Podcast | Sud Sudan: «Un conflitto che non è mai finito»
Quattro milioni di sfollati, oltre 350mila morti, l’orrore delle fosse comuni, fame e povertà. Il Sud Sudan è il paese più giovane del mondo, ma allo stesso tempo uno dei più poveri, con una storia già segnata dalle violenze. Indipendente dal 2011, il paese ha già fatto i conti con sanguinari conflitti prima della firma degli accordi di pace del 2018.
Nonostante gli appelli di papa Francesco – che arrivò a chinarsi di fronte ai leader del paese, baciandone i piedi e implorando la pace -, oggi lo spettro della guerra torna a far paura, come racconta mons. Christian Carlassare, vescovo della diocesi di Bentiu. «Ci sono conflitti locali che scoppiano un po’ in tutte le regioni del paese, mentre le spese militari crescono anche in Sud Sudan, dove manca di tutto ma non mancano le armi». Ascolta il podcast:
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Sviluppo e realizzazione: Gianni Augello
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Orbital
Samantha Harvey, talentuosa scrittrice inglese, poco conosciuta in Italia, ha vinto l’edizione 2024 del Booker Prize con Orbital, opera originale che ibrida generi e tonalità di scrittura differenti, dal racconto al saggio scientifico, al diario di viaggio, alla meditazione e alla prosa poetica. Il romanzo descrive una giornata di vita quotidiana di quattro astronauti «occidentali» (Pietro italiano, Chie giapponese, Shaun americano e Nell inglese) e due cosmonauti russi (Anton e Roman) nella stazione internazionale che orbita intorno alla Terra, a 400 chilometri dalla superficie del nostro Pianeta. Per effetto della rotazione terrestre, i sei astronauti e cosmonauti ogni giorno assistono a 16 albe e 16 tramonti.
Orbital è un libro che innanzitutto celebra la bellezza del Pianeta. Molte sono le pagine che descrivono il paesaggio unico che si apre davanti allo sguardo dei sei viaggiatori spaziali. «La luce acquista bordi e membra, si piega e si apre. Si tende contro l’interno dell’atmosfera, si contorce e si flette, si allunga in nastri, si accende e si illumina, erompe in colonne di luce. Esplode attraverso l’atmosfera e innalza torri alte più di trecento chilometri. In cima c’è una striscia magenta che oscura le stelle, e su tutto il globo un ronzio di luce che scorre, tremola, abbaglia, e gli abissi dello spazio sono disegni di luce» (p. 53).
L’A. ci aiuta a recuperare il senso di meraviglia per l’incomparabile disuguaglianza che esiste tra il piccolo Pianeta che ospita la nostra vita e la vastità dell’infinito, e pone la domanda originaria: tanta bellezza è posta al centro del cuore e della mente da Dio? Oppure è una bellezza irrelata e lo spazio che si apre in vastità silenziose ci consegna a una radicale solitudine? Di fronte a sistemi solari e galassie, Nell si chiede chi sia l’autore: «Cosa può essere stato se non una forza sfrenata, disattenta e bellissima?» (p. 58). Di fronte allo stesso spettacolo, Shaun risponde: «Cosa può essere stato se non una forza sfrenata, attenta e bellissima?» (ivi). Harvey ci consegna domande preziose: «È solo questa la differenza tra i loro punti di vista, un po’ di attenzione? L’universo di Shaun è uguale al suo, ma è fatto con cura, segue un disegno preciso? Il suo è un evento naturale e quello di Shaun un’opera d’arte? La differenza sembra banale e insormontabile al tempo stesso» (p. 58). «E il progresso è bello?», fa chiedere la scrittrice a Pietro da sua figlia. E quanto può essere preziosa una vita che è «scivolata attraverso una crepa, una fessura della storia, e ha trovato una via di scampo mentre tutto crollava»? (p. 75). È la vita di Chie, la cui madre è sopravvissuta miracolosamente alla bomba nucleare di Nagasaki.
Ruotare intorno al Pianeta è vederlo senza confini e muri, e nemmeno tribù, guerre e corruzione, né particolari motivi per cui aver paura: «Un luogo senza limiti, un gioiello sospeso, così sorprendentemente luminoso. Non potremmo vivere in pace gli uni con gli altri? E con la Terra? Non è un desiderio ardente, ma una supplica disperata» (p. 90). Con essa contrasta un’altra consapevolezza: «Vedono finalmente la politica dell’avidità. La politica del crescere e prendere, la voglia di avere di più declinata in miliardi di modi diversi. […] Il pianeta è plasmato dall’incredibile forza dell’avidità dell’uomo» (p. 93). Sono molte le pagine che ci restituiscono un tono meditativo. Chi conosce la spiritualità ignaziana potrebbe trovare in tanti passaggi di questo libro materia per la «Contemplazione del mondo», proposta negli Esercizi spirituali.
Orbital è un romanzo di fantascienza? Se vogliamo usare le categorie di Fantascienza. Storia delle storie, di Angela Bernardoni e Andrea Viscusi (Roma, Armillaria, 2024), un agile manualetto che presenta in senso cronologico la nascita e lo sviluppo di questo genere letterario, possiamo rispondere con sicurezza che non lo è. Orbital, infatti, non presenta un futuro possibile, ma è costruito sul presente e sul passato recente. Ci restituisce delle avventure «spaziali» il sapore di un’impresa che sino a qualche decennio fa coinvolgeva l’intera umanità. Questo romanzo è pervaso di una sottile anima nostalgica. Ci riporta a quando la conquista dello spazio apparteneva alla narrazione comune, all’idea di un progresso a vantaggio di tutti gli esseri umani. Oggi lo spazio sembra essere il cortile per la competizione tutta privata di pochi super ricchi, che hanno le risorse per giocare a fare gli astronauti.
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Ester, la stella del terzo giorno
Questo volume si inserisce all’interno della collana denominata «Il Melograno», che intende presentare le riletture dei personaggi biblici nell’esegesi ebraica e cristiana. In questo caso si tratta di Ester, la regina che con la sua intercessione ha salvato il popolo d’Israele, destinato a un pogrom ante litteram nel contesto dell’impero persiano.
Sin dalle prime pagine l’A. mostra di dominare sia le questioni specifiche su questo libro biblico sia la storia dell’interpretazione nel primo millennio in ambito cristiano ed ebraico. Il primo capitolo, infatti, è dedicato a «Ester nella tradizione ebraica e cristiana» e costituisce un’introduzione alle questioni che saranno sviluppate successivamente. Il lettore può così familiarizzare con la pluriformità testuale del libro di Ester attraverso la succinta descrizione delle versioni ebraica, greche e latine. La tradizione interpretativa giudaica, a causa dell’assenza di questo libro tra i manoscritti del Mar Morto, riguarda i Targumim e i testi talmudici e midrashici.
Tra le riletture della tradizione cristiana, si menzionano il Nuovo Testamento con le sue possibili citazioni implicite (in particolare in Mc 6,23), la Vetus Latina e alcuni Padri della Chiesa. Un dato rilevante, che Michelini ribadisce più volte, è che si sarebbe dovuto attendere Rabano Mauro, nel IX secolo, per trovare un commento cristiano più o meno completo al libro, che è stato solo occasionalmente menzionato dai Padri della Chiesa precedenti.
Nei capitoli successivi si affrontano temi specifici, che hanno ricevuto trattazioni affini o divergenti da parte di ebrei e cristiani nel corso dei secoli. Nel secondo capitolo si considera il nome «Ester», che deriva dal persiano e significa «stella», in relazione al nome di Dio: questi è assente dal libro ebraico, ma ben presente e attivo nei testi greci. Il terzo capitolo mette a confronto il ruolo della bellezza di Vasti, la prima regina del racconto, con quello di Ester nell’economia del racconto. La preghiera di Ester è oggetto del quarto e più lungo capitolo del libro. Qui l’A. si destreggia bene tra questioni testuali – la Vetus Latina ha una preghiera di Ester particolarmente ampia – e di storia dell’interpretazione: ne emerge l’idea che i commentatori ebrei conoscevano e apprezzavano quella preghiera, che oggi è conservata solo nei manoscritti biblici greci e latini. Il quinto capitolo si sofferma sul tema del «terzo giorno», nel quale Ester decide di presentarsi al re persiano per intercedere per il suo popolo: l’esegesi ebraica vi riconoscerà un topos letterario legato all’intervento salvifico di Dio. Proprio l’episodio dell’incontro tra Ester e il re è oggetto del sesto capitolo: i rabbini amplieranno la scena, facendo intervenire lo Spirito Santo e gli angeli a difesa di Ester, mentre gli interpreti cristiani sottolineeranno il suo coraggio «virile». Il settimo capitolo dimostra in modo convincente come la ripresa del Salmo 22 in relazione a Ester da parte ebraica sia probabilmente una risposta agli autori neotestamentari, che lo avevano già riferito a Gesù in croce (cfr Mc 15,24.34).
La scrittura di questo volume è estremamente gradevole e accompagna passo passo il lettore, avendo cura di introdurre i nuovi argomenti con brevi premesse e di riprenderli in modo esaustivo alla fine di ogni capitolo grazie a sezioni dal titolo «Visioni d’insieme». Nel complesso, si tratta di un’opera che ha il pregio di mostrare con lucidità e senza infingimenti le ragioni e i limiti delle interpretazioni ebraica e cristiana di un libro biblico forse non così marginale com’è quello di Ester.
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Atanasio d’Alessandria
P. Enrico Cattaneo, professore emerito della Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, Sezione S. Luigi, di Napoli, e del Pontificio Istituto Orientale di Roma, è anche un valente collaboratore de La Civiltà Cattolica. La sua produzione scientifica e la sua attività di insegnamento nel corso di diversi decenni lo hanno reso uno dei più autorevoli studiosi di Patristica italiani, noto anche a livello internazionale. Ha scritto moltissimi articoli, pubblicati in numerose riviste, opere collettanee, atti di convegni, e le due pubblicazioni che presentiamo contengono raccolte di contributi selezionati dallo stesso A., resi così più accessibili.
Fra i suoi studi, molti riguardano i Padri greci. Ne è un esempio il volume che presentiamo su Atanasio d’Alessandria, che contiene 10 articoli diversi su questo famoso vescovo, tra i protagonisti del Concilio di Nicea (di cui quest’anno si celebra il 1700° anniversario) e delle controversie sull’arianesimo.
Mentre il primo libro esce per iniziativa dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Benevento, il secondo è il risultato di un’importante iniziativa editoriale della Facoltà di Napoli, dove p. Cattaneo ha insegnato per decenni. La professoressa Agnes Bastit-Kalinowska, il professore Dario Garribba e il gesuita p. Domenico Marafioti S.I., in occasione dei suoi 80 anni, hanno voluto promuovere questa raccolta di 20 articoli – scelti secondo le indicazioni dell’A. stesso –, a cui premettono un’ampia Introduzione. Diamo solo un’idea del ricco contenuto.
Gli scritti più specificamente patristici possono essere suddivisi in tre gruppi. Il primo è di attenta analisi dei primi testi cristiani, a cavallo tra i libri «canonici» del Nuovo Testamento e gli inizi del corpus patristico (Didaché, Lettera di Barnaba, Lettera di Clemente ai Corinzi, Lettere di Ignazio di Antiochia). Il secondo consta di tre articoli di notevole importanza teologica su Ireneo di Lione. Il terzo gruppo abbraccia studi su Origene e su autori del IV secolo: Atanasio, Basilio, Ambrogio, Agostino, Paolino di Nola; una serie di contributi che pongono prevalentemente l’accento sul cammino interiore e spirituale.
Un’ultima parte del volume ripropone quattro saggi teologici – «La Tradizione liturgica nel processo ricevere-trasmettere»; «Tradizione e Magistero»; «Tradizione e Scrittura»; «I ministeri nella prima Chiesa» – che sono il frutto dei molti anni di insegnamento svolto dall’A. sul trattato «Tradizione e Ispirazione», nell’ambito della Teologia fondamentale. P. Cattaneo non si è limitato ad analizzare e studiare i testi dei Padri, ma, seguendo l’esempio di altri grandi teologi moderni, si è confrontato con le problematiche del nostro tempo, in particolare con le tensioni emerse nel post-concilio. Così tratta di esegesi e dogma, dogma e storia, storia e teologia, della discussione sul Gesù storico e il Cristo della fede, del rapporto tra esegesi storico-critica ed esegesi dogmatica, dogma ed ermeneutica, Chiesa istituzione e Chiesa mistero. Quindi, lo studioso dei Padri non rimane confinato in un mondo lontano, ma può contribuire con competenza e rigore metodologico anche alle discussioni attuali sulla tradizione liturgica, sul sensus fidelium, di cui parla il Concilio nella Lumen gentium, sulla caratteristica «profetica» del Magistero ecc.
Diventato professore emerito, p. Cattaneo continua con passione e intensa «produttività» le sue ricerche e le sue pubblicazioni. Probabilmente vedremo altri volumi come questi e gliene saremo grati.
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Dieci anni della «Laudato si’»: sfide e speranza
Durante il Giubileo del 2025 si celebrerà il decimo anniversario dell’Enciclica Laudato si’ di papa Francesco sulla cura della nostra casa comune. Per celebrare questo evento, la conferenza Ten Years of Laudato si’: Challenges and Hope esplorerà le prospettive future e ciò che è stato fatto per attuare la Laudato si’, esaminando alcune questioni specifiche come: l’educazione all’ecologia integrale, la giustizia sociale, le sfide ambientali, la transizione climatica e il futuro della teologia sotto la sfida dell’ecologia integrale.
L’evento si terrà dal pomeriggio di giovedì 12 giugno 2025 al mattino di sabato 14 giugno presso la Pontificia Università Gregoriana a Roma. La tre giorni di lavori è stata organizzata da Ateneo de Manila University; il Berkley Center for Religion, Peace and World Affairs della Georgetown University; l’Institut de Théologie de la Compagnie de Jésus; l’Integral Ecology Research Network (Laudato Si’ Research Institute, Campion Hall, University of Oxford); la Loyola University Chicago (School of Environmental Sustainability); la Pontificia Università Gregoriana (Laudato si’ Observatory of the Faculty of Social Sciences); la Pontificia Universidad Javeriana e in partnership con La Civiltà Cattolica e la Curia Generalizia dei Gesuiti.
Per partecipare all’evento è richiesta la registrazione gratuita da effettuarsi entro il 10 giugno 2025. Per maggiori informazioni: laudato-si.observatory@unigre.it.
Clicca qui per approfondire il tema con gli articoli pubblicati da La Civiltà Cattolica sull’Enciclica Laudato si’ di papa Francesco e sul tema.
La locandina dell’evento.
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Israele ancora in guerra
Il 7 ottobre 2023, quando Hamas ha colpito duramente Israele, uccidendo quasi 1.200 persone e rapendone 250, il Paese sembrava vulnerabile e confuso, circondato da nemici e in lite con il suo principale alleato, gli Usa. Subito dopo la situazione si è rovesciata: Israele ha bombardato con decisione Hamas, eliminando la maggior parte dei suoi capi e molti dei suoi attivisti e facendo terra bruciata nel territorio; anche l’Hezbollah libanese, che si era attivata in difesa dell’alleato palestinese, è stata fortemente colpita con attacchi micidiali, anche se non annientata. Inoltre, il cambio di regime in Siria ha tagliato la principale linea di rifornimento diretto di Hezbollah, e il cosiddetto «anello di fuoco» intorno a Israele, che l’Iran in questi anni era riuscito a costruire, è in tal modo saltato. Anzi, Israele è riuscito a resistere, grazie alla copertura militare statunitense, agli attacchi missilistici iraniani e a contrattaccare con successo, distruggendo per rappresaglia le difese aeree iraniane.
La fine del cessate il fuoco
Su pressione degli Stati Uniti, Tel Aviv ha poi posto fine alla guerra su entrambi i fronti, stipulando un cessate il fuoco prima con Hezbollah, poi – a gennaio del 2024, dopo aver quasi raso al suolo Gaza, ucciso più di 50.000 persone, molte delle quali civili – con Hamas. In quest’ultimo caso, al termine delle sei settimane di tregua, si sarebbe dovuto negoziare una fine permanente della guerra. Durante la prima fase della tregua, le posizioni sui passi successivi da compiere si erano nuovamente distanziate. Hamas voleva procedere alla seconda fase, che prevedeva un cessate il fuoco permanente, il ritiro completo dell’esercito israeliano da Gaza e la liberazione degli ultimi ostaggi in mano ai miliziani. Israele, invece, voleva che la prima fase continuasse fino a metà aprile e, per passare alla seconda, pretendeva la smilitarizzazione totale del territorio e il rilascio degli ostaggi[1].
Fatto sta che il 18 marzo Israele ha abbandonato l’accordo sul cessate il fuoco e ha ripreso con decisione gli attacchi contro Gaza, occupandone con l’esercito una parte e bloccando l’ingresso degli aiuti umanitari e dei macchinari per lo sgombero dei detriti. Inoltre, è stato costruito il nuovo «corridoio Morag», che separa Rafah da Khan Yunis: un corridoio lungo 12 km e largo due. Questo muro fortificato cinge il 20% del territorio della Striscia, creando una sorta di zona cuscinetto. «Controlleremo – hanno dichiarato i comandanti della 36a divisione – l’intera fascia dalla frontiera con l’Egitto fino al corridoio Morag, tutta Rafah sarà evacuata»[2]. Non potendo mandar via gli abitanti dell’enclave, Israele punta a concentrarli in zone chiuse, e presumibilmente recintate, aspettando che la disperazione li spinga ad andarsene[3].
Il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres – che il governo dello Stato isreaeliano considera un nemico –, parlando in una conferenza stampa degli effetti del blocco totale degli aiuti, ha definito Gaza «un campo di morte»[4]. Dalla ripresa dei bombardamenti, il 18 marzo, il numero dei morti è superiore a 1.500, ma è destinato a salire. Secondo l’esercito, si tratterebbe di miliziani e capi di Hamas; in realtà, una buona parte è costituita da civili e bambini. Il nuovo capo dell’esercito israeliano, Eyal Zamir, progetta di spopolare ampie zone della Striscia e di assediare chiunque vi rimanga. Intende anche mantenere i territori sgomberati, mentre il ministro della Difesa, Israel Katz, ha affermato di volersi prendere «parti sempre più ampie di territorio»[5].
Da parte sua, Donald Trump propone di spopolare la Striscia di Gaza con oltre due milioni di abitanti – allocandoli nei Paesi arabi limitrofi –, per farne una lussuosa riviera di proprietà degli Usa. Idea piuttosto bizzarra, ma che ha immediatamente guadagnato il favore di Netanyahu. A tale proposito, si è anche pensato di spopolare la zona su base volontaria, offrendo voli verso altri Paesi[6]. Da tempo il Mossad è stato incaricato di contattare governi stranieri che potrebbero avere interesse a ospitare i profughi palestinesi. Ma l’Egitto e la Giordania, i Paesi più vicini, già tirati in ballo da Trump, si sono detti contrari a tale iniziativa[7].
Circa i Paesi arabi, facciamo notare che da parte loro non c’è stata, durante la guerra di Gaza e neppure dopo il 18 marzo, una pressione molto forte nei confronti di Israele. Quando è iniziato il conflitto, molti governi temevano che esso avrebbe potuto scatenare disordini di piazza nei loro Paesi, come era accaduto in passato. Ma ciò non è avvenuto. In tal modo essi si sono accontentati di condanne retoriche, e nulla più. Nessuno dei Paesi arabi ha interrotto le relazioni diplomatiche con Israele. Neppure i cosiddetti «Accordi di Abramo», stipulati nel 2020 con quattro Paesi arabi, sono stati in qualche modo denunciati. L’Arabia Saudita afferma di essere disposta ad aderire al patto, a condizione che Israele dichiari formalmente di intraprendere un cammino verso il riconoscimento dello Stato palestinese e fermi gli attacchi sulla Striscia. Il che oggi è difficile da immaginare.
Mentre la guerra continua a Gaza, occasionalmente Israele ha ripreso a bombardare in Libano contro Hezbollah e in Siria in difesa dei drusi. Rispetto al passato, questa volta sta combattendo, su diversi fronti, alle sue condizioni e con il pieno sostegno statunitense. Secondo alcuni osservatori, questo «dilagare» oltre i suoi confini non lo rende certamente più sicuro. «La sua rinnovata supremazia militare porta con sé – scrive The Economist – il pericolo di un’estensione eccessiva e di aspri conflitti in patria»[8].
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Il 5 maggio, il gabinetto di sicurezza israeliano ha approvato un piano, detto «carri di Gedeone», per espandere la sua offensiva sulla Striscia di Gaza e conquistare l’intero territorio. Come previsto, esso è entrato in azione solo dopo la visita di Trump nei Paesi del Golfo Persico a metà maggio. Commentando il piano, Netanyahu ha dichiarato: «Lanceremo un’operazione massiccia a Gaza per sconfiggere Hamas e liberare gli ostaggi». «Questa volta – ha continuato – non saranno solo incursioni […], conquisteremo altri territori e li occuperemo per un lungo periodo»[9]. L’operazione, iniziata con i micidiali raid aerei, sta radendo al suolo edifici a mano a mano che avanza e invita i palestinesi a lasciare il territorio. Inoltre, Israele ha consentito l’ingresso a Gaza, dopo la pressione della comunità internazionale, di un minimo di aiuti umanitari, tra cui cibo, ponendo fine al blocco durato tre mesi. Gli attacchi dal nord della Striscia si sono estesi anche a sud. Gli abitanti di Khan Younis hanno ricevuto dall’esercito israeliano l’ordine di abbandonare immediatamente le loro case e andare verso l’area umanitaria di al Mawasi.
Israele si allarga
Alla luce di quanto sta succedendo nella Striscia e altrove, sembra chiaro che per Israele l’obiettivo non è semplicemente proteggere il Paese, ma espanderlo. L’estrema destra per anni ha sognato di ricostruire gli insediamenti ebraici a Gaza che erano stati evacuati nel 2005. Da un anno è in corso una rapida annessione di fatto della Cisgiordania, espandendo gli insediamenti israeliani, costringendo migliaia di palestinesi ad abbandonare le loro case e consentendo ai coloni di scatenarsi senza controllo. A partire dalla fine di gennaio, più di 40.000 palestinesi sono stati sfollati dai loro campi profughi nel nord del territorio. L’operazione è iniziata prima nel campo di Jenin, poi si è estesa a Tulkarm, a Nur Shams e a El Far’a. Il ministro Katz ha affermato che le truppe israeliane potrebbero rimanere in quei luoghi per molto tempo. Le operazioni ripetute e distruttive hanno reso inabitabili i campi profughi del nord, intrappolando i residenti in uno sfollamento ciclico. Nel 2024, «oltre il 60% degli sfollamenti è stato causato da operazioni poste in essere dalle forze armate israeliane, in assenza di ordini giudiziari»[10].
Nel frattempo, i legislatori israeliani hanno portato avanti progetti per espandere gli insediamenti. Il 23 marzo, il Gabinetto di sicurezza di Israele ha votato per legittimare 13 avamposti che erano stati costruiti senza il permesso governativo. Tutto questo in violazione del diritto internazionale, che vieta l’occupazione di quei territori. Il progetto dei politici di destra è quello di convincere Trump a sostenere il loro piano di annessione di tutta la Cisgiordania, o di una parte di essa, in modo da rendere impossibile la creazione di uno Stato palestinese: questo è il fine a cui tendono molte iniziative politiche di Netanyahu[11].
Il «progetto espansivo», come si è accennato, si allarga anche agli Stati limitrofi di Israele. Comprende una limitata parte della Siria, che include il monte Hermon, il punto più alto della zona[12]. All’inizio, durante i giorni dell’insurrezione, il territorio era stato occupato per motivi precauzionali e per impedire ai terroristi di guadagnare terreno. Ora però Israele non sembra più intenzionato ad abbandonare la regione, nonostante il presidente Ahmad al-Sharaa abbia intimato a Tel Aviv di ritirarsi. Negli ultimi tempi l’esercito israeliano ha bombardato quel territorio per proteggere gli interessi dei drusi. I suoi funzionari hanno apertamente suggerito per il nuovo Stato un modello confederale, in base al quale diverse minoranze etnico-religiose godrebbero di ampia autonomia[13]. Inoltre, i governanti israeliani non hanno fiducia nel presidente ad interim al-Sharaa, che considerano un terrorista jihadista della scuola di Al-Qaeda. In particolare, la Turchia, legata a doppio filo con Damasco e ostile a Tel Aviv per la guerra di Gaza, teme un’alleanza strategica tra Israele e i curdi, volta a destabilizzare la regione[14].
