yehoshua ben Levi incontrò il profeta Elia e gli chiese: “Quando verrà il Messia?”. Elia disse: “Vai a domandarglielo” “E dove si trova?”. “All’ingresso di Roma”. “E qual è il segno che lo contraddistingue?”. “Egli siede con i poveri, quanti soffrono di malattie, e tutti si bendano e si sbendano nello stesso tempo, egli si toglie e si rimette una benda per volta. Dice: ‘Forse dovrò andare e non devo ritardare’”. Anche Martin Buber ricorda una leggenda ebraica udita da bambino, nella quale “alle porte di Roma sta seduto un mendicante lebbroso e aspetta, è il Messia”»[13]. Un Messia dunque non appariscente, che non attrae per la sua presunta bellezza, ma che se ne sta piuttosto nascosto e in silenzio.
Leggendo queste descrizioni, non si può non pensare al processo intentato a Gesù: di fronte alle contestazioni che da più parti si riversano su di lui, egli tace (cfr Mt26,63; 27,14). Colui che la Scrittura chiama «il più bello tra i figli dell’uomo» (Sal 45,3), viene sfigurato dal dolore, dalla sofferenza, dal tradimento, al punto da perdere ogni sembianza umana, realizzando la profezia terribile e insieme letterariamente sublime e toccante del Quarto Canto del Servo del Signore: «Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato» (Is 53,2-4).
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE
Da parecchio tempo, le cronache italiane sono colme di delitti perpetrati contro le donne. Il fenomeno riguarda tutte le età e condizioni sociali, tanto da sembrare endemico nella nostra società. A questo tema è dedicato un episodio monografico di Ipertesti Focus, il podcast de «La Civiltà Cattolica».
Quella di Gesù è una bellezza che non ammalia, non seduce, ma scava nel profondo, attraversa i luoghi del dolore e della disperazione, per mostrare la limpidezza di una luce che nulla può cancellare o oscurare. Agostino, in una splendida omelia, presenta il mistero dell’Incarnazione accostando questi due elementi paradossali che si incontrano nei due bracci della croce: la bellezza e la spogliazione di Dio rivelatesi in Gesù Cristo. Egli è l’unico che può mantenerli uniti: «Due trombe suonano in modo diverso, ma uno stesso Spirito vi soffia dentro l’aria. La prima dice: Bello d’aspetto, più dei figli degli uomini; e la seconda, con Isaia, dice: Lo abbiamo visto: egli non aveva bellezza, non decoro. Le due trombe sono suonate da un identico Spirito: esse dunque non discordano nel suono. Non devi rinunciare a sentirle, ma cercare di capirle […]. Egli non aveva né bellezza né decoro, per dare a te bellezza e decoro. Quale bellezza? Quale decoro? L’amore della carità, affinché tu possa correre amando e possa amare correndo»[14].
La croce di Cristo manifesta nel modo più impressionante il paradosso della Bellezza divina, «segno di contraddizione» (Lc 2,34), «scandalo e stoltezza per i pagani» (1 Cor 1,23). Anche in sede estetica. Essa infatti infrange le categorie artistiche che vorrebbero elaborare una bellezza a misura d’uomo, come nella filosofia di Hegel. Anch’egli tuttavia, con genialità, si trova come costretto a riconoscere la bellezza inquietante del Cristo crocifisso, sebbene non riconducibile alle categorie razionali: «Non si può raffigurare nelle forme della bellezza greca Cristo flagellato, coronato di spine, trascinante la croce fin al luogo del supplizio, crocifisso, agonizzante nei tormenti di una lunga e martoriata agonia. Ma la superiorità di queste situazioni è data dalla santità in sé, dalla profondità dell’intimo, dall’infinità del dolore come momento eterno dello spirito, dalla rassegnazione e dalla calma divina. Attorno a questa figura sta la cerchia sia degli amici che dei nemici […]. Il non bello si presenta qui, a differenza che per la bellezza classica, come momento necessario»[15].
La dimensione «contestativa» della bellezza crocifissa
Il mistero-scandalo del Crocifisso, con le sue braccia aperte, vorrebbe attirare a sé tutti gli opposti. La bellezza divina non ammalia, né imprigiona, ma restituisce l’uomo alla sua libertà e capacità di riconoscere ciò che non sfiorisce, e continua a durare nel tempo; per questo lo stupore di fronte a questo evento paradossale può divenire accoglienza di una Sapienza più grande.
Anche la letteratura non ha mancato di rilevare questo rapporto tra bellezza, discrezione e paradosso a proposito del divino: solo una bellezza umile può essere salvifica. La celebre frase de L’idiota di Dostoevskij «Il mondo sarà salvato dalla bellezza» – ormai quasi uno slogan, puntualmente presente ogni volta che si affronta questo tema – nel romanzo non viene mai pronunciata direttamente. Letta nel suo contesto narrativo, non appare affatto come una sorta di sentenza solenne o dotto insegnamento a effetto, che consente di concludere una trattazione impegnativa. Essa risuona piuttosto come un’obiezione beffarda rivolta al protagonista, Myškin («l’idiota»), messa in bocca a un giovane, Ippolit, che esprime tutta la sua rabbia perché, non ancora ventenne, sta morendo di tisi. Con questa obiezione egli riassume la sua protesta nei confronti di un mondo e di un’esistenza pesantemente segnati dall’ingiustizia, dal dolore, dalla malattia e dalla morte: «“È vero, principe, che lei una volta ha detto che la bellezza salverà il mondo? State a sentire, signori”, esclamò con voce stentorea, rivolgendosi a tutti, “il principe sostiene che il mondo sarà salvato dalla bellezza! E io sostengo che questi pensieri gioiosi gli vengono in testa perché è innamorato. Signori, il principe è innamorato […] Ma quale bellezza salverà il mondo?”»[16]. Chi sostiene questo sarebbe dunque un illuso, un ingenuo sognatore, preda dei deliri sentimentali.
Myškin non risponde a questo interrogativo. Con umiltà e semplicità, egli rimane in silenzio, perché non esiste parola capace di sostenerne il peso. La bellezza non allontana da sé il dolore e la sofferenza, anzi mostra il suo lato più toccante facendosi carico di tutto questo, facendosi tenerezza amante. Il suo silenzio rimanda al silenzio di Cristo, «il solo essere assolutamente bello», di cui Myškin è la variante[17].
Pur presentata come obiezione, quella di Ippolit è anch’essa una ricerca della bellezza che salva. Perché la domanda non può essere la nostra ultima parola, una parola destinata a risuonare nel vuoto. Il card. Carlo Maria Martini, iniziando la sua splendida lettera pastorale sul tema della bellezza, si sofferma su questo silenzio, sul non detto che sgorga dal confronto e mostra un aspetto essenziale della bellezza: «Non basta deplorare e denunciare le brutture del nostro mondo. Non basta neppure, per la nostra epoca disincantata, parlare di giustizia, di doveri, di bene comune, di programmi pastorali, di esigenze evangeliche […]; bisogna irradiare la bellezza di ciò che è vero e giusto della vita, perché solo questa bellezza rapisce veramente i cuori e li rivolge a Dio […]. Sembrerebbe quasi che il silenzio di Myškin voglia dire che la bellezza che salva il mondo è l’amore che condivide il dolore»[18].
È il capovolgimento radicale, la manifestazione della pienezza di Dio sub contraria specie – per riprendere la celebre espressione di Lutero –, che trova nel Magnificat di Maria la sua celebrazione più riuscita (cfr Lc 1,46-55). È proprio dello stile di Dio rendere bello ciò che a prima vista sembrava esserne l’antitesi, perché egli sa valorizzare ciò che era perduto, e insieme contesta la presunzione dell’uomo di assolutizzare il dono ricevuto («Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote»: Lc 1,52-53).
Agostino contempla stupito il Cristo crocifisso, riconoscendovi il gesto supremo di un amore che non ha paura di consumarsi totalmente per l’amato, fino a morire per lui, manifestando in questo la sua autentica bellezza: «Bello è Dio, Verbo presso Dio […]. È bello in cielo, bello in terra; bello nel seno, bello nelle braccia dei genitori, bello nei miracoli, bello nei supplizi; bello nell’invitare alla vita, bello nel non curarsi della morte; bello nell’abbandonare la vita e bello nel riprenderla; bello nella croce, bello nel sepolcro, bello nel cielo. Ascoltate il cantico con intelligenza, e la debolezza della carne non distolga i vostri occhi dallo splendore della sua bellezza»[19].
L’incontro con il Crocifisso trasforma chi lo contempla, comunicandogli la sua bellezza e la sua vita; comunica soprattutto una fedeltà di fronte alle durezze della vita che nulla può spezzare. Di fronte alla Croce, si è invitati a un’ascesi, a una purificazione dello sguardo, della sensibilità, del modo di pensare. È il primo passo della conversione: «L’ascetica crea non l’uomo “buono”, ma l’uomo bello e il tratto distintivo dei santi non è affatto la “bontà”, che può essere presente anche in persone carnali e molto peccatrici, bensì la bellezza spirituale, la bellezza accecante della persona luminosa e luciferente, assolutamente inaccessibile all’uomo grossolano e carnale»[20].
Al di fuori di questo abbraccio, i due opposti continuano a procedere divisi, l’uno contro l’altro, insidiandosi e combattendosi a vicenda.
Una Bellezza pacificante
L’evento della Croce, paradossale e inaudito, non nega la bellezza. Anche il registro artistico lo ha rilevato. Nella cappella del Castello di Xavier, in Spagna, c’è un dipinto che ritrae un Crocifisso che sorride: il suo viso esprime una serenità composta e commovente, comunica quella mitezza e umiltà di cuore che il Signore nel Vangelo ha indicato come sua caratteristica peculiare (cfr Mt 11,29). È il messaggio supremo che il Cristo, nel momento di massima sofferenza e abiezione, consegna a tutti i circostanti: quello di avere un segreto che nessuno può togliergli; non glielo possono togliere la sofferenza, la solitudine, il disonore, l’angoscia, e neppure la morte. Quel sorriso esprime il segreto della sua intimità con il Padre, che vuole comunicarsi a tutti.
È significativo che il colloquio con il Crocifisso, pur raffigurando un uomo straziato dal dolore e dall’ingiustizia, sia stranamente pacificante, capace di trasmettere la vita da un luogo di supplizio e di morte. Per sant’Ignazio, le scelte più importanti, così come le loro eventuali conferme, vanno sempre fatte davanti al Crocifisso: «Se c’è una bellezza, nell’informe icona negativa del crocifisso, è proprio la rivelazione dell’infinita capacità che Dio possiede di assorbire in sé il negativo. Elevato in alto, il crocifisso attrae a sé ogni violenza: destinata ai suoi discepoli come ai suoi nemici»[21].
La parola della croce, nella sua crudezza, esprime la fedeltà di un amore che la morte e il dolore, pur innegabili, non possono cancellare. Essa parla di una prospettiva ulteriore che interpella, sfidando la tentazione nichilista.
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[1]. Cfr G. Cucci, «Le caratteristiche della bellezza», in Civ. Catt. 2024 IV 237-246.
[2]. Cfr H. J. Stoebe, «tôb, buono», in E. Jenni – C. Westermann (edd.), Dizionario Teologico dell’Antico Testamento, vol. 1, Torino, Marietti, 1978, 566.
[3]. Cfr G. Ravasi, «Bellezza», in R. Penna – G. Perego – G. Ravasi (edd.), Temi teologici della Bibbia, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2010, 128.
[4]. Atanasio di Alessandria, s., Oratio contra Gentes, 3, in PG 25, 69.
[5]. C. Westermann, Genesis 1-11, Minneapolis, Augsburg Publishing House, 1987, 166.
[6]. G. Ravasi, «Bellezza», cit., 17 s. La parola de–siderio significa letteralmente «mancanza della stella».
[7]. Giovanni Paolo II, s., Lettera agli artisti, 4 aprile 1999, n. 1.
[8] . Cfr G. Cucci, «Le caratteristiche della bellezza», cit.
[9] . Cfr A. Giannatiempo Quinzio, «Quale bellezza salverà il mondo?», in N. Valentini (ed.), Cristianesimo e bellezza. Tra Oriente e Occidente, Milano, Paoline, 2002, 86.
[10]. E. Bianchi, «Editoriale», in Parola Spirito e Vita, n. 44, 2001, 7.
[11]. Cfr R. Otto, Il sacro, Milano, Feltrinelli, 1966, 22-42.
[12]. A. Giannatiempo Quinzio, «Quale bellezza salverà il mondo?», cit., 90.
[13]. Ivi, 92 s. La citazione del Talmud babilonese è tratta da Sanhedrin, 98a; quella di Buber da M. Buber, Sette discorsi sull’ebraismo, Roma, Carucci, 1986, 16.
[14]. Agostino d’Ippona, s., In Epistolam Ioannis, 9,9; cfr Id., De bono viduitatis, 19,24.
[15]. G. W. F. Hegel, Estetica, Torino, Einaudi, 1967, 604. Cfr quanto scrive anche Elias Canetti di fronte alla Crocifissione di Grünewald: «Guardavo il corpo di Cristo senza lacrimevole smarrimento, lo stato orripilante di quel corpo mi sembrava vero, e davanti a quella verità compresi ciò che mi aveva turbato nelle altre crocifissioni: la bellezza, la trasfigurazione. La trasfigurazione si addice al concerto degli angeli, ma non alla croce»(E. Canetti, Il frutto del fuoco. Storia di una vita 1921-1931, Milano, Adelphi, 1982, 235).
[16]. F. Dostoevskij, L’idiota, in Id., Romanzi e taccuini, vol. II, Firenze, Sansoni, 1963, 470.
[17]. Cfr T. Todorov, La bellezza salverà il mondo. Wilde, Rilke, Cvetaeva, Milano, Garzanti, 2010, 244.
[18]. C. M. Martini, «Quale bellezza salverà il mondo?», in Id., La bellezza che salva. Discorsi sull’arte, Milano, Àncora, 2002, 104; 103.
[19]. Agostino d’Ippona, s., Enarrationes in Psalmos, 44, 3.
[20]. P. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, Milano, Rusconi, 1974, 140 s.
[21]. P. Sequeri, L’estro di Dio, Milano, Glossa, 2000, 6. Cfr Ignazio di Loyola, s., Esercizi spirituali, nn. 53-54:«Immaginando Cristo nostro Signore davanti a me e posto in croce, farò un colloquio: egli da Creatore è venuto a farsi uomo, e dalla vita eterna è venuto alla morte temporale, così da morire per i miei peccati. Farò altrettanto esaminando me stesso: che cosa ho fatto per Cristo, che cosa faccio per Cristo, che cosa devo fare per Cristo. Infine, vedendolo in quello stato e appeso alla croce, esprimerò quei sentimenti che mi si presenteranno. Il colloquio deve essere spontaneo, come quando un amico parla all’amico, o un servitore parla al suo padrone, ora chiedendo un favore, ora accusandosi di una colpa, ora manifestando un suo problema e chiedendo consiglio».
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Pensare la salvezza con Dostoevskij
«Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me,
che sono mite e umile di cuore,
e troverete ristoro per la vostra vita» (Mt 11,29).
Fëdor Michajlovič Dostoevskij (1821-81) è considerato uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi. Le sue opere tratteggiano il mistero insondabile dell’essere umano in bilico tra bene e male. Le grandi questioni etiche e religiose – come il libero arbitrio e l’esistenza di Dio – sono al centro dei suoi quattro «grandi» romanzi: Delitto e castigo (1866), L’idiota (1869), I demoni (1871) e I fratelli Karamazov (1880).