Va ricordato che Israele occupa ancora cinque piccole alture nel Libano meridionale, sebbene avesse promesso di abbandonarle alla fine di gennaio, quando era stato concordato il cessate il fuoco con Hezbollah[15]. Infine, sempre nella logica espansionistica, c’è il progetto, perseguito per anni da Tel Aviv, di attaccare le strutture nucleari dell’Iran. Impegno non facile e molto rischioso, che però la destra al potere intende portare avanti, al fine di schiacciare, una volta per tutte, l’Iran, il suo maggior nemico nella regione.
Il governo israeliano non può continuare un attacco di questa portata senza l’appoggio concreto degli Usa. Perciò si adopera perché l’operazione si svolga congiuntamente, cosa che in questo momento Trump non intende fare. A un’azione diretta egli infatti preferisce un accordo negoziale con Teheran, per non aprire nuovi fronti di guerra, che poi, come la storia insegna, sono difficili da gestire. In diverse occasioni ha però minacciato: «Se l’Iran non accetta l’accordo, ci saranno bombardamenti come non ne hanno mai visti»[16].
Questo comportamento da parte di Israele è la conseguenza del trauma vissuto il 7 ottobre 2023. La parola d’ordine oggi è passare immediatamente all’azione e affrontare i nemici prima di essere attaccati. Netanyahu parla di «sette fronti» contro i quali Israele deve combattere. A parte la propaganda, il Paese è in lotta, in modo differente, con diversi nemici che vorrebbero la sua distruzione, come Hamas, Hezbollah e gli Houthi nello Yemen e, non ultimo, l’Iran degli ayatollah.
Podcast | SUD SUDAN. «UN CONFLITTO CHE NON È MAI FINITO»
Quattro milioni di sfollati, oltre 350mila morti, fame e povertà. Il Sud Sudan è il paese più giovane del mondo, con una storia già segnata dalle violenze. Oggi lo spettro della guerra torna a far paura, come racconta mons. Christian Carlassare, vescovo della diocesi di Bentiu. Ascolta il podcast
Prima del 7 ottobre Israele cercava in tutti i modi di evitare un conflitto totale ed esteso, scegliendo, come strategia di attacco, sortite brevi e mirate. Spesso si accontentava di assassinare, con la collaborazione dei suoi abili servizi segreti, i leader nemici, utilizzando armi sofisticate. Tutte le volte che ha iniziato una guerra, come è capitato negli ultimi anni contro Hamas, si è trattato di attacchi brevi. L’obiettivo era scoraggiare o indebolire l’avversario, non annientarlo del tutto. Insomma, il contrario delle tattiche di guerra usate da Israele di recente contro i nemici[17].
Ritorni e licenziamenti
Le mire espansionistiche di Israele non hanno guadagnato il consenso dei cittadini. Una netta maggioranza sostiene i negoziati con Hamas e un ritiro dell’esercito da Gaza per riportare a casa gli ultimi ostaggi. Secondo un sondaggio dell’Israel Democracy Institute (Idi), il 73% degli israeliani ha affermato di voler attuare la seconda fase del cessate il fuoco[18]. Questo centro di ricerca, inoltre, ha riscontrato un calo considerevole nel sostegno dei cittadini al governo, alla Knesset e persino all’esercito. Molti israeliani ritengono che gli interessi dello Stato siano subordinati a quelli del primo ministro. Pensano che Netanyahu stia conducendo una guerra per avere dalla sua parte l’estrema destra, del cui sostegno politico ha bisogno per rimanere al governo fino alla fine, cioè per impedire che l’esecutivo crolli e che le cause giudiziarie pendenti a suo carico vadano avanti. Molti riservisti dell’esercito si chiedono se stiano conducendo una guerra molto cruenta per l’interesse nazionale (come viene detto) o nell’interesse di una parte politica, per lo più minoritaria[19].
In questi ultimi tempi, le manifestazioni contro Netanyahu hanno ripreso forza: secondo i dati dell’Idi, il 48% della popolazione israeliana chiede le sue immediate dimissioni[20]. Con il cessate il fuoco, il primo ministro non aveva alcuna intenzione di arrivare alla fine della guerra contro Hamas. I manifestanti e molti osservatori politici affermano che Netanyahu era motivato soltanto dal suo tornaconto politico. Da questo punto di vista, egli ha già ottenuto una vittoria: il ministro della sicurezza nazionale di estrema destra, Itamar Ben Gvir, che era uscito dall’esecutivo quando fu concordato il cessate il fuoco con Hamas, è tornato nel governo non appena l’esercito israeliano ha ripreso le armi contro Gaza. Netanyahu aveva bisogno dell’appoggio di Ben Gvir per l’approvazione del bilancio – avvenuta il 25 marzo scorso, con 66 voti a favore e 52 contro – e per evitare elezioni anticipate. La rottura del cessate il fuoco, paradossalmente, ha contribuito a spianare la strada al primo ministro per rimanere al potere fino alla fine del 2026[21].
Si deve tener presente che Netanyahu è sotto processo per corruzione dal 2020, sebbene si dichiari innocente. La guerra con Hamas ha contribuito a rinviare la sua resa dei conti con la giustizia, sebbene le continue manifestazioni di piazza gli chiedano di sottoporsi a giudizio. Netanyahu ha affermato di essere troppo impegnato negli affari di Stato per passare molto tempo al banco degli imputati. Inoltre, gli è stato concesso di ridurre da tre a due i giorni di presenza in tribunale.
Netanyahu sostiene di essere sotto attacco dello «Stato profondo», che è ostile alle posizioni governative e che utilizza il ministero della Giustizia come uno strumento contro di lui. Riprendendo le parole di Trump, ha dichiarato: «Negli Stati Uniti e in Israele, quando un forte leader di destra vince le elezioni, lo Stato profondo di sinistra usa il sistema giudiziario come un’arma per contrastare la volontà popolare. Non vinceranno né qui né negli Stati Uniti. Teniamo duro insieme»[22].
In questa lotta contro lo Stato profondo, Netanyahu ha licenziato Ronen Bar, direttore del servizio di sicurezza interno Shin Bet, che sta conducendo un’indagine sull’ufficio del primo ministro, i cui collaboratori sono accusati di corruzione per aver ricevuto somme di denaro dal Qatar, quando questo Paese arabo finanziava Hamas. Il governo vorrebbe liberarsi anche della procuratrice generale Gali Baharav-Miara, avviando nei suoi confronti un’inedita procedura di destituzione, che lei ha considerato illegittima, per cui non ha lasciato l’incarico. La procuratrice ha provato a bloccare i tentativi di allontanare Bar. Il 21 marzo 2025 la Corte suprema aveva sospeso l’intenzione del governo di liquidare il capo dello Shin Bet[23].
Tutte queste mosse politiche hanno alimentato la rabbia popolare e causato un’ondata di proteste. Netanyahu ha affermato che il licenziamento di Bar non era dovuto all’inchiesta in cui erano coinvolti collaboratori a lui vicini, ma agli errori commessi dal servizio di sicurezza interno durante gli attacchi del 7 ottobre 2023. Ricordiamo che il 19 marzo 2025 il governo aveva votato contro un progetto di legge per avviare un’inchiesta sulle inadempienze della classe politica in quei tragici fatti. In realtà, le relazioni tra la procuratrice e il governo erano tese fin dall’insediamento di Netanyahu nel 2022. Nel dicembre di quell’anno, Baharav-Miara aveva avvertito che un progetto di riforma della giustizia promosso dal governo minacciava di trasformare il Paese in una «democrazia di nome, ma non di fatto»[24]. Questo progetto nella primavera del 2023 aveva mobilitato per diversi giorni la piazza con manifestazioni molto partecipate.
Conclusione
Oggi Netanyahu sta mettendo a dura prova l’esercito israeliano, composto anche da riservisti che vengono richiamati nei momenti di pericolo nazionale. I soldati che hanno famiglie di cui prendersi cura e aziende da gestire non possono essere chiamati permanentemente a prestare servizio. I circa 300.000 soldati mobilitati dall’inizio della guerra hanno prestato servizio in media per 61 giorni (la media pre-bellica era di 25)[25]. Negli ultimi tempi, soltanto due terzi di loro si presentano, quando vengono convocati. Inoltre, l’esercito è attraversato sempre più da una crisi motivazionale. Alcuni pensano che si stia conducendo una guerra più nell’interesse di Netanyahu che in quello dello Stato israeliano.
La guerra in corso ha ricadute anche sul piano economico-finanziario. Nel 2024 la spesa del Paese si è impennata, portando il deficit di bilancio al 6,9% del Pil e spingendo le maggiori agenzie di rating ad abbassare le stime sull’affidabilità di Israele[26]. Il bilancio del 2025 fissa l’obiettivo di deficit a non più del 4,9% del Pil[27]. Insomma, Israele sembra forte – e certamente lo è sul piano militare –, ma il suo esercito è stanco, e la sua politica e la sua società sono divise. Nonostante la protezione degli Usa e i propositi del governo di fare piazza pulita di Gaza e di occupare la Cisgiordania e non solo, in realtà oggi Israele si ritrova ad affrontare una delle fasi più complesse dalla creazione dello Stato.
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[1] Cfr «Disaccordo sulla tregua», in Internazionale, 14 marzo 2025.
[2] F. Tonacci, «Netanyahu si allarga: “Rafah zona cuscinetto”», in la Repubblica, 10 aprile 2025; «The Israelis are intent on destroying Gaza», in The Economist, 9 aprile 2025.
[3] Cfr S. Mekomit, «Cosa vuole fare Tel Aviv a Gaza», in Internazionale, 17 aprile 2025.
[4] F. Tonacci, «L’accusa di Guterres a Israele: Gaza è un campo di morte», in la Repubblica, 9 aprile 2025.
[5] D. Frattini, «Israele amplia l’offensiva a Gaza: creato un nuovo corridoio», in Corriere della Sera,3 aprile 2025.
[6] Cfr ivi.
[7] Cfr ivi.
[8] «Israel’s expansionism is a danger to others and itself», in The Economist, 27 marzo 2025.
[9] D. Frattini, «Netanyahu lancia l’occupazione di Gaza: resteremo a lungo», in Corriere della Sera, 6 maggio 2025.
[10] https://www.unric.org/it/cisgiordania-unrwa-lo-sfollamento-forzato-colpisce-
40000-persone
[11] Cfr «An unrestrained Israel is reshaping the Middle East», in The Economist, 26 marzo 2025.
[12] Cfr ivi.
[13] Cfr «Turkey and Israel are becoming deadly rivals in Syria», in The Economist, 4 aprile 2025.
[14] Cfr ivi.
[15] Cfr «An unrestrained Israel is reshaping the Middle East», cit.
[16] F. Tonacci, «Netanyahu alla Casa Bianca. Gli Usa: colloqui con l’Iran», in la Repubblica, 8 aprile 2025.
[17] Cfr ivi.
[18] Cfr ivi. Inoltre, secondo lo stesso Istituto, il 68% degli israeliani considera preminente portare a casa gli ostaggi, anziché continuare la guerra; il 25% pensa, invece, che sia più importante distruggere Hamas. Cfr R. Tercatin, «I piloti riservisti: “basta guerra”, ma Israele li licenzia tutti», in la Repubblica, 11 aprile 2025.
[19] Cfr «An unrestrained Israel is reshaping the Middle East», cit.
[20] Cfr «Israele-Palestina, l’epilogo del cessate il fuoco» (caffegeopolitico.net/997203/is…), 2 aprile 2025.
[21] Cfr S. Speakman Cordall, «Il Governo israeliano è sempre più autoritario», in Internazionale, 28 marzo 2025.
[22] Ivi.
[23] Cfr «Arresti e licenziamenti», in Internazionale, 28 marzo 2025.
[24] Ivi.
[25] Cfr «An unrestrained Israel is reshaping the Middle East», cit.
[26] Cfr S. Speakman Cordall, «Il Governo israeliano è sempre più autoritario», cit.
[27] Cfr ivi.
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La Brexit cinque anni dopo
Il 31 gennaio 2020, a Londra, nelle vicinanze del Parlamento britannico, accanto alla statua di Winston Churchill hanno avuto luogo due manifestazioni contrapposte: in una si esultava e si sventolava la bandiera nazionale, la Union Flag; nell’altra, più mesta, alcuni esibivano il vessillo dell’Unione europea (Ue). Due reazioni opposte di fronte allo stesso evento: proprio alle ore 23 di quel giorno – mezzanotte a Bruxelles –, il Regno Unito (RU) lasciava, dopo quasi cinquant’anni, l’Ue.
Avendo vinto il referendum del giugno 2016 con il 51,89% dei voti a favore, i sostenitori della Brexit celebravano il fatto di aver ripreso il controllo delle proprie frontiere, delle proprie leggi e della propria economia. I sostenitori della permanenza nell’Ue, invece, avendo perso con il 48,11% dei voti, si sentivano scoraggiati e prevedevano un isolamento e un indebolimento del proprio Paese.
Da quando le Isole britanniche hanno deciso di separarsi dai vicini continentali, si è avviato un processo di cambiamenti. Come valutano oggi i britannici quella decisione? Cinque anni dopo il leave, la percentuale di britannici che ritiene che sia stato giusto abbandonare l’Ue è al suo punto più basso dal referendum del 2016: è solo del 30%! I sostenitori della Brexit ora sono una minoranza. Inoltre, tre britannici su quattro che nel 2016 erano troppo giovani per votare, oggi ritengono che la Brexit sia stata una decisione sbagliata[1].
Quali ripercussioni economiche, sociali e politiche si stanno vivendo? Quale futuro si prevede? Riuscirà il Regno Unito (RU), governato dal Partito laburista dal luglio 2024, a invertire il proprio declino economico? In un mondo così cambiato, con Donald Trump di nuovo alla Casa Bianca, quale ruolo geopolitico potrà svolgere il Regno Unito? È ciò che cercheremo di analizzare in questo articolo.
La Brexit ha ridotto le esportazioni meno di quanto si temesse
Il RU ha avviato una nuova relazione commerciale con l’Ue nel bel mezzo della pandemia, seguita rapidamente dalla crisi energetica europea, causata dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Questi tre eventi hanno provocato scossoni al sistema commerciale mondiale, con impatti difficili da individuare. L’Accordo bilaterale di commercio e cooperazione tra l’Ue e il RU è entrato in vigore solo nel gennaio 2021[2]. Esso ha introdotto controlli burocratici e controlli alle frontiere, creando un’intera rete di barriere tra il RU e il suo più vicino e importante partner commerciale, responsabile di oltre la metà del suo import-export, e ha comportato un aumento dei costi fissi e variabili per le imprese.
La Brexit, come previsto, ha avuto un impatto negativo sul commercio britannico, seppure inferiore alle aspettative degli economisti. In termini reali, nel 2023 le esportazioni e le importazioni di beni del RU sono state inferiori rispetto a quelle del 2016, con una contrazione rispettivamente dell’1% e del 2%. Negli scambi con l’Ue, le esportazioni di beni delle piccole aziende si sono ridotte di circa il 30%, mentre le grandi società britanniche non ne hanno risentito. Circa 20.000 piccole imprese hanno smesso di esportare beni verso l’Ue, e anche le importazioni dall’Ue sono diminuite[3]. Nel 2024 le esportazioni di beni sono state inferiori del 4,9% rispetto al 2023, mentre le importazioni sono calate del 3,5%[4].
Si prevedeva che l’attuazione dell’accordo commerciale avrebbe gravemente colpito i servizi professionali. E invece, negli anni 2020, i consulenti, i pubblicitari e gli avvocati britannici hanno continuato ad aumentare le loro vendite nei mercati esteri. Oggi i servizi rappresentano la maggior parte – il 54% – delle esportazioni britanniche. L’Ue rimane il principale partner commerciale del Regno Unito, con il 36% delle sue esportazioni, seguita dagli Usa con il 27%. Il RU è una superpotenza dei servizi, seconda solo agli Stati Uniti[5].
La Brexit ha scoraggiato e reso più difficili gli investimenti
Da tempo i bassi livelli di investimento nel RU si ripercuotono sia sulle aziende sia sulle infrastrutture pubbliche. L’incertezza economica derivante dalla decisione di lasciare l’Ue non ha certo contribuito a modificare tale scenario. Una delle conseguenze è stata la fine della partecipazione al capitale della Banca europea per gli investimenti (Bei), di cui il RU deteneva il 16,1%. La Bei aveva svolto un ruolo fondamentale nel finanziare grandi progetti infrastrutturali – il tunnel sotto la Manica, i parchi eolici offshore in Scozia e la linea Elizabeth di Londra –, nonché progetti di innovazione. Perso l’accesso ai fondi della Bei, il RU ha reagito istituendo la UK Infrastructure Bank (Ukib), la Banca nazionale scozzese per gli investimenti (Snib), la Banca di sviluppo del Galles (Banc) e la British Business Bank (Bbb). Tuttavia, queste nuove banche non sono riuscite a colmare il vuoto che si era creato: nel 2022 i finanziamenti complessivi che esse hanno concesso rappresentavano solo un terzo di quanto stanziato dalla Bei nel 2016[6].
Gli investimenti sono stati probabilmente inferiori di circa il 10% rispetto alle previsioni, il che potrebbe ridurre la produttività e il Pil di oltre l’1%. Alcuni hanno ritenuto che ciò sia stato dovuto principalmente all’incertezza legata alla Brexit, e che quindi le cose sarebbero migliorate una volta completato il processo, ma finora non ci sono prove in tal senso[7].
La crescita dell’immigrazione dopo la Brexit
Una buona parte della campagna referendaria era stata incentrata sull’immigrazione. I sostenitori del leave sottolineavano che essa sarebbe continuata ad aumentare se non si fosse lasciata l’Ue e che era urgente riprendere il controllo delle frontiere per limitarla[8]. Tuttavia, è accaduto proprio il contrario: dopo la Brexit, l’immigrazione è esplosa, raggiungendo un picco di 906.000 immigrati nel giugno del 2023, un numero quasi quattro volte superiore ai 248.000 registrati nel 2016, anno del referendum[9]. È un dato sorprendente, soprattutto se si considera che questo aumento ha coinciso con il crollo dei flussi migratori provenienti dall’Ue, i cui cittadini costituivano la maggior parte dell’immigrazione nel periodo precedente al referendum; ma dal 2021 la migrazione netta dall’Ue è stata negativa.
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L’aumento dell’immigrazione è stato il risultato diretto della politica di liberalizzazione post-Brexit per i cittadini al di fuori dell’Ue. Il governo ha attratto un maggior numero di studenti internazionali, facilitando la possibilità di ottenere un visto di lavoro al termine della formazione. I posti di lavoro finanziati con fondi pubblici, in particolare nel settore dell’assistenza, hanno favorito il boom dei visti per motivi di lavoro nel 2023[10]. Inoltre, una parte di questo afflusso è legata anche alla guerra in Ucraina – i cui rifugiati sono stati accolti con favore –, al nuovo visto accordato ai cittadini di Hong Kong e alla migrazione che era rimasta bloccata a causa della pandemia.
Questo riguarda solo l’immigrazione regolare. Gli ultimi governi conservatori hanno coniato lo slogan Stop the boats. L’obiettivo era impedire gli sbarchi incontrollati di piccole imbarcazioni, in modo che chiunque arrivasse illegalmente nel Paese fosse detenuto ed espulso rapidamente verso il Ruanda, con cui si era concordato un piano di asilo. Questo progetto, estremamente controverso, ha provocato condanne sul piano etico e del diritto internazionale. L’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, nel sermone pronunciato a Pasqua, aveva dichiarato che il piano di Boris Johnson[11] di inviare decine di migliaia di richiedenti asilo in Ruanda sollevava serie questioni etiche e non avrebbe retto al giudizio di Dio[12]. Il giorno dopo la vittoria laburista alle elezioni, Keir Starmer ha confermato che il piano per il Ruanda era morto e sepolto prima ancora di cominciare[13].
Questo ha qualcosa a che vedere con la Brexit? Prima della Brexit, la Convenzione di Dublino permetteva al RU e agli altri Stati dell’Ue di indirizzare i migranti verso Paesi sicuri dell’Unione, dove avrebbero dovuto chiedere asilo. Ora il RU non può più rispedire automaticamente in Francia i migranti che arrivano via mare da questo Paese. Poiché il RU non fa più parte dell’Ue, tale accordo non si applica più ad esso.
La Brexit mette a rischio il futuro economico del Regno Unito?
Poiché l’appartenenza all’Ue facilitava il commercio, i flussi di capitale e la migrazione con gli altri 27 Stati membri, la maggior parte degli economisti prevedeva che la Brexit avrebbe danneggiato l’economia britannica. Ma in quale misura? Qui entriamo nel campo delle stime.
Il Tesoro, concentrandosi sugli effetti immediati di un voto a favore della Brexit, aveva previsto una crisi immediata, che avrebbe spinto il Regno Unito verso la recessione[14]. Tuttavia questa non si è verificata. Le sue previsioni a breve termine sono state smentite, e c’è stato chi, forse con una reazione eccessiva, ha visto questo fatto come un discredito delle analisi di lungo termine della Brexit. Come si può fare a meno di considerare gli effetti, negli anni a venire, delle restrizioni imposte al commercio e alla migrazione?
L’Office for Budget Responsibility (Obr) sostiene, a partire dal referendum del giugno 2016, che il volume delle importazioni ed esportazioni britanniche sarà nel lungo termine inferiore del 15% rispetto a quello che avrebbe avuto se il RU fosse rimasto nell’Ue, e che ciò influirà negativamente sulla produttività. Prevede che l’impatto complessivo si farà sentire fra 15 anni[15]. Questo, a sua volta, comporta importanti costi fiscali, anche tenendo conto della riduzione dei contributi versati all’Ue, e un peggioramento della già difficile situazione delle finanze pubbliche del RU[16]. Il presidente dell’Obr, Richard Hughes, ha dichiarato alla Bbc che la Brexit rappresenta un colpo per l’economia britannica, paragonabile, per entità, a quelli causati dalla pandemia o dalla crisi energetica e che, a lungo termine, ridurrà la produzione complessiva di circa il 4% rispetto al livello che si sarebbe potuto raggiungere rimanendo nell’Ue[17].
In generale, la definizione della Brexit, da parte degli economisti, come di una «lenta foratura» nell’economia, piuttosto che come di un incidente stradale, è stata ampiamente divulgata[18]. I cittadini britannici sono d’accordo: quasi il 75% di loro, nel settembre 2024, ha dichiarato che la Brexit ha danneggiato l’economia[19].
La Brexit ha cambiato in modo decisivo il Regno Unito
Va ricordato che, nel corso della sua appartenenza all’Ue, il RU, una delle maggiori economie europee e un importante attore mondiale, ha promosso il commercio e la modernizzazione economica, influenzando significativamente le politiche comunitarie. Margaret Thatcher ebbe un ruolo cruciale nella stesura dell’Atto unico europeo del 1986 che istituì il mercato unico, consentendo la libera circolazione di beni, servizi, capitali e persone fra gli Stati membri. Allo stesso tempo, Londra scelse anche di non partecipare ad altri impegni, come l’Accordo di Schengen, la moneta unica e la Carta dei diritti sociali. Queste clausole di opt-out riflettevano un profondo timore di cedere troppa sovranità a Bruxelles.
Il rapporto del RU con l’Ue è sempre stato complesso, caratterizzato sia dalla collaborazione sia dalla distanza. Questa nazione insulare, dotata di un forte senso della propria particolarità e importanza storica, è stata al tempo stesso un membro influente e reticente dell’Unione. Nessuno meglio di Winston Churchill ha saputo esprimere questo atteggiamento britannico, quando nel 1930 ha dichiarato: «Non vediamo altro che il bene e la speranza in una comunità europea più ricca, più libera e più soddisfatta. Ma noi abbiamo il nostro sogno e il nostro compito. Siamo con l’Europa, ma non di essa. Siamo collegati, ma non compromessi. Siamo interessati e associati, ma non assorbiti»[20].
Decenni di deindustrializzazione, tagli alla spesa pubblica e immigrazione elevata avevano creato un terreno fertile per la tesi secondo cui la Brexit avrebbe permesso al RU di recuperare il suo antico splendore. Coloro che avevano un’opinione più negativa sull’immigrazione e sul multiculturalismo ed erano più preoccupati per un’identità nazionale minacciata dall’appartenenza all’Ue, erano i più propensi a votare leave[21]. Erano anche i meno inclini a percepire i rischi legati a tale scelta. Ciò si spiega con il fatto che molti britannici della classe operaia e molti residenti nelle regioni più svantaggiate, che hanno subìto i costi della globalizzazione senza beneficiare dei vantaggi dell’appartenenza all’Ue, avevano scelto di abbandonarla[22].
I sostenitori della Brexit consideravano l’uscita da Bruxelles come un processo che non avrebbe causato problemi e che, anzi, avrebbe stimolato la crescita. Ma i rischi erano evidenti. Mark Carney, governatore della Banca d’Inghilterra dal 2013 al 2020[23], aveva più volte avvertito che la Brexit avrebbe comportato un serio aggiustamento dell’economia. In seguito, una volta attuata l’uscita, aveva sottolineato che i risultati confermavano la correttezza delle sue previsioni e l’errore di valutazione dei brexiters. Ora toccava a tutti accettare questa realtà: la più grande scossa degli ultimi decenni avrebbe richiesto anni per essere assorbita. Sir Jacob Rees-Mogg, ministro per le Opportunità della Brexit da febbraio a settembre 2022, ha definito le critiche di Carney «ovviamente senza senso» (obviously nonsense)[24].
Le ripercussioni della Brexit si sono manifestate poco dopo il leave, sono state importanti e in alcuni casi sorprendenti. Hanno inciso sul commercio, sulle catene di approvvigionamento (bloccate, con ricadute sulla produttività), sugli investimenti, sul settore agricolo (escluso dalla politica agricola comune), sugli investimenti produttivi, sull’immigrazione, sui partiti politici (scossi e cambiati nelle loro militanze), sulla legislazione (che deve sostituire quella comunitaria), sulla coesione nazionale (con evidenti tensioni nazionaliste), sulla presenza in Europa e con essa nel mondo. È stata una decisione epocale.
In questo contesto, i laburisti hanno vinto le elezioni del 4 luglio 2024. Prevalendo su Rishi Sunak, Keir Starmer ha posto fine a 14 anni di governi conservatori, iniziati da colui che aveva indetto il referendum del 2016, David Cameron. In quegli anni Boris Johnson ha avuto un ruolo di primo piano con il suo slogan Get Brexit Done («Portiamo a termine la Brexit»). La Brexit è un tema vasto e complesso. È un intero processo. La sua ombra è lunga. Da qui nasce il desiderio del governo laburista, in un contesto internazionale sempre più turbolento, di ridefinire le relazioni con l’Ue.
La posizione del governo laburista
Il manifesto laburista prometteva un rafforzamento dei legami con gli alleati europei. Senza entrare troppo nei dettagli, lasciava chiaramente intendere che si escludeva un ritorno al mercato unico, all’unione doganale e alla libertà di circolazione[25]. Ora il governo laburista intende abbattere le barriere commerciali non necessarie. Il 19 maggio scorso, infatti, Starmer ha raggiunto un accordo con Bruxelles per «ridurre la burocrazia» sui prodotti alimentari, in cambio di un maggiore accesso dell’Ue alle acque di pesca del Regno Unito. Questo è stato il primo risultato di quello che in realtà è un impegno a tenere più incontri per raggiungere ulteriori accordi[26].
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Inoltre, il futuro delle relazioni tra RU e Ue non dipende solo da Londra. Il RU non è una priorità per Bruxelles. L’Ue è poco preoccupata dalle implicazioni delle disposizioni dell’accordo commerciale, perché gode di un avanzo nella bilancia commerciale con il RU, e tale accordo prevede l’esenzione dai dazi per quasi tutte le esportazioni europee.
Nel frattempo, l’Obr britannico continua a prevedere che l’impatto a lungo termine della Brexit ridurrà il Pil del Regno Unito del 4%. Il rallentamento della crescita economica dovuto alla Brexit sembra ormai integrato nella strategia laburista come un dato di fatto da accettare[27]. L’opinione pubblica si è disillusa rispetto al leave, ma non c’è alcuna voglia di riaprire il dibattito su questo notevole cambiamento nel RU. Nell’aprile 2019, il 72% dei britannici lo considerava una delle questioni più importanti del Paese; oggi lo considera tale solo il 3%[28]. Ciò spiega l’«inquietante silenzio sulla Brexit» prima delle elezioni e si riflette nell’approccio cauto adottato dai gruppi favorevoli all’Ue e dallo stesso Starmer, il quale, come portavoce del governo ombra, aveva mostrato simpatia per il remain[29].
La vittoria del leave fu risicata, ma ha segnato un punto di non ritorno. Tornare in seno a Bruxelles appare oggi estremamente complicato. Sia i sostenitori sia gli oppositori della Brexit sono consapevoli del carattere praticamente irreversibile della decisione presa e hanno deciso di considerare chiusa la questione. Inoltre, l’Ue non sta attraversando uno dei suoi migliori momenti, il che raffredda ulteriormente ogni desiderio di farvi ritorno.
L’agenda economica del governo attuale
Il rilancio della crescita economica è la prima delle cinque missioni indicate nel manifesto laburista. Le altre quattro sono: rendere il RU una superpotenza dell’energia pulita; garantire la sicurezza pubblica; abbattere le barriere alle pari opportunità; costruire un Sistema sanitario nazionale (Nhs) pronto per il futuro[30].
Il governo Starmer crede nella capacità dello Stato, in collaborazione con le componenti più dinamiche del settore privato, di invertire il declino economico e di porre rimedio ai mali sociali. I suoi sostenitori accolgono con favore il fatto che, essendo di nuovo al potere, il Partito laburista stia riprendendo la sua missione di promuovere un cambiamento sociale unificante[31]. In qualità di cancelliere ombra, Rachel Reeves aveva dichiarato che il futuro governo Starmer sarebbe stato favorevole alle imprese, impegnato nella disciplina fiscale e deciso a recuperare decenni di crescita perduta[32]. Nel suo bilancio autunnale, senza mai menzionare gli effetti della Brexit, Reeves, già ministra delle Finanze, ha aumentato la pressione fiscale di 40 miliardi di sterline, alzando l’imposta sui contributi previdenziali delle aziende, sui guadagni di capitale e sui profitti delle aziende di idrocarburi[33].
La dichiarazione di primavera del 25 marzo scorso ha offerto a Reeves l’opportunità di presentare i progressi ottenuti in questi mesi e l’agenda di crescita del governo[34]. La ministra delle Finanze ha esordito ricordando che i laburisti sono stati eletti per portare un cambiamento nel Paese, garantire la sicurezza dei lavoratori e realizzare un decennio di rinnovamento nazionale. Tuttavia, il margine di manovra fiscale si è ridotto da ottobre, quando Reeves ha presentato il primo bilancio laburista dopo 14 anni. La crescita si è rivelata inferiore alle aspettative, sicché le entrate fiscali hanno ristagnato e l’incerto inizio del secondo mandato di Trump come presidente degli Usa ha aumentato i costi di finanziamento. Poiché l’economia globale è diventata sempre più incerta, è necessario reagire con decisione per assicurare il futuro e generare prosperità.
In questo contesto, Reeves ha annunciato importanti tagli al bilancio per il welfare, che, secondo l’Obr, farebbero risparmiare al Tesoro 4,8 miliardi di sterline. Ha affermato che il Partito laburista è il partito del lavoro e che il fatto che oltre 1.000 persone al giorno chiedano sussidi è uno spreco del loro potenziale e del loro futuro: uno spreco al quale bisogna porre un freno. Il sussidio sanitario Universal Credit richiesto da molti disabili sarà ridotto del 50% e sarà congelato per i nuovi richiedenti fino al 2030. Come anticipato, la spesa per la difesa salirà al 2,5% del Pil entro aprile 2027, finanziata con i tagli agli aiuti internazionali, e il NHS England – l’organizzazione che gestisce il Sistema sanitario nazionale – verrà eliminato. Il governo Starmer vuole trasformare il Regno Unito in una superpotenza industriale della difesa, ponendo questa al centro della crescita economica. Poiché la costruzione di abitazioni raggiungerà il suo picco tra quarant’anni, il governo si avvicina a mantenere la promessa elettorale di costruire 1,5 milioni di abitazioni in questa legislatura. Reeves ha dichiarato che opporsi alla riforma urbanistica del Partito laburista significa opporsi alla crescita economica.
Le reazioni non si sono fatte attendere. Reeves è stata accusata di voler far quadrare i conti a spese dei poveri, perché i dati ufficiali hanno mostrato che circa 3 milioni di famiglie potrebbero perdere 1.720 sterline all’anno in sussidi, e 250.000 persone potrebbero cadere in condizioni di povertà relativa entro il 2029-2030[35]. Questo porterà a quasi 14,5 milioni il numero delle persone che vivono in povertà relativa, compresi 50.000 bambini[36].
Interrogata sui tagli al welfare, Reeves ha sottolineato che quelle valutazioni non includono gli effetti di una spesa di un miliardo di sterline per aiutare le persone a tornare al lavoro. Si è dichiarata fiduciosa che le sue misure non accresceranno la povertà, ma permetteranno di fatto a più persone di accedere a un lavoro soddisfacente e a un reddito dignitoso per sé e per le proprie famiglie, per uscire dalla povertà[37].
Conclusioni
L’economia del RU è stata caratterizzata da una crescita anemica, dovuta alla bassa produttività[38] e al fatto di essere un Paese ricco ma con una distribuzione molto disuguale della ricchezza tra i suoi cittadini e le sue regioni[39]. Questo scenario è precedente al referendum del 2016 e certamente ha influito su di esso. Invertire il suo declino relativo è senza dubbio la grande sfida che i britannici devono affrontare. La decisione di uscire dall’Ue rende più difficile il raggiungimento di tale obiettivo, compromettendo il commercio, gli investimenti e la produttività.
Anche l’Ue è stata indebolita dalla Brexit. Attualmente essa, già colpita dalla guerra in Ucraina e dalle difficoltà delle economie francese e tedesca, si trova ad affrontare una situazione inedita: gli Stati Uniti, il suo più importante alleato tradizionale, si sono rivelati ostili in un momento in cui l’Ue teme per la sicurezza dei suoi confini. Fatta per garantire la pace, l’Unione europea ora si riarma, temendo un possibile espansionismo russo. In linea con la posizione espressa da Winston Churchill – «Siamo collegati, ma non compromessi. Siamo interessati e associati, ma non assorbiti» –, Londra dovrebbe promuovere una più stretta cooperazione con Bruxelles in materia di politica estera, difesa, energia, ambiente, salute e norme alimentari. Ne trarrebbero vantaggio sia i cittadini delle isole sia quelli del continente.
Il nuovo clima scatenatosi negli Usa sta spingendo molti scienziati a prendere in considerazione l’idea di cambiare aria. La tradizione e la lingua giocano a favore del Regno Unito per attirarli. Ciò aiuterà il RU a continuare a essere il leader mondiale nella ricerca, nella scienza e nell’istruzione superiore: per questo dovrà aumentare i finanziamenti per le università e per la ricerca applicata.
Il contesto internazionale è cambiato drasticamente. Trump ha scatenato una guerra di dazi contro l’ordine globale. L’Ue è nel suo mirino: le ha imposto dazi del 20%. Ha imposto dazi anche al RU. Le prospettive di crescita si ridurranno, mettendo a rischio migliaia di posti di lavoro e imponendo ulteriori tagli alla spesa o aumenti delle tasse in autunno.
Allo stesso tempo, il fatto che i dazi imposti al RU siano del 10% – la metà di quelli applicati all’Ue – offre al RU un vantaggio competitivo immediato. Andrew Griffith, ministro al Commercio del governo ombra, pur definendo deludenti i dazi, ritiene che si sia aperto uno spiraglio di speranza. Le tariffe più basse per il RU rappresentano, secondo lui, un dividendo della Brexit che proteggerà migliaia di posti di lavoro e imprese britanniche. Inoltre, questo incentiverà molte aziende dell’Ue a spostare la produzione nel RU, per esportare negli Usa a condizioni più vantaggiose, e alcune potrebbero addirittura trasferirvisi definitivamente. Per chi ha votato leave, Trump ha appena dimostrato che la Brexit è stata una scelta giusta, evitando al Regno Unito le conseguenze peggiori delle guerre doganali da lui scatenate e generando potenziali benefìci significativi nel medio termine. Per tutti coloro si chiedono ancora quali siano stati i vantaggi della Brexit, questa è, a loro avviso, una risposta decisiva[40].
Infatti, in concomitanza con l’80° anniversario della Giornata della Vittoria nella Seconda guerra mondiale, RU e Usa hanno concordato un accordo commerciale «innovatore»[41] – «per promuovere il commercio reciproco con un alleato e partner chiave» –, che riduce alcuni dei dazi di Trump su automobili, alluminio e acciaio e che salverà migliaia di posti di lavoro britannici. Starmer, presentando l’accordo – il primo da parte della Casa Bianca da quando Trump aveva annunciato, il mese precedente, tariffe globali a tappeto –, ha dichiarato che si è trattato di una «fantastica e storica giornata»[42]. Questo annuncio ha coinciso con quello dell’accordo con l’India, sul quale il governo laburista ripone grandi speranze[43].
Poco prima, in occasione delle elezioni locali, il Partito laburista aveva ricevuto un serio avvertimento. Le vittorie elettorali riformiste, quelle del vecchio partito della Brexit, sono state un segnale della disillusione. La lettura più ovvia è che c’è stata una reazione al fatto che i laburisti avevano promesso un cambiamento che non è arrivato.
In sintonia con il loro inno patriottico Land of Hope and Glory, Mother of the Free, i sostenitori della Brexit hanno proclamato che un mondo di opportunità attendeva un Regno Unito indipendente. In questo mondo così turbolento è quasi impossibile fare previsioni. Ai britannici dobbiamo la Rivoluzione industriale. Essi hanno contribuito in modo determinante a consolidare la civiltà occidentale e meritano sempre attenzione. Vedremo quale futuro saranno in grado di costruirsi.
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[1] Cfr M. Smith, «Few Britons think Brexit has been good for anything», in YouGov (yougov.co.uk/politics/articles/51500-few-britons-think-brexit-has-been-good-for-anything), 31 gennaio 2025.
[2] Cfr European Commission, «The EU-UK Trade and Cooperation Agreement» (tinyurl.com/bddd8v96), 30 aprile 2021.
[3] Cfr D. Novy et Al., «Brexit and UK trade», in Centre for Economic Performance (cep.lse.ac.uk/_NEW/publications/abstract.asp?index=10634), 17 giugno 2024.
[4] Cfr Office for National Statistics, «UK trade: December 2024» (tinyurl.com/55y7ufs8).
[5] Cfr E. Fry, «Brexit impact: trade», in UK in a Changing Europe. The Brexit Files: From Referendum to Reset (tinyurl.com/bdcnnk9p), 86.
[6] Cfr S. Hunsaker, «Brexit impact: investment» in UK in a Changing Europe, cit., 90.
[7] Cfr Bank of England, «In focus – Uncertainty and Brexit» (tinyurl.com/bdet3caj), novembre 2019.
[8] Cfr «EU referendum: Nigel Farage tells Leave campaigners to focus on migration», in BBC News (bbc.com/news/uk-politics-eu-re…), 29 aprile 2016.
[9] Cfr ONS, «Long-term international immigration, emigration and net migration flows, provisional 2012-2024» (tinyurl.com/3hf353ps), 28 novembre 2024.
[10] Cfr The Migration Observatory, «Net Migration to the UK» (tinyurl.com/2m45jhp7), 2 dicembre 2024.
[11] Cfr A. Smouth – C. Uwiringiyimana, «Britain plans to send migrants to Rwanda under tougher asylum policy», in Reuters (reuters.com/world/uk/uks-johns…), 14 aprile 2022.
[12] Cfr «Archbishop of Canterbury condemns Britain’s Rwanda asylum plan», in Reuters (reuters.com/world/uk/archbisho…), 17 aprile 2022.
[13] Cfr B. Riley-Smith – C. Hymas, «Starmer kills off Rwanda plan on first day as PM», in The Telegraph (telegraph.co.uk/politics/2024/…), 5 luglio 2024.
[14] Cfr «HM Treasury analysis: the immediate economic impact of leaving the EU» (gov.uk/government/publications…
impact-of-leaving-the-eu), 23 maggio 2016.
[15] Cfr Office for Budget Responsibility, «How are our Brexit trade forecast assumptions performing?» (obr.uk/box/how-are-our-brexit-trade-forecast-assumptions-performing), marzo 2024; J. Springford, «What can we know about the cost of Brexit so far?», in Center for European Reform (cer.org.uk/publications/archiv…), 9 giugno 2022; J. Portes, «Brexit impact: the economy», in UK in a Changing Europe, cit., 83.
[16] Cfr Office for Budget Responsibility, «Brexit Analysis» (obr.uk/forecasts-in-depth/the-economy-forecast/brexit-analysis), 21 febbraio 2025.
[17] Cfr R. Hughes, «Sunday With Laura Kuenssberg, 24th March 2023, Richard Hughes Chair of the Office for Budget Responsibility» (ownloads.bbc.co.uk/swlk/HUGHES26MARCH.pdf).
[18] Cfr A. Menon, «Brexit will be a slow economic puncture and it may take a while to notice the harm» (ukandeu.ac.uk/brexit-will-be-a-slow-economic-puncture-and-it-may-take-a-while-to-notice-the-harm), 29 novembre 2018.
[19] Cfr «Do you think that as a result of leaving the EU Britain’s economy will be better or worse off?», in What UK Thinks (tinyurl.com/msvsw7za), 22-29 settembre 2024.
[20] The Saturday Evening Post (exposingukip.blogspot.com/2015/10/winston-churchill-on-europe-quotes-truth.html), 15 febbraio 1930.
[21] Cfr M. J. Goodwin – C. Milazzo, «Taking back control? Investigating the role of immigration in the 2016 vote for Brexit», in The British Journal of Politics and International Relations 19 (2017/3) 450-464; J. Curtice, «Why leave won the UK’s EU referendum», in Journal of Common Market Studies (pureportal.strath.ac.uk/en/publications/why-leave-won-the-uks-eu-referendum), 1° settembre 2017.
[22] Cfr H. D. Clarke et Al., Brexit: Why Britain Voted to Leave the European Union, Cambridge, Cambridge University Press, 2017, 27.
[23] Mark Carney è stato anche governatore della Banca del Canada dal 2008 al 2013. Oggi è il Primo ministro del Canada.
[24] Cfr Szu Ping Chan – T. Wallace, «Brexit is to blame for inflation, claims Mark Carney», in The Telegraph (telegraph.co.uk/business/2023/…), 16 giugno 2023; blinks.bloomberg.com/news/stories
[25] Cfr «Britain reconnected», in Labour (labour.org.uk/change/britain-reconnected).
[26] Cfr Council of the European Union, «UK-EU Summit 2025 – Joint Statement 19 May 2025, London» (consilium.europa.eu/media/1edl…
joint-statement.pdf); «The Guardian view on the EU trade deal: a rational step forward», in The Guardian (tinyurl.com/378fhcva), 19 maggio 2025.
[27] Cfr R. Hunter, «Wes Streeting: Lower economic growth due to Brexit a “fact of life”», in The National (thenational.scot/news/24653266…
economic-growth-due-brexit-fact-life), 15 ottobre 2024.
[28] Cfr «IPSOS Issues Index» (ipsos.com/sites/default/files/…), aprile 2024.
[29] Cfr H. Lewis, «The Eerie Silence Over Brexit, How did the biggest argument in British politics simply… vanish?» (theatlantic.com/ideas/archive/…
silence-starmer-election/678696), 16 giugno 2024.
[30] Cfr «Britain reconnected», cit.; «Kickstart economic growth», in Labour (labour.org.uk/change/kickstart-economic-growth).
[31] Cfr N. Garland, «Old and plain Labor» (journals.lwbooks.co.uk/renewal/vol-32-issue-4/article-10034).
[32] Cfr G. Parker – J. Pickard, «Labour party is now “pro-business”, vows Rachel Reeves», in Financial Times (ft.com/content/ac897020-d165-4…), 19 gennaio 2022.
[33] Cfr R. Reeves, «Autumn Budget 2024 Speech» (gov.uk/government/speeches/aut…), 30 ottobre 2024.
[34] Cfr Id., «Spring Statement 2025 Speech» (gov.uk/government/speeches/spr…), 26 marzo 2025.
[35] Cfr Department for Work and Pensions, «Spring Statement 2025 health and disability benefit reforms – Impacts» (tinyurl.com/3rexextd).
[36] Cfr H. Stewart – P. Crerar, «Rachel Reeves accused of balancing books on back of UK’s poorest», in The Guardian (tinyurl.com/4f3es3cf), 26 marzo 2025.
[37] Cfr «Watch: Rachel Reeves holds press conference after spring statement backlash», in Independent (tinyurl.com/dhc8tc8h), 28 marzo 2025.
[38] Cfr Census 2021, «Gross Domestic Product: Year on Year growth: CVM SA %» (ons.gov.uk/economy/grossdomest…), 13 febbraio 2025.
[39] Cfr Id., «Income and Wealth» (https://www.ons.gov.uk/peoplepopulationandcom-
munity/personalandhouseholdfinances/incomeandwealth).
[40] Cfr M. Lynn, «Trump just proved Brexit was the best decision Britain ever made», in The Telegraph (telegraph.co.uk/us/comment/202…), 2 aprile 2025.
[41] Cfr «Fact Sheet: U.S. – UK Reach Historic Trade Deal», in whitehouse.gov/fact-sheets/202…, 8 maggio 2025.
[42] Cfr P. Walker, «Cars, steel, beef and films: the key points of the US-UK trade deal», in The Guardian (tinyurl.com/3bj4ep94), 8 maggio 2025.
[43] Cfr «UK-India trade deal: conclusion summary», in https://www.gov.uk/government/
publications/uk-india-trade-deal-conclusion-summary/uk-india-trade-deal-conclusion-
summary/, 6 maggio 2025.
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Non puoi restare a guardare
Michael Schöpf è nato in Germania ed è entrato nella Compagnia di Gesù nel 1989. È fratello gesuita. Nel 1993 si è laureato alla Hochschule für Philosophie München. Tra il 1993 e il 1997 ha lavorato in Africa con progetti per i rifugiati in Kenya, Tanzania, Uganda e Ruanda. Ha collaborato con Misereor, con la Commissione per le migrazioni della Conferenza episcopale tedesca e con Jesuiten Weltweit, l’ente dei gesuiti tedeschi per la solidarietà internazionale. Nel 2005 è entrato a far parte del Jesuit Refugee Service (JRS) – Europa, nella sede di Bruxelles, dove ha ricoperto il ruolo di vicedirettore regionale fino al 2008, e in seguito quello di direttore regionale fino al 2014. Nel 2021 ha cominciato a lavorare a Roma, nell’Ufficio internazionale del JRS, occupandosi di pianificazione strategica, sviluppo organizzativo e advocacy a livello globale. Dal 1o settembre 2023 è il direttore internazionale del JRS. Nell’intervista che ci ha concesso, egli passa in rassegna le origini del JRS e il lavoro che svolge attualmente, in un contesto particolarmente difficile, dove, nonostante tutto, siamo chiamati a essere testimoni di speranza. Inoltre, ci lascia una questione pregnante e di grande attualità: «Vogliamo vivere in una società segnata dall’incapacità di riconoscere la dignità umana e dal rifiuto di accettare i legami che ci uniscono agli altri?». Ringraziamo fratello Schöpf e siamo lieti di condividere con i lettori la nostra conversazione.
Fratello Michael Schöpf, dopo due anni come vicedirettore, Lei ha assunto l’incarico di direttore internazionale del «Jesuit Refugee Service» nell’estate del 2023. Può condividere con noi il percorso che ha fatto negli anni precedenti ai suoi incarichi a Roma?
Sono un fratello gesuita, proveniente dalla Germania, dalla Provincia dell’Europa centrale. Ho iniziato a lavorare per la prima volta con il JRS nel 1993. I miei primi incarichi sono stati tutti in Africa, ma non sapevo nulla né dell’Africa né dei rifugiati. Era il tipico incarico assegnato da un Provinciale per un primo periodo di formazione.