Il potere evocativo delle opere di Dostoevskij è straordinario: in forma narrativa, egli affronta le grandi domande teologiche dell’uomo. Il risultato è una prospettiva teologica sulla vita aperta a numerosi orizzonti di riflessione. Per questo le sue opere possono offrire lo spunto per alcune considerazioni su un concetto teologico fondamentale come quello di salvezza. Tema centrale per il cristianesimo, la salvezza non può essere definita dogmaticamente in tutta la sua complessità.
In queste pagine cercheremo dunque di tracciare alcune linee di riflessione su questo tema, a partire da alcune opere dello scrittore russo. In particolare, sono due le prospettive che affronteremo. In primo luogo, cercheremo di esplorare la dimensione salvifica della mitezza di Cristo, frutto di un suo sguardo misericordioso verso ogni uomo. Poi ci concentreremo su un aspetto più metanarrativo: possiamo parlare di un cammino di salvezza del lettore di Dostoevskij, di chi legge le sue pagine, in dialogo con la penna dello scrittore russo?
È un percorso in tre tappe: partiamo dalla figura di Gesù – così come emerge da alcuni testi di Dostoevskij –, per passare poi al protagonista de L’idiota, simbolo di Cristo, e infine alla relazione tra i due personaggi principali di Delitto e castigo: Sonja e Raskolnikov.
Il Cristo di Dostoevskij
Per comprendere il sentire religioso di Dostoevskij, è essenziale guardare al suo appassionato interesse per la figura di Cristo. A questo proposito, uno dei testi dello scrittore russo è altamente emblematico. In una commovente lettera scritta subito dopo la sua liberazione dalla Siberia, egli afferma: «Quante terribili sofferenze mi è costata e mi costa ora questa sete di fede, la quale è tanto più forte nell’anima mia, quanto più sogno gli argomenti contrari! E tuttavia Dio mi manda talvolta dei minuti nei quali io sono del tutto sereno; in questi minuti io amo e trovo di essere amato dagli altri, e in questi minuti io ho cercato in me stesso il simbolo della fede, nel quale tutto mi è caro e sacro. Questo simbolo è molto semplice, eccolo: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, di più simpatico, di più ragionevole, di più virile e perfetto di Cristo […]. E non basta; se mi si dimostrasse che Cristo è fuori della verità ed effettivamente risultasse che la verità è fuori di Cristo, io preferirei restare con Cristo anziché con la verità»[1].
Questa frase testimonia la fede di Dostoevskij in Gesù, visto come presenza reale in cui si irradia lo splendore dell’essere umano, una bellezza fonte di «pace assoluta». È una presenza che tocca la testa e il cuore e attrae verso un amore salvifico.
Prima di affrontare i personaggi – il principe Myškin e Sonja, due figure simbolo di Cristo –, possiamo osservare brevemente come Gesù stesso viene raffigurato ne La leggenda del Grande Inquisitore, il racconto di Ivan al fratello Alëša ne I fratelli Karamazov. Emerge un ritratto personale del Salvatore, in cui affiorano le caratteristiche essenziali dei personaggi cristologici di Myškin e Sonja.
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Nel racconto, Gesù torna sulla Terra, a Siviglia, al tempo della Santa Inquisizione e viene imprigionato come eretico. Un cardinale – il Grande Inquisitore del titolo – lo visita durante la notte e lo interroga sul valore della libertà per l’uomo. Con brillanti argomentazioni, il cardinale denuncia una mancanza di amore nel dono di tale terribile libertà: un dono che gli uomini, nella loro debolezza, non sono in grado di gestire. Il cardinale parla a lungo e in modo convincente. Nelle sue efficaci argomentazioni non mancano argute osservazioni, valide per l’uomo di ieri e per quello di oggi: meriterebbero uno studio a sé. Tuttavia, in queste pagine a noi interessa la risposta di Gesù. Egli rimane in silenzio per tutto il lungo discorso e ascolta con mitezza le formidabili parole del suo avversario; infine, sempre in silenzio, si alza e lo bacia dolcemente.
Come sottolinea Ivan nella conclusione del suo racconto, il bacio di Gesù brucia nel cuore dell’Inquisitore. È questo il possibile inizio di un percorso di salvezza in cui la libertà dell’uomo – al centro del monologo dell’Inquisitore – e la sua capacità di scegliere a partire da una determinata visione dell’umanità e del mondo vengono messe in gioco da un atto che, più forte di qualsiasi argomento, può stravolgere un’intera vita? La bellezza inquietante di questo gesto di Gesù non può non interpellare il lettore, facendo «ardere» il suo stesso cuore e portandolo a riflettere sull’eterna possibilità di strade alternative a ogni gesto di vendetta o di violenza. Anche nelle situazioni più disperate, un disarmante gesto d’amore può aprire possibilità di salvezza, spianare la strada per un cammino d’amore, di pace o di riconciliazione che a prima vista sembra impossibile.
Vedremo come simili gesti di dolcezza, interpretabili come un’incarnazione dell’invito evangelico ad amare i propri nemici, trovino nuova luce nelle azioni del principe Myškin e di Sonja. In fondo, possiamo vedervi, riscritto dalla penna avvincente di Dostoevskij, l’atteggiamento pacifico di Cristo durante la sua passione.
A partire da questa prospettiva, l’intera opera dello scrittore russo abbozza possibili risposte al mistero del male. Tristemente presente in questo mondo, esso fa risplendere la bellezza di Cristo e il suo invito a stare al suo fianco nella lotta intrapresa contro di lui. La risposta di Gesù, che, attraverso la sua apparente passività, mostra una forza di apertura all’altro colma di fiducia, ci rivela un cammino di radicale bellezza, di opposizione vittoriosa al male. E la salvezza, per il lettore stesso, può arrivare lasciandosi toccare dallo splendore di questa meraviglia, che brucia nel cuore e lascia senza parole, primo momento di un possibile cammino di conversione verso il Cristo della vita.
Il principe Myškin, «figura Christi»
Nell’universo spirituale-letterario di Dostoevskij, L’idiota è un romanzo che comprende tutti i grandi temi della sua opera. Al centro c’è il dilemma dell’esistenza, il campo di un gioco sfuggente tra bene e male, tra bellezza e orrore, in cui la persona del principe Myškin – l’«idiota» del titolo – è un raggio di luce sconvolgente e affascinante. Tornato a San Pietroburgo da un sanatorio svizzero, il mite e compassionevole principe Myškin si trova coinvolto in un triangolo amoroso tra due donne agli antipodi: Aglaja, giovane aristocratica, e Nastasja, simbolo della donna perduta. Quest’ultima è stata la concubina dell’aristocratico Totskij, che ha abusato di lei sin da bambina. Rappresenta la donna perduta, irrimediabilmente macchiata da «una colpa» di cui non è responsabile.
Tra le due donne, Myškin, per compassione, sceglie Nastasja. Consapevole dell’assoluta bontà del principe, ella esita a lungo; alla fine, sentendosi indegna del suo amore, si concede a Rogožin (personaggio ambiguo, figlio squattrinato di un ricco mercante). Quest’ultimo intuisce la vera natura della sua scelta, impazzisce di gelosia e la uccide. Myškin, di fronte al corpo della donna uccisa, sprofonda in una disperata follia.
Ispirandosi a Cristo, Dostoevskij ha voluto rappresentare nel principe la grandezza assoluta di un’anima davvero bella, la cui luminosa bontà si scontra con un mondo dove le passioni umane più violente lottano con la sua fragile e luminosa purezza. Nel contesto del romanzo, Myškin appare al tempo stesso disarmante e disarmato. In effetti, la ricca dialettica suggerita dall’accostamento di questi due participi – disarmato e disarmante – può essere considerata centrale per sottolineare il potere salvifico della figura del principe. Ci sono due aspetti centrali in lui. Il primo è la sua capacità di vedere ovunque la bontà originaria dell’uomo. La sua illimitata fiducia in ogni persona gli permette di leggere e comprendere con una dolcezza priva di giudizio quanto di più profondo si trova in ogni cuore. Questo aspetto evoca l’amore di un Dio il cui sguardo misericordioso non cessa di accogliere e perdonare. In secondo luogo, nella sua apparente ingenuità, nella sua radicale bontà, gli altri comprendono meglio sé stessi, messi a nudo nella propria meschinità. I protagonisti del romanzo non sempre sopportano tale «riflesso cristico». A volte ne sono attratti, a volte ne sono respinti. L’autentica bontà di Cristo illumina e accompagna i personaggi a fare luce su sé stessi: è il primo passo per accogliere la verità di Dio nella propria vita. Si tratta di un atteggiamento profondamente cristico, come ricorda l’episodio della Samaritana al pozzo (cfr Gv 4,5-42).
Prima di esaminare più in dettaglio il ruolo salvifico del protagonista, è necessario fare una premessa: il principe Myškin non è un ritratto letterario di Cristo, come nell’episodio del Grande Inquisitore citato in precedenza. Nemmeno i suoi pensieri e le sue azioni si riferiscono in modo esplicito a Gesù, come nel caso di Sonja di Delitto e castigo. Ne L’idiota, Dostoevskij ci fa percepire qualcosa della persona di Cristo – il suo stile mite, capace di portare luce e verità alle persone che incontra –, senza riferirsi esplicitamente a lui. Questo è centrale per comprendere il valore «incompleto» del suo ruolo salvifico, in cui, a differenza di Delitto e castigo, l’epilogo è ben lontano da una gloriosa risurrezione dei protagonisti.
Per meglio cogliere il valore teologico di una riflessione sulla salvezza a partire da questo romanzo, ora vedremo brevemente il ruolo simbolico di «salvatore mite e umile di cuore» del principe Myškin in relazione a tre concetti chiave del mistero pasquale: sacrificio, espiazione e sostituzione.
Il sacrificio del principe Myškin
Possiamo iniziare a riflettere sul ruolo salvifico di questo personaggio de L’idiota presentando in termini teologici quello che può essere definito il suo «sacrificio». Per farlo, è essenziale tratteggiare brevemente, da una prospettiva biblica, il significato profondo di questo termine. Il sacrificio parla di un’esperienza che riguarda il senso più profondo dell’esistenza e la sua relazione con il divino.
Se guardiamo all’etimologia, «sacrificare», sacrum facere, significa «rendere sacro»: si rinuncia a un qualcosa per metterlo a disposizione della divinità. Rinunciando a qualcosa che gli appartiene, l’uomo si impegna in un atteggiamento in cui riconosce l’esistenza di una forza più grande della sua stessa vita e vi si «sottomette». Il sacrificio di Cristo può essere visto come l’offerta della propria vita a Dio Padre per l’umanità. Con il suo gesto gratuito, egli ha «reso sacra» l’esistenza, concepita come il riconoscimento di una situazione di dipendenza da un Dio di amore – origine e fine ultimo di ogni vita – e che trova pieno compimento nel servizio fraterno, vissuto fino al dono totale di sé[2].
Se ci riferiamo al principe Myškin, possiamo vedere la sua vita come un’esistenza ordinata agli altri, portatori di una dignità trascendente, il cui valore interpella il suo proprio essere. Il protagonista non esita a rinunciare alla possibilità di una vita familiare felice con Aglaja, che ama, per sposare Nastasja, verso cui prova compassione. È un sacrificio che esprime il sacro desiderio di donare il suo amore e la sua vita per dare nuova dignità a una donna la cui esistenza è stata irrimediabilmente corrotta.
L’espiazione del principe Myškin
L’espiazione può essere vista come l’atteggiamento morale del colpevole che accoglie la sua punizione per riparare alla sua colpa nei confronti di qualcuno: la presenza di una relazione è dunque centrale. In questa prospettiva, possiamo interpretare l’atteggiamento e le azioni di coloro che desiderano l’espiazione come una forma di preghiera, una fervente richiesta di perdono. Possiamo così comprendere meglio la richiesta da parte di Dio, nell’Antico Testamento, di compiere un rito di espiazione per i peccati degli israeliti (cfr Lv 16,16). Questo permette di considerare l’espiazione come un’opportunità data all’uomo da Dio di compiere un’azione per ristabilire la relazione con lui nella sua pienezza[3].
È possibile dunque leggere in questi termini il sacrificio del principe Myškin. Mosso dalla compassione per una donna ferita nella sua persona, possiamo riconoscere nel suo gesto d’amore il desiderio di darle una possibilità, il tentativo amorevole di restituire la dignità a una creatura destinata a essere perfetta e poi perduta. È in questo che vediamo l’eccezionalità umana del principe. Nella cerchia dei conoscenti della donna, egli sembra essere l’unico con uno «sguardo cristico», capace di un gesto di compassione smisurato per restituire a Nastasja la sua bontà originaria, per permetterle di ristabilire un rapporto armonioso con il mondo.
C’è però una particolarità nel caso di Nastasja: lei è stata violentata, è portatrice di una macchia di cui non è responsabile e di cui non riesce a liberarsi con le sue sole forze. Potremmo parlare di una sorta di «colpa originaria», una macchia che deve essere lavata a tutti i costi, per una contaminazione la cui cura va al di là di ogni possibilità. Questo conduce a parlare di un terzo concetto necessario, quando evochiamo il mistero pasquale: quello di sostituzione.
La sostituzione del principe Myškin
Il concetto di sostituzione aiuta a immaginare il ruolo di chi, mettendosi al posto di un altro, gli permette di realizzare una redenzione di cui lui non è capace con le sue sole forze. In questo senso, la sostituzione cerca di stabilire, attraverso lo scambio e la solidarietà, una nuova comunione tra Dio e l’uomo. In una prospettiva cristiana, vediamo come Cristo ci viene incontro lì dove siamo, per aiutarci, in nome della sua solidarietà con noi, a realizzare ciò che la nostra situazione di peccatori ci impedisce di fare. In questo modo, rendendoci collaboratori del Padre, ci restituisce la nostra libertà di figli di Dio, permettendoci di accogliere liberamente lui nella nostra vita, di entrare in una relazione di salvezza con lui, per accompagnarci a vivere in pienezza la nostra capacità di amare[4].
Ma torniamo a Myškin. Nastasja, a causa della sua «contaminazione originaria», non è in grado di affrontare da sola il suo stato di donna disperatamente ferita. Il principe, consapevole di ciò, cerca di espiare con lei, per eliminare il suo fardello. In altre parole, in piena solidarietà con lei, Myškin vuole mettersi al suo posto, esserle vicino dove si trova, attraverso la decisione di sposarla e di condividere così il suo destino. Se, da un lato, non siamo di fronte a una sostituzione completa – in fondo, come abbiamo detto, l’idiota evoca solo alcuni aspetti della figura di Cristo –, dall’altro lato, possiamo vedere nell’abbassamento della sua condizione, sposandola, il tentativo di portare con sé – e al suo posto – parte della colpa originaria, di cui il principe non è in alcun modo responsabile. Egli cerca di rimuovere l’ostacolo che impedisce a Nastasja di amare sé stessa, di vedersi come una creatura degna di essere amata e capace di amare, come avviene per ogni essere umano.
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE
Da parecchio tempo, le cronache italiane sono colme di delitti perpetrati contro le donne. Il fenomeno riguarda tutte le età e condizioni sociali, tanto da sembrare endemico nella nostra società. A questo tema è dedicato un episodio monografico di Ipertesti Focus, il podcast de «La Civiltà Cattolica».
In sintesi, il principe, sacrificando la possibilità di una felicità familiare con Aglaja, grazie al suo amore compassionevole che si traduce nel gesto concreto di sposare Nastasja, si mette al suo posto – o meglio, al suo fianco – per offrirle la possibilità di uscire dalla sua condizione di creatura perduta. Espiando con lei «la sua colpa originaria», le dà la libertà di cui ha bisogno per entrare in comunione profonda con il mondo e intraprendere un cammino di salvezza, che l’aiuti a vivere nella sua pienezza di creatura amata.