Così iniziai a lavorare a Nairobi in un programma per promuovere l’indipendenza economica dei rifugiati provenienti dai Paesi confinanti in guerra civile. Avevamo circa 30 piccoli progetti sparsi nelle aree più povere di Nairobi e un negozio. Quando arrivai, ero molto curioso e devo dire che mi sentii subito a casa. Scoprii che era davvero facile fare la differenza. Ricordo, per esempio, una donna ruandese sulla quarantina: era fuggita dalla violenza nel suo Paese ed era un’ottima panettiera, ma a Nairobi non aveva l’attrezzatura necessaria per aprire una panetteria. Aveva un buon mercato potenziale, perché nessuno produceva pane ruandese in città, e fu davvero semplice aiutarla a rimettersi in piedi e a determinare il proprio futuro. Con pochissimo, si può fare una grande differenza, se si cominciano a riconoscere non solo i bisogni, ma anche le speranze e le aspirazioni delle persone.
Successivamente ho ricevuto altri incarichi. Ho avuto l’opportunità di lavorare nei campi profughi nell’est della Tanzania, dopo il genocidio in Ruanda. Sono tornato in Ruanda e, per un breve periodo, anche nel nord dell’Uganda, al confine con il Sudan. In seguito, ho avuto una pausa e poi una «seconda vita» con il JRS, lavorando per 10 anni, dal 2005 al 2014, presso l’ufficio regionale europeo. Quattro anni fa, ho iniziato a lavorare qui a Roma, presso l’ufficio internazionale. Ovviamente, fin dall’inizio, si è trattato di una responsabilità molto maggiore, perché ci troviamo ad affrontare una varietà ben più ampia di situazioni.
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Il JRS è stato creato nel 1980 da padre Pedro Arrupe, allora Superiore Generale della Compagnia di Gesù. Quali circostanze lo hanno portato a prendere questa iniziativa e in che modo si è sviluppato il JRS come opera apostolica della Compagnia di Gesù? A quasi 45 anni dalla nascita del JRS, l’intuizione di padre Arrupe è ancora valida?
L’intuizione di padre Pedro Arrupe è oggi più attuale che mai. Nel 1980 egli chiese ai gesuiti di rispondere alla crisi dei boat people vietnamiti, che fuggivano dal Vietnam verso le Filippine attraverso l’oceano, esponendosi a gravi pericoli. Sapeva che, in quella crisi, era in gioco la nostra umanità. Riguardo a quella situazione, egli disse sostanzialmente: «Di fronte a questa realtà, non potete restare a guardare». Sapeva che in questa crisi era in gioco la nostra umanità. E aggiunse che non si trattava solo di fornire un soccorso di emergenza o aiuti alimentari nelle Filippine. «Potete fare tutto questo – egli disse –, ma ciò che dovete fare davvero è vivere insieme al popolo». Su questa base, padre Arrupe scrisse una lettera a tutta la Compagnia di Gesù. Avrebbe potuto limitarsi a indirizzarla, per esempio, alla Provincia tedesca, chiedendo: «Inviate il vostro denaro», o alle Province statunitensi, dicendo: «Inviate i vostri insegnanti di inglese, dato che molti rifugiati vengono ricollocati negli Stati Uniti». Ma ritenne che tutto ciò non fosse sufficiente.
Padre Arrupe coinvolse l’intera Compagnia di Gesù, perché sentiva profondamente che quello non era semplicemente il problema di alcune migliaia di vietnamiti, ma una questione che riguardava noi in quanto appartenenti all’umanità. Era un appello all’umanità. Pertanto, non si trattava solo di un problema locale. E credo che questa sia una lezione davvero pertinente anche per noi oggi. Papa Francesco ha richiamato spesso questi temi, facendo numerosi riferimenti e commenti su questa sfida fondamentale nelle crisi odierne, sia cercando di coinvolgere la politica globale, sia affermando che questa situazione non può essere compresa senza rispondere alla chiamata alla solidarietà, alla solidarietà globale.
Oggi lavoriamo in 58 Paesi, dove ogni giorno siamo chiamati ad accompagnare le persone per un tratto del loro cammino e a riconoscere come la nostra umanità e la politica globale vengano messe in discussione da questa esperienza.
Guardando alla situazione geopolitica internazionale così complessa, dove sono oggi, per quanto riguarda i rifugiati, le situazioni che si protraggono nel tempo senza soluzioni prevedibili, oppure quelle dimenticate?
Chi voglia considerare una situazione prolungata, può guardare a uno dei campi profughi più antichi del nord del Kenya, chiamato «Kakuma». È stato avviato in un’area semi-arida, il che significa che ci sono pochissime opportunità per guadagnarsi da vivere. Per esempio, è quasi impossibile coltivare la terra o piantare un orto, e in questa fase siamo parlando già della seconda o terza generazione di bambini nati e cresciuti all’interno del campo, mentre la loro condizione legale resta sospesa. Quelle persone non hanno alcun diritto legale di trasferirsi in altre zone del Kenya. La situazione si protrae, perché manca una soluzione evidente. Il campo, nel frattempo, si è sviluppato fino a diventare una grande città, con tutti gli elementi che ci si aspetterebbe di incontrare in un centro urbano, ma anche con tutte le limitazioni proprie di un campo profughi.
Se penso invece a una situazione dimenticata, credo che il caso più emblematico sia quello del Myanmar. Siamo presenti in diversi luoghi di quel Paese, dove abbiamo accompagnato le comunità che sono state bombardate, spesso più volte, dal loro stesso Governo tramite l’esercito. Un’immagine che non dimenticherò mai è quella di una delle nostre «scuole»: i bambini, insieme ai loro insegnanti, erano stati sfollati a causa dei bombardamenti. Le lezioni si tenevano in una trincea scavata nel terreno, coperta con semplici teli di plastica; per renderla un po’ più accogliente per i bambini, erano stati appesi disegni di carta alle pareti. Quella era diventata la loro aula scolastica. Gli alunni sedevano a terra, intenti a fare i compiti come se si trovassero in un’aula normale, come se tutto fosse normale. In queste situazioni, è molto importante essere presenti e camminare insieme alla comunità.
Chi sono le persone che lavorano per il JRS, come si preparano e in che misura sono presenti i gesuiti?
Oggi disponiamo di un bilancio globale di circa 100 milioni di dollari; cooperano con noi circa 10.000 persone. Tra queste, 3.500 sono rifugiati che lavorano con noi a pieno titolo, come qualsiasi altro membro del personale. Ci sono anche un grande gruppo di 4.000-4.500 volontari, un gruppo di circa 100 religiosi – tra cui 78 gesuiti – e un gruppo di 3.000-3.500 persone con un qualche contratto di lavoro regolare.
Credo che la presenza dei gesuiti, pur numericamente minima rispetto al resto, sia molto importante per il legame vitale che mantiene con la Compagnia di Gesù. I gesuiti che fanno esperienza di questo cammino di accompagnamento sono poi in grado di trasmetterne i frutti spirituali, inserendoli nella riflessione e nel corpo apostolico della Compagnia, e viceversa. L’ispirazione che riceviamo, ovviamente, proviene dalla spiritualità ignaziana, attraverso i gesuiti e i collaboratori laici del JRS.
Il JRS è presente anche nei grandi centri di decisione, in azioni di «advocacy». Quale ruolo ha in questi contesti? La vostra voce e la vostra testimonianza vengono ascoltate dalle istituzioni?
Siamo un’organizzazione riconosciuta presso le Nazioni Unite. Abbiamo una rappresentanza a Ginevra e uffici a Washington, Bruxelles, Nairobi e in altri luoghi strategici. L’obiettivo del nostro lavoro di advocacy in realtà è molto semplice: far sì che la voce dei rifugiati arrivi nei luoghi in cui si prendono decisioni che incidono sulla loro vita. Troppo spesso, infatti, i meccanismi decisionali sono molto lontani dalle esperienze dirette e da ciò che accade ogni giorno nella vita delle persone. È quindi necessario un lavoro di trasmissione. L’obiettivo è cambiare le condizioni politiche o sociali, in modo che le persone possano ottenere protezione, partecipare alle società in cui vivono e prendere decisioni riguardo alla propria vita.
La maggior parte dell’attività di advocacy viene svolta a livello locale. Se si vogliono cambiare le condizioni nel campo di Kakuma, è necessario dialogare con il governo keniota. D’altra parte, ci sono anche questioni che devono essere affrontate a livello regionale – come nel caso dell’Unione europea, dove la legislazione viene elaborata su scala sovranazionale – o a livello globale, laddove il modo in cui vengono gestite l’istruzione e le situazioni di emergenza viene deciso da un organismo delle Nazioni Unite. Per questo, è essenziale che siamo presenti in tali sedi.
Negli ultimi anni, abbiamo assistito a un forte irrigidimento delle politiche, con una serie di misure che hanno reso la migrazione sempre più restrittiva. Comunque la si voglia leggere, questa è la tendenza in atto. Tradizionalmente era possibile avviare una discussione, basata sui fatti, riguardo a quale potesse essere la soluzione migliore. Forse c’erano opinioni diverse, ma la discussione era possibile. Oggi quello spazio di dialogo si sta restringendo rapidamente. Se si osservano i dibattiti più recenti, un’argomentazione che viene avanzata da molti Paesi è la seguente: «Non accettiamo più richiedenti asilo alle nostre frontiere, per principio. E se vogliamo essere generosi, possiamo prevedere un contingente umanitario. Ma aboliamo il diritto individuale di asilo». Per questo mi aspetto che nei prossimi anni il contesto politico e le basi stesse del nostro lavoro di advocacy subiscano un cambiamento radicale. Chi può fornire protezione quando la legge da sola non è più sufficiente?
Dal 2015 a oggi, oltre 2,7 milioni di persone hanno attraversato il Mediterraneo in fuga da guerre, violenze e povertà, nella speranza di una vita migliore in Europa. Da allora, almeno 31.087 migranti hanno perso la vita nel tentativo di attraversare il Mediterraneo[1]. Come vede la situazione?
In Europa, gli sviluppi forse appaiono talvolta meno cruenti rispetto a quanto oggi accade in altre parti del mondo, ma stanno andando esattamente nella stessa direzione. Siamo arrivati a una situazione in cui, ad esempio, abbiamo finito per accettare che persone muoiano nel Mediterraneo, perché è più facile voltarsi dall’altra parte.
Papa Francesco è stato molto chiaro nel sottolineare l’importanza dell’amore umano, che non deve essere un amore a cerchi concentrici, come ha scritto nella lettera ai vescovi statunitensi, ma un amore universale, che non può venire delimitato dai propri interessi[2]. La solidarietà non segue logiche di interesse personale o di gruppo. La domanda che ci viene posta oggi è: vogliamo vivere in una società segnata dall’incapacità di riconoscere la dignità umana e dal rifiuto di accettare i legami che ci uniscono agli altri? Questa, a mio avviso, è la sfida che abbiamo davanti.
Le sembra che le proposte politiche attuali corrispondano ai desideri delle popolazioni?
Le proposte politiche attuali sembrano voler farci credere che sia questo ciò che la popolazione desidera. Nella nostra esperienza diretta, tuttavia, constatiamo spesso il contrario. Un esempio significativo ci viene dalla Francia. Molti anni fa, in questa nazione ci trovammo ad affrontare una situazione in cui richiedenti asilo vivevano per strada, pur avendo diritto a un alloggio pubblico. Ci chiedemmo cosa fare. La risposta tipica di una Ong sarebbe stata: «Apriamo un rifugio per i più vulnerabili, per aiutare almeno qualcuno». Ma capimmo che quella non era la soluzione migliore, perché avrebbe aiutato solo pochi. Allora decidemmo di proporre qualcosa di diverso: chiedere ai parigini – e poi ai cittadini francesi – di ospitare un rifugiato nelle loro case per tre mesi. All’inizio fu molto difficile. Ricevemmo risposte di questo tipo: «Mi dispiace, con tutta la buona volontà non posso farlo. Non riesco nemmeno a immaginarlo. E se mettessi i miei figli in pericolo?».
Sorsero così molte domande pratiche, dettate da preoccupazioni e, ovviamente, dalla mancanza di esperienza e di conoscenza. Ci rendemmo conto che era necessario accompagnare sia le famiglie sia i rifugiati a entrare in questo spazio di accoglienza, e scoprimmo che il lavoro del JRS non consiste tanto nel fornire direttamente una soluzione, quanto nel contribuirvi rendendo possibile ad altri di offrirla. Un anno dopo abbiamo avuto un incontro con le famiglie e i rifugiati coinvolti, e abbiamo ascoltato testimoninanze come questa: «Non avremmo mai pensato di riuscirci, ma è stata un’esperienza molto arricchente. Abbiamo scoperto che la persona seduta sul nostro divano, accanto ai nostri figli, non era un povero vagabondo, ma era un eccellente e noto fotografo iraniano, che con grande gentilezza ha insegnato ai nostri figli a usare la macchina fotografica durante quei tre mesi».
A mio avviso, questo esempio mostra non solo il valore dell’accompagnamento nello spirito del JRS, ma anche il fatto che molte persone sono disposte a impegnarsi nell’ospitalità e nella solidarietà. Non vogliono vivere in un mondo dove i diritti umani e la solidarietà siano cancellati, perché sanno che, prima o poi, ne sarebbero vittime anche loro. Oggi, in Francia, esistono numerosi gruppi, legati o meno al JRS, che continuano a promuovere questa forma di ospitalità che si è diffusa in molte città del Paese. Ci chiediamo: qual è il prossimo passo che possiamo fare come organizzazione? Penso in particolare a una domanda: come possiamo portare questa esperienza dalla sfera privata a quella politica?Perché una persona che ha vissuto un’esperienza positiva non potrebbe diventare un buon consigliere comunale o una persona capace di orientare e dare una direzione alla comunità? Abbiamo sperimentato la stessa cosa, ad esempio, con i rifugiati siriani giunti in Germania dopo il 2015. Ci sono tante possibili esperienze positive. Nel nostro lavoro, troviamo sempre persone che non vogliono vivere in una società avviata sulla strada della distruzione. In Europa, oggi, la nostra sfida è rendere visibile l’alternativa: creare spazi che favoriscano la solidarietà. Dobbiamo aiutare a superare la paura e a cogliere le opportunità anche in contesti che devono fare i conti con risorse più scarse. La dignità umana non dipende dalla disponibilità di euro o di dollari.
Il taglio dei fondi destinati all’USAID ha avuto qualche ripercussione sui progetti del JRS?
Come JRS, non abbiamo mai ricevuto fondi dall’USAID, ma avevamo numerosi finanziamenti provenienti dal Bureau for Population, Refugees, and Migrants del Dipartimento di Stato, cioè il ministero degli Affari esteri statunitense, per sostenere progetti a favore dei rifugiati. Il sistema è stato il medesimo: avevamo in corso nove progetti attivi in altrettanti Paesi, per un volume annuale totale di 18 milioni di dollari, che sono stati cancellati da un giorno all’altro. Il 24 gennaio scorso abbiamo ricevuto una lettera dal Governo degli Stati Uniti, che diceva: «Dovete interrompere i vostri progetti a partire da oggi. Essi sono sospesi a partire da questa data [che era un venerdì], e dovete confermarci entro lunedì che vi atterrete a tale ingiunzione; in ogni caso, nessuna spesa sarà considerata ammissibile».
Cosa significava tutto questo, in pratica? Per esempio, nell’est del Ciad gestiamo scuole per decine di migliaia di studenti. Questo voleva dire che il venerdì i ragazzi sarebbero tornati a casa dalle loro famiglie, e che il lunedì successivo avremmo dovuto informarli che la scuola non esisteva più. Oppure, un altro esempio: stavamo lavorando in Iraq con la comunità yazida, che ha subìto un genocidio ed è stata toccata in ogni sua famiglia da quella tragedia. Lavoravamo con loro, offrendo servizi di salute mentale, supporto psicosociale e, in parte, anche servizi psichiatrici. Anche lì, le persone avrebbero lasciato le attività il venerdì, e il lunedì seguente avremmo dovuto comunicare a tutta la comunità: «Non possiamo più parlare con voi». La stessa cosa è accaduta a molte altre organizzazioni di servizio in vari settori. Queste sono le conseguenze dirette.
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Naturalmente, abbiamo dovuto inviare la conferma di sospensione per quei nove progetti entro il lunedì successivo. A oggi, sette di essi non sono soltanto sospesi, ma chiusi a titolo definitivo. Per gli altri due – in Colombia e in Sud Sudan – ci è stato detto di riprendere alcune attività sotto un nuovo contratto in fase di definizione.
Quando abbiamo ricevuto quella lettera, il 24 gennaio, abbiamo subito risposto che ovviamente non potevamo chiudere una scuola da un giorno all’altro. Come sarebbe stato possibile? Ci sono innanzitutto questioni legali: le persone che lavorano con noi hanno diritto a un periodo di preavviso. Poi ci sono questioni morali: come si può fare questo, quando si è offerta un’opportunità di educazione, di cura e sviluppo della comunità? E soprattutto, la questione principale: la rottura della relazione. Come possiamo affermare di essere presenti per accompagnare i rifugiati, e poi sparire dall’oggi al domani? Questo è semplicemente impossibile. Così abbiamo lanciato un appello globale a tutte le Province della Compagnia di Gesù, ad alcune fondazioni e ai nostri benefattori più fedeli. Nel giro di due mesi siamo riusciti a raccogliere circa quattro milioni di dollari, che ci hanno permesso di mantenere alcuni servizi di base. Si tratta di un grande successo, per il quale siamo estremamente grati, ma allo stesso tempo i finanziamenti privati non possono colmare il deficit.
Prevedo che nel 2026 il JRS potrà offrire servizi per un valore complessivo di circa 70 milioni di dollari, invece dei 100 milioni abituali. Quindi, abbiamo una diminuzione di almeno il 30%. La principale conseguenza non riguarda l’organizzazione, sebbene siamo stati costretti a licenziare centinaia di collaboratori. La ricaduta più grave si ha sui rifugiati: su coloro che vedremo morire, su coloro che perderanno fondamentali opportunità di protezione, su coloro che non potranno più costruire un futuro per sé stessi. Negli ultimi mesi abbiamo vissuto l’esperienza dei tagli da parte del governo degli Stati Uniti, ma osserviamo sviluppi simili anche in alcuni governi europei, che stanno riducendo le loro sovvenzioni destinate alla solidarietà globale.
La situazione attuale richiede la ricerca di nuovi partner. In quali direzioni si muove il JRS? Quali sono gli sforzi in atto?
Lo scorso anno, quando abbiamo elaborato il nostro nuovo piano strategico globale, eravamo consapevoli che si sarebbe potuta verificare una situazione come quella attuale. Nella fase finale, nel settembre 2024, abbiamo svolto un’attività di foresight planning, di pianificazione basata su scenari. La domanda chiave che ci ponevamo a questo proposito era: «Come sarà la protezione dei rifugiati nel 2050? Quali possibili scenari si profilano?». Non si trattava di un esercizio di predizione, ma di una riflessione per identificare fattori rilevanti. Il primo quesito che abbiamo posto ai partecipanti – un gruppo di 35 persone, per metà provenienti dal JRS e per metà da agenzie di donatori, Ong, mondo accademico e altri settori, tutti mescolati – è stato: «Identificate i due fattori più importanti che influenzeranno la questione della protezione». Per «più importanti» intendevamo quei fattori che avranno il maggior peso e comporteranno la maggiore incertezza. Dei sei gruppi di lavoro paralleli che avevamo formato, cinque hanno individuato questi due fattori: lo sviluppo dell’opinione pubblica e l’evoluzione del panorama politico. Abbiamo quindi chiesto di costruire uno scenario che, secondo noi, avrebbe potuto realizzarsi nel giro di alcuni anni. E siamo rimasti a bocca aperta nel constatare che tutti i principali elementi che avevamo individuato hanno effettivamente giocato un ruolo cruciale nei cambiamenti politici avvenuti tra gennaio e febbraio.
Abbiamo però anche riflettuto su possibili risposte. In uno scenario in cui lo Stato non protegge più le persone, la seconda migliore forma di protezione è rappresentata dalla comunità. E questo lo vediamo già in molti dei luoghi in cui operiamo. Non è una situazione ideale, perché non puoi rivendicare giuridicamente i tuoi diritti. Ma una comunità possiede molte forze che, anche in una situazione di estrema fragilità, pur senza garantirti un diritto, possono offrirti uno spazio per continuare a vivere e a costruire il tuo futuro. La seconda risposta è: anche in un mondo come questo, non dobbiamo mai rinunciare a rivendicare i diritti individuali, perché non vogliamo vivere in una società che non si fonda più sul rispetto dei diritti. E infine, dobbiamo fare tutto il possibile per rafforzare la capacità di iniziativa dei rifugiati e dei migranti.
In questo scenario, gli Stati diventano la causa del disordine e non sono più i garanti dell’ordine e, come abbiamo già visto, limitano a un livello minimo lo spazio d’azione umanitaria basata sulla dignità umana, sulla fraternità e sulla solidarietà. È chiaro che abbiamo bisogno di creare nuove coalizioni, molto più ampie di quelle che abbiamo oggi, dal momento che le partnership attuali diventeranno inefficaci. A mio avviso, la Chiesa ha un ruolo importante da svolgere nella creazione di tali alleanze tra organizzazioni non governative, mondo accademico, comunità religiose e altre realtà della società civile. Si tratta di un partenariato fondato sulla fiducia, basato sulla convinzione che non vogliamo vivere in un mondo di distruzione e che desideriamo offrire un futuro alternativo.
Siamo nell’Anno giubilare, con al centro il tema della speranza. In questo scenario, ci sono motivi per sperare?
Questa è una domanda molto semplice. Ci si può rendere vittime di un’agenda della disperazione in molti modi: o perché si ha la sensazione che tutto ciò sia troppo, che sia schiacciante, e tutti noi proviamo questa sensazione, me compreso. Ci sono giorni in cui penso che sarebbe bello vivere in una realtà diversa, e capisco anche le persone, nelle nostre società, che dicono: «Voglio liberarmi di questo problema perché è troppo grande. Rendiamo i rifugiati invisibili, rendiamo illegale la richiesta di protezione». Ma questa è una tentazione, perché la realtà non cambia. Puoi anche affermare che sei tu stesso in difficoltà, che lotti ogni giorno, che vivi una vita piena di privazioni, e quindi non puoi condividere le tue risorse. Come potresti farti carico anche dei bisogni degli altri? Ci si può abbandonare all’agenda della disperazione anche per un altro motivo: perché si percepisce che non solo il racconto dominante, ma anche il disegno che alimenta odio e distruzione è così potente da sembrare inarrestabile. E si può arrivare a pensare: «Non ho nulla da opporre a tutto questo. Vorrei che fosse diverso, ma non posso farci niente». E poi c’è una terza possibilità: fare quello a cui ci chiama il Vangelo. Il Vangelo non ci dice: «Create la speranza»; non ci dice: «Credete in un futuro diverso che un giorno verrà»; ma ci dice: «Siate testimoni di speranza». E questo è possibile oggi, con le persone che sono generose; con le famiglie che hanno accolto un rifugiato per tre mesi, pur tra paura e incertezze, e che in quel periodo hanno vissuto un’esperienza positiva; con l’imprenditore che dice: «Non mi serve solo una forza lavoro, ho davanti una persona, e voglio offrire a questa persona una nuova casa, una nuova comunità». E in molti altri modi. Siamo diversi, perché siamo testimoni di speranza. E dobbiamo fare in modo che questo diventi il centro della nostra azione.
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Riproduzione riservata
***
[1] Cfr Unicef, Rifugiati e migranti in Europa (unicef.it/emergenze/rifugiati-…).
[2] Cfr Francesco, Lettera ai vescovi degli Stati Uniti d’America, 10 febbraio 2025 (vatican.va/content/francesco/i…).
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Lo Spirito Santo, uno sconosciuto?
Rivolgendosi ai suoi discepoli nel «discorso di addio», Gesù afferma, a proposito dello Spirito Santo: «Il mondo non [lo] può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce»(Gv 14,17). Si tratta, insomma, di uno sconosciuto, e basterebbe chiedere a un qualunque cristiano di un qualunque Paese chi sia per lui lo Spirito Santo per averne la conferma. Forse ci risponderebbe come risposero a Paolo i cristiani di Efeso, quando egli chiese loro se, al momento del battesimo, avessero ricevuto lo Spirito Santo: «Non abbiamo nemmeno sentito dire che esista uno Spirito Santo»(At 19,2). Persino gli specialisti che presumono di conoscere bene tutto ciò che riguarda lo Spirito Santo, se sono sinceri, dovranno ammettere la loro scarsa competenza su questo tema.