Si può davvero parlare di salvezza?
Tuttavia, nel romanzo nessuno si salva. Nastasja rifiuta la possibilità di redenzione di Myškin e sposa Rogožin, che la uccide. Quando lo scopre, il principe impazzisce. Ad ogni modo, il sacrificio de L’idiota ha un intento salvifico. Grazie al dono della propria vita, il principe riconosce nella situazione di Nastasja una realtà universalmente sacra: una donna violentata e disprezzata diventa il tutto per il quale sacrificarsi.
Dopo aver osservato l’esempio di Myškin, possiamo tornare al Gesù dei Vangeli e guardare da una nuova prospettiva il sacrificio di Cristo e il suo modo di vivere la passione. Cristo, al culmine della sofferenza di cui è vittima innocente, con un atteggiamento mite accoglie e argina ogni forma di violenza. Questo è tanto più straordinario quando sulla croce egli trova ancora la forza di chiedere al Padre di perdonare i peccati dei suoi crocifissori. Possiamo leggere questo straordinario invito alla luce dell’impossibile esortazione ad amare i propri nemici: una disposizione capace di disarmare i più accaniti persecutori. L’amore di Cristo, un amore gratuito, immeritato e, secondo le categorie umane, ingiusto, è il primo artefice di un processo di redenzione. È un atteggiamento di «passività attiva», un potente contrasto alla violenza, come suggerisce la fine della storia delGrande Inquisitore.
Cristo, con la sua vita e il suo sacrificio – così come il principe Myškin –, testimonia lo sguardo misericordioso del Padre, pronto ad amare ogni persona, nonostante la sua condizione apparentemente indegna (Nastasja è una donna violata e disprezzata) o una situazione di inimicizia (il Grande Inquisitore è un avversario ostile). Con il suo stile ci mostra come entrare nel Regno da figli di Dio, come dice l’evangelista: «Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,44-45).
Tuttavia, tornando al romanzo di Dostoevskij, l’epilogo tragico del principe sembra spegnere ogni speranza: ne L’idiota non c’è risurrezione. Come parlare di salvezza in un libro in cui il protagonista è un simbolo del Salvatore, ma dove tutti gli altri personaggi sono «perduti»? Innanzitutto, in quanto figura evocativa di Cristo, non ci si può aspettare un’interpretazione teologica del Gesù dei Vangeli. Il personaggio de L’idiota evoca solo alcuni tratti della figura di Cristo. A questo riguardo, la figura del principe richiama alla mente la grandiosa bellezza di un Dio infinitamente misericordioso, che ama l’umanità fino a riconoscere – contro ogni speranza – la bontà originaria di ogni essere umano. È un Dio pronto a rendersi vulnerabile, fino al sacrificio di sé, per stare al fianco di ogni persona. È un Dio che crede nell’umanità, che fa percepire una promessa di vita per ogni uomo, persino per i propri nemici, anche nelle situazioni più disperate. Mentre l’epilogo felice di Delitto e castigo conferma il compimento di tale speranza, ne L’idiota – dove i riferimenti a Dio sono impliciti – la situazione è diversa. Se è vero che in questo romanzo la possibilità di una promessa rimane incompiuta nella tragica conclusione, il principe – un simbolo, piuttosto che una rappresentazione di Cristo – evoca in chiave narrativa la bellezza del volto misericordioso del Salvatore.
Ed è forse proprio questo il valore salvifico de L’idiota, ben oltre le pagine del romanzo. Il sacrificio del principe suggerisce al lettore la bellezza di una vita in cui risplende la bellezza della verità. Sorpreso, un lettore che non ha mai sentito parlare di Cristo, senza essere consapevolmente sulle sue tracce, può scoprire la possibilità di uno sguardo capace di dare un senso a tutto, anche alla propria vita. È questo il tema già accennato della «salvezza del lettore». Chi si lascia coinvolgere e toccare dalle pagine di Dostoevskij può scoprire la possibilità di un’esistenza di cui forse non è consapevole. È una scoperta possibile, fonte di sconvolgimento e di gioia. In entrambi i casi, con l’aiuto della grazia, egli può avviare un processo di ricerca e di conversione personale.
Per questo, pur ritraendo una persona che non è Gesù, L’idiota può aiutare tutti, credenti e non credenti, a rendersi consapevoli della presenza salvifica di Cristo nella propria esistenza e in quella degli altri. Può essere il punto di partenza di una ricerca per scoprire e accogliere, in tutta la sua pienezza, il Cristo risorto nella propria quotidianità. In conclusione, possiamo sottolineare come la mitezza di Gesù e il suo sguardo misericordioso che rifiuta ogni violenza possono essere letti alla luce della sacra dignità di ogni essere umano, immagine di Dio. In altre parole, restituire all’uomo la sua dignità grazie a uno sguardo che si traduce in un amore disarmante è il primo passo per accompagnare l’altro a poter accogliere liberamente il Dio di amore nella propria vita. Questa è una dimensione centrale della salvezza, è il passo che rende possibile entrare in una relazione salvifica con Cristo e con il mondo, per lasciarsi amare e amare in vera libertà.
Sonja e Raskolnikov
Sonja, personaggio chiave di Delitto e castigo, è una delle figure più luminose dell’opera di Dostoevskij. Il romanzo, pubblicato nel 1866, è il racconto psicologico-spirituale di un crimine. Il protagonista è Raskolnikov, uno studente di San Pietroburgo in una condizione di precarietà economica. Afflitto da una povertà opprimente, egli non esita a uccidere una vecchia usuraia e, per un tragico errore, la sua sorella. Il delitto ha un profondo valore simbolico: l’usuraia incarna l’iniquità del mondo, e il crimine del giovane studente attualizza la sua teoria della presunta possibilità per «l’uomo superiore» – al di sopra di ogni morale – di infrangere ogni legge, in virtù di un bene più grande. L’atto aberrante dà origine a una serie di tormenti psicologici che lacerano il cuore e la mente dell’assassino. In questo contesto, l’incontro con Sonja segna, per Raskolnikov, l’inizio di un percorso psicologico e spirituale verso una possibilità di «risurrezione».
Sonja è la figlia di un ubriacone, che Raskolnikov incontra in una taverna all’inizio del romanzo. Spinta a prostituirsi dalla deplorevole condizione del padre, dimostra una fede semplice e granitica in Dio. Ci sono in lei un’innocenza e una semplicità che le permettono di attingere alle profondità insondabili della vita e del mistero di Dio. La sua fede è una forza viva, lontana dalla saggezza erudita, frutto di studio e di argomentazioni razionali. Profondamente radicata nella vita di Sonja, questa fede è all’origine di uno sguardo sul mondo caratterizzato da una disarmante e lucida compassione, che traspare in ogni suo atteggiamento. La sua mistica semplicità attrae Raskolnikov e lo conduce lentamente su un cammino di verità.
Sonja, come Gesù, sembra avere una fiducia inesauribile negli esseri umani, nella bontà originaria di ogni persona. Arriva persino a giustificare e difendere la sua misera matrigna, colei che l’ha spinta a prostituirsi. Il suo sguardo mostra una disarmante benevolenza verso tutti: è davvero lo sguardo di Gesù, espressione di un amore capace di vedere l’uomo prima del peccatore. Si può dire che attraverso questo sguardo passa il desiderio di riaffermare il legame d’amore originario di Dio per ogni essere umano: un rapporto stretto, il cui punto di partenza è la creazione a immagine e somiglianza di Dio. È grazie alla riaffermazione di questo legame che è possibile ristabilire la giusta relazione del peccatore con Dio, con sé stesso e con la comunità umana.
In questa prospettiva, il ritorno a una situazione originaria del passato, compromessa o perduta, favorisce l’accoglienza salvifica di Cristo nella propria vita. Possiamo pensare all’atteggiamento di accoglienza di Gesù nell’episodio dell’adultera (cfr Gv 8,1-11), dove lo sguardo benevolo del Signore restituisce dignità alla donna: uscita dal suo isolamento, lei può essere reintegrata nella comunità. Il cammino spirituale di Raskolnikov è analogo. Dopo alcuni mesi di permanenza in Siberia, durante i quali Sonja gli dimostra costantemente la sua vicinanza attraverso un amore mite e paziente, Raskolnikov vive un meraviglioso momento di conversione al suo fianco. L’improvvisa e travolgente consapevolezza di amare Sonja è solo l’inizio di un nuovo modo di guardare sé stesso e gli altri.
C’è un momento fondamentale in Delitto e castigo che ci permette di comprendere meglio la portata della fede di Sonja in un Dio Salvatore e che, allo stesso tempo, svolge un ruolo centrale nel cammino di salvezza di Raskolnikov (e del lettore). Il giovane protagonista chiede a Sonja di leggere il testo della risurrezione di Lazzaro nel Vangelo di Giovanni (cfr Gv 11). L’episodio è raccontato in modo avvincente: la narrazione alterna le parole del Vangelo alla descrizione del forte coinvolgimento emotivo della giovane donna durante la lettura. Sonja dapprima riafferma interiormente la sua fede, sulle orme di Maria, sorella di Lazzaro e protagonista del racconto. In seguito, manifesta la speranza che questa fede salvifica in Cristo possa essere condivisa dallo stesso Raskolnikov.
La speranza incrollabile di Sonja nella risurrezione invita il lettore a pensare il cristianesimo come una religione dell’impossibile: la fede nel Cristo risorto spinge l’uomo a guardare alle situazioni più disperate con fiducia, a vivere una dimensione cristica fino al sacrificio, nella convinzione di una promessa di vita per ogni essere umano. Solo credendo nell’impossibile, ciò diventa possibile; questa è veramente una fede che salva. È la fede nella risurrezione, che rende possibile qualsiasi sacrificio a favore delle situazioni senza apparente via di uscita.
La dinamica del racconto prepara il lettore al seguito della narrazione. L’episodio della risurrezione di Lazzaro, evocato nella conclusione del libro, prende corpo nella vita di Sonja e Raskolnikov. Questo suggerisce il potere salvifico del Vangelo stesso. Quanto viene raccontato agisce nella vita dei lettori. Sonja diventa la Maria del testo, che intercede presso Gesù. Il miracolo, iniziato con la lettura del Vangelo, si compie alla fine del romanzo, quando si apprende della «risurrezione» di Raskolnikov.
È una riflessione, straordinaria dal punto di vista narrativo, della potenza performativa del Vangelo, che non è solo narrazione, ma azione, una forza capace di trasformare il mondo e la vita delle persone con cui entra in contatto. La lettura di un episodio evangelico può attualizzarsi e diventare oggi un’autentica storia di salvezza, con un impatto reale sulla vita.
Inoltre, grazie a un complesso gioco di rimandi, l’episodio apre la possibilità di un terzo livello di salvezza, quello del lettore stesso. Raccontandoci una storia, Dostoevskij ci presenta una possibilità, una nuova prospettiva che può influire sulle nostre vite. Ci fa intravedere, attraverso la forza di una narrazione profondamente toccante, una verità che può mettere in discussione il nostro modo di essere e di vedere le cose.
È lì, nel profondo del nostro essere, che il vigore vibrante della storia agisce come l’azione inaspettata della grazia, per scuotere oltre ogni spiegazione logica. La storia commovente dell’amore di Sonja e Raskolnikov potrebbe forse far intuire la bellezza di un sacrificio, il suo potere di dare nuovo slancio alla vita o far risvegliare nuove speranze? Proprio come Sonja – che trova nella storia della risurrezione di Lazzaro la possibilità di credere in qualcosa di impossibile –, anche il lettore, interpellato dalla «risurrezione» di Raskolnikov, di cui Sonja è in un certo senso «mediatrice», può intravedere la possibilità di una promessa per lui. Per un certo verso la lettura aiuta il lettore a immaginare possibilità inaspettate, preparandolo ad accogliere la grazia, a riconoscere la chiamata di un Dio che si rende presente nella sua vita. Una storia emozionante, nel toccare il proprio cuore, può risvegliare la capacità di ascoltare una chiamata e, una volta ascoltata questa, di rispondere, per iniziare un cammino di salvezza.
* * *
In conclusione, la misericordia, frutto di uno sguardo compassionevole, restio a ogni forma di violenza, è centrale in tutta la vita di Gesù – come in quella del principe e di Sonja – e trova una straordinaria manifestazione nel contesto della passione. È una salvezza che inizia con l’incontro con il volto di Cristo in questa vita, per trovare la sua piena fioritura – contro ogni speranza – dopo la morte.
Ritroviamo quest’ultimo concetto, in termini diversi, nell’ultimo libro di Dostoevskij I fratelli Karamazov. Il giovane protagonista Alëša è sconvolto dopo aver scoperto il cadavere in decomposizione dello starec Zosima, esempio di santità. Questa dissoluzione tragica e scoraggiante per una figura morta in «odore di santità» sembra smentire lo stato di grazia del defunto. Poi, Alëša, addormentato nell’ascolto della lettura dell’episodio delle nozze di Cana, riceve in sogno la visita dello starec. Ecco il bellissimo testo: «Rallegriamoci, beviamo il vino nuovo, il vino della nuova, grande gioia […]. Ecco il nostro signore, Lo vedi? […] Non avere paura di Lui. Egli è terribile ai nostri occhi per la sua maestà, ci sgomenta per la Sua grandezza, ma è infinitamente misericordioso, per amore si è fatto simile a noi e gioisce con noi, muta l’acqua in vino perché la gioia degli ospiti non venga interrotta, e aspetta nuovi ospiti, ne chiama continuamente di nuovi, e così sarà per tutti i secoli!»[5].
Alla fine, con il cuore pieno di gioia, Alëša si sveglia e, uscito dalla cella, si getta al suolo e abbraccia la terra, piangendo e giurando di amarla. Come nella storia di Alëša, si tratta proprio dell’incontro con il volto misericordioso del Salvatore, che ci trasforma, che ci salva donandoci il desiderio autentico di un amore vissuto in pienezza. E Dostoevskij, con i suoi straordinari romanzi, può aiutarci a cogliere questa magnifica dimensione della salvezza. In Delitto e castigo, dove Dio è nominato più volte, questa dimensione di un percorso di salvezza è in un certo senso esplicita. Ne L’idiota, l’assenza di riferimenti espliciti a Cristo e il tragico epilogo permettono di evocare solo indirettamente lo splendore del volto misericordioso di Gesù. Tuttavia, questa può essere vista come una premessa all’incontro salvifico con lui. È sempre il lettore il destinatario ultimo delle pagine di uno scrittore, il destinatario-attore di un possibile percorso di conversione.
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[1]. F. Dostoevskij, Epistolario, vol. I, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1951, 168 s.
[2]. Cfr B. Sesboüé, Jésus-Christ l’unique Médiateur, Paris, Desclée, 2003, 259-268 (in it. Gesù Cristo, l’unico mediatore, Cinisello Balsamo [Mi], San Paolo, 1991).
[3]. Cfr ivi, 293-297.
[4]. Cfr ivi, 357-360.
[5]. F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov. I taccuini per «I fratelli Karamazov», Firenze, Sansoni, 1958, 512 s.
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Giornata mondiale della gioventù 2027 in Corea: contesto e missione
«Ovunque il Papa si rechi, cerca i giovani
e ovunque dai giovani viene cercato.
Anzi, in verità, non è lui a essere cercato.
Chi è cercato è il Cristo».[1]
Il 24 novembre 2024, alla fine della celebrazione della solennità di Gesù Cristo Re dell’Universo presieduta da papa Francesco nella basilica di San Pietro, una delegazione di giovani coreani ha ricevuto da una delegazione di giovani portoghesi i simboli della Giornata Mondiale della Gioventù (GMG). Con la consegna della croce e dell’icona della Madonna Salus Popoli Romani, i simboli della GMG hanno iniziato un lungo pellegrinaggio in Asia, che li porterà fino a Seul. Mentre ha inizio questo pellegrinaggio, sembra opportuna una riflessione sul Paese e la Chiesa che accoglieranno la prossima Giornata Mondiale della Gioventù.
Per la Chiesa che è in Corea ospitare la GMG a Seul nel 2027 rappresenta una sfida e insieme un’opportunità. Finora la GMG si è tenuta in Europa e nelle Americhe, con l’eccezione dell’Australia (2008) e delle Filippine (1995). Tuttavia, dal momento che nelle Filippine l’inglese è una lingua ufficiale, la Corea sarà il primo Paese di lingua non occidentale a ospitare l’evento. Un’altra novità è ancora più significativa: la prossima GMG sarà la prima ad avere luogo in un Paese in cui i cristiani non costituiscono la maggioranza della popolazione.
La Chiesa coreana ha già dimostrato la sua capacità di ospitare con successo incontri di vasta portata. Nel 1981 ha organizzato il grande evento per la celebrazione del 150° anniversario dell’istituzione del Vicariato apostolico della Corea da parte di papa Gregorio XVI[2]. In seguito ha organizzato diversi incontri importanti, come il 200° anniversario della Chiesa coreana con la canonizzazione di 103 martiri nel 1984; il Congresso eucaristico mondiale nel 1989; la VII Giornata della Gioventù Asiatica e la beatificazione di 124 martiri nel 2014, in occasione del viaggio apostolico di papa Francesco nella Repubblica di Corea. In tali occasioni, la Chiesa ha dimostrato competenza nell’organizzare e gestire gli eventi e capacità di mobilitare. Del resto, la nazione coreana ha una vasta esperienza nell’ospitare eventi internazionali di portata mondiale, come le Olimpiadi del 1988.
Tuttavia, affinché una GMG abbia successo, non basta organizzare con efficienza un evento su larga scala e attirarvi un numero elevato di partecipanti. L’obiettivo finale di tutte le attività della Chiesa, compresa la GMG, è l’evangelizzazione, che è la sua ragione d’essere. Evangelizzare significa «rendere presente nel mondo il Regno di Dio»[3]. Una Chiesa evangelizzatrice si impegna a migliorare le condizioni di vita di tutte le persone, «animando e perfezionando con lo spirito evangelico l’ordine temporale»[4], comprese le strutture sociopolitiche, economiche ed ecologiche. In questo contesto, una GMG dovrebbe essere orientata a un’evangelizzazione che include lo sviluppo integrale dell’umanità.
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Inoltre, per chi arriva in Corea dall’estero, la partecipazione alla GMG richiederà un viaggio aereo, che comporta notevoli emissioni di carbonio. Pertanto, è essenziale che la GMG serva come opportunità per accrescere la consapevolezza e favorire una «conversione ecologica». Inoltre, la GMG di Seul dovrebbe dare un contributo alla Chiesa globale, condividendo il ricco patrimonio della Chiesa coreana, e non solo il K-pop (Korean popular music). Pertanto, il successo della GMG 2027 dipende dall’evangelizzazione che animerà la preparazione, l’evento stesso e le fasi della riflessione successiva.
Tenendo presente questa prospettiva, suddividiamo questo articolo in due parti. In primo luogo, contestualizzeremo la GMG 2027, esaminando brevemente gli studi rilevanti a questo riguardo e allargando la riflessione anche ai più ampi contesti sia della Chiesa universale sia di quella coreana. Poi analizzeremo il contributo che la Chiesa coreana potrà apportare alla Chiesa universale attraverso la GMG, e quale profitto essa potrà trarre da tale esperienza, considerando la missione fondante della Chiesa.
Il contesto della GMG 2027
Sin dalla sua prima edizione del 1984, la GMG si è evoluta in un evento globale che ha attirato l’attenzione degli Stati, dei media e del mondo accademico. Alla fine del XX secolo, quando molti in Occidente credevano che le società moderne si stessero secolarizzando, che la religione fosse stata relegata alla sfera privata e che le giovani generazioni si stessero allontanando da essa, il grande afflusso di giovani alla GMG fu sorprendente. Nonostante fosse un evento religioso, l’interesse destato dalla GMG si estese al di là dei confini della Chiesa e, in particolare, nel mondo accademico. Gli studiosi si posero alcune domande: che cosa attira i giovani alla GMG? Che cosa essi sperimentano, e che cosa significa questo per la Chiesa e per il mondo? Le ricerche su tali argomenti interessano la teologia, l’antropologia, la sociologia e gli studi sui media, e le possiamo raggruppare secondo tre approcci tematici principali.
1) Il primo tema esplora la GMG nell’ambito della secolarizzazione e dell’evangelizzazione[5]. In questo approccio, la GMG viene vista come una risposta creativa ai nuovi sforzi di evangelizzazione che emergono di fronte a un Occidente secolarizzato, dove la generazione più giovane si sta sempre più allontanando dalla Chiesa. Tale prospettiva sottolinea la dimensione innovativa della GMG. Ciò significa riuscire a dare spazio al contenuto tradizionale del cattolicesimo (crocifissi, icone, catechesi ecc.), esprimendolo in una forma (pellegrinaggi, festival, eventi culturali ecc.) adatta alla sensibilità dei giovani ed «eventizzandolo». Storicamente la Chiesa ha celebrato la fede e la pietà non solo attraverso la liturgia, ma anche sotto forma di eventi, come, per esempio, la processione del Corpus Domini. Charles Taylor, noto filosofo e autore di L’età secolare (2007), ha osservato che la GMG attira i giovani perché si pone in sintonia con «l’età dell’autenticità», un’epoca in cui il significato viene ricercato attraverso l’esperienza personale piuttosto che tramite l’affiliazione istituzionale[6].
2) Il secondo tema si concentra sull’esperienza comunitaria dei partecipanti alla GMG[7]. Costoro non si concedono un viaggio confortevole, ma intraprendono un pellegrinaggio spesso scomodo e pieno di sfide e ostacoli materiali. Tuttavia, questo pellegrinaggio ha effetti positivi sia per i giovani partecipanti sia per le famiglie che li accolgono, perché offre l’opportunità di condividere esperienze che approfondiscono la loro comprensione dell’identità, dei valori e della fede cristiani. Questo rispecchia ciò che Victor Turner, un antropologo culturale, chiama «communitas profonda», ossia una comunità e un’uguaglianza che trascendono le gerarchie sociali e gli obblighi quotidiani[8]. La GMG incarna tale esperienza. In primo luogo, i giovani che partecipano ad essa formano una comunità in cui condividono lo stesso cammino di fede, stabilendo relazioni paritarie a prescindere dalla nazionalità, dalla lingua, dalla classe sociale, dal retroterra culturale e dallo status. In secondo luogo, molti giovani partecipanti sperimentano una trasformazione spirituale e religiosa che può essere descritta come ciò che Turner chiama «la situazione liminale», ossia una fase di transizione in cui il cambiamento avviene in un contesto diverso dalla vita quotidiana. Sebbene i partecipanti alla fine ritornino alla loro vita ordinaria, la profonda communitas che sperimentano durante la GMG può avere effetti duraturi, plasmando la loro visione del mondo, la loro fede e i loro valori.
3) Il terzo tema considera la GMG dal punto di vista della globalizzazione e della cittadinanza mondiale cattolica[9]. A partire dalla fine del XX secolo, la globalizzazione, favorita dalla conclusione della Guerra fredda, dall’integrazione del mercato e dall’ascesa della tecnologia digitale, ha creato un mondo più interconnesso, ma pieno di disuguaglianze. Per la Chiesa cattolica, questa realtà globale presenta opportunità e sfide. La globalizzazione, infatti, pur promuovendo connessioni attraverso i confini, al tempo stesso accentua le disuguaglianze e può acuire il senso di alienazione. I Papi hanno sempre difeso la solidarietà globale, criticando la «globalizzazione dell’indifferenza» e sollecitando una conversione in risposta alla crisi ecologica. In questo contesto, la GMG è vista come una «scuola» in cui i giovani cattolici imparano che cosa significa essere cittadini globali della Chiesa. In occasione della GMG, i pellegrini sperimentano la diversità culturale, allacciano amicizie con persone di altre nazioni e si impegnano in discussioni su questioni globali comuni, come la pace, la povertà e la sostenibilità ambientale. Questo impegno permette loro di cominciare a vedere la Chiesa come universale e globale, al di là della parrocchia particolare.
Il contesto della Chiesa
All’inizio del XXI secolo, il centro della Chiesa cattolica si è spostato dall’Europa al sud del mondo: uno spostamento simboleggiato dall’elezione al soglio pontificio, nel 2013, del cardinale Jorge Mario Bergoglio, proveniente da quella regione del globo. Il centro della Chiesa, almeno demograficamente, non era più in Europa, ma si è diversificato in regioni come America Latina, Africa e Asia[10]. Dall’inizio del suo pontificato, papa Francesco ha esortato la Chiesa a uscire verso le periferie, ed egli stesso ha visitato più volte l’Asia e l’Africa. Anche il numero di cardinali provenienti da queste regioni è aumentato in modo considerevole. Questo spostamento è conveniente non solo nella prospettiva evangelica, per l’esigenza di raggiungere le «periferie», ma anche sotto il profilo pratico, dal momento che, nella misura in cui il centro della Chiesa si sposta, queste giovani Chiese appassionate ed emergenti devono diventare, in un’ottica pastorale, una priorità. Il teologo Karl Rahner a suo tempo osservava che per la Chiesa il Concilio Vaticano II ha rappresentato l’inizio di una nuova fase, in cui essa era chiamata a superare il suo precedente modello eurocentrico per diventare una Chiesa davvero mondiale[11]. Le intuizioni di Rahner sul significato del Concilio risuonano ancora oggi, mentre assistiamo all’evoluzione del panorama geografico e culturale della Chiesa. Lo storico delle religioni Massimo Faggioli si riferisce all’attuale pontificato come a un «pontificato di frontiera», notando che esso è emblematico della transizione della Chiesa verso una cattolicità inclusiva a livello globale[12].
In questo contesto, la Chiesa cattolica coreana occupa una posizione unica e rilevante. Il ruolo che essa riveste nella Chiesa universale riflette in qualche modo quello assunto dalla Corea nel mondo. Negli ultimi cinquant’anni questo Stato è passato dall’essere un Paese post-coloniale in via di sviluppo alla realtà di un Paese sviluppato. Dal punto di vista economico, la Corea è passata dalla povertà alla prosperità. Dal punto di vista politico, ha istituito un sistema democratico, caratterizzato da una «democratizzazione dal basso», che la differenzia dai Paesi vicini dell’Asia orientale. Quanto alla cultura, se prima la Corea era una consumatrice della cultura occidentale, essa oggi esporta la propria. In quanto ha sperimentato sia la povertà sia la ricchezza, regimi autoritari e governi democratici, in quanto Stato post-coloniale, la Corea si trova oggi in una posizione storica favorevole per mediare il dialogo e perseguire il bene comune e la pace. Le esperienze uniche che ha vissuto la rendono adatta a fungere da costruttrice di ponti tra il sud e il nord del mondo, come pure tra l’est e l’ovest.
Il ruolo della Chiesa coreana all’interno della Chiesa cattolica mondiale riflette tale dinamica. A differenza di molti altri Paesi asiatici, la Corea non è stata influenzata dal colonialismo occidentale, ma da quello giapponese, e in essa il cattolicesimo si è affermato come religione principale, insieme al protestantesimo. Nella prima metà del XX secolo, i missionari occidentali si sono concentrati soprattutto sulla Cina e sul Giappone, trascurando spesso la Corea. Tuttavia è in questo Paese che il cristianesimo si è affermato in misura notevole, mentre in Cina e Giappone la sua crescita è stata molto più limitata. Se in queste due ultime nazioni il cristianesimo spesso viene ancora visto come una «religione straniera», in Corea invece è diventato parte integrante della storia e della cultura della nazione. Questo cambiamento è importante, se si considerano i quasi 100 anni di persecuzione che la Chiesa coreana ha subìto dopo essere penetrata nella Penisola.
Questa trasformazione non riguarda solo la crescita numerica, ma riflette il ruolo attivo della Chiesa nella storia moderna della Corea, in particolare la promozione della democrazia, dei diritti dei lavoratori e dei diritti umani. Inoltre, a partire dagli anni Ottanta, la Chiesa coreana contribuisce all’invio di missionari all’estero (1.007 missionari nel 2022) e s’impegna nella cooperazione allo sviluppo internazionale attraverso diverse sue istituzioni. Se prima era una Chiesa che riceveva, adesso è diventata una Chiesa che dà[13]. Così il suo cammino è parallelo a quello della nazione coreana, trasformandosi da beneficiaria di aiuti a benefattrice e fungendo da ponte tra mondi diversi.
La GMG 2027 e la Chiesa coreana
La possibilità di ospitare la GMG in Corea era nell’aria da oltre un decennio. Tuttavia sono emerse preoccupazioni sullo stato attuale della Chiesa coreana. Essa si trova ad affrontare un declino della pastorale giovanile e dei giovani adulti, così come un forte calo delle vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa. Inoltre, all’interno della Chiesa si registra un notevole cambiamento demografico, con una popolazione che invecchia ancor più rapidamente della società coreana in generale. Questa tendenza però non è esclusiva della Chiesa cattolica: recenti sondaggi Gallup rivelano che un numero crescente di giovani tra i 20 e i 30 anni si dichiarano non religiosi[14].
Nel 2006, quando la tendenza religiosa era alla crescita, un seminario intitolato «Il cattolicesimo cattura i cuori delle persone moderne» ha identificato cinque fattori che contribuivano all’immagine positiva della Chiesa: la coesione dei cattolici; la moralità; l’impegno a favore della giustizia e dei diritti umani; un atteggiamento flessibile verso i riti ancestrali e i funerali; e l’apertura verso le altre religioni[15]. Questi fattori attestavano che il cattolicesimo godeva di una indubbia «autorità morale» all’interno della società coreana. Tuttavia, il dinamismo che ha caratterizzato la Chiesa coreana nel 2024 non rispecchia più questa analisi. Per descrivere la realtà attuale con cui si sta confrontando la Chiesa coreana sembra più adatto l’adagio della Chiesa occidentale: Ecclesia semper reformanda.
Ospitare la GMG 2027 in questo contesto è significativo. Sarebbe irrealistico aspettarsi che una GMG ben riuscita possa portare a una rinascita quantitativa della pastorale giovanile in Corea, perché il declino deriva da complesse questioni strutturali, come i cambiamenti demografici e culturali, per non parlare della crescente sfiducia dei giovani nelle istituzioni. Ma non è irragionevole sperare che la GMG agisca come catalizzatrice, che cioè ispiri i giovani a incontrarsi con il Signore, a scoprire la loro vocazione e quindi a camminare con la Chiesa da «discepoli missionari»[16]. Un successo del genere si ripercuoterebbe non solo sulla Chiesa coreana, ma anche sulla Chiesa universale.