Nel cercare una risposta alla nostra domanda, possiamo leggere il Vangelo di Giovanni, in particolare il «discorso di addio», contenuto nei capitoli 14–16 (a partire da Gv 13,31). Qui, in quello che è conosciuto come il suo «testamento», che i discepoli dovranno ricordare per sempre, Gesù fa una rivelazione speciale. Anche se in questi capitoli troviamo alcuni temi centrali della teologia di Giovanni, come la parabola della vite e dei tralci, in cui Gesù esorta a rimanere nel suo amore, ci concentreremo sui versetti nei quali viene presentato il discorso di Gesù sullo Spirito Santo. Per comprenderlo meglio, partiremo da una prospettiva che li collega dando loro senso e coerenza: quella della «rivelazione». Che cosa ci rivela Gesù sullo Spirito Santo in questi versetti?
Un dono permanente
«Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre» (Gv 14,15-16).
Un’attenta lettura ci fa scoprire che in Gv 14,15-26 c’è una prospettiva trinitaria: si parla del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. La prima cosa che colpisce è il nome che Gesù stesso dà allo Spirito Santo: «Paraclito». Questo termine è usato solo nel «discorso di addio» nel Vangelo di Giovanni, e nella Prima lettera di Giovanni, dove Gesù è riconosciuto come nostro intercessore presso il Padre (cfr 1 Gv 2,1). Secondo il testo, si tratta di un dono che il Padre concede ai discepoli grazie all’intercessione di Gesù. In realtà, nel Nuovo Testamento lo Spirito Santo viene spesso definito come un «dono». Ad esempio, in At 2,38: «E Pietro disse loro: “Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo”»; e nella Seconda lettera a Timoteo san Paolo dice: «Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza» (2 Tm 1,7).
Il dono di cui si parla nel testo di Giovanni è soggetto a una condizione che viene indicata nel versetto precedente: l’amore per il Signore, che si manifesta nell’osservanza dei comandamenti. Afferma Gesù: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti» (Gv 14,15). L’amore per Dio è un tema su cui si insiste molto nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Nel Deuteronomio, esso si deve manifestare nella pratica dei comandamenti: «Ora, Israele, che cosa ti chiede il Signore, tuo Dio, se non che tu tema il Signore, tuo Dio, che tu cammini per tutte le sue vie, che tu lo ami, che tu serva il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima tua, che tu osservi i comandi del Signore e le sue leggi, che oggi ti do per il tuo bene?» (Dt 10,12-13).
Invece, l’amore dei cristiani per Gesù non è così frequente come la fede in Gesù stesso. Nella Prima lettera di Giovanni troviamo però un punto di contatto molto evidente: «In questo infatti consiste l’amore di Dio, nell’osservare i suoi comandamenti» (1 Gv 5,3). L’uso del plurale, «comandamenti», allude all’insieme della rivelazione e dell’insegnamento di Gesù nel corso della sua missione e del suo ministero.
L’importanza del dono dello Spirito la si deduce dalla conseguenza, che sembra causata dall’intercessione di Gesù: «Io pregherò il Padre» (Gv 14,16a). Nella sua preghiera di congedo – la cosiddetta «preghiera sacerdotale» –, Gesù sta già compiendo l’atto di «pregare» per i suoi: «Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi»(Gv 17,9). Anche nel Vangelo di Luca c’è un brano in cui il dono del Paraclito viene associato alla preghiera: «Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato […]. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? […] Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!» (Lc 11,9-13).
In Gv 14,16 Gesù si riferisce a un «altro Paraclito». Chi è il primo? È Gesù stesso, secondo quanto si può desumere dalla Prima lettera di Giovanni, in cui si parla di Gesù come di Paraclito: «Abbiamo un Paraclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto» (1 Gv 2,1), che intercede presso il Padre.
Il nome usato da Gesù, «Paraclito», è tipico degli scritti giovannei. La tradizione cristiana ha identificato questo personaggio con lo Spirito Santo. Riguardo al significato della parola, possiamo, con il biblista Raymond Brown[1], distinguere due accezioni di tipo forense: «avvocato», dal verbo «intercedere», e «supplicante-intercessore»; e altre di tipo non forense: «consolatore»e «colui che esorta».
Questo Spirito-Paraclito sarà presente nei discepoli, ma non sarà visibile materialmente, come lo è stato Gesù. La sua presenza consisterà appunto nel rimanere nei discepoli per sempre: «perché rimanga con voi per sempre» (Gv 14,16). Questo è l’unico ruolo che gli viene attribuito in questo primo testo giovanneo. Egli compirà così la promessa dell’Emmanuele («Dio con noi») di Is 7,14. La presenza di Dio in mezzo al suo popolo significa aiuto, salvezza, guida. Questo è un motivo centrale nell’Antico Testamento, come vediamo nel libro dell’Esodo: «[Mosè] disse: “Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, Signore, che il Signore cammini in mezzo a noi”» (Es 34,9), nel Deuteronomio: «Il Signore, tuo Dio, è stato con te in questi quarant’anni e non ti è mancato nulla» (Dt 2,7), e nei Salmi: «Il Signore degli eserciti è con noi, nostro baluardo è il Dio di Giacobbe» (Sal 46,8.12).
Lo Spirito della verità
«… lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete, perché rimane presso di voi e sarà in voi» (Gv 14,17).
Il secondo testo che esaminiamo aggiunge un attributo dello Spirito: «Spirito della verità», espressione ricorrente negli scritti di Giovanni (cfr Gv 15,26; 16,13; 1 Gv 4,6; 5,6). Non si tratta di una descrizione essenziale dello Spirito, ma di un «genitivo oggettivo»: l’espressione vuole significare che lo Spirito comunica la verità. Rispetto al mondo, lo Spirito si trova in opposizione: il mondo non può riceverlo[2], perché il mondo è una realtà – sia essa sociale, politica, religiosa, o semplicemente un modo di atteggiarsi nella vita – contraria al regno di Dio. Perciò si capisce che il «mondo» non può ricevere lo Spirito: semplicemente non lo vede, non è capace di percepirlo; insomma, non lo conosce. Sappiamo che «conoscere», nella Bibbia, trascende l’ambito dell’operazione intellettuale e si colloca nell’orizzonte della relazione personale e dell’accoglienza cordiale.
I discepoli, invece, conoscono lo Spirito. La ragione che Gesù adduce è di nuovo la presenza: una presenza speciale, destinata a durare. Si tratta di una permanenza presente e futura. La presenza e la conoscenza si trovano dunque in una relazione reciproca. A proposito di questa presenza, il profeta Aggeo, quando esortava a ricostruire il tempio, aveva scritto: «Coraggio, popolo tutto del paese – oracolo del Signore – e al lavoro, perché […] il mio spirito sarà con voi, non temete»(Ag 2,4b-5).
«Spirito della verità»può essere tradotto come «vita vera». È lo Spirito che si oppone allo spirito di menzogna, da cui provengono i nostri mali. È visibile e riconoscibile nel Figlio. Il mondo è incapace di vederlo e di riconoscerlo, perché non è stato in grado di riconoscere Gesù. Non si deve confondere l’espressione «Spirito della verità» con una dottrina, con un’idea di verità che si potrebbe trovare nei libri di teologia o in trattati scientifici. Gesù afferma che lo Spirito «rimane» presso di noi e «sarà» in noi. «Lo ascoltiamo dentro di noi e risplende nella vita di chi segue le orme di Gesù con umiltà, fiducia e fedeltà»[3]. Inoltre, sarà sempre con noi come nostro difensore. «Non vi lascerò orfani», dice Gesù(Gv 14,18). Lo Spirito non può essere ucciso, come lo è stato Gesù. Un modo di descrivere quella che può essere la nostra conversione oggi nel vivere l’esperienza di Dio è proprio «l’esperienza di vivere radicati nel suo Spirito della verità»[4]. Così Klaus Berger completa il significato di questa espressione: «Qui il Paraclito significa Spirito della verità, perché il termine “verità” indica la stabile realtà di Dio. Si può quindi tradurre come “il vero e reale Spirito di Dio”. Nulla, infatti, può essere più reale di Dio»[5].
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Uno Spirito che insegna e aiuta a ricordare
«Ma il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14,26).
In questa terza menzione, Gesù chiama il Paraclito «Spirito Santo», il nome con il quale sarà conosciuto nella comunità cristiana. L’invenzione di questo termine, pertanto, non è nostra, ma, stando al Vangelo di Giovanni, è di Gesù stesso. È l’unico caso in Giovanni in cui si trova la formula greca completa to pneuma to hagion, «lo Spirito Santo», e in cui il Paraclito viene identificato con lo Spirito Santo. Egli ha la sua origine nel Padre, perché procede da lui («che il Padre manderà»); e il Padre lo manderà «nel nome di Gesù». Gesù aggiunge qui due funzioni dello Spirito, che sono due delle sue attività a favore degli uomini: insegnare loro ogni cosa e ricordare loro tutte le cose che Gesù ha detto. Non si tratta solo di un «ricordare» come attività della memoria, ma di un vero insegnamento, che equivale alla rivelazione.Grazie allo Spirito Santo, i discepoli saranno in grado di comprendere le parole di Gesù.
A proposito di questa attività dello Spirito di insegnare ai discepoli ogni cosa, va tenuto presente quello che dice la Prima lettera di Giovanni. Essa mostra che lo Spirito compirà questa attività verso i credenti stando con loro e in loro: «Ora voi avete ricevuto l’unzione dal Santo, e tutti avete la conoscenza» (1 Gv 2,20); «L’unzione che avete ricevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che qualcuno vi istruisca»(1 Gv 2,27). Questa è l’azione dello Spirito come «Maestro interiore». In questi versetti risuonano le parole di un Salmo: «Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi» (Sal 25,5).Ci sembra importante quello che scrive Xavier Léon-Dufour a proposito di questo testo della Prima lettera di Giovanni: «A differenza di altri autori del Nuovo Testamento, Giovanni non evoca un magistero ecclesiastico; sottolinea il dono fondamentale che segna (o dovrebbe segnare) ogni coscienza credente»[6]. Secondo la Bibbia, «insegnare» significa interpretare autenticamente la Scrittura. In Gv 6,45, quando Gesù afferma: «Tutti saranno istruiti da Dio», cita un testo profetico(Is 54,13).
Possiamo dire che il Paraclito, con il suo insegnamento, completa l’educazione dei discepoli. Il «ricordare» di Giovanni, pertanto, non si restringe a un’attività della memoria, ma si riferisce a un aiuto da parte dello Spirito per farci comprendere meglio il significato delle parole di Gesù. Afferma Léon-Dufour: «Nel linguaggio biblico, “ricordarsi” implica non solo il ricordo di un fatto passato, ma una presa di coscienza del suo significato; come quando Gesù invita i discepoli a ricordarsi del suo gesto sui pani (Mt 16,9 = Mc 8,18-19)»[7].
A quanto pare, Giovanni attinse il tema della «memoria» dall’Antico Testamento, in cui esso è molto presente. «In particolare si può dire che l’intero Deuteronomio sia una teologia della memoria»[8]. Con l’aiuto dello Spirito Santo, il credente è capace di far rivivere la memoria di Gesù, non solo come ricordo del passato, ma come presenza viva e attuale che ispira la nostra relazione, affettiva e cordiale, con lui.
Nell’episodio della purificazione del tempio, quando Gesù si riferisce al santuario del suo corpo – «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (Gv 2,19)» –, i discepoli non capiscono. E l’evangelista aggiunge: «Ma egli parlava del tempio del suo corpo. Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù»(Gv 2,21-22). E dopo l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, Giovanni commenta: «I suoi discepoli sul momento non compresero queste cose; ma, quando Gesù fu glorificato, si ricordarono che di lui erano state scritte queste cose e che a lui essi le avevano fatte»(Gv 12,16).
Uno Spirito che dà testimonianza
«Quando verrà il Paraclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me» (Gv 15,26).
Questo nuovo riferimento al Paraclito presenta la sua venuta come un evento non ancora realizzato («quando verrà») e associato all’azione di Gesù di «mandarlo» ai discepoli dal Padre («che io vi manderò dal Padre»). Qui è Gesù a mandarlo. È la sua promessa, che consola i discepoli, rattristati per la prossima dipartita del loro Maestro; è la sua eredità, promessa in questo discorso-testamento. Con la venuta del Paraclito, che svolgerà la funzione di Consolatore, si riempirà il vuoto lasciato dal Maestro. Come Gesù è «inviato dal Padre», così il Paraclito è «inviato dal Figlio».
Ritorna qui l’espressione che identifica il Paraclito, lo «Spirito della verità», e che, in quanto ripetuta, rafforza un elemento caratteristico della persona o del soggetto in questione. Ritorna anche l’idea del suo procedere, che era stato appena affermato («che procede dal Padre») e che diventerà parte della professione di fede cristiana, a proposito dello Spirito («che procede dal Padre e dal Figlio»).
Alla fine del versetto, viene indicata un’altra funzione del Paraclito, che corrisponde anche a una missione dei discepoli: dare testimonianza di Gesù («egli darà testimonianza di me»). Appare qui, per la prima volta nel «discorso di addio», l’espressione «dare testimonianza». Il contesto dei brani sinottici paralleli (Mt 10,18.20; Lc 12,12) è quello «di una concreta situazione processuale»[9]. Afferma Raymond Brown: «Il ruolo di rendere testimonianza in tempi di persecuzione e di farlo per mezzo della testimonianza dei discepoli è precisamente il ruolo attribuito al Paraclito in Giovanni 15,26-27»[10].
C’è però una differenza tra i destinatari della testimonianza del Paraclito e i destinatari della testimonianza dei discepoli. La testimonianza del Paraclito viene data ai discepoli nel loro intimo: egli testimonia nel cuore dei discepoli a favore di Gesù, per illuminare il suo mistero e confermarli nella sua verità. La testimonianza dei discepoli, invece, viene offerta davanti al mondo, che spesso sarà un mondo ostile. L’oggetto comune della testimonianza è il Figlio con il suo mistero, che riguarda in definitiva la rivelazione del Padre.
Parimenti, i discepoli sono chiamati a dare testimonianza di Gesù con le loro parole e le loro azioni, e persino con la loro vita. Troviamo un passo parallelo in Luca: «… perché lo Spirito Santo vi insegnerà in quel momento ciò che bisogna dire» (Lc 12,12). Negli Atti degli Apostoli, viene ricordata la testimonianza dei discepoli confermata dallo Spirito Santo: «E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a quelli che gli ubbidiscono»(At 5,32). Sant’Agostino, commentando questa duplice testimonianza – dei discepoli e dello Spirito Santo –, scriveva: «Poiché egli parlerà, anche voi parlerete: egli nei vostri cuori, voi con le parole; egli con l’ispirazione, voi con la voce» (Commento al Vangelo di Giovanni, 93,1). Come la testimonianza del Padre è in relazione con la testimonianza di Gesù, così pure la testimonianza dello Spirito Santo è in relazione con quella dei discepoli.
Dare testimonianza è un’attività che ritorna spesso nelle pagine del quarto Vangelo. Così rendono testimonianza: Giovanni il Battista; Gesù; la samaritana; Dio; le opere di Gesù; le Scritture; la folla; il Paraclito; i discepoli; l’autore del Vangelo.
Uno Spirito inviato da Gesù ai discepoli
«È conveniente per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paraclito; se invece me ne vado, lo manderò a voi. E quando sarà venuto, dimostrerà la colpa del mondo riguardo al peccato, alla giustizia e al giudizio» (Gv 16,7b.8).
Nella seconda parte di questo brano viene indicata una relazione misteriosa tra la partenza di Gesù e la venuta del Paraclito: quest’ultima è condizionata non all’adempimento dei comandamenti, ma al «passaggio» di Gesù (la sua Pasqua), al suo ritorno al Padre: «… perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paraclito». Segue un’altra condizione, questa volta formulata in positivo: «Se invece me ne vado, lo manderò a voi». Il Paraclito viene compreso come la presenza di Gesù assente. Già in Gv 7,39 si leggeva: «Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato». In queste parole si sottintende che è Gesù glorificato che dà lo Spirito e che il compito dello stesso Spirito-Paraclito è quello di condurre a Gesù glorificato. Questa condizione, tuttavia, non fa scomparire un dubbio fondamentale: perché conviene per i discepoli che Gesù se ne vada? La risposta è che mediante la presenza interiore del Paraclito e la sua azione nel cuore dei discepoli essi impareranno a comprendere Gesù. L’espressione «è conveniente» è la stessa pronunciata da Caifa quando profetizzava la riunione dei figli di Dio dispersi («È conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo»: Gv 11,50).
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Allora il Paraclito verrà con una triplice funzione, che risulta altrettanto enigmatica: «Dimostrerà la colpa del mondo riguardo al peccato, alla giustizia e al giudizio» (Gv 16,8). Non a caso gli esegeti hanno sempre considerato questo passaggio uno dei più difficili da interpretare[11]. Il verbo usato dall’autore significa «argomentare», «convincere», «mettere in guardia qualcuno da un errore». Pertanto, il Paraclito assume il ruolo di qualcuno che viene a dimostrare qualcosa. La Tob (Traduction Oecumenique de la Bible) traduce: «E quando sarà venuto, egli [il Paraclito] convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio». La condanna e la morte umiliante di Gesù avrebbero dovuto essere una prova, agli occhi del mondo, della colpevolezza e della mendacità di Gesù stesso, nonché dimostrare l’equità del processo intentato dalle autorità. Invece lo Spirito viene a dimostrare esattamente il contrario, come ribadisce la stessa Tob: «Ma l’intervento dello Spirito (che determina soprattutto la testimonianza dei discepoli: 15,26) capovolgerà completamente la situazione: manifestando che dopo la morte Gesù è stato glorificato da Dio, mostrerà la giustizia della sua causa, il suo buon diritto, e affermerà dunque, in modo irrefutabile, il peccato del mondo e la condanna di colui che lo governava»[12].
Pertanto, per quanto riguarda il mondo, non si tratta solo di una sua incapacità di vedere e conoscere, che potrebbe essere intesa come semplice indifferenza, ma di una sua autentica ostilità. Il mondo, quindi, non poteva essere convinto dallo Spirito della verità, proprio perché aveva rifiutato questa stessa verità. Nel «discorso di addio», il sostantivo «mondo» sostituisce «gli ebrei». Il giudizio del mondo non avviene in una sede pubblica, ma nella mente, nella comprensione o nella dimensione interiore dei discepoli. E in ogni caso, più che contro il mondo, esso è contro il suo principe.
Nello stesso Vangelo di Giovanni, poco dopo, viene data una spiegazione: «Il peccato del mondo – afferma la Tob – consiste innanzitutto nel rifiuto di credere in Gesù, nel rifiuto della luce»[13]. Il peccato, nel Vangelo di Giovanni, consiste nel rifiutarsi di credere. Fin dal principio, nel suo primo discorso, Gesù aveva detto: «E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie» (Gv 3,19). Alla fine del suo ministero pubblico, l’evangelista, quasi a mo’ di valutazione, scrive: «Sebbene avesse compiuto segni così grandi davanti a loro, non credevano in lui»(Gv 12,37). Se si esaminano i peccati individuali, in fondo tutti sono una manifestazione dell’incredulità, che arriverà al suo grado estremo nella condanna a morte di Gesù. E sappiamo che i responsabili – e pertanto, in senso lato, coloro che sono stati partecipi di tale incredulità – sono stati molto più numerosi di coloro che presero parte al processo contro Gesù. In un certo senso, si può dire che tutti i credenti di ogni tempo – noi compresi – ne siano coinvolti.
E il «discorso di addio» di Gesù prosegue così: «E quando sarà venuto, [il Paraclito] dimostrerà la colpa del mondo riguardo al peccato, alla giustizia e al giudizio. Riguardo al peccato, perché non credono in me; riguardo alla giustizia, perché vado al Padre e non mi vedrete più; riguardo al giudizio, perché il principe di questo mondo è già condannato» (Gv 16,8-11). Per quanto questa possa essere già una spiegazione, rimane ancora, come succede spesso nel Vangelo di Giovanni, un fondo di mistero. Che cosa intende l’autore quando afferma che lo Spirito Santo «dimostrerà la colpa del mondo […] riguardo alla giustizia, perché vado al Padre e non mi vedrete più» (Gv 16,8-9)?Gesù vuole dire che la possibilità di vederlo, di cui i discepoli hanno usufruito,viene meno con il suo ritorno al Padre. Inoltre, a proposito del passaggio di Gesù al Padre attraverso la croce, la Tob afferma che esso «testimonia definitivamente l’innocenza e il buon diritto di Gesù (cfr Gv 8,46) e dunque anche la verità del suo insegnamento»[14]. «Con “giustizia”, Giovanni non intende la dirittura morale, ma, conformemente al contesto processuale, quanto viene riconosciuto a beneficio di una delle parti»[15]. Le parole di Paolo a Timoteo confermano l’idea dell’esaltazione come una manifestazione della giustizia di Dio: «Egli fu manifestato in carne umana e riconosciuto giusto nello Spirito» (1 Tm 3,16). È proprio lo Spirito che permette di «vedere» la vittoria di Gesù, come attesta il libro degli Atti degli Apostoli nell’episodio in cui Stefano, «pieno di Spirito Santo»,testimonia che Gesù si trova alla destra del Padre (cfr At 7,55).
Alla fine di questo commento a proposito dell’intervento dello Spirito Santo, troviamo una dichiarazione di vittoria – «Il principe di questo mondo è già condannato» (Gv 16,11) –, che spiega definitivamente in che cosa consiste questo giudizio: «La vittoria di Gesù implica necessariamente la sconfitta e la condanna senza appello di chi governava il mondo (cfr Gv 12,31-32; 14,30; 16,33; 1 Gv 2,13)»[16]. La morte di Gesù è la sua vittoria definitiva sul principe di questo mondo.
Il contesto della testimonianza del Paraclito è l’odio del mondo, come si deduce dal quadro storico degli scontri tra la Chiesa nascente e la Sinagoga o le autorità dell’Impero romano, che perseguitavano i seguaci di Gesù.
Uno Spirito che guida alla verità e annuncia le cose future
«Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da sé stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà» (Gv 16,13-14).
Questo è l’ultimo riferimento al Paraclito nel «discorso di addio». Per la seconda volta Gesù parla della venuta del Paraclito con una proposizione – «quando verrà» – che può richiamare il giudizio finale. Colpisce la ripetizione, per la terza volta, dell’espressione «lo Spirito della verità», che indica senza dubbio qualcosa di speciale. È l’elemento più ripetuto nell’insegnamento sullo Spirito in questa rivelazione di Gesù. Si capisce ora che, essendo «lo Spirito della verità»,egli può guidare i discepoli alla verità. Alla verità completa: «li guiderà a tutta la verità».
La vita cristiana potrà essere descritta, nel corso della storia, come la vita «guidata dallo Spirito»,perché il dono dello Spirito conduce il credente alla comprensione della verità, che si rivela in maniera completa nel Figlio incarnato[17]. Già san Paolo aveva scritto, a questo proposito, una frase magistrale: «Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio»(Rm 8,14). Nella tradizione biblica, questa funzione di guida era attribuita in primo luogo a Dio e al suo Spirito. Il salmista esprimeva la sua fede in questa guida dello Spirito in forma di supplica: «Il tuo spirito buono mi guidi in una terra piana»(Sal 143, 10b); «Scrutami, o Dio, e conosci il mio cuore, provami e conosci i miei pensieri; vedi se percorro una via di dolore e guidami per una via di eternità» (Sal 139,23-24).
Il fatto che lo Spirito guidi i discepoli a «tutta la verità» non significa solo che li conduce a una più profonda comprensione intellettuale di ciò che Dio aveva insegnato loro, ma significa anche che li guida verso un «nuovo modo di vivere» più coerente con gli insegnamenti di Gesù. Quando si parla di «tutta la verità», non bisogna intenderla in senso quantitativo, ma qualitativo. Nell’Antico Testamento, era compito della sapienza guidare gli uomini (cfr Sap 9,11); adesso tocca al Gesù di Giovanni, figura che impersona la Sapienza divina, assumere questo ruolo, nel quale gli succederà il Paraclito[18].