Il contributo che la Chiesa coreana può dare alla Chiesa universale
L’esperienza storica della Chiesa coreana, in particolare le sue attività per la giustizia e i diritti umani negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, può insegnare qualcosa alle altre Chiese sotto due aspetti. In primo luogo, la Chiesa coreana non ha agito per il proprio interesse, ma per il bene di coloro che venivano emarginati dalla società. Ciò ha fatto sì che essa acquisisse un’autorità morale e diventasse parte della storia della Corea, allontanandosi dalla percezione di essere una religione occidentale[17]. Ciò dimostra in qual modo la Chiesa possa radicarsi nelle società non occidentali: tramite la condivisione, il servizio e la difesa degli emarginati.
Il secondo aspetto riguarda il modo in cui la Chiesa può contribuire alla sfera pubblica nella società moderna. In mezzo al crescente individualismo e alla tendenza a privatizzare la religione, soprattutto in Occidente, la Chiesa coreana offre un esempio di pratica della solidarietà e di servizio al bene comune. Nel XXI secolo, mentre i progressi tecnologici si intensificano e diminuisce la fiducia nelle istituzioni, c’è una crescente sete di spiritualità. Ciò ha portato a una maggiore tendenza della religione a soddisfare i bisogni individuali. In risposta, pur rispettando questa ricerca personale, la Chiesa deve insegnare la missione comune affidata a tutti cristiani, come viene sottolineato nella Laudato si’ (LS). L’esperienza storica della Chiesa coreana può ricordare la responsabilità morale e sociale della Chiesa nei confronti dei «vicini» emarginati, e così può aiutare a prevenire l’eccessiva spiritualizzazione o privatizzazione della fede. Sotto entrambi gli aspetti, la Chiesa coreana esemplifica la visione di papa Francesco di una Chiesa che va verso le «periferie», e così può offrire contributi importanti alla Chiesa universale.
Se il primo punto si basa su riflessioni tratte dal passato storico della Chiesa coreana, i punti successivi riguardano aspetti che la posizione della Chiesa coreana può sottolineare come compiti o missioni per i giovani cattolici in tutto il mondo. Attraverso di essi i giovani pellegrini provenienti da tutto il mondo possono approfondire la loro comprensione del messaggio cristiano e il loro contributo alla Chiesa universale. Per esempio, il messaggio di pace e riconciliazione. Esso è stato sempre importante, ma negli ultimi anni è diventato tanto più urgente e tangibile per i giovani a causa delle guerre, come quelle tra Ucraina e Russia, tra Israele e Palestina, e a causa della crisi umanitaria in Sudan. A Roma, poco dopo la GMG di Lisbona del 9 agosto 2023, papa Francesco ha affermato: «Mentre in Ucraina e in altri luoghi si combatte, e mentre in certe sale nascoste si pianifica la guerra, la GMG ha mostrato a tutti che è possibile un’altra via: un mondo di fratelli e sorelle, dove le bandiere di tutti i popoli sventolano insieme, una accanto all’altra, senza odio, senza paura, senza chiusure, senza armi!»[18]. Pertanto la Corea, che si trova al crocevia tra divisione, Guerra fredda e rischio nucleare, sarebbe un luogo adatto per una riflessione dei giovani cattolici sul messaggio cristiano di pace e di riconciliazione, un luogo che li sostenga nel sogno di diventare «apostoli di pace».
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE
Da parecchio tempo, le cronache italiane sono colme di delitti perpetrati contro le donne. Il fenomeno riguarda tutte le età e condizioni sociali, tanto da sembrare endemico nella nostra società. A questo tema è dedicato un episodio monografico di Ipertesti Focus, il podcast de «La Civiltà Cattolica».
Un altro aspetto è costituito dalla conversione ecologica. La crisi ecologica è un argomento di grande interesse per i giovani. Papa Francesco, con la Laudato si’ del 2015, ha invitato a una conversione ecologica, sottolineando la gravità della crisi climatica a livello globale. La Corea è stata definita un climate villain, un Paese poco virtuoso riguardo al clima, a causa delle sue emissioni di gas serra totali e pro capite, e della sua risposta alla crisi climatica. Pertanto, ospitare una GMG che invita all’ecologia può spingere i giovani a uno stile di vita più ecologico. Il Festival di Cannes, nel 2024, si è proposto come un evento «ecologico» (eco-friendly), adottando misure appropriate, come il divieto di bottiglie di plastica, l’incoraggiamento dell’uso dei trasporti pubblici e l’eliminazione della carne bovina dai menù. Se persino un festival cinematografico può promuovere comportamenti simili, non si vede perché non possa farlo la GMG 2027. Infatti, come abbiamo già detto, la partecipazione alla GMG in Corea dipende dai viaggi aerei, e ciò implica una notevole quantità di emissioni di CO2. Perciò è ancora più importante che l’evento venga organizzato in modo «ecologico» e che vengano sensibilizzate le persone. A Lisbona, nel 2023, l’app della GMG ha fornito una funzione per calcolare le compensazioni delle emissioni di carbonio, e gli organizzatori hanno distribuito un Manuale di buone pratiche per una GMG sostenibile, che riguardava tutti i settori, dal trasporto ai pasti e agli alloggi. Ai pellegrini era stato chiesto di evitare la plastica monouso e di riciclare il più possibile. Inoltre, essi erano stati incoraggiati a piantare alberi nei loro luoghi di provenienza prima di partire per Lisbona (la stima è che ne siano stati piantati 18.000). Allo stesso modo, la GMG 2027 può essere un luogo di conversione ecologica non soltanto attraverso la sensibilizzazione sul tema, ma anche attraverso la pratica di comportamenti ecologici.
La DMZ (zona demilitarizzata) al confine tra le due Coree, che si estende per circa 250 chilometri di lunghezza e quattro chilometri di larghezza, può costituire un luogo di grande suggestione per mettere in atto i due potenziali contributi sopra menzionati. In quanto è un confine circondato da filo spinato, esso evidenzia in modo drammatico la tensione tra le due Coree e sottolinea l’urgente necessità di riconciliazione e di pace. Allo stesso tempo, è un’area naturale che si è rigenerata in un territorio devastato dalla guerra di Corea e ha un immenso valore ecologico. Essa può fungere da simbolo rappresentativo della GMG del 2027, trasmettendo profondi messaggi di riconciliazione, di pace e di conversione ecologica.
Come la GMG può contribuire alla Chiesa coreana
Il primo contributo, come viene indicato nelle ricerche esistenti, è lo sviluppo di una cittadinanza cosmopolita cattolica. Questo è diverso dallo slogan «leader globale», che è diventato popolare in campo educativo nella Corea nel XXI secolo, e si discosta anche dal populismo che sfrutta i sentimenti cristiani per la mobilitazione sociale e politica. Poiché la Corea è stata storicamente un Paese omogeneo dal punto di vista sia etnico sia linguistico, il confine etnico per molto tempo è stato adoperato criticamente per distinguere tra «noi» e «loro». Tuttavia, poiché oggi la Corea si è già trasformata strutturalmente in una nazione di immigrazione, è necessario un approccio più universale, che vada al di là dell’identità basata sul sangue, come pure è necessaria una consapevolezza civica riguardo al razzismo. In queste circostanze, il fatto di ospitare la GMG, di incontrare giovani di varie nazionalità e culture amplierà gli orizzonti sia delle generazioni più giovani sia di quelle più anziane che verranno coinvolte, e potrà favorire la visione cosmopolita cattolica.
Qualcuno potrebbe chiedersi se eventi come la Coppa del mondo di calcio o le Olimpiadi non abbiano un ruolo più significativo nel promuovere la cittadinanza globale. L’esempio di una persona brasiliana della classe media che ha ospitato alcuni giovani durante la GMG di Rio de Janeiro del 2013 può illustrare la differenza tra i festival sportivi globali e la GMG: «Ecco una cosa che ci sembra diversa dalla Coppa del Mondo FIFA o dalle Olimpiadi: la GMG scuote l’intera città. Per esempio, ora stiamo vivendo la Coppa del Mondo 2014, e io vivo a Jacarepaguá (un quartiere non turistico di Rio), non ho ancora visto un turista. Perché? Se succede qualcosa di importante, questo avviene nella zona sud (zona turistica), ma noi di Jacarepaguá non vediamo nulla. Quelli che vivono nella zona ovest, come Bangu, Campo Grande, non vedono nulla, nemmeno un turista. Alla GMG è stato diverso. In città c’erano pellegrini ovunque. […] Ricordo che il proprietario del panificio vicino a casa mia diceva che le vendite andavano a gonfie vele perché c’era nuova gente in giro. Quindi, la GMG ha smosso la città; la Coppa del Mondo e le Olimpiadi non lo fanno. La GMG è stato un momento di cambiamento nella nostra vita»[19].
Mentre gli eventi sportivi mondiali influiscono a livello superficiale sulla «cultura globale» o su alcune aree commerciali, la GMG agisce a un livello più popolare, toccando la vita dei cittadini comuni.
Nella formazione dei moderni Stati-nazione occidentali, la Chiesa cattolica si è talvolta trovata in una relazione scomoda, perché sosteneva un’idea di cittadinanza globale e universalistica che trascende le particolarità nazionali o etniche. Dopo la Seconda guerra mondiale, il sogno e la realizzazione della riconciliazione tra Germania e Francia e la costruzione di una nuova Europa (che alla fine ha portato all’attuale Unione europea) non sono stati raggiunti solo attraverso calcoli politici. Politici cattolici come Robert Schuman, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi, influenzati dal pensiero sociale cattolico, vi hanno svolto un ruolo fondamentale[20]. Non è solo un’utopia pensare che alcuni giovani, influenzati dalla GMG, possano sviluppare un ideale di cittadinanza globale cattolica e contribuire direttamente alla riconciliazione e alla pace nel mondo.
In secondo luogo, la GMG offrirà alla Chiesa coreana l’opportunità di aggiornare la propria comprensione delle questioni contemporanee e delle culture organizzative della stessa Chiesa coreana. Per esempio, la questione dell’«evangelizzazione del mondo digitale». I rapidi progressi nella tecnologia digitale, compresa l’intelligenza artificiale, rappresentano per la Chiesa un territorio nuovo e in gran parte inesplorato. Molti nella Chiesa non sono pienamente consapevoli dell’importanza del mondo digitale, che ora è il luogo in cui i giovani, in Corea e nel resto del mondo, trascorrono gran parte del loro tempo, costruendo reti e condividendo informazioni.
Il mondo digitale è anche un luogo in cui si annidano molti pericoli, dalla dipendenza allo sfruttamento, ed esso è sempre più dominato da un «ecosistema di sorveglianza commerciale» costruito da grandi aziende tecnologiche che raccolgono dati personali a scopo di lucro[21]. Ecco perché papa Francesco, nel suo Messaggio per la Giornata mondiale della pace del 2024[22], ha menzionato i pericoli di sostituire «i volti con gli schermi, il reale con il virtuale»[23], e la necessità di un trattato internazionale sull’intelligenza artificiale (IA).
Tuttavia, quello digitale è un mondo in cui i giovani vivono e consumano, e la Chiesa sta riconoscendo in esso anche un luogo di evangelizzazione, come segnalato dalla GMG 2023 di Lisbona. Il Catholic Influencers Festival, che si è tenuto il 4 agosto 2023, ha mostrato che il mondo digitale è riconosciuto «come un territorio, uno spazio, non solo come un mezzo» e come un «nuovo mondo di comunione e missione»[24] per la Chiesa, secondo quanto ha affermato il cardinale Luis Antonio Tagle, pro-prefetto del Dicastero per l’evangelizzazione dei popoli. Questa consapevolezza della Chiesa universale influirà sulla Chiesa coreana e indurrà aggiornamenti nella pastorale giovanile.
Un altro aspetto si riferisce alla prassi della Chiesa, che si basa sull’anzianità, sullo status gerarchico o sul genere. Dal punto di vista strutturale, la GMG 2027 sarà un evento fruttuoso, a patto che il personale giovane e gli operatori pastorali – coreani e internazionali, sia giovani sia anziani – lavorino insieme. Questo processo collaborativo rappresenta un’eccellente opportunità per passare da una pratica culturale verticale a una più orizzontale, preferita dai giovani.
Così arriviamo all’ultimo aspetto, quello più importante. La GMG può contribuire alla formazione della leadership giovanile nella Chiesa coreana. Senza la partecipazione dei giovani, la GMG 2027 non può essere gestita con successo. Non si tratta di una partecipazione passiva dei giovani, come oggetto di mobilitazione, ma di una partecipazione attiva, come «discepoli missionari», collaborando con i ministri della pastorale. Questo processo di collaborazione sarà significativo per la formazione di una nuova leadership giovanile e per il «camminare insieme» con la Chiesa coreana.
Osservazioni conclusive: un atteggiamento contemplativo per la GMG
Questo articolo è partito dalla premessa che una GMG, per avere un esito felice, deve essere orientata all’evangelizzazione. Per i singoli partecipanti si tratta di un processo che dura tutta la vita, in cui la parola di Dio trasforma i pensieri e gli atteggiamenti di ognuno per l’intera esistenza. Anche se i partecipanti alla GMG vivono esperienze intense, questi sono momenti nel cammino di evangelizzazione che, per essere vissuti integralmente, richiedono un impegno duraturo. Infatti, l’evangelizzazione non si esaurisce nella trasformazione individuale, ma persegue il rinnovamento della Chiesa e della società. Integra fede e pratica, moralità personale e responsabilità sociale, per realizzare i valori del regno di Dio. Una GMG evangelizzatrice si colloca in questa cornice, con al centro dei suoi programmi e delle sue attività l’incarnazione, la morte e la risurrezione di Gesù Cristo. È per questo che Giovanni Paolo II scelse la Domenica delle Palme come giorno per il primo raduno dei giovani, quando li invitò inizialmente a Roma. Voleva sottolineare che lo spirito essenziale della GMG è favorire l’incontro personale dei giovani che sono alla ricerca del senso della vita con Cristo.
Pertanto, per poter preparare e organizzare una GMG evangelizzatrice, la Chiesa locale deve guardare ai giovani con un atteggiamento contemplativo: in altre parole, deve vedere e sentire la sete di significato che hanno i giovani e lo sguardo che Cristo rivolge ad essi. Questo atteggiamento contemplativo non è riservato ai monaci, ai religiosi o al clero, ma è un atteggiamento che va sviluppato e coltivato da tutti i soggetti coinvolti: sia dai giovani partecipanti sia dalla generazione più anziana.
Possiamo rintracciare un esempio di tale atteggiamento contemplativo nel modo in cui Giovanni Paolo II ha concepito la GMG. Sebbene egli stesso abbia affermato che la GMG non è stata una sua invenzione ma piuttosto una creazione dei giovani, l’influsso da lui avuto sulle sue origini non può essere trascurato. Nonostante lo scetticismo iniziale, all’interno del Vaticano, sulla partecipazione dei giovani, egli continuò a promuovere la GMG. Che cosa lo spingeva a invitare i giovani a Roma? Forse la sua visione di una nuova evangelizzazione nell’Occidente secolarizzato, o la sua convinzione del ruolo centrale dei giovani nel futuro della Chiesa? In un’intervista del 1994, Giovanni Paolo II affermò: «E non soltanto a Roma, ma ovunque il Papa si rechi, cerca i giovani e ovunque dai giovani viene cercato. Anzi, in verità, non è lui a essere cercato. Chi è cercato è il Cristo […]. Riassumendo, desidero sottolineare che i giovani cercano Dio, cercano il senso della vita, cercano le risposte definitive: “Che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?” (Lc 10,25). In questa ricerca, non possono non incontrare la Chiesa. E anche la Chiesa non può non incontrare i giovani»[25].
È evidente che Giovanni Paolo II vedeva nei giovani qualcosa di più che un semplice strumento per l’evangelizzazione o una nobile visione ecclesiale. Egli riconosceva la loro profonda ricerca di Dio e di significato. Non ha ridotto i giovani a un gruppo demografico utile per la strategia ecclesiale. Al contrario, il suo cuore rispecchiava l’amore che Gesù nutriva per quel giovane che cercava la vita eterna (cfr Mc 10,17). Questa sintesi tra sensibilità spirituale e risposta pastorale gli ha consentito di impegnarsi con i giovani in modo autentico. Sebbene alcuni attribuiscano il suo successo al carisma personale, esso era invece radicato nella sua esperienza pastorale e nell’amore per i giovani. L’attenzione spirituale di Giovanni Paolo II, unita al cuore compassionevole di Cristo, gli ha permesso di vedere e di rispondere veramente alla profonda sete dei giovani.
Mentre la Chiesa coreana e i suoi membri si predispongono alla GMG del 2027, promuovere questo atteggiamento contemplativo costituirà la preparazione più efficace e genuina. Attraverso di esso, la Chiesa può comprendere meglio le attese dei giovani e aiutarli a orientarsi verso un incontro personale con Cristo. Coltivare questo atteggiamento e questa pratica getterà le basi perché la GMG del 2027 non diventi solo un evento ben organizzato, ma uno stimolo alla vera trasformazione sia per i partecipanti sia per la più ampia comunità ecclesiale orientata all’evangelizzazione.
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[1]. Giovanni Paolo II, s., Varcare la soglia della speranza, Milano, Mondadori, 2004, 139.
[2]. Nella storiografia coreana, il Vicariato apostolico della Corea, ricavato dal territorio dell’allora diocesi di Pechino, è spesso menzionato come diocesi di Joseon, il nome del Regno in quei tempi.
[3]. Francesco, Evangelii gaudium (EG), n. 176.
[4]. Concilio Ecumenico Vaticano II, Apostolicam actuositatem, n. 2.
[5]. Cfr S. Mandes – W. Sadłoń, «Religion in a Globalized Culture: Institutional Innovation and Continuity of Catholicism – The Case of World Youth Day», in Annual Review of the Sociology of Religion. The Changing Faces of Catholicim 9 (2018) 202-221; M. Pfadenhauer, «The eventization of faith as a marketing strategy: World Youth Day as an innovative response of the Catholic Church to pluralization», in International Journal of Nonprofit and Voluntary Sector Marketing 15 (2010/4) 382-394.
[6]. Cfr C. Taylor, L’età secolare, Milano, Feltrinelli, 2009.
[7]. Cfr L. Gonzalez – T. Villa – C. Loreto Mariz – A. Zahra, «World youth Day: Contemporaneous pilgrimage and hospitality», in Annals of Tourism Research 76 (2019) 80-90.
[8]. Cfr V. Turner, The Ritual Process: Structure and Anti-structure, Chicago, Aldine Publishing Company, 1969; V. Turner – V. Witter – E. Turner, Image and Pilgrimage in Christian Culture: Anthropological Perspectives, Oxford, Basil Blackwell, 1978.
[9]. Cfr C. Mercier, «Religion and the Contemporary Phase of Globalization: Insights from a Study of John Paul II’s World Youth Days», in Journal of World History 33 (2022/2) 321-351.
[10]. Cfr Pew Research Center, «Christians. The Future of World Religions: Population Growth Projections, 2010-2050» (pewresearch.org/religion/2015/…).
[11]. Cfr K. Rahner, «Towards a Fundamental Theological Interpretation of Vatican II», in Theological Studies 40 (1979/4) 716-727.
[12]. Cfr M. Faggioli, Francesco Papa di frontiera. Soglia di una cattolicità globale, Roma, Armando, 2021.
[13]. Cfr D. Kim, «Going Global», in Journal of Korean Religions 12 (2021/1) 5-37.
[14]. Cfr gallup.co.kr/gallupdb/reportCo…
[15]. Cfr K. Oh, «Growth of Catholic Believers and its Cause (오경환, 가톨릭 신자의 괄목할만한 증가와 그 요인)», in S. Cho – C. Yong Chong (edd.), Why Did They Go to the Catholic Church? (그들은 왜 가톨릭 교회로 갔을까?), 2007, 25-48.
[16]. Cfr EG 119-121.
[17]. Cfr D. Kim, «Church and Compressed Modernization: South Korea and Japan Compared», in Gregorianum, vol.101, 2021, 573-592.
[18]. Francesco, Udienza generale del 9 agosto 2023, in https://www.vatican.va
[19]. Cfr Cfr L. Gonzalez – T. Villa – C. Loreto Mariz – A. Zahra, «World youth Day…», cit., 86.
[20]. I cattolici tendono a vedere l’Europa come un insieme culturale e a immaginare di governarla in modo coordinato, mentre a partire dalla Riforma i protestanti guardano spesso allo Stato-nazione come a un baluardo contro l’egemonia cattolica. Cfr B. F. Nelsen – J. L. Guth, Religion and the Struggle for European Union: Confessional Culture and the Limits of Integration, Washington, Georgetown University Press, 2015.
[21]. Cfr Sh. Zuboff, The Age of Surveillance Capitalism: The Fight for a Human Future at the New Frontier of Power, New York, Public Affairs, 2019.
[22]. Cfr Francesco, Messaggio per la LVII Giornata Mondiale della Pace: «Intelligenza artificiale e pace», 1° gennaio 2024.
[23]. Id., Incontro con i giovani universitari, Lisbona, 3 agosto 2023.
[24]. Citazione da A. Ivereigh, «A Church with Room for Everyone; World Youth Day in Lisbon», in Commonweal Magazine (commonwealmagazine.org/francis…), 13 agosto 2023.
[25]. Giovanni Paolo II, s., Varcare la soglia della speranza, cit., 139 s.
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Han Kang, premio Nobel per la letteratura 2024
Nel 2024 per la prima volta una donna asiatica, sudcoreana, è stata insignita del premio Nobel per la letteratura. Si tratta di Han Kang, classe 1970, figlia d’arte dello scrittore Han Seung-won. L’Accademia svedese le riconosce l’ambìto premio «per la sua intensa prosa poetica che affronta i traumi storici ed espone la fragilità della vita umana». «Han Kang – si legge nella motivazione – ha una consapevolezza unica delle connessioni tra corpo e anima, i vivi e i morti, e nel suo stile poetico e sperimentale è diventata un’innovatrice nella prosa contemporanea».
La scelta ha destato sorpresa, perché si tratta di un’autrice relativamente giovane e con una produzione contenuta: appena una ventina di titoli, tra poesia, alcuni racconti, otto romanzi e un paio di saggi. D’altra parte, è una delle poche volte che il riconoscimento viene attribuito a una scrittrice che si esprime in una lingua che non appartiene all’occidente europeo. Prima di Han Kang bisogna risalire al cinese Mo Yan nel 2012, al giapponese Kenzaburo Oe nel 1994, all’egiziano Naghib Mahfuz nel 1988 e ancora al giapponese Yasunari Kawabata nel 1968.
Nata il 27 novembre 1970 nella città di Gwangju, Kang a nove anni si trasferisce con la famiglia a Seul, dove studia letteratura coreana e ora da vari anni insegna scrittura creativa. Il Nobel è stato preceduto da altri prestigiosi riconoscimenti internazionali, tra cui il Man Booker International Prize nel 2016 per La vegetariana, e il premio Malaparte nel 2017 per Atti umani.
Ad oggi i testi di Han disponibili in Italia sono cinque: Convalescenza[1], che raccoglie due novelle (la prima dà il titolo alla silloge, ma è la seconda – del 2000 – a essere più nota: Il frutto della mia donna). Seguono La vegetariana[2] (pubblicato in Corea nel 2007), L’ora di greco[3] (pubblicato in Corea nel 2011), Atti umani[4] (pubblicato in Corea nel 2014). Non dico addio[5] (pubblicato in Corea nel 2021) è uscito in Italia nel novembre 2024, circa un mese dopo l’assegnazione del Nobel. La lontananza culturale, oltre che geografica, è segnata anche dal fatto che i primi tre testi pubblicati per i tipi dell’italiana Adelphi (La vegetariana, Atti umani e Convalescenza) sono stati tradotti dall’inglese da Milena Zemira Ciccimarra, e solo gli ultimi due (Atti umani e Non dico addio) direttamente dal coreano da Lia Iovenitti, con la revisione di Ciccimarra. Rimane tutta da scoprire la produzione poetica della scrittrice coreana, che nel 1993 iniziò dalla poesia il percorso di ricerca letteraria che l’ha portata oggi al Nobel.
In questo articolo presenteremo i libri nell’ordine in cui sono stati scritti, non in quello in cui sono comparsi tradotti in italiano.
«Convalescenza»
La prima novella, Convalescenza[6], racconta di una giovane donna che si trova a doversi confrontare con la morte della sorella più grande. La protagonista si misura soprattutto con il radicale silenzio che a un certo punto delle loro vite è calato tra le due donne, per una scelta compiuta dalla maggiore (che non raccontiamo, per non togliere il piacere della scoperta al lettore), in cui la più piccola viene coinvolta, divenendone silenziosa testimone. Per questo viene punita, allontanata, tenuta sotto la cappa di un opprimente silenzio, perché «lei c’era e sa».
Dopo la morte della sorella, per la sopravvissuta si apre il tempo del senso di colpa e delle domande: avrebbe potuto agire diversamente, avrebbe potuto ribellarsi prima al silenzio imposto? La dura consapevolezza di scoprirsi altrettanto fredda e distante si cristallizza in una ferita alle caviglie che non vuole guarire e misteriosamente impiega tempi lunghissimi per sanarsi. La «convalescenza» del titolo è fisica e spirituale al tempo stesso; quella corporea diviene simbolica di una fatica a far pace con sé stessa e del rifiuto inconsapevole di sopravvivere alla sorella. Il finale, che pure è solo temporaneo, lo indica bene. Finale temporaneo, perché la scrittrice, con notevole sensibilità, apre lungo il racconto vari squarci sul futuro: «Non sai che fra due giorni», «non sai che più di un mese dopo», «non sai che un mattino freddo», «che un martedì pomeriggio», «che una domenica sera», «non sai che ti ostinerai».
La seconda novella, Il frutto della mia donna[sup][7][/sup], racconta la storia di una giovane donna che lentamente si trasforma in un albero. Si tratta di un racconto in prima persona singolare, dal punto di vista del marito, ma tutto femminile nella vibrante sensibilità. Protagonista è il corpo, quello della donna, che cambia lentamente, si irrigidisce, si trasforma in albero, nell’assenza di intimità fisica con il marito, nel distacco silenzioso e povero di familiarità che segna i rapporti tra i due. I personaggi maschili, non solo di questo racconto ma anche de La vegetariana, sono meschini e violenti. La scrittura di Han è anche denuncia di una società ancora fortemente maschilista, quasi sciovinista.
Quel che avviene a un certo punto sembra essere un’evoluzione, perché la trasformazione porta con sé il «contatto» con l’esistente, la capacità di «sentire» in modo profondo ciò che avviene intorno a lei a fronte dell’evidente grettezza del marito. «Sento spuntare boccioli e schiudersi petali in luoghi vicini e lontani, le larve uscire dal bozzolo, cani e gatti partorire i loro cuccioli, il tremulo altalenare del battito cardiaco del vecchio nel palazzo accanto, gli spinaci che sbollentano in una casseruola nella cucina al piano di sopra, un mazzo di crisantemi recisi che vengono messi in un vaso accanto al grammofono nell’appartamento di sotto»[8].
Un’interruzione sorprendente nel fluire del racconto si apre quando all’improvviso la voce della donna compare in prima persona singolare, ed è un dialogo con la madre, in un misto di ricordi fra nostalgia e lucidità, consapevolezze e rimpianti: «Mamma. Non sono più in grado di scriverti delle lettere. […] I raggi del sole che penetrarono nella mia carne nuda erano così simili al tuo profumo che mi inginocchiai lì e chiamai: Mamma, mamma. Nessun’altra parola»[9].
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Trasformarsi in albero è un gesto di ribellione gentile nei confronti del mondo? Eugenio Giannetta ha scritto: «Han Kang in quasi tutti i suoi testi mostra interesse per situazioni di vita estreme, raccontate attraverso uno stile metaforico, spesso poetico, scabro, essenziale ma carico di una sorta di fisicità, composta di frasi concise, periodi brevi, testi scolpiti nella precisione delle descrizioni, vive, originali, corporali nella capacità di creare una sorta di stimolazione sensoriale, anche e spesso di stati d’animo interiori collegati al malessere»[10].
«La vegetariana» e «L’ora di greco»
La vegetariana, che è il romanzo che ha dato fama internazionale a Han, fu scritto nel 2007. Tradotto in inglese nel 2016, in quell’anno fu il primo libro coreano a vincere il Man Booker International Prize. Il romanzo riprende l’intuizione e le immagini della novella precedente e si compone di tre sezioni, intitolate rispettivamente «La vegetariana», «La macchia mongolica», «Fiamme verdi». La protagonista Yeong-hye è presentata attraverso gli occhi delle persone che le stanno accanto: il marito Mr Cheong, il cognato e la sorella In-hye. Il marito la vede come una donna priva di qualsiasi attrattiva, fisica, intellettuale o di temperamento.
Lo sguardo misero, distaccato e superbo del consorte cambia quando la donna improvvisamente decide, da un giorno all’altro, di diventare vegetariana. La scelta di Yeong-hye suscita grande sorpresa, aperto sconcerto e netto rifiuto nell’ambiente familiare. Lungi dall’essere questa scelta in qualche modo ideologicamente o idealisticamente fondata, si scopre ben presto che la donna è tormentata da incubi nei quali sangue e violenza la scuotono profondamente. Sogna «una lunga canna di bambù da cui pendono enormi quarti di carne rosso sangue, ancora gocciolanti di sangue. Cerco di passare oltre ma la carne… non c’è fine alla carne, e nessuna via di uscita. Ho del sangue in bocca, i vestiti intrisi di sangue appiccicati alla pelle»[11]. I sogni si ripetono, diventano ancora più vividi: «Sogno un omicidio. Uccido qualcuno o vengo ammazzata… Le distinzioni sono confuse, i confini si erodono. […] Adesso i sogni vengono più volte di quanto non riesca a contare. Sogni sovrapposti ad altri sogni, un palinsesto dell’orrore. […] Omicida o vittima, un’esperienza troppo nitida per non essere reale»[12].
La conclusione è nitida, dolorosamente limpida. Tutti noi siamo portatori di una carica di violenza che cerchiamo di mascherare. «Comincia a sembrarmi tutto insolito, quasi mi fossi accostata al rovescio di qualcosa. Chiusa dentro una porta senza maniglia. Forse solo ora mi ritrovo faccia a faccia con qualcosa che è sempre stato qui. È buio»[13]. La violenza non è solo nei sogni, ma anche intorno a lei, nelle relazioni fondamentali: il marito con i suoi giudizi impietosi e lo sguardo di un uomo che misura tutto in base al proprio tornaconto; la famiglia e i genitori. La scena del pranzo di famiglia è disturbante per la violenza con cui il padre, ex soldato nella guerra in Vietnam, agisce sulla figlia, per costringerla a mangiare contro la sua volontà.
La seconda parte – «La macchia mongolica» – avviene due anni dopo. La donna ha ricevuto le carte del divorzio dal marito, in una forma moderna di ripudio con libello, di biblica memoria. Lo sguardo sulla donna è ora affidato al cognato della donna, un videoartista che vive alle spalle della moglie In-hye, la sorella più grande di Yeong-hye. Ancora una volta un sogno è il motore che muove la vicenda. L’uomo sogna due corpi nudi, un uomo e una donna, con la pelle ricoperta da disegni di fiori e piante. Decide di coinvolgere la cognata e senza troppi ostacoli la convince a realizzare un’opera video.