Il Paraclito parlerà, ma la sua voce non risuonerà più come le parole di Gesù, perché parlerà al cuore dei discepoli, continuando a comunicare la rivelazione del Figlio che ha ascoltato da lui. Non solo li condurrà a «tutta la verità», ma annuncerà loro anche «le cose future»,ossia, probabilmente, l’interpretazione che ogni generazione futura dovrà dare a ciò che Gesù ha detto e ha fatto, anticipando forse l’atteggiamento che i cristiani dovranno assumere di fronte alla storia.
In questo testo, è notevole la densità con cui compare l’elemento della rivelazione, come emerge dall’uso di alcuni verbi[19]: «Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. […]. Prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà». Occorre notare il particolare tipo di rivelazione: lo Spirito «non parlerà da sé stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito». Questa frase ci rimanda al mistero imperscrutabile delle relazioni tra le Persone divine, a qualcosa che per noi è assolutamente inimmaginabile: uno Spirito che non ci annuncerà le cose a partire da sé stesso, ma che ci annuncerà ciò che ha udito. Da chi? Il testo non lo dice, ma si può supporre, dato il contesto, che la fonte dell’annuncio sia il Padre, anche se dal versetto immediatamente successivo si deduce che la fonte è anche Gesù: «perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».
Questo «annuncerà» rimanda alle «cose future», espressione tipica dello stile enigmatico di Giovanni. Nello svolgere questa funzione di «annunciare», il Paraclito «glorificherà Gesù», perché riceverà da lui ciò che annuncerà ai discepoli. Tra queste «cose future», san Tommaso annovera la piena conoscenza della verità di Dio; l’intelligenza spirituale delle Scritture; le sofferenze e le prove che attendono la comunità cristiana[20].
Conclusione
I riferimenti al Paraclito, in questo «discorso di addio» di Gesù, non contengono tutta la pneumatologia (ossia, il trattato teologico sullo Spirito Santo), e neppure quella del Vangelo di Giovanni. Non si dice nulla delle altre azioni attribuite allo Spirito in altri passi del Vangelo di Giovanni: ad esempio, far rinascere (Gv 3,3-8), vivificare (Gv 6,63), perdonare i peccati (Gv 20,22–23). Queste azioni arricchiscono tuttavia la conoscenza che abbiamo di lui e hanno in comune il fatto di essere in relazione al Figlio. Scrive Léon-Dufour: «Correndo il rischio di semplificare i dati testuali, il compito che il Paraclito riceve dal Padre e dal Figlio può essere ricondotto a tre funzioni: 1) essere con e nei discepoli; 2) insegnare ad essi; 3) testimoniare in favore di Gesù»[21].
Brown compendia queste funzioni in modo simile: «In sintesi, il concetto di Paraclito, come l’amore, è quello di una cosa multiforme: il Paraclito è un testimone in difesa di Gesù e un suo portavoce nel contesto della prova a cui Gesù è sottoposto dai suoi nemici. E soprattutto è il suo maestro, la sua guida, e quindi, in senso più ampio, il suo aiuto. Nessuna traduzione riesce a cogliere la complessità di tali funzioni»[22].
Tutti questi insegnamenti sul Paraclito sono riconducibili a tre aspetti: 1) la rivelazione; 2) l’eredità che Gesù lascia ai discepoli; 3) la forza che bisogna mostrare quando si viene messi alla prova.
Cercando di essere fedeli alla concezione del Paraclito proposta da Giovanni, non possiamo non tener conto dell’enorme importanza che lo Spirito ha nella vita cristiana, con il compito di mantenere viva la presenza di Gesù tra i credenti. Le difficoltà e le persecuzioni subite dalla prima comunità giovannea continuano nelle comunità cristiane. Gesù ha promesso ai suoi che il Paraclito li avrebbe sostenuti nei momenti di crisi, ma questa non era la promessa di un dono limitato nel tempo e nello spazio, bensì di un aiuto di cui avrebbero beneficiato i suoi seguaci di tutte le epoche. È attraverso di loro e della loro testimonianza che il Paraclito realizza la sua missione.
Il Paraclito, Spirito sconosciuto per il mondo e probabilmente ancora per tante persone, vive in noi. La sua presenza è un dono che ravviva in noi la fede. Come Spirito della verità, rende presente costantemente in noi lo stile nuovo di Gesù, nella pratica del suo comandamento; come Maestro interiore, continua a insegnare, a ricordare, a rendere vivo e attuale il messaggio di Gesù. Continua a guidarci nel segreto della nostra coscienza come Spirito di forza, di carità e di prudenza (cfr 2 Tm 1,7), e ci incoraggia nella nostra missione di testimoni: nella nostra naturale debolezza e insicurezza, fra tutte le contrarietà che incontriamo nel nostro cammino, possiamo essere forti, sentirci fiduciosi e vivere nella gioia e nella speranza, come frutto della presenza dello Spirito in noi.
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***
[1] Cfr R. E. Brown, Giovanni,vol. 2, Assisi (Pg), Cittadella, 1979, 1491 s.
[2] Il «mondo» è un tema a cui gli scritti giovannei dedicano particolare attenzione. Esso può designare: 1) la terra degli uomini in contrapposizione al regno di Dio; 2) l’insieme delle forze ostili a Dio, il «luogo» spirituale del rifiuto di Dio; in questo senso, Satana è il principe di questo «mondo»; 3) l’umanità amata da Dio e salvata da Cristo. Nei brani del «discorso di addio», il termine «mondo» va inteso nella seconda accezione. Per un quadro più completo, mi permetto di rimandare alla mia tesi, intitolata El tema del Agape en la Primera Carta de san Juan, Roma, Pontificia Università Gregoriana, 2004, 35.
[3] J. A. Pagola, El camino abierto por Jesús. Juan, Madrid, PPC Editorial, 2012, 193.
[4] Ivi.
[5] K. Berger, Commentario al Nuovo Testamento. Vol. 1: Vangeli e Atti degli apostoli, Brescia, Queriniana, 2014, 504.
[6] X. Léon-Dufour, Lettura dell’Evangelo secondo Giovanni, Cinisello Balsamo (Mi),San Paolo, 1990, 943.
[7] Ivi, 855.
[8] O. Michel, in Theologisches Wörterbuch zu Neuen Testament, vol.4, Stuttgart, Kohlammer, 1942, 678-687; W. Schottroff, Gedenken im Alten Orient und im Alten Testament, Neukirchen, Neukirchener Verlag, 1964; X. Léon-Dufour, La fracción del pan,Madrid, Cristiandad, 1983, 139-156.
[9] X. Léon-Dufour, Lettura dell’Evangelo secondo Giovanni, cit., 907.
[10] R. E. Brown, Giovanni,cit., 847.
[11] Cfr Bibbia Tob, Leumann (To), Elledici, 1992, 2461.
[12] Ivi.
[13] Ivi.
[14] Ivi.
[15] X. Léon-Dufour, Lettura dell’Evangelo secondo Giovanni, cit., 930.
[16] Bibbia Tob, cit., 2461.
[17] Cfr ivi.
[18] Cfr R. E. Brown, Giovanni, cit., 867.
[19] Nella citazione seguente questi verbi sono messi in corsivo.
[20] Cfr Tommaso d’Aquino, s., Super Evangelium Joannis lectura 16,3 (in it. Commento al Vangelo di San Giovanni, 3 voll., a cura di Tito Sante Centi, Roma, Città Nuova, 1990-1993).
[21] X. Léon-Dufour, Lettura dell’Evangelo secondo Giovanni, cit., 938.
[22] R. E. Brown, «The Paraclee in the Fourth Gospel», in New Testament Studies 13 (1967/2) 118.
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Erasmo e Lutero: la libertà del cristiano
Cinque secoli fa, nel 1524-1525, Erasmo da Rotterdam e Martin Lutero, nel turbine delle vicende della Riforma, ebbero un acceso confronto su «la libertà del cristiano». Le loro opere Il libero arbitrio e Il servo arbitrio fecero scalpore e segnarono la rottura tra l’umanesimo cristiano e lo spirito della Riforma: trattavano infatti il problema della salvezza, se potesse farsi risalire anche a una libera decisione dell’uomo[1].
Nel 1520, Lutero aveva pubblicato una delle tre opere cardine della Riforma, La libertà del cristiano, che è il preludio al Servo arbitrio. Già all’inizio del libro, un’osservazione fondamentale: non si può dissertare della fede se questa non è messa alla prova dalle tribolazioni, cioè la virtù non si intende se non la si pratica[2]. Se ne può parlare solo per esperienza personale, non per sentito dire. Così è della libertà del cristiano. Per definirla Lutero stabilisce due proposizioni: «1) Il cristiano è signore di tutte le cose, assolutamente libero, non sottoposto ad alcuno. 2) Il cristiano è servo zelantissimo in tutte le cose, sottoposto a tutti»[3]. È l’Evangelo che lo rende libero; poiché Gesù, «Signore di tutti […] è libero e al tempo stesso servo»[4], il suo servizio al prossimo è qualificato dall’amore, in totale gratuità, senza alcun interesse. Le affermazioni sono anche confermate dall’apostolo Paolo: «Pur essendo libero da tutti, mi son fatto servo di tutti»[5].
Una stima reciproca
Erasmo e Lutero non si conobbero mai personalmente, ma si stimavano a vicenda. Almeno fino alle pubblicazioni di Lutero del 1520, Erasmo riconosceva in lui un buon predicatore e un eccellente teologo, anche se la propria posizione nei suoi confronti non era chiara: da un lato negava di essere precursore di Lutero, dall’altro sembrava compiacersi che quanto proclamava il riformatore egli lo aveva già detto; tuttavia, non condivideva il modo con cui si esprimeva e lo qualificava un’«ostinazione dogmatica»[6]. Quando da più parti gli era stato richiesto di scrivere contro Lutero, si era sempre rifiutato.
Dal canto suo, il riformatore aveva grande considerazione del Nuovo Testamento di Erasmo, che si può definire la prima edizione critica ante litteram del testo greco: l’aveva utilizzato nel 1516 per commentare a Wittenberg la Lettera ai Romani e poi, nel 1521, per tradurre in volgare il Nuovo Testamento, che ebbe un ruolo notevole nella formazione della lingua tedesca.
Nel 1516, mediante Spalatino, cappellano e segretario del principe elettore Federico il Saggio, Lutero aveva fatto pervenire all’umanista alcune note che riguardavano l’interpretazione non chiara del peccato originale nel cap. 5 della Lettera ai Romani[7].
Il riformatore avrebbe voluto Erasmo dalla sua parte per la competenza filologica. Ma già da tempo ne aveva colto il valore: «Per lui le cose degli uomini sono più importanti di quelle di Dio»[8]. Confrontandolo con Agostino, notava quanto poco per il dottore d’Ippona valesse la libertà della volontà: è il punto centrale della disputa sul libero arbitrio.
C’era anche una seconda lettera del 28 marzo 1519, forse scritta per invitare Erasmo a schierarsi per il nuovo movimento: Lutero sapeva della sua stima per le Tesi di Wittenberg e, nella prefazione all’Enchiridion militis christiani, ritrovava le proprie idee nella critica agli abusi ecclesiastici e alla Scolastica. L’umanista rispose confermando la propria dedizione per le buone lettere e invitando alla moderazione piuttosto che alla ribellione[9]. Erasmo intervenne anche presso Federico il Saggio per difendere Lutero, perché era «del tutto immune dal sospetto di avidità o ambizione, per la purezza dei suoi costumi»[10]. Se poi la protesta di Lutero era ritenuta un male, occorreva cercarne le cause: «Il mondo è oppresso dalle istituzioni umane; è oppresso dai dogmi scolastici. […] Queste cose hanno mosso lo spirito di Lutero perché osasse opporsi all’intollerabile sfrontatezza di certuni. […] Oggi tutto quel che non piace, tutto quel che non si capisce, è eresia. Sapere il greco è eresia. Parlare forbito è eresia. Tutto quel che essi stessi [gli uomini di Chiesa] non fanno, è eresia»[11].
La scintilla
Sembrerebbe che Erasmo e Lutero avessero le stesse idee, anche se l’umanista non nascondeva le sue preoccupazioni in seguito alle posizioni violente prese da Lutero. La pubblicazione della Bolla di Leone X Exsurge Domine, del 15 giugno 1520, che minacciava la scomunica, trasformò in certezza quei timori.
A Basilea, dove si era rifugiato, Erasmo ricevette diverse sollecitazioni a prendere posizione. Sia Leone X, sia Adriano VI, suo connazionale e amico, lo avevano esortato a intervenire. Tuttavia, fu determinante una lettera di Lutero dell’aprile 1524, il quale, avendo udito voci su un suo possibile intervento, lo pregava di rimanere un semplice spettatore e soprattutto di non scrivere contro di lui: «Perché è altra cosa essere attaccato da Erasmo che essere assalito da tutti i Papi messi insieme»[12]. Insomma, gli chiedeva una resa intellettuale: la lettera era «dura, umanamente quasi inaccettabile»[13].
La libertà del cristiano
Erasmo non reagì subito, forse perché sperava «fosse ancora possibile salvare la pace con la moderazione, la saggezza e la benevolenza»[14]. Ma ai primi di settembre del 1524 apparve a Basilea Il libero arbitrio[15]. Papa Clemente VII tirò un sospiro di sollievo. Congratulazioni giunsero da parte di Enrico VIII e di Giorgio di Sassonia; lo elogiarono il cancelliere dell’imperatore, Mercurino Gattinara, filosofi e teologi. Molti, tuttavia, rimasero sorpresi del tema scelto.
L’umanista aveva deciso come discussione un argomento in cui la distanza da Lutero era enorme: «il libero arbitrio». Il saggio prendeva l’avvio da una proposizione con cui il riformatore aveva risposto alla Bolla di scomunica: «Il libero arbitrio, dopo il peccato originale, è un semplice nome, e quando fa ciò che sta in lui, pecca mortalmente»[16]. Per Erasmo questo è assurdo, ed egli lo esplicita nei termini della discussione: «Il libero arbitrio è come un potere della volontà umana in virtù del quale l’uomo può sia applicarsi a tutto ciò che lo conduce all’eterna salvezza, sia, al contrario, allontanarsene»[17].
In tal modo egli attaccava il fondamento della teologia di Lutero, cioè il principio sola gratia, e poiché la salvezza avviene solo per grazia, tutto ciò che l’uomo può compiere con le proprie forze per salvarsi è peccato. Ne La libertà del cristiano egli aveva scritto che i meriti che giustificano sono «solo di Cristo»[18]. Secondo Erasmo, l’affermazione, benché fatta di passaggio, è uno dei paradossi della vita spirituale cristiana: i meriti – i medesimi meriti – sono insieme di Cristo e del credente, vengono da lui e sono suoi, ma sono realmente operati anche da me e sono miei. Qui il paradosso diventa contraddizione, se la vita dello Spirito, invece di allargarsi fino alla trascendenza, perché nel dialogo umano entra un interlocutore divino, si contrae nelle intransigenze di Lutero: dove il possesso è dell’uno o dell’altro, indivisibilmente.
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L’argomento non era semplice: «Nelle Sacre Scritture, non c’è – forse – labirinto più inestricabile di quello del libero arbitrio»[19]. All’inizio, Erasmo confessa di non essere un teologo e quindi di essere poco competente: «E d’altra parte [io] ho così poca inclinazione a prorompere in affermazioni dogmaticamente assertorie che più facilmente verterei su posizioni scettiche ogni volta che mi fosse concesso dall’autorità della Sacra Scrittura o dalle decisioni della Chiesa, alle quali sottometto sempre volentieri il mio sentimento, che capisca o non capisca ciò che esse mi ordinano»[20]. L’affermazione è un rispetto assoluto della parola di Dio e una dichiarazione di fedeltà alla Chiesa, ma sarà ritenuta scandalosa da Lutero[21].
L’argomentazione di Erasmo
Lo svolgimento si struttura in due parti: si affrontano prima i testi biblici che affermano la libertà dell’uomo e poi quelli che sembrano negarla. Tra i primi sono riportate alcune citazioni sapienziali: «[Dio] da principio creò l’uomo e lo lasciò in balìa del suo proprio volere» (Sir 15,14-15). Poi aggiunse i comandamenti e i precetti: «Se vuoi, osserverai i comandamenti; l’essere fedele dipende dal tuo buon volere»[22]. I testi sottendono la Philosophia Christi, dove Erasmo distingue le verità che sono rivelate e quelle invece che la mente umana non può capire (per esempio, la Trinità): le prime sono «quelle riguardanti le norme destinate a regolare la nostra vita. Così quel passo che dice: “Ecco la parola di Dio: non occorre andarla a cercare in alto nei cieli, né importarla dai più lontani paesi d’oltremare, perché è presente nella nostra bocca e nel nostro cuore”»[23]. Ciò che Dio chiede non è lontano, è vicino a me, anzi dentro di me. Risalta così il valore della ragione umana, che può ridimensionare anche alcune conseguenze del peccato originale: «Quella forza dell’anima, mediante la quale noi giudichiamo, […] il peccato l’ha oscurata, certo, ma non l’ha spenta»[24]. La grazia soccorre la volontà, ma non la sostituisce.
Nel Nuovo Testamento, molti testi propongono precetti che si possono adempiere: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi» (Mt 19,21); «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita, la perderà» (Lc 9,23-24)[25]. Queste sarebbero raccomandazioni inutili, se proponessero qualcosa di necessitante e la volontà umana fosse annullata.
Anche l’apostolo Paolo, scrivendo ai Corinzi, li esorta alla perfezione morale e ribadisce che a coloro che combattono viene data in premio una corona corruttibile, a noi invece ne è data una incorruttibile (cfr 1 Cor 9,25)[26]. I passi difficili dell’epistolario paolino «non si propongono di sopprimere il libero arbitrio, ma di allontanarci dall’orgoglio che il Signore detesta»[27].
Se fosse vero che tutto ciò che facciamo è dovuto a un determinismo assoluto e non al libero arbitrio, crollerebbe la morale: «Quale peccatore potrebbe sostenere, in simili condizioni, una lotta continua e faticosa contro la sua carne? Quale malvagio si impegnerebbe per correggere la propria vita?»[28]. Erasmo in tal modo riaffermava la dottrina della Chiesa: difendeva i diritti della libertà, senza la quale non si dà vita morale, ma anche i diritti della grazia, poiché altrimenti non si dà vita cristiana. Tuttavia la grazia, aiutando la libertà della volontà, non la sopprime.
Perciò Erasmo non accetta quanto affermano i pelagiani, che concedono troppo al libero arbitrio[29]; e rifiuta l’opinione contraria di Agostino e dei suoi discepoli, che «sono portati a esagerare l’azione della grazia, azione che Paolo sottolinea in tutti i suoi scritti»[30]. Per l’umanista è fondamentale la conclusione: «Ci sono pur opere buone, ancorché imperfette, e delle quali l’uomo non può valersi senza farsene un titolo per insuperbire: c’è pur qualche merito, ma bisogna riconoscere che, se lo si è conquistato, lo si deve a Dio. […] Ma non ci spingeremo fino al punto di dire che l’uomo, anche se giustificato, non è altro che un cumulo di peccato, quando il Cristo stesso ci parla di una nuova nascita, e Paolo di una nuova creatura»[31].
Si potrebbero addurre a conferma filosofi e dottori, ma, visto che Lutero riconosce come unica autorità la Scrittura, l’argomentazione si basa solo sulla parola di Dio. Tuttavia, al contrario di ciò che egli afferma, la Bibbia non è in sé stessa chiarissima. Per l’umanista, oltre allo Spirito, ci vuole la competenza per comprenderla[32].
Quanto alle affermazioni che appaiono contrarie al libero arbitrio, devono essere intrepretate, perché, essendo la Scrittura opera di un unico Spirito, non possono contraddirsi[33]. Singolare è l’affermazione di Gv 15,5: «Senza di me non potete far nulla». Il nulla per Erasmo indica il poco, cioè nulla di perfetto. Interpretazione che manderà Lutero su tutte le furie, perché il nulla non può significare «poco»[34], ma solo il niente!
Tuttavia, per Erasmo, quando Lutero afferma che «la nostra volontà non può nulla di più di quel che può l’argilla nelle mani del vasaio; che tutto ciò che facciamo e vogliamo discende da una necessità assoluta, il mio spirito trova numerose inquietudini; come si potrebbe parlare così spesso di ricompensa se non c’è più merito?»[35]. In altre parole, perché la Scrittura dovrebbe istruire e ammonire, raccomandare la preghiera e la conversione, se tutto accade secondo un’inevitabile necessità? Inoltre, «se l’uomo non fa niente […], non c’è più neppure né castigo né ricompensa»[36]. Per condannare qualcuno, è necessario che egli sia responsabile di ciò che fa, e abbia quindi la libertà di scegliere fra il bene e il male. La libertà della volontà è il valore dell’uomo, è la sua dignità. I paradossi del riformatore – conclude Erasmo – avrebbero portato «il mondo cristiano al caos»[37]. Per quanto riguarda lui, se non avesse compreso questi problemi, accetterebbe volentieri di essere istruito nella verità evangelica anche da un giovane.
Le critiche al «De libero arbitrio»
Ci furono anche delle critiche e dei pesanti silenzi: se Enrico VIII aveva celebrato Erasmo, i suoi amici inglesi, Tommaso Moro e John Fisher, rimasero in silenzio; anche Giorgio di Sassonia, in un secondo tempo, sollecitò l’umanista a scrivere ancora contro Lutero: gli obiettava di aver avuto troppi riguardi per un «eretico» e di non aver messo in chiaro i suoi errori[38].
Chi invece aveva capito bene il valore de Il libero arbitrio era Lutero. Concludendo il suo trattato, formulerà un singolare ringraziamento a Erasmo: «Di una cosa ti lodo, […] di avere, solo fra tutti, affrontato la vera questione, il punto cruciale, senza importunarmi con altri problemi fuori luogo, come il papato, il purgatorio, le indulgenze e cose simili. […] Per questo ti ringrazio dal profondo del cuore»[39].
Il servo arbitrio
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, Lutero non rispose subito a Erasmo: si trovava coinvolto nella sommossa dei contadini, nella polemica contro i «Profeti celesti», nella peste di Wittenberg; inoltre, si chiudevano i conventi, e frati e monache abbandonavano la vita monastica e si sposavano. Fu una sorpresa il matrimonio di Lutero: fino a poco tempo prima, egli era fermamente contrario alle proprie nozze. Invece, il 13 giugno 1525, si sposò con Katharina von Bora, una ex monaca.
La risposta finalmente apparve, dopo più di un anno, il 31 dicembre 1525: Il servo arbitrio[40]. Fu un fulmine contro l’umanista: quanto Erasmo era stato equilibrato, misurato, calmo, tanto Lutero rispondeva in modo violento, infuriato, prolisso, ma anche con spunti geniali. Il riformatore era indispettito: «È incredibile quanto fastidio mi dia il libretto sul libero arbitrio. […] Un libro così poco erudito di un uomo così erudito»[41].
L’esordio: «In una questione tanto importante, non dici nulla che non sia già stato detto; anzi, dici ancor meno e attribuisci di più al libero arbitrio di quanto hanno detto […] i sofisti»[42]. Nello scarto tra il «meno» e il «di più», Lutero trova lo spazio per confutarlo: invoca la distinzione paolina di 2 Cor 11,6 tra l’eloquenza in cui l’umanista è maestro e la propria teologia. Non volendo affermare niente e insieme volendo apparire uno che asserisce qualcosa sul libero arbitrio, Erasmo ignora ciò di cui parla. Sempre sfuggente ed equivoco, più cauto di Ulisse, sembra navigare tra Scilla e Cariddi[43], ma non ha detto assolutamente nulla, anzi ha reso peggiore la causa del libero arbitrio e così ha fornito «una prova evidente che il libero arbitrio è una pura menzogna»[44]. Segue un’accusa durissima: Erasmo è «un ateo»[45]; pensa «a Dio in modo troppo umano»[46]; non sa cogliere l’insegnamento fondamentale della Scrittura, cioè che Dio è Dio, l’assoluto, e che l’uomo è uomo, cioè dipende da Dio: perciò «è la sua volontà a essere la regola di tutto»[47].
Lutero oppone subito a Erasmo la chiarezza della Sacra Scrittura, proprio perché Parola divina: l’esegesi biblica è quindi ascolto fedele della Parola che viene dall’onnipotenza di Dio e contraddice la sapienza umana e il peccato del mondo. Se alcuni passi sembrano oscuri, ciò è dovuto alla «nostra ignoranza dei vocaboli e della grammatica, il che non [ne] impedisce la conoscenza»[48]. Cristo è il centro e il principio interpretativo della Scrittura, dell’Antico e del Nuovo Testamento: «Togli Cristo dalle Scrittura, che altro vi rimane?»[49]. Egli è la Parola di Dio fatta carne, che manifesta il contrasto ineliminabile tra carne e spirito, tra il peccato del mondo e la misericordia divina. Quindi, il maestro di sapienza da seguire non è affatto il Gesù umanissimo di Erasmo, ma Colui che per fede salva l’uomo peccatore con la croce. Inoltre, Erasmonella Scrittura «non vede che leggi e comandamenti con cui gli uomini dovrebbero essere educati ai buoni costumi. Non vede affatto che cosa siano invece la rinascita, il cambiamento, la rigenerazione e tutta l’opera dello Spirito»[50].
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Lutero ribatte gli argomenti uno ad uno. A partire dal primo (Sir 15,14): «E lo lasciò in balìa del proprio volere… Se vuoi, puoi osservare i comandamenti». Qui si dice che l’uomo è diviso in due regni: nel suo regno «è guidato dal proprio arbitrio e dal proprio volere, al di fuori degli ordini e dei comandamenti di Dio, […] mentre nel regno di Dio è guidato da ordini di altri indipendentemente dal proprio arbitrio. […] Ne deduciamo che questo passo parla non già a favore, bensì contro il libero arbitrio, dal momento che a suo avviso l’uomo è sottoposto agli ordini e al volere di Dio. […] “Se vuoi” ha infatti un senso condizionale, che per l’appunto non afferma nulla. […] Se avesse voluto affermare il libero arbitrio, avrebbe dovuto dire: “L’uomo ha la forza di osservare i comandamenti”»[51]. Qui occorre cogliere la dialettica tra Legge ed Evangelo: la Legge comanda ciò che l’uomo deve fare, ma non gli dà la forza per compierlo. Perciò gli fa riconoscere l’impotenza della volontà umana e, in tal modo, lo aiuta a comprendere l’assoluta necessità di Cristo.
Lutero ha intravisto che la diatriba sul libero arbitrio metteva in gioco l’assoluta potenza di Dio: egli quindi tratta «il libero arbitrio non sul registro psicologico e morale, ma sul registro teologico»[52], e così avvalora l’infinita distanza tra Dio e l’uomo. L’onnipotenza divina e la sua onniscienza sono la base della teologia, perché il Signore «conosce tutto e ha prescienza di tutto, e non può né errare né ingannarsi»[53]. Qui va posto il problema di quali siano le capacità del volere dell’uomo, il quale può fare, sì, molte cose inferiori, ma non può far nulla per la sua salvezza al di fuori della grazia, perché la sua volontà è posseduta o dallo Spirito di Dio o dal demonio. Se è posseduta da Dio, agisce necessariamente – il che non comporta violenza –, ma non è in alcun modo libera. Essa «è posta nel mezzo, come un giumento. Se lo cavalca Dio, vuole e va dove Dio vuole, come dice il libro dei Salmi: “Stavo davanti a te come una bestia” (Sal 73,22). […] Se invece lo cavalca Satana, vuole e va dove Satana vuole. E non è nella sua facoltà scegliere o cercarsi uno dei due cavalieri, bensì sono i cavalieri a combattersi l’un l’altro per ottenerla e possederla»[54].
A Erasmo, che considera la forza del libero arbitrio debole e insignificante, ma senza la grazia del tutto inefficace, Lutero controbatte che «ciò che non è compiuto dalla grazia di Dio non può essere buono. Quindi il libero arbitrio, privo della grazia di Dio, non è affatto libero, ma costantemente prigioniero e schiavo del male, dal momento che non può volgersi da solo al bene»[55].
Qual è il potere dell’uomo?
Contro le argomentazioni di Erasmo, Lutero oppone due testi capitali: «Il Signore indurì il cuore del Faraone» (Es 9,12) e «Ho amato Giacobbe, ho odiato Esaù» (Ml 1,2). Essi indicano che il libero arbitrio compete solo a Dio. Tuttavia, a Dio non può essere attribuito il peccato del faraone: «Dio non può compiere il male, benché ne faccia per mezzo dei malvagi. […] Si serve però degli strumenti cattivi, che non possono sottrarsi all’impulso di Dio. Allo stesso modo un carpentiere taglia male con una scure smussata. Ne segue che l’empio non può che errare e peccare sempre»[56]. Quindi, tra prescienza divina e libertà umana non è possibile alcun accordo.
In tal modo tutta la Scrittura è dalla parte di Lutero, il quale lo riafferma al termine dello scritto portando in campo Paolo. Nella Lettera ai Romani, «al di fuori della fede in Cristo, non c’è altro che peccato e dannazione»[57]. Perciò il libero arbitrio è la schiavitù del peccato. Anzi, la grazia è data a coloro che non hanno meriti e ne sono indegni, e non la si ottiene con nessuno sforzo umano. Infine, Rm 7 e Gal 5 dicono pure «che negli uomini santi e pii c’è una lotta tra lo Spirito e la carne così forte che non possono fare quello che vorrebbero»[58]: l’apostolo non parla qui solo di affezioni volgari, ma di eresia, idolatria, divisioni, liti, tutte cose che reprimono le forze migliori dell’uomo.
Giovanni è infine il flagello più «eloquente ed efficace» del libero arbitrio: «Nessuno può venire a me, se il Padre, il quale mi ha mandato, non lo attiri (Gv 6,44)»[59]. Per Lutero qui non si afferma solo che le opere e gli sforzi del libero arbitrio sono vani, ma che la parola di Cristo è ascoltata invano, se il Padre non attira a sé il credente.
Il libero arbitrio è schiavo del peccato
«Il libero arbitrio è ugualmente impotente in tutti gli uomini, […] e in quanto uno non può volere niente di buono, non è altro se non fango e terra incolta»[60]. Lutero non sembra affatto scoraggiato da tale verità, ma, al contrario, vi trova una ragione di fiducia e di gioia, anzi un motivo di consolazione in quanto la salvezza non dipende da lui: «Confesso francamente che, anche se fosse possibile, non vorrei che mi venisse dato il libero arbitrio. […] Sarei costretto a faticare sempre nell’incertezza e a tirar pugni all’aria, poiché la mia coscienza non avrebbe mai l’assoluta certezza di fare quanto deve per soddisfare Dio»[61].
Egli rimprovera a Erasmo anche il fatto di preferire la pace alla verità: «La verità e la dottrina devono essere predicate sempre, pubblicamente e costantemente, […] poiché non vi si cela nessuno scandalo»[62]. Perciò la dottrina della sola fide e della sola gratia sono le uniche fonti per la salvezza: «Dio ha di certo promesso la sua grazia agli umili, cioè a coloro che si ritengono perduti e disperati (1 Pt 5,5). L’uomo, d’altra parte, non può umiliarsi completamente finché non sa che la sua salvezza è del tutto al di fuori delle sue forze, delle sue intenzioni e del suo impegno, della sua volontà, come pure delle sue opere, ma dipende interamente dall’arbitrio, dalla decisione, dalla volontà e dall’opera di un altro, e precisamente di Dio soltanto»[63].
Lutero conclude con l’esaltazione della grazia, per riaffermare che tutti sono schiavi del peccato. Questo non è solo il segno dell’uomo peccatore, ma dell’umanità in quanto tale. Il peccato ha intaccato la radice stessa dell’uomo, il quale è perfino prigioniero di sé stesso e, con la pretesa di liberarsi con le proprie forze, ne diventa sempre più schiavo. Va ricordato che Lutero, quando parla di peccato, non intende solo l’atto peccaminoso, ma la «concupiscenza», il vizio originario, l’amore di sé, la sfiducia in Dio[64]. Quindi, quando si dice che l’uomo è schiavo del peccato, si deve intendere che non può fare assolutamente nulla per salvarsi: questo è «il punto cruciale, la vera questione»[65].
Gerhard Ebeling ritiene che al De servo arbitrio si potrebbe dare il nome di trattato De Deo, nel senso che è inutile parlare di libertà della volontà, perché «una libertà perduta non è più una libertà, […] è un termine privo di significato»[66]; non si ha alcuna idea vera di Dio, se non si è coscienti che non si può fare nulla per salvarsi. Se si potesse fare qualcosa, sarebbe vana l’opera di Cristo: non ci sarebbe alcun bisogno della grazia. In tal senso, non solo l’uomo non ha un libero arbitrio, ma non ha neppure alcun merito, perché tutto dipende da Dio e dalla sua prescienza.
Ebeling continua: ma proprio perché si tratta di Dio, deve trattarsi anche di ciò che l’uomo può o non può fare. Il De servo arbitrio è allora anche un trattato De homine, cioè della vita quotidiana, dove l’uomo può fare tutto quello che la ragione richiede: costruire case, coltivare la terra, allevare i polli, agire nel campo politico ed economico[67].
Lutero ha sconfitto il libero arbitrio?
Si potrebbe concludere che Lutero ha finalmente sconfitto Erasmo e il suo libero arbitrio. Ebbene, questa sarebbe una conclusione falsa, perché le loro soluzioni hanno le radici proprio nell’umanesimo: non solo quello pacifista e fondato sul valore e sulla dignità della persona, ma anche quello rappresentato tragicamente dall’insicurezza, dalla fragilità, dalla povertà umana, dalla miseria del peccato. Non a caso, per Lutero, Erasmo aveva centrato un punto capitale della Riforma e che avrebbe avuto future risonanze nell’Illuminismo e nel mondo moderno.
Lutero invece aveva colto e radicalizzato le contraddizioni del credente: l’uomo è un terreno di lotta tra Dio e il demonio[68], e vive il contrasto tra peccato e salvezza, tra carne e spirito. Anche questo conflitto fa parte della modernità, ma rischia di far dimenticare l’importanza dell’individuo. Purtroppo, nella burocrazia spirituale – questo è il limite che Erasmo rimprovera a Lutero –, dove il possesso o è mio o è di Dio, non può esistere un «mio» che è anche proprio di Dio ed è tutto suo dono.
La teologia di Lutero si compendia nella formulazione finale: «Bisogna ricorrere a posizioni estreme, affinché si possa negare interamente il libero arbitrio e ascrivere tutto a Dio; così facendo, le Scritture non si contraddicono più e le difficoltà, se non vengono eliminate, possono almeno essere sopportate»[69].
Eppure, la libertà di cui trattano Erasmo e Lutero non è un concetto astratto, ma il dono di Dio mediante Cristo: un dono che rende l’uomo cristiano e riguarda la sua stessa identità. D’altra parte, chi riceve tale dono deve essere capace di accoglierlo, cioè essere libero e responsabile. Lutero invece sottolinea l’onnipotenza di Dio e la grazia che rende l’uomo libero, ma incapace di fare qualcosa per la propria salvezza. In ogni caso il trattato sul Servo arbitrio è una delle maggiori opere del riformatore[70].
Non si può tacere la considerazione che Erasmo ha per Lutero: non lo ritiene in nessun modo un «eretico», ma lo stima un «teologo». Purtroppo, il ricordo della controversia affondò rapidamente nelle sabbie della storia. Al Concilio di Trento sembrò dimenticato, e nessun teologo si sarebbe sognato di trarre dall’oblio le argomentazioni di un Erasmo allora ritenuto un autore sospetto.
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Riproduzione riservata
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[1]. Fin dai primi secoli della storia del cristianesimo, vi sono state dispute memorabili sul tema, prima fra tutte quella tra Pelagio e Agostino.
[2]. Cfr M. Lutero, La libertà del cristiano (1520). Lettera a Leone X, a cura di P. Ricca, Torino, Claudiana, 2005, 76-80.
[3]. Ivi, 80.
[4]. Ivi, 82. Cfr Fil 2,6-7.
[5]. Ivi, 80: 1 Cor 9,19; cui seguono Rm 13,8 e Gal 4,4.
[6]. Lettera di Lutero del 1° ottobre 1523, in cui riporta il rimprovero di Erasmo: pervicacia asserendi. Le opere di Lutero sono citate secondo l’edizione critica di Weimar: D. Martin Luthers Werke, Weimar, H. Böhlau, dal 1883 in poi, seguite dal numero del volume, pagina e riga. La sigla WA indica gli scritti, mentre WABr[iefe], l’epistolario: qui WABr 3,160,24. Erasmo sarebbe lontanissimo ab intellectu christianarum rerum e WA 18,603,3 (ivi). L’edizione di Weimar è online: lutherdansk.dk/WA/D.%20Martin%…
[7]. Cfr WABr 1,70,5-10.
[8]. «Sto leggendo il nostro Erasmo e la mia simpatia nei suoi confronti diminuisce di giorno in giorno. Mi piace perché denuncia tanto i monaci quanto i preti […] e condanna la loro inveterata e ottusa ignoranza. Temo però che non metta abbastanza in evidenza Cristo e la grazia di Dio». Conclude: «Humana praevalent in eo plus quam divina» (WABr 1,90,19 s.). Poi, contro Erasmo, nota: «[Augustinus]arbitrio hominis nonnihil tribuit» (ivi, 90,25).
[9] . Cfr ivi, 413,36.
[10]. P. S. Allen, Opus Epistolarum Des. Erasmi Roterodami, III, Oxford, Clarendon, 1913, 530. Lettera del 14 aprile 1519.
[11]. Id., Opus Epistolarum…, cit., IV, ivi, 1922, 103; 106. Lettera ad Alberto di Brandeburgo del 19 ottobre 1519.
[12]. WABr 3,271,56 s. del 15 aprile 1524.
[13]. Cfr lo storico luterano: M. Brecht, Martin Luther, II, Stuttgart, Calwer Verlag, 1986, 216.
[14]. J. Huizinga, Erasmo, Torino, Einaudi, 2002, 177.
[15]. De libero arbitrio diatribé sive collatio per Desiderium Erasmum Roterodamum, Basilea, Froben, 1524.
[16]. Assertio omnium articulorum M. Lutheri per Bullam Leonis X novissimam damnatorum, 36: «Liberum arbitrium post peccatum res est de solo titulo» (WA 7,142,23). La proposizione era stata condannata dalla Sorbona. Lutero la fondava sul Vangelo di Giovanni, su De spiritu et littera e De correptione et gratia di Agostino.
[17]. Erasmo da Rotterdam – M. Lutero, Libero arbitrio. Servo arbitrio, a cura di F. De Michelis Pintacuda, Torino, Claudiana, 2009, 57.
[18]. Christi solius: M. Lutero, La libertà del cristiano…, cit., 94.
[19]. Erasmo da Rotterdam – M. Lutero, Libero arbitrio. Servo arbitrio, cit., 45.
[20]. Ivi, 46.
[21]. Lutero obietterà: «Non è sufficiente aver sottomesso il proprio intelletto alle Scritture? Ti sottometti anche ai decreti della Chiesa? Che cosa può decidere questa che non sia già stabilito dalle Scritture? […] Riassumendo, le tue parole sembrano voler dire che non ti importa affatto se questo o quello venga creduto da chicchessia, ovunque ciò accada, purché regni la pace del mondo» (WA 18,604,36 ss.).
[22]. Erasmo da Rotterdam – M. Lutero, Libero arbitrio. Servo arbitrio, cit., 59, dove si cita Sir 15,14-15. Il Vaticano II riprende il testo del Siracide per definire la libertà dell’uomo: «La vera libertà, invece, è nell’uomo un segno privilegiato dell’immagine divina. Dio volle, infatti, lasciare l’uomo “in mano al suo consiglio” (Sir 15,14), che cerchi spontaneamente il suo Creatore» (Gaudium et spes, n. 17).
[23]. Erasmo da Rotterdam – M. Lutero, Libero arbitrio. Servo arbitrio,cit., 49. La citazione unisce Dt 30,11-14 e Rm 10,6-8.
[24]. Ivi, 60.
[25]. Cfr ivi, 71.
[26]. Cfr ivi, 74.
[27]. Ivi, 100.
[28]. Ivi, 50.
[29]. Cfr ivi, 63.
[30]. Ivi, 63; cfr 113.
[31]. Ivi, 113 s. Cfr 2 Cor 5,17.
[32]. Cfr ivi, 53.
[33]. Cfr ivi, 88.
[34]. Cfr WA 18,751,37-40 (349): «Il libero arbitrio è nulla, vale a dire è di per sé inutile davanti a Dio; ed è di questo genere di realtà che parliamo, pur sapendo che la volontà empia è qualcosa e non già un puro nulla». Il numero tra parentesi, dopo quello dell’edizione critica, indica la pagina della versione italiana: M. Lutero, Il servo arbitrio (1525), a cura di F. De Michelis Pintacuda, Torino, Claudiana, 1993.
[35]. Erasmo da Rotterdam – M. Lutero, Libero arbitrio. Servo arbitrio,cit., 104.
[36]. Ivi, 88.
[37]. Ivi, 114.
[38]. Cfr M. Venard, «Salvare l’unità cristiana?», in Id., Dalla riforma della Chiesa alla riforma protestante (1450-1530), Roma, Borla – Città Nuova, 2000,785.
[39]. WA 18,786,26-31 (415).
[40]. De servo arbitrio Martini Lutheri ad D. Erasmum Roterodamum, Wittembergae, I. Luft, 1525. Il titolo ricorda il Contra Iulianum di Agostino, dove la volontà era definita potius servum quam liberum arbitrium (12,8,23).
[41]. WABr 3,368,30 s.
[42]. WA 18,600,21-601,3 (72).
[43]. Cfr ivi, 34 (75). Cfr G. Chantraine, Érasme et Luther. Libre et serf arbitre, Paris – Namur, Lethielleux – Presses Universitaires de Namur, 1981, 160 s.
[44]. WA 18,602,26 (76).
[45]. Sei «in cuore un Luciano, o un qualsiasi altro porco del gregge di Epicuro, il quale, credendo che Dio non esista, ride segretamente di tutti coloro che credono in lui e lo confessano» (WA 18,605,28-30 [82]).
[46]. WA 18,622,15 s (104). Più avanti insiste: «Mi stupisce enormemente che un uomo che ha profuso tanto tempo e tanto impegno nello studio delle sacre Scritture non le conosca quasi per nulla» (WA 18,693,9-11 [240]).
[47]. WA 18,712,32 (278).
[48]. WA 18,606,22-24 (84); cfr anche 639,8-12 (130).
[49]. WA 18,606,29 (84).
[50]. WA 18,693,5-8 (240).
[51]. WA 18,672,8-37 (202 s).
[52]. G. Chantraine, «Erasmo e Lutero: libero e servo arbitrio», in AA.VV., Martin Lutero, Milano, Vita e Pensiero, 1984, 40.
[53]. WA 18,719,26 (289 s).
[54]. WA 18,635,17-22 (125). Lutero riprende questa metafora da fonti patristiche e scolastiche. Uno studioso moderno definisce l’immagine «inquietante»: cfr M. Lodone, «Erasmo e Lutero: libero e servo arbitrio», in A. Melloni (ed.), Lutero. Un cristiano e la sua eredità. 1517-2017, vol. I, Bologna, il Mulino, 2017, 230.
[55]. WA 18,636,5-6 (125).
[56]. WA 18,709,28-34 (272).
[57]. WA 18,774,12 (389); cfr Rm 3,21. 28; 14,23: «Tutto ciò che non viene dalla fede è peccato».
[58]. WA 18, 783,4-6 (405).
[59]. WA 18,781,29 s (403).
[60]. WA 18,706,4-6 (266).
[61]. WA 18,783,17-26 (406). È l’esperienza degli iustitiarii,che si fanno giusti con le proprie opere (ivi, 28).
[62]. WA 18,628,27-29 (113).
[63]. WA 18,632,29-32 (120).
[64]. Cfr WA 56,353,5-354,13. La concupiscenza di per sé non è peccato, ma è tentazione al male; diventa peccato quando riceve l’assenso della volontà. Gesù, nel Vangelo, è tentato, ma respinge la tentazione (cfr Mt 4,1-11; Lc 4,1-13).
[65]. Cardinem rerum et ipsum iugulum: WA 18,786,30 (415).
[66]. WA 18,670,36 (199). Cfr G. Ebeling, Lutero. Un volto nuovo, Roma – Brescia, Herder – Morcelliana, 1970, 239.
[67]. Probabilmente Lutero pensa qui alla moglie Katharina, che alleva i polli nel cortile del convento di Wittenberg, che è la loro casa. Cfr S. Nitti, Lutero, Roma, Salerno editrice, 2017, 269, dove si cita un interessante passo del commento a Gal 2,20.
[68]. Cfr H. A. Oberman, Martin Lutero. Un uomo tra Dio e il diavolo, Roma – Bari, Laterza, 1987. Oberman ha definito il De servo arbitrio il libro da cui «si potrebbe dedurre l’intera portata del pensiero di Lutero, anche se di tutti i suoi scritti fossero rimaste solo queste pagine» (ivi, 209).
[69]. WA 18,755,35-37 (356).
[70]. Cfr WABr 8,99,7-8.
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Il 1700º anniversario del concilio di Nicea
Memoria viva del popolo cristiano
Il Concilio di Nicea, di cui celebriamo quest’anno il 1700° anniversario (325-2025), occupa un posto unico nella memoria viva del popolo cristiano. È stato il primo Concilio «ecumenico», nel senso antico della parola (οἰκουμένη, «il mondo abitato»), dal momento che, convocato dall’imperatore Costantino, i suoi partecipanti provenivano da molte regioni del mondo, specialmente dalla parte orientale dell’impero romano. Nonostante una storia di ricezione lunga, complessa e travagliata, esso è anche pressappoco l’unico Concilio riconosciuto finora da quasi tutte le confessioni cristiane. Dalle sue assise, anche se non ex nihilo, è sorto il Simbolo di fede che, ampliato dalle modifiche che il Concilio di Calcedonia (451) ha apportato al Concilio di Costantinopoli I (381), unisce nella confessione e nella preghiera, da secoli, la maggior parte dei battezzati. La confessione di fede nicena, che all’inizio suscitò tante resistenze e produsse tante divisioni, emerge oggi come un trait d’union ecumenico (nel senso odierno della parola) che nessuno scisma o eresia posteriore ha potuto infrangere. In alcune tradizioni orientali, il «grande e santo Concilio di Nicea» è persino commemorato nel calendario liturgico.
Nella tradizione cattolica, sia latina sia orientale, ogni fedele recita o canta solitamente il Simbolo niceno-costantinopolitano durante l’Eucaristia domenicale e in occasione delle solennità. Nel contesto della liturgia battesimale ed eucaristica, come durante la solenne Veglia pasquale, il cuore di tanti credenti, all’unisono con il «noi» ecclesiale, confessa e loda l’unico Dio Padre, Figlio e Spirito, ne celebra l’opera creatrice e salvatrice, proclama la speranza escatologica attraverso le parole offerte da questo Simbolo.
Approccio storico degli studiosi
Quest’anno si susseguono in tutto il mondo innumerevoli congressi scientifici dedicati alla celebrazione del Concilio di Nicea. I partecipanti, provenienti da diverse discipline, dalle varie denominazioni cristiane e da Paesi più numerosi di quelli dei padri niceni, hanno privilegiato un triplice approccio – storico-critico, storico-politico e storico-teologico – e abbozzato le linee di un possibile nuovo consenso storiografico.
Basandosi su nuove e importanti pubblicazioni, gli studiosi hanno innanzitutto proseguito il rinnovamento dello studio storico-critico delle fonti, pervenute a noi attraverso una trasmissione spesso indiretta.
Gli esperti hanno inoltre esplorato la dimensione storico-politica del Concilio, riesaminando il ruolo dell’imperatore Costantino nello svolgimento e nella prima ricezione del Concilio; indagando poi quello dei suoi successori nei dibattiti posteriori, fino a Teodosio, il quale, al tempo del I Concilio di Costantinopoli (381), sancisce la vittoria definitiva delle tesi del Concilio di Nicea.
Gli specialisti hanno infine dato notevole spazio alla dimensione storico-teologica, rintracciando le varie «traiettorie» della teologia pre-nicena e le loro ripercussioni sullo sviluppo complesso dei dibattiti del IV secolo.
Facendo confluire questo triplice approccio storico, i recenti convegni hanno anche manifestato l’emergere graduale di un nuovo consenso, sebbene non uniforme, sul modo di rileggere le vicende trinitarie e cristologiche del tempo, parzialmente distinto dalla rilettura atanasiana, recepita dalla maggior parte degli storici antichi (Rufino di Aquileia, Socrate Scolastico, Sozomeno, Teodoreto di Cirro) fino ai nostri giorni.
Unire fede, memoria e studio
Nel contesto della commemorazione del Concilio di Nicea, che coincide con il Giubileo ordinario, in un anno in cui tutti i cristiani celebrano lo stesso giorno la festa di Pasqua, la Commissione Teologica Internazionale ci offre a sua volta un prezioso documento, intitolato «Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore»[1]. La prospettiva del testo intende unire le due dimensioni – ecclesiale e scientifica – appena menzionate, ricordando così la vocazione ecclesiale del teologo, a servizio del popolo di Dio in cammino verso il Padre.
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Il titolo del documento già rivela due opzioni ermeneutiche del testo, entrambe radicate nell’articolo centrale del Credo niceno-costantinopolitano: una riflessione centrata su Gesù Cristo, colui che dà accesso al mistero di Dio Padre, Figlio e Spirito (cfr Ef 2,18), nonché al mistero dell’uomo e della sua altissima dignità e vocazione; il collegamento tra la figura di Gesù in sé («Figlio di Dio») e il suo essere per noi («Salvatore»), ossia tra cristologia e soteriologia, identità e missione, persona («Gesù») e opera messianica («Cristo»).
Dalla dossologia all’annuncio tramite la teologia
Alla luce di un inno di Efrem (padre siriaco, spesso citato nel documento), l’introduzione colloca la riflessione teologica sul Credo niceno-costantinopolitano tra la sua fonte dossologica e il suo esito missionario, a cui farà eco la conclusione: «Annunciare a tutti Gesù nostra Salvezza oggi». «Teologia in ginocchio» e «teologia missionaria» garantiscono la validità di ogni riflessione teologica, che unisce esperienza di fede, dimensione ecclesiale e rigore dello studio. Questi tre poli – dossologia, teologia, annuncio – vengono sviluppati nel testo in quattro capitoli.
Icona del Dio immenso venuto a noi
Il primo capitolo, intitolato «Un Simbolo per la salvezza: dossologia e teologia del dogma di Nicea», merita una particolare attenzione, perché apre e determina l’intero percorso. Esso conferma l’approccio esistenziale alla professione di fede preferito dal documento. Ne evidenzia anche la tonalità dossologica, ossia la gioiosa e riconoscente lode a Dio confessato nel Credo. Il Simbolo niceno-costantinopolitano è «come l’icona in parole» (7), che manifesta e attrae nel mistero chi lo contempla nel silenzio orante prima di verbalizzarlo nella recita comunitaria. Nella sobrietà ordinata e nitida della sua formulazione, in contrasto con la prolissità sinuosa di tanti Simboli alternativi del IV secolo, il Credo attribuito dal Concilio di Calcedonia (451) ai «318 padri» di Nicea e ai «150 padri» di Costantinopoli conserva lo stupore davanti all’«immensità» del mistero di Dio Padre, rivelato in Gesù Cristo, «il Figlio». Se Dio è eternamente Padre, ossia «fecondità intrinseca» (20), come indicato nella prima riga del Simbolo, allora è eterna «capacità di donarsi interamente» (9), nella sua «pienezza sovrabbondante» (10; 14; 25; 30; 40), al Figlio e allo Spirito, senza trattenere niente per sé, se non la sua paternità che genera l’altro «nel grembo» (91) del proprio mistero.
Mutuati dal linguaggio filosofico o comune in un processo d’inculturazione della fede, l’ἐκ τῆς οὐσίας τοῦ πατρός («dalla sostanza del Padre») e l’ὁμοούσιος τῷ πατρί («della stessa sostanza del Padre»), ossia il fatto che il Figlio provenga unicamente dal Padre (cfr Gv 16,28) e sia «uno» con lui (cfr Gv 10,30), come pure la co-adorazione e co-glorificazione dello Spirito Santo, custodiscono l’alterità del Figlio e dello Spirito insieme alla loro perfetta uguaglianza con il Padre, «a conferma del carattere dossologico del Simbolo» (12). La «pienezza inaudita» (cfr 1 Cor 2,9) dell’incarnazione (19; 27) risalta tanto più quando Colui che è ὁμοούσιος τῷ πατρί si fa ὁμοούσιος ἡμῖν («della stessa sostanza di noi»), come affermerà più tardi il Concilio di Calcedonia, esplicitando ciò che a Nicea rimaneva implicito. È perché «il Figlio, semper major, si fa veramente minor» (27) chesolo lui è «la comunione degli esseri umani col Padre» (22) e perciò «il Salvatore di tutti gli esseri umani di tutti i tempi» (22). Questo duplice ὁμοούσιος (22; 36) del Figlio incarnato, Gesù Cristo, fa sì che la salvezza sia al tempo stesso «umanizzazione e divinizzazione» (33) e che «questa divinizzazione [sia] una filiazione adottiva […], l’ingresso per opera dello Spirito Santo nell’amore del Padre […], un’immersione reale nelle relazioni trinitarie» (33).
«Lex orandi» e «lex credendi»
Il secondo capitolo, intitolato «Il Simbolo di Nicea nella vita dei credenti: “Noi crediamo come battezziamo; e preghiamo come crediamo”», prolunga la riflessione del capitolo precedente, ricordando il legame reciproco, radicato nell’esperienza del battesimo, tra il modo in cui preghiamo (lex orandi) e il modo in cui crediamo (lex credendi): «La fede di Nicea nasce dalla lex orandi e a sua volta la nutre» (48). In effetti, da una parte, «il Simbolo nasce dalla professione di fede battesimale trinitaria» (33), di cui dispiega il senso soteriologico; d’altra parte, il Simbolo suscita in varie tradizioni prediche, catechesi e una ricca innologia che alimenta la fede popolare. Essa esprime la lode dei fedeli che cantano «Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo, come era nel principio, e ora e sempre e nei secoli dei secoli»: una clausola inserita, come sembra, al tempo di papa Damaso, con un’intenzione «antiariana» (64), cioè antisubordinazionista, ma anche, potremmo aggiungere, «antisabelliana», ossia antimodalista. Il Figlio e lo Spirito non sono subordinati al Padre: il primo è «generato» e il secondo «procede dal Padre»; sono ambedue «Dio da Dio». Il Figlio e lo Spirito non sono nemmeno semplici modalità provvisorie dell’apparire di Dio nel mondo, ma godono di una propria consistenza personale ed eterna.
Evento di Cristo, evento di Sapienza, evento ecclesiale
Il terzo capitolo, dedicato a «Nicea come evento teologico e come evento ecclesiale», si sofferma sulla dimensione ecclesiologica di Nicea come «evento di Sapienza» (5; 70; 71; 80; 84; 93), che sorge dall’«evento Gesù Cristo» (5; 71; 72; 87; 90; 95). Nicea fu un «evento ecclesiale» (70; 93), nel quale confluirono, sanciti dall’autorità imperiale, lo sviluppo della triplice gerarchia dei vescovi, sacerdoti e diaconi (qui in particolare viene messa in risalto la figura del vescovo), l’influsso delle scuole dei maestri cristiani che avevano maturato l’espressione della fede (specialmente quelle di tradizione origeniana) e l’emergere dell’istituzione sinodale come processo di arbitrato nel caso di conflitti dottrinali o disciplinari (96-98). L’evento ecclesiale si rivelò un «evento di Sapienza», perché il discernimento tra posizioni che si riferivano tutte alla medesima Scrittura si fece attraverso concetti mutuati dall’universo culturale ellenistico-romano nel quale la fede si stava diffondendo, ma soprattutto perché la speranza, della quale si cercava di «rendere ragione» (cfr 1 Pt 3,15), allargava i confini del pensiero circostante, trasformando il significato dei concetti comuni o filosofici, affinché esprimessero il novum (71; 90-92) dell’«evento Gesù Cristo»: novità a cui «l’eresia» si opponeva (90-92).
Tutelare la fedeltà del «sensus fidei»
Il quarto capitolo, di fattura diversa, propone una riflessione di teologia fondamentale che mira a «mantenere la fede accessibile a tutto il popolo di Dio», in particolare «ai più piccoli e ai più vulnerabili» (5; 123). L’atto ermeneutico rappresentato dal τουτέστιν ἐκ τῆς οὐσίας τοῦ πατρός («cioè dalla sostanza del Padre»), che spiegava con termini non scritturistici il dato della Scrittura, intendeva tutelare la fedeltà del sensus fidei alla rivelazione biblica, contro le divisioni che laceravano tutto il popolo di Dio (vescovi, sacerdoti, diaconi e laici). Promossa dagli imperatori Costantino e Teodosio, rispettivamente all’inizio e alla fine del processo di ricezione, la fede nicena, distinguendo nettamente l’ambito divino da quello della creazione («generato, non creato»), paradossalmente minava le pretese divine dell’autorità politica che la sanciva e la garantiva: «Il monoteismo trinitario di Nicea, nella sua verità dogmatica, non permetteva senz’altro di onorare così bene come l’arianesimo la pretesa del Basileus di essere il simbolo statale e religioso dell’unità romana e di gettare quindi i fondamenti di un ordine teologico-politico stricto sensu» (119).
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Il «semper major»
Il documento insiste sulla custodia del semper major («sempre più grande») operata dalla fede nicena. Innanzitutto, l’espressione viene usata in relazione a Dio Padre, da cui si estende a tutta la Trinità: «Così, dalla pienezza fontale della paternità di Dio, discende la pienezza sovrabbondante di Dio Padre, del Figlio e dello Spirito semper major» (14). In virtù dell’Incarnazione, il semper major riguarda poi Gesù Cristo, il suo corpo vivificato dallo Spirito (la Chiesa) e il sacramento che conferisce l’inabitazione trinitaria, la configurazione a Cristo e l’incorporazione nella Chiesa (il battesimo). Di conseguenza, l’espressione qualifica anche l’atto di autorivelazione divina. L’uomo, in virtù dell’essere stato creato a immagine e somiglianza di Dio, è pure segnato da questa dimensione di excessus. Perfino l’essere, come vestigium Trinitatis, è costitutivamente marcato da queste coordinate trinitarie: «Alterità, relazione, reciprocità, mutua interiorità si manifestano ormai come la verità ultima e le categorie strutturanti l’ontologia» (81). Alla luce dell’incarnazione, l’essere stesso è semper major: «Dal momento che il mistero di Cristo, realizzato nella storia e in un’umanità singolare, dona l’accesso a Dio, la materia e la carne, il tempo e la storia, la novità, la finitudine e la stessa fragilità guadagnano le loro credenziali di nobiltà e la loro consistenza per dire la verità dell’essere. In fondo, anche l’essere, grazie alla Rivelazione, si rivela semper major» (81). Leitmotiv del documento diviene perciò il tema dell’«immensità» o della «grandezza» di Dio, della salvezza e dell’uomo, ribadito in molti paragrafi e adoperato in vari sottotitoli, che porta alla lode e invita all’annuncio.
Lode e annuncio
Da questo accento sul «sempre più grande» del mistero di Dio, del creato, della salvezza e dell’uomo scaturisce un’altra caratteristica del testo, ossia il suo approccio dossologico e missionario al Simbolo niceno-costantinopolitano, in consonanza con altri due accenti del pontificato di Francesco. Il Simbolo viene così restituito al suo ambiente nativo: la liturgia battesimale. Viene anche ricondotto alla sua Wirkungsgeschichte («storia degli effetti») catechetica: ricordiamo solo la traditio symboli come tappa dell’itinerario catecumenale. Viene infine onorato nella sua collocazione liturgica: la sua recita durante la liturgia eucaristica domenicale, che fa eco al canto del Gloria all’inizio della celebrazione e a quello del Per ipsum alla fine della Preghiera eucaristica, ambedue ugualmente trinitari. La professione di fede, tra l’omelia e la preghiera dei fedeli, sale come un inno di lode all’«immensità» di Dio, che nella proclamazione della sua Parola si è appena rivolto al popolo. Ora la lode del discepolo e dell’assemblea celebrante è contagiosa: il cuore grato e gioioso desidera condividere con altri la buona notizia della «grandezza» divina che si rispecchia in quella dell’uomo e della sua vocazione divina (cfr Lc 24,32-33). La lode diviene annuncio, il discepolo si scopre missionario.
Cristologia e soteriologia filiali e trinitarie
Missionario di quale Gesù Cristo? Il documento rileva il tradizionale collegamento tra cristologia e soteriologia, nonché la dimensione filiale e trinitaria di entrambe. Sin dall’inizio, come abbiamo visto, la confessione di fede è presentata come «un simbolo per la salvezza», e la riflessione sull’ὁμοούσιος viene collegata con la storia della salvezza. L’inserzione dell’articolo cristologico in un Simbolo trinitario spinge anche a ricordare che Gesù Cristo «è presentato nel Nuovo Testamento come Figlio del Padre e Unto dallo Spirito» (24) e che, di conseguenza, «egli non salva gli uomini senza il Padre che è la fonte e il fine di tutte le cose – dal momento che egli è unione filiale con il Padre. Egli non salva gli uomini senza lo Spirito, che fa gridare “Abbà, Padre” (Rm 8,15) e la cui azione interiore permette all’essere umano di essere trasformato e di entrare attivamente nel movimento che lo conduce al Padre» (ivi). Anche la risurrezione di Cristo, senza la quale «vana è la nostra fede» (cfr 1 Cor 15,17), «è profondamente trinitaria: il Padre ne è la fonte, lo Spirito ne è il soffio vivente e il Cristo glorificato vive – sempre nella sua umanità – nel seno della gloria divina e in comunione inalterabile col Padre e lo Spirito» (28). Così sarà pure per la nostra risurrezione e per la nostra vocazione alla filiazione divina, come dono e cammino da percorrere (108).
Risvolto antropologico
Annuncio a chi, annuncio di che cosa? Il documento insiste sul risvolto antropologico della fede proclamata nel Simbolo niceno-costantinopolitano. Mentre la prima parte del suo articolo cristologico sottolinea l’identità filiale di Cristo, la seconda parte evidenzia la sua incarnazione (con il verbo σάρκόω) o umanazione (con il verbo ἐνανθρωπέω), «per noi uomini e per la nostra salvezza», ed evidenzia la sua passione, di nuovo «per noi». In queste dense righe, Gesù Cristo appare come l’ecce homo (cfr Gv 19,5) che rivela l’uomo a sé stesso: la «grandezza» della sua dignità infinita, l’«immensità» della sua vocazione filiale, l’ampiezza della sua responsabilità di amare il prossimo e di custodire il creato. Il Credo si recita in piedi, da risorti. La sua recita impegna l’«io» del fedele come il «noi» della comunità credente.
Fede d’Israele e fede della Chiesa
L’ultimo tratto saliente del documento è una gradita novità: la costante relazione tra la fede del popolo cristiano e quella del popolo eletto. Gradita novità, perché contrasta l’impressione diffusa secondo la quale Nicea ha segnato un punto di rottura tra giudaismo e cristianesimo. Simbolicamente, questa divisione si è cristallizzata attorno alla questione della data della Pasqua. Tra gli argomenti in favore della scelta di una data comune che le fonti antiche hanno messo sulla bocca di Costantino, non figura solo quello di manifestare la comunione nella fede e di favorire l’unità dell’Impero, ma appare anche quello di discostarsi dalla Pasqua ebraica, con termini decisamente antigiudaici. A livello più profondo, l’espressione di una fede esplicitamente trinitaria ha potuto essere vista come una presa di distanza dal monoteismo anticotestamentario, la scelta dell’ὁμοούσιος come un’ellenizzazione della fede inizialmente semitica, la sottolineatura dell’incarnazione e del mistero pasquale come un rigetto dell’assoluta trascendenza di YHWH.
Su ognuno di questi punti, il documento intende riconfigurare l’interpretazione, visto che «ciò che rivela la Bibbia ebraica non è unicamente una preparazione ma è già storia di salvezza, che proseguirà e si compirà nel Cristo» (26). L’incontro tra le culture ebraica ed ellenistica comincia con il giudaismo della diaspora alessandrina, tanto che si può affermare che «l’insegnamento di Gesù è stato consegnato e trasmesso in greco [non solo] per poter comunicare il Vangelo a tutti nella lingua universale del bacino del Mediterraneo, ma anche perché il Nuovo Testamento si inscrivesse nella storia del rapporto del popolo ebreo con la cultura e la lingua greche» (86). La relazione intrinseca e provvidenziale tra cultura semitica biblica e ragione filosofica ellenistica non allontana, bensì unisce entrambe le tradizioni: «La ricchezza dell’espressione greca del Giudaismo e del Cristianesimo può dunque far pensare che vi sia una dimensione fondatrice in questo innesto della cultura greca sulla cultura ebraica, che permetterà di esplicitare in greco l’unicità e l’universalità della salvezza in Gesù Cristo di fronte alla ragione filosofica» (87). Questo si verifica quando si considerano i tratti essenziali della fede niceno-costantinopolitana.
Innanzitutto, il testo afferma che «la dottrina della Trinità non significa […] una relativizzazione, quanto piuttosto un approfondimento della fede nel solo e unico Dio di Israele» (19), perché «la fede trinitaria nascente dei primi secoli sviluppa l’unità dei nomi divini, Padre, Figlio e Spirito, a partire dalla fede monoteista di Israele espressa all’inizio dello Shema Israel, “il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore” (Dt 6,4)» (20). Basandosi sulle ricerche di studiosi ebrei (come Wyschogrod o Boyarin) e cristiani (come Bauckham, Hurtado, Lenhardt, Schäfer), il documento mostra quanto la Bibbia, attraverso figure come «l’Angelo del Signore, la Parola (dābār), lo Spirito (rûaḥ) e la Sapienza (ḥākmâ)» (ivi), come pure il giudaismo del secondo Tempio, attraverso la distinzione tra «l’Antico dei Giorni» e «il Figlio dell’uomo» in Dn 7,9-14 e nella letteratura intertestamentaria, contemplassero una certa pluralità nel mistero del Dio d’Israele. Perciò, lungi dal rappresentare un’ellenizzazione della fede o un indebolimento del monoteismo ebraico, «la scelta dell’homooúsios è fatta precisamente per proteggere il carattere monoteista della fede cristiana: in Dio, non c’è altra realtà che la realtà divina. Il Figlio e lo Spirito non sono altro che Dio stesso e non degli esseri intermediari tra Dio e il mondo o semplici creature» (19).
Lo stesso va detto della fede nell’incarnazione e nel mistero pasquale che ne deriva, eventi che approfondiscono l’irruzione di Dio nella storia che caratterizza la Prima Alleanza sin dall’evento fondatore dell’Esodo: «Il cristianesimo comprende l’Incarnazione come la pienezza inaudita del modo di fare (l’economia) del Dio di Israele, che scende ad abitare in mezzo al suo popolo, un modo di fare che si realizza nell’unione di Dio con un’umanità singolare, Gesù» (ivi). Persino i tre filoni di sviluppo ecclesiologico che confluiscono a Nicea sono radicati nella storia precristiana della qāhāl ebraica: «Il giudaismo del Secondo Tempio aveva la sua gerarchia sacerdotale, le sue scuole e i suoi sinodi» (100).
Dossologia e annuncio sinfonici
La celebrazione comune del 1700° anniversario del Concilio di Nicea fa riscoprire ai battezzati la dimensione ecumenica del Simbolo niceno-costantinopolitano, condiviso da quasi tutte le confessioni cristiane: «L’anno 2025 è dunque un’occasione inestimabile per sottolineare che ciò che abbiamo in comune è molto più forte, quantitativamente e qualitativamente, di ciò che ci divide: tutti insieme, noi crediamo nel Dio trinitario, nel Cristo vero uomo e vero Dio, nella salvezza in Gesù Cristo, secondo le Scritture lette nella Chiesa e sotto la mozione dello Spirito Santo. Insieme, noi crediamo la Chiesa, il battesimo, la risurrezione dei morti e la vita eterna» (43). Questa celebrazione potrebbe suscitare un rilancio della dinamica ecumenica dopo un periodo di stallo che alcuni avevano diagnosticato negli anni recenti.
Il documento riprende l’invito antico di Nicea, come quello più recente di papa Francesco e del patriarca Bartolomeo, a trovare un accordo sulla data della Pasqua. Non però, questa volta, in opposizione alla comune radice ebraica che unisce i cristiani; anzi, «sarebbe auspicabile sottolineare sempre meglio il rapporto tra Pasqua e Pesaḥ»(46). Piuttosto, mantenendo la vicinanza con il 14 di Nissan, l’intreccio tra i calendari solari e lunari e la relazione all’equinozio di primavera (45) che, almeno nell’emisfero Nord, segna la rinascita della vita, si tratterebbe di trovare un giorno comune per far proclamare insieme, durante «la festa di tutte le feste» (45), la grande dossologia del Simbolo, a servizio dell’«annunciare oggi a tutti Gesù nostra salvezza».
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[1] Il testo del documento si può consultare in vatican.va/roman_curia/congreg… Nell’articolo, le citazioni del documento vengono indicate, tra parentesi, con la numerazione originale.
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«Antiqua et nova». L’intelligenza artificiale al servizio della dignità umana e del bene comune
La domanda del secolo probabilmente è quella sullo sviluppo dell’intelligenza artificiale (IA): essa verrà programmata per affiancare, appoggiare e potenziare l’uomo o per sostituirlo? E la Chiesa può avere voce in capitolo in questo ambito? La «Nota» Antiqua et nova (AN), pubblicata congiuntamente dal Dicastero per la dottrina della fede e dal Dicastero per la cultura e l’educazione il 28 gennaio 2025, previa approvazione di papa Francesco, prende posizione sulle domande sopra formulate. Inoltre, fornisce un’analisi completa e informata dell’ampio spettro di questioni etiche riguardanti l’intelligenza artificiale e il suo rapporto con l’intelligenza umana[1].
Il documento, relativamente voluminoso – con 117 paragrafi e 215 note a piè di pagina –, è ben lontano dall’essere un semplice «libro apologetico». Gli standard di questo genere letterario di solito sono già molto elevati, ma Antiqua et nova anche in questo campo fa il punto, con grande finezza, sulle sfide e sulle opportunità dell’IA, per quanto possano essere prevedibili dalla nostra prospettiva. Il suo approccio transdisciplinare fornisce una lettura scientificamente informata e, al tempo stesso, autenticamente teologica di questo fenomeno tecnologico contemporaneo, integrandolo nell’insegnamento sociale della Chiesa. Il suo messaggio fondamentale è duplice: da un lato, l’intelligenza umana è, in linea di principio, irriducibile all’IA (cfr AN 7-12; 30-35); dall’altro, il suo sviluppo morale deve essere guidato dalla dignità umana e dalla promozione del bene comune (cfr AN 48; 50; 106; 42; 43; 110). Il documento è realistico, ma anche pieno di speranza, perché afferma che l’IA «può essere messa a servizio dell’umanità e contribuire al bene comune» (AN 106; cfr 110).
La «Nota» si basa essenzialmente sulla dottrina morale e sociale della Chiesa e sulle precedenti dichiarazioni di papa Francesco sull’argomento. Si compone di sei parti, organicamente connesse tra loro: dopo una breve «Introduzione» (I), chiarisce «che cos’è l’intelligenza artificiale» (II); quindi analizza «il concetto di intelligenza nella tradizione filosofica e teologica» (III); considera «il ruolo dell’etica nel guidare lo sviluppo e l’uso dell’IA» (IV); e, nella sezione più ampia, tratta in modo abbastanza dettagliato «alcune questioni specifiche» (V); e si conclude con alcune «riflessioni finali» (VI).
In questo articolo cercheremo di presentare, senza pretendere di essere esaustivi, le idee più importanti del documento dal punto di vista filosofico-teologico, facendo riferimento in particolare agli elementi nuovi.
Il nome «fuorviante» dell’IA e la confutazione di un certo «tecno-ottimismo»
Nella vita ordinaria, siamo ormai abituati a usare un linguaggio antropomorfico, simile a quello umano, quando parliamo della cosiddetta «intelligenza artificiale». Espressioni come «memoria della macchina», «comunicazione della macchina», «apprendimento della macchina» e, addirittura, «ragionamento della macchina» sono entrate nel linguaggio comune. Tutto questo sembra esprimere un bisogno umano