La donna vive ora una condizione di crescente distacco dal mondo, fermamente ancorata al suo vegetarianismo. La sua figura evoca la postura delle vestali, così tranquilla da mettere a disagio le persone intorno a sé. Tutto è disposta a compiere per far cessare i sogni che ancora la tormentano[14]. Usando alcune immagini bibliche, estranee al linguaggio della scrittrice ma facilmente evocabili per un lettore occidentale, la condizione della donna esprime il desiderio di regressione o ritorno al tempo paradisiaco, al giardino primordiale, dove non c’è violenza, né vergogna dei propri corpi. Anche ne «La macchia mongolica» l’elemento della corporeità è centrale, e a un certo punto viene definito «sacro», fusione dell’elemento umano e animale e vegetale, «manifestazione del tempo primigenio», «dell’eternità».
La terza parte, infine, si colloca un anno dopo ancora. Scoperto dalla moglie, il marito è fuggito, lasciandola sola a occuparsi del figlio. Yeong-hye ha un ulteriore crollo psicotico. Il precario equilibrio fino a quel punto mantenuto viene meno e la donna viene chiusa in una clinica, da cui a un certo punto fugge, per essere ritrovata nel folto di un bosco, dove persegue il folle intento di diventare un albero. La sua condizione è drammatica, perché dalla scelta di un rigido vegetarianismo è passata a una forma conclamata di suicida anoressia nervosa, rifiutando qualsiasi tipo di nutrimento.
La terza sezione si svolge nell’arco temporale dell’ultima visita di In-hye alla sorella Yeong-hye, per convincerla a riprendere a mangiare, prima che la sua ostinazione la porti a una definitiva e irreversibile ospedalizzazione in terapia intensiva. Il racconto ha toni disperati. Le radici della scelta del vegetarianismo si approfondiscono ancora. È una sezione che sconvolge per la descrizione della lotta di Yeong-hye contro i tentativi di alimentarla; il senso di oppressione che avvolge le due sorelle è molto forte, e ciò che nella novella Il frutto della mia donna aveva un tono quieto e pacifico, ne La vegetariana è angoscioso.
Andrea De Benedettis scrive: «Han Kang ha reso protagonista della sua narrativa il corpo, principalmente quello delle donne, dimenticato quando non mortificato da una società goffamente maschilista. E, attraverso il corpo, ha fatto passare questioni di più ampia portata, dalla violenza domestica alle claustrofobiche dinamiche sociali»[15].
Rispetto all’immaginario biblico, al termine della lettura di questo romanzo, che ad oggi costituisce ancora il testo più noto della scrittrice coreana, ci siamo chiesti se sia possibile avvicinare la figura di Yeong-hye a quella di alcuni grandi profeti biblici. L’intento comunicativo è chiaramente distinto, eppure qualcosa che costringe all’autocritica sui temi fondamentali della giustizia e della conversione a un’umanità meno violenta permane. Il rifiuto radicale di nutrirsi di carne può essere avvicinato ad alcuni gesti-azioni profetici? L’Antico Testamento ne riporta 32, alcuni dei quali sono molto noti: in 1 Re 19,19-21, Elia getta il mantello su Eliseo per esprimere la sua investitura; in Osea 3,1-5, il profeta sposa una donna adultera e vive separato da lei, senza rapporti sessuali, come Israele sarà privato del governo e del culto, per poi tornare a cercare il suo Dio; in Isaia 20,1-6, il profeta vive tre anni acconciato come un prigioniero di guerra per simboleggiare il destino in cui incorreranno l’Egitto e l’Etiopia. Ma i più famosi sono i gesti di Geremia: la cintura di lino nascosta nella roccia presso l’Eufrate (cfr Ger 13,1-11); il celibato; il non avere figli; il partecipare ad atti di cordoglio ed evitare banchetti (cfr Ger 16,2-4.5-7.8-9); la brocca spezzata (cfr Ger 19,1-2.10-11); il giogo sulle spalle (cfr Ger 27,1-3) e l’acquisto di un terreno da parte del cugino (cfr Ger 32,1.7-15). Il gesto più estremo è quello di Ezechiele, che deve stare sdraiato sul fianco sinistro per 390 giorni per esprimere la colpa d’Israele, e poi 40 giorni sul fianco destro per espiare le colpe di Giuda[16].
La scelta di Yeong-hye non ha ragioni estetiche o ideologiche: è la scelta istintiva e necessaria che la coscienza le impone per prendere una netta posizione contro la violenza, che è presente non solo nella sua biografia, ma anche nella storia e, potremmo dire, allargando ancor più lo sguardo, nella condizione umana uscita da una situazione originaria di innocenza edenica. Yeong-hye è un quasi-profeta, che pone la domanda fortissima se sia possibile uscire dalla spirale della violenza. Eugenio Giannetta parla di un «percorso di trascendenza distruttiva ed estatica dissoluzione»[17].
Il romanzo successivo è L’ora di greco. Secondo Gennaro Serio è «quello che più di tutti lavora a essere con il suo lettore una relazione ambigua […], il romanzo più “letterario” di Han Kang, e il più sfuggente, incentrato su una serie, simbolica e concreta di questioni semantiche, che lavorano a costruire un ponte fragile»[18].
Si tratta di un romanzo con un nucleo poetico molto intenso, costruito per capitoli alternati, in cui ascoltiamo la voce, in prima persona singolare, di un uomo e il punto di vista, in terza persona singolare, di una donna, accomunati da una condizione fisica che li separa dal mondo esterno, come una spada separa di notte una donna e un uomo, secondo una leggenda medievale[19]. L’uomo, infatti, soffre di una malattia che lo sta portando alla cecità, mentre la donna è stata colpita da una forma di afasia estrema che non solo le ha tolto la voce, ma in modo più radicale l’accesso alle parole, persino per pensare.
Ritorna in questo romanzo la scelta di Han Kang per situazioni esistenziali estreme, che nella loro radicalità divengono metafora di situazioni umane generali: in questo caso, di solitudine ed estraniamento, di dolore e fatica. L’uomo e la donna si conoscono nell’aula di un corso di greco: lui è l’insegnante, lei una degli allievi. Il greco, lingua morta ed estrema a sua volta per la lontananza dal mondo culturale coreano, è il corrispettivo della condizione di estraneità dell’uomo, cresciuto in Germania e, ora che è tornato in patria, della sua solitudine in una società di pari tra i quali la sua origine asiatica non spicca più. Per la donna è la porta di un possibile recupero della parola, affinché ciò che la blocca nel profondo si apra nuovamente, come nella sua adolescenza un’analoga condizione di mutismo temporaneo era terminata con la scoperta della parola francese bibliothèque,dal sapore consapevolmente borgesiano, con la citazione del quale si apre il romanzo: «C’era una spada tra noi»[20].
Due elementi caratterizzano e segnano il romanzo. Il primo è il greco, con la sua complessità grammaticale che permette a ogni parola di esistere in modo autosussistente, di stare con la sua pienezza di significato senza bisogno di relazione. Esso sembra esprimere quel desiderio di autosufficienza che, in modi diversi, entrambi i personaggi perseguono. Lui dice: «Tuttavia, era proprio il suo sistema grammaticale complesso – e il fatto che fosse una lingua morta da secoli – a farmela sentire come una stanza tranquilla e rassicurante. […] Fu in quel periodo che gli scritti di Platone cominciarono ad attraversarmi come una calamita. […] Proprio come in precedenza ero rimasto ammaliato dal buddhismo, che recide di netto il legame con la realtà dei sensi. E cioè, perché ero destinato a perdere il mondo visibile?»[21].
Il secondo elemento è il filosofo Platone, con la filosofia delle idee che esprimono condizioni di pienezza, di bellezza e di eternità: è possibile una vita che si muova su questi parametri? Che escluda l’imperfezione? «La morte e la dissoluzione divergono apriori dalle Idee. Il nevischio che si scioglie trasformandosi in fanghiglia non può corrispondere a un’Idea. […] È necessario che ci sia la luce, per quanto fievole. […] Anche per il bello e il sublime più infinitesimali, deve esserci per forza una luce di segno positivo. Come fai a parlare di un’Idea della morte e della dissoluzione? È come parlare di triangoli rotondi!»[22].
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE
Da parecchio tempo, le cronache italiane sono colme di delitti perpetrati contro le donne. Il fenomeno riguarda tutte le età e condizioni sociali, tanto da sembrare endemico nella nostra società. A questo tema è dedicato un episodio monografico di Ipertesti Focus, il podcast de «La Civiltà Cattolica».
Il finale sembrerebbe smentire la ricerca di purezza di entrambi, e il limite doloroso, di cui entrambi sono segno, non li porta a una chiusura di morte, come ne La vegetariana avviene per Yeong-hye, ma ad aprirsi l’uno all’altra nella forma di cui ciascuno è portatore. Come afferma la scrittrice, L’ora di greco ha il finale positivo che manca al romanzo precedente, e il racconto che nasce come prosa narrativa fluente diventa via via sempre più lirica e poetica, arrivando nel finale a «sfarinarsi» in frammenti di pensieri e ricordi, e infine in singole parole poetiche, oppure in frammenti che hanno colore e vita solo dentro un caleidoscopio[23]. Anche ne L’ora di greco l’elemento onirico ha un ruolo importante, come quello corporeo, che è dimensione cara a Han: «Constato semplicemente con calma che non c’è altro mondo al di fuori del sogno dove potrei fuggire di nuovo»[24].
«Atti umani» e «Non dico addio»
Dopo aver esplorato la condizione umana del limite, con una delicatezza e una profondità peculiari, avendo anche usato la potenza significativa della corporeità, Han si apre alla Storia, e ciò che prima costituiva lo sfondo, ora occupa il primo piano, diviene l’oggetto della sua indagine narrativa. Ci troviamo concordi con Eugenio Giannetta quando scrive: «Un’altra caratteristica fondamentale dell’autrice è quella di muoversi tra immagini inquietanti, oniriche e un’inclinazione naturale alla letteratura testimoniale, al perseguimento della verità»[25].
Nel segno di una consapevolezza sociale e storica matura, Han narra due episodi della storia coreana. Il primo è la cosiddetta «rivolta di Gwangju», avvenuta nel 1980 e raccontata in Atti umani. Il secondo è la decimazione di migliaia di abitanti dell’isola di Jeju tra la fine del 1948 e il 1949[26], nell’immediato dopoguerra, per il sospetto che fossero simpatizzanti delle idee comuniste. In entrambi i romanzi l’intento «testimoniale» è evidente, e il desiderio di verità appare essere l’intento primo della scrittrice. Atti umani ha suscitato scalpore in ampie fasce della società coreana, e la scrittrice ha subìto forme di esclusione che forse l’assegnazione del premio Nobel ora cancellerà.
Atti umani assume il punto di vista di un ragazzo di 15 anni, Dong-ho, di cui Han, come scrive nell’epilogo, vuole difendere la memoria: patrocinio di innocenza che non vale solo per il singolo, ma per tutti coloro che dalla violenza militare in quel contesto furono brutalmente schiacciati. Afferma Lia Iovenitti: «Nella postfazione l’autrice rivela che si è sentita chiamata a scrivere il libro dopo aver visto le foto delle vittime inermi»[27]. Han scrive infatti: «Ricordo ancora il momento in cui il mio sguardo si posò sul volto sfigurato di una giovane donna, con i tratti massacrati da una baionetta. In silenzio, senza rumore, qualcosa di tenero nel profondo di me si ruppe. Qualcosa che fino ad allora non mi ero nemmeno resa conto ci fosse»[28].
L’episodio a cui la scrittrice fa riferimento sono le manifestazioni democratiche che ebbero luogo nella città di Gwangju il 18 maggio 1980: studenti universitari e molti cittadini scesero in piazza per chiedere al regime militare, che all’epoca governava la Corea del Sud, una serie di riforme democratiche. La repressione fu cruenta e le vittime furono centinaia; secondo alcune stime, la somma totale giunse a contarne 2.000.
La vicenda di quei giorni è raccontata nel primo dei sei capitoli. Il protagonista è Dong-ho, giovanissimo studente delle medie, che viene «seguito», nelle ore cruciali precedenti l’arrivo dell’esercito, da una voce narrante alla seconda persona singolare. Essa infonde un tono struggente e partecipato. Fin dalle prime righe la scrittura di Han si carica di toni lirici e pietosi: «Apri gli occhi, in modo che vi penetri solo un sottile spiraglio di luce, e osservi gli alberi di ginko di fronte all’Ufficio provinciale. Come se lì, in mezzo a quei rami, il vento stesse quasi per assumere una forma visibile. […] Quando apri bene gli occhi, i contorni degli alberi si fanno indistinti e sfocati. Presto avrai bisogno degli occhiali»[29].
Alla prima seguono altre cinque sezioni. I protagonisti sono altri giovani, ragazzi e ragazze appena ventenni. Dando voce di volta in volta a uno o a una di loro, Han giunge fino al 2002. Si assiste così all’evoluzione della società coreana. L’ultima parola è lasciata alla madre di Dong-ho, nel 2010. Se nei romanzi precedenti il corpo esprimeva la profondità del disagio e l’anelito all’innocenza, qui i corpi sono visti nella brutalità delle ferite, nella rigidità dei cadaveri, nella feroce decomposizione che sfigura. Sono corpi feriti, torturati, piegati e piagati. Quando le ferite fisiche guariscono, permangono le ferite emotive e relazionali. Il prigioniero alla fine giunge al suicidio, l’operaia si chiude in un distaccato silenzio, l’unico che le permette di continuare a vivere. L’incapacità di svolgere qualsiasi attività di concentrazione mentale compromette la ripresa degli studi; l’incapacità di avere relazioni intime impedisce di costruire una famiglia; persino il bisogno basilare di tornare a dormire viene negato dagli incubi ricorrenti; il bisogno di dimenticare non si realizza. Tutto questo è anche lo strascico di quei giorni, insieme all’ostracismo sociale subìto per molti anni da chi rimase coinvolto, anche casualmente, nelle proteste di quei giorni. Atti umani è un libro intenso, vibrante, di memoria prima che di condanna. La lettura è sufficiente per stupirsi, per provare pietà, per indignarsi, per soffrire. E per pensare.
Grazie alla distribuzione in sei parti distinte, ciascuna temporalmente collocata e affidata a punti di vista diversi – alcuni in seconda persona singolare, altri in prima singolare, altri in terza singolare –, la scrittrice ottiene un effetto prismatico e avvince, perché coinvolge con la sua scrittura che sa porsi con una «postura» di mente e di cuore rispettosa, precisa, attenta al dettaglio, umana.
Nella scia del romanzo storico è anche l’ultimo romanzo Non dico addio. Il titolo è programmatico, perché esprime l’intenzione di non dimenticare, di non lasciare che l’oblio cada sulle decine di migliaia di morti che ci furono nell’isola di Jeju tra la fine del 1948 e i primi mesi del 1949, quando alcune brigate militari di esuli nord-coreani della destra nazionalista furono incaricate di combattere contro alcuni presunti simpatizzanti comunisti. Ne risultò una carneficina di pescatori e povera gente, di molte donne e bambini; famiglie e villaggi interi spazzati via. Han vuole dare un nome alle cose per capire meglio e più in profondità, «per rileggere la storia e le sue atrocità in una dimensione etica, proponendo in modo innovativo uno dei grandi temi del Novecento, ovvero quello del dolore e del male, oltre alla perdita di umanità che caratterizza tutte le dittature»[30].
Non dico addio è perciò (soprattutto) una storia di violenza e di delitti. È una storia femminile, perché le protagoniste sono due giovani donne, e sullo sfondo vi è l’anziana madre di una di loro. Nella voce narrante di Gyeong-ha la scrittrice, fin dalle prime pagine, dissimula sé stessa. Ci sembra compia questa scelta per un gesto di responsabilità più che per intenti autobiografici. Come a far intendere che la voce che sentiremo nel corso del romanzo è la sua, e non quella di altri, e che la finzione narrativa è funzionale alla vicenda, un velo appena. La protagonista è infatti una giornalista che ha scritto un libro sui fatti avvenuti a G[31] e ora vive un momento di difficoltà personale.
La trama è molto semplice: l’amica Inseon, un tempo fotografa e a lungo collega, è in ospedale a Seoul e le chiede di andare a trovarla quanto prima. Gyeong-ha accorre e si trova di fronte a una richiesta inaspettata: prendere immediatamente un aereo per raggiungere in giornata la casa che un tempo era appartenuta alla madre sull’isola di Jeju, per dare dell’acqua al piccolo pappagallo Ama, che Inseon ha lasciato incustodito, dopo essersi gravemente ferita a una mano ed essere stata portata a Seoul. Con un certo sconcerto del lettore, Gyeong-ha accetta, e dopo poche ore si trova nell’isola, colpita da una violenta tempesta di neve, impreparata a raggiungere la casa che si trova al centro di Jeju, in mezzo alla tormenta che monta, con poche ore di luce a disposizione.
In realtà tra le due donne esiste un progetto artistico e fotografico che le lega profondamente da vari anni. Imprevisti e casualità hanno impedito la realizzazione di quest’opera, che consiste nel piantare 99 alberi e filmarli mentre a poco a poco vengono coperti dalla neve. Gyeong-ha ha abbandonato il progetto, stremata dal lavoro. Invece Inseon l’ha segretamente perseguito e, alla rivelazione che tutto il materiale è pronto per la realizzazione, per la responsabilità che sente di avere nei confronti dell’amica ferita mentre era al lavoro, non pensa di poter rifiutare l’aiuto che le viene chiesto.
La prima metà del romanzo serve solo per raccontare il viaggio. Quando la donna sembra essersi perduta ed essere destinata alla morte per assideramento (la descrizione della tormenta di neve e dell’oscurità incipiente a tratti si fa angosciosa), giunge alla casa, e da questo momento la prosa di Han si apre all’impossibile, fantastico rivelatore della verità. Tra il sogno e la fantasia, Inseon appare davanti all’amica, e il realismo della fatica per trovare luce e calore nell’abitazione di campagna si accompagna alla paradossale naturalezza con cui le due donne iniziano a parlare e a ricordare.
Il romanzo si apre con un sogno. Mentre cade la neve dal cielo in riva al mare le onde crescono e lambiscono pezzi di legno, forse lapidi, con forza e velocità crescente. È la marea che cresce. All’improvviso, la consapevolezza che l’acqua potrebbe distruggere e portare via con sé i cadaveri sepolti si fa angoscia e urgenza perché ciò non avvenga. Ancora una volta la dimensione onirica nei romanzi di Han rappresenta il punto di partenza della vicenda. Non colpisce perciò che la mediazione della storia familiare di Inseon e della madre sia affidata al tono onirico. È nella cornice di questa confessione che la figura dell’anziana donna, una vecchietta gentile ma in fondo insignificante, si rivela sotto una luce ben diversa.
Alcune linee conclusive
Abbiamo scelto di presentare le opere di Han Kang tradotte in italiano secondo l’ordine di creazione, non secondo quello di pubblicazione. Questa scelta ci sembra che abbia permesso di recuperare la dimensione evolutiva della ricerca narrativa della scrittrice, che a poco a poco passa dalla scrittura più intima al respiro ampio delle grandi vicende della storia, rimanendo fedele ad alcuni elementi che emergono dalla nostra presentazione, che riconosciamo semplice e forse inadeguata per i cultori della scrittrice coreana.
Il primo elemento è la consapevolezza della colpa e dell’impossibilità di dirsi innocenti. La violenza è fin da Convalescenza presente nelle trame dei lavori di Han Kang, in modo ben tematizzato da La vegetariana in poi. Se la prima risposta trovata dalla scrittrice è intima, espressa nella forma di un gesto personale di rivolta, poi prende coraggio e si fa memoria e racconto, denuncia, da un lato, ma anche via di riconciliazione, dall’altro.
Un altro dato ricorrente è la presenza dell’elemento vegetale e arboreo. Han ha dichiarato anni fa di essere rimasta profondamente colpita, negli anni della gioventù, dal verso del poeta Yi Sang: «Io credo che gli umani dovrebbero essere piante». E piante ambiscono a diventare le protagoniste femminili de Il frutto della mia donna e La vegetariana. Agli alberi è affidato il compito memoriale dei defunti di Jeju in Non dico addio. Pur semplice, non può essere ignorata la ricorrenza di alcuni elementi naturali: la luce come fonte di vita, soprattutto nelle prime opere; la neve come fonte di silenzio, di raccoglimento ma anche di pericolo e di oblio in altre opere, come L’ora di greco, e continuamente presente in Non dico addio.
L’ultimo elemento ricorrente che non possiamo non citare è il corpo. Questo elemento ricorre moltissime volte, è il protagonista silenzioso di tutte le storie. È un corpo che ricorda, che esprime quanto la mente non ha portato ancora a consapevolezza, che si ribella, che testimonia, che si trasforma, imperfetto e limitato, ma è anche un corpo oltraggiato, ferito, dilaniato, tormentato, nullificato. E dopo la lettura de La vegetariana o di Atti umani, l’occhio cristiano, abitato dalla fede, non può non interrogarsi sul mistero della sua dignità incoercibile. Il corpo è tempio dello Spirito, ma soprattutto è incarnato. Il dogma dell’incarnazione è il mistero di Gesù Cristo che si è svuotato, che non ha avuto paura di spogliarsi della sua uguaglianza con Dio per divenire simile agli uomini, per farsi obbediente fino alla morte (cfr Fil 2,6-8).
Il corpo, che dopo l’evento di Gesù Cristo è luogo di rivelazione, cosa dice a noi quando è maltrattato? Siamo consapevoli di ciò che compiamo quando lo ignoriamo o addirittura lo schiacciamo? Risuona la parabola del giudizio finale di Matteo (cfr Mt 25,31-46), vero criterio ermeneutico, morale e conoscitivo. Il Signore chiede sempre: «Quando mi hai dato da bere? Quando mi hai vestito? Quando mi hai nutrito? Quando mi hai curato?». La scrittura di Han pone l’altra faccia della domanda: dove erano la nostra coscienza e Cristo quando abbiamo schiacciato, non ascoltato, ferito il corpo altrui?
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[1]. Cfr K. Han, Convalescenza, Milano, Adelphi, 2019.
[2]. Cfr Id., La vegetariana, ivi, 2016.
[3]. Cfr Id., L’ora di greco, ivi, 2023.
[4]. Cfr Id., Atti umani, ivi, 2017.
[5]. Cfr Id., Non dico addio, ivi, 2023.
[6]. Cfr Id., «Convalescenza», in Convalescenza, cit., 11-41.
[7]. Cfr Id., «Il frutto della mia donna», in Convalescenza, cit., 43-86.
[8]. Ivi, 77.
[9]. Ivi, 74 s.
[10]. E. Giannetta, «Scrittura di connessioni», in Avvenire, 11 ottobre 2024, 19.
[11]. K. Han, La vegetariana, cit., 21.
[12]. Ivi, 36.
[13]. Ivi.
[14]. Sono molti i punti di contatto tra questa sezione e la seconda novella di Convalescenza: la macchia sulla pelle come condizione di partenza, il distacco emotivo, l’elemento vegetale, il ruolo della luce come elemento di vita, il bisogno della donna di ritornare a una condizione adamitica per assorbire il calore solare, come una pianta che si nutre di aria e sole.
[15]. A. De Benedettis, «Da Gwangju a Seul violenze penetrate nell’inchiostro», in il manifesto, 11 ottobre 2024, 12.
[16]. Cfr D. Garrone, «Le azioni simboliche dei profeti», in letterepaoline.net/2012/09/18/…
[17]. E. Giannetta, «Scrittura di connessioni», cit., 19.
[18]. G. Serio, «Tra il corpo e il dolore con grazia ossessiva», in il manifesto, 11 ottobre 2024, 12.
[19]. Il riferimento dell’autrice sembra essere alle figure di Tristano e Isotta e di Lancillotto e Ginevra di Chrétien de Troyes.
[20]. K. Han, L’ora di greco, cit., 11.
[21]. Ivi, 106 s.
[22]. Ivi, 104.
[23]. Cfr ivi, 89 s.
[24]. Ivi, 96.
[25]. E. Giannetta, «Scrittura di connessioni», cit., 19.
[26]. Secondo alcune stime, in pochi mesi vennero uccise 30.000 persone e molte furono incarcerate e torturate.
[27]. F. Musolino, «Vince Han Kang, la voce discreta della fragilità», in Il Messaggero, 11 ottobre 2024, 22.
[28]. K. Han, Atti umani, cit., 189.
[29]. Ivi, 11.
[30]. E. Giannetta, «Scrittura di connessioni», cit., 19.
[31]. Così nel testo del romanzo.
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Nel 2024 uccisi in tutto il mondo 13 missionari e operatori pastorali
Diminuisce il numero dei missionari e degli operatori pastorali uccisi in tutto il mondo negli ultimi anni, anche se il bilancio resta preoccupante. Nel 2024 sono 13 i missionari cattolici, di cui 8 sacerdoti e 5 laici, tra cui un catechista e un volontario, ad aver perso la vita a causa di un omicidio. Nel 2023 se ne contavano 20, 18 nel 2022 e 22 nel 2021. A tracciare un quadro dettagliato delle vite e delle circostanze delle morti violente di questi testimoni della fede è l’Agenzia Fides nel rapporto annuale curato da Fabio Beretta.
Sale a 608, così, il totale dei missionari e operatori pastorali uccisi dal 2000 al 2024. «Le poche notizie sulla vita e sulle circostanze in cui è avvenuta la morte violenta di queste persone – si legge nel documento dell’Agenzia Fides – ci offrono immagini di vita quotidiana, in contesti spesso contrassegnati dalla violenza, dalla miseria, dalla mancanza di giustizia. Si tratta spesso di testimoni e missionari che hanno offerto la propria vita a Cristo fino alla fine, gratuitamente».
È l’Africa a far registrare il più alto numero di operatori pastorali uccisi, con sei vittime, una in più di quelle avvenute in America, mentre sono due i sacerdoti morti a seguito di assalti violenti in Europa. Nel report dedicato al 2024, non compare l’Asia, dove lo scorso anno, invece, erano stati uccisi quattro operatori pastorali. «Come evidenziano le informazioni, certe e verificate, sulle loro biografie e sulle circostanze della morte, i missionari e gli operatori pastorali uccisi non erano sotto i riflettori per opere o impegni eclatanti – aggiunge il documento -, ma operavano dando testimonianza della loro fede nella ordinarietà della vita quotidiana, non solo in contesti segnati dalla violenza e dai conflitti».
Nel dettaglio, in Africa sono state uccise in tutto sei persone: due in Burkina Faso, una in Camerun, una nella Repubblica Democratica del Congo e altre due in Sud Africa. Altri cinque operatori pastorali, invece, sono stati uccisi rispettivamente in Colombia, in Ecuador, in Messico, in Honduras e in Brasile. In Europa, infine, sono morti per omicidio un padre francescano in Spagna e un sacerdote in Polonia.
Tra i sacerdoti uccisi nel 2024 anche il gesuita Marcelo Pérez assassinato mentre rientrava dalla parrocchia di Nuestra Señora de Guadalupe, a San Cristobal de las Casas, dopo aver celebrato la messa. Secondo le indagini, due sicari in motocicletta hanno raggiunto la vettura sulla quale si trovava il sacerdote e lo hanno colpito a morte la mattina di domenica 20 ottobre 2024. Attivista a favore dei diritti umani, p. Marcelo Pérez ha «sostenuto organizzazioni e gruppi religiosi indigeni, oltre a dirigere pellegrinaggi e attività sulla salute, la povertà e la violenza», scrive il rapporto. Inoltre, «nel 2019 era stato uno dei fondatori della Rete ecclesiale ecologica mesoamericana. Nel 2020 è stato insignito del premio Per Anger 2020, riconoscimento che viene assegnato a persone e organizzazioni che lavorano per i diritti umani e la democrazia».
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Memoria del 16 ottobre 1943, deportazione degli ebrei di Roma: sabato 8 ottobre ore 18,45 marcia da Piazza Santa Maria in Trastevere al Portico d'Ottavia
Ci avviamo a ricordare il 16 ottobre 1943. Una delle date più buie della storia della città di Roma. Una memoria che la Comunità di Sant'Egidio e la Comunità ebraica di Roma hanno custodito in (...)>
Identità Alterità Riconoscimento
In questo libro Marcello Paradiso, docente di teologia sistematica presso l’Istituto teologico abruzzese-molisano di Chieti, affronta tematiche classiche del pensiero occidentale, trattate non soltanto da pensatori cristiani, ma anche da autori comunemente presentati come critici verso l’eredità del pensiero giudaico-cristiano. Le correnti del personalismo, esistenzialismo, dialogismo, e categorie filosofiche come identità, alterità, riconoscimento, relazione, incontro sono il terreno fertile sul quale si fonda la società europea, pur nelle sue diverse declinazioni e versioni, a volte aspre e conflittuali.
La tesi proposta nel libro è che nella cultura europea continua a scorrere un fiume carsico di linfa cristiana, nonostante emergano posizioni estremamente dialettiche. Un pensiero onestamente critico non può non riconoscerlo. Non è illusorio ottimismo nutrire la speranza che tale eredità continui a essere indispensabile per il futuro della nostra civiltà. L’autore non nasconde la pretesa di affrontare problematiche attuali e interrogativi presenti nell’agorà della cultura contemporanea, non tanto per offrire risposte preconfezionate, quanto per contribuire al confronto e al dialogo tra diverse prospettive.
Il libro si articola in quattro capitoli, preceduti da una premessa e un preludio (che precisa i concetti presi in esame) e seguiti da un’appendice. Il primo capitolo è uno sguardo filosofico che va da Hegel fino a Ricœur, passando per alcune figure singolari come Kierkegaard, Heidegger, Sartre, Lévinas, e indaga i registri con i quali il percorso filosofico della modernità e contemporaneità si è cimentato riguardo alle questioni fondamentali dell’identità, alterità, riconoscimento, differenza e relazioni.
Il secondo capitolo è uno sguardo biblico, quasi una modalità di approccio al contenuto della rivelazione dal punto di vista dell’incontro tra Dio e l’uomo.
Il terzo capitolo – che vuol essere il cuore della proposta dell’autore – tratteggia il mistero delle relazioni tra le Persone divine.
Il quarto capitolo è uno sguardo sulla realtà della Chiesa nell’attuale contesto, insistendo sul tema dei suoi rapporti con il mondo, oltre che al suo interno. Il testo si conclude, nell’appendice, con una riflessione sulla preghiera come luogo dell’incontro tra Dio e l’uomo.
MARCELLO PARADISO
Identità Alterità Riconoscimento. Sulle relazioni umane e divine
Assisi (Pg), Cittadella, 2021, 232, € 17,90.
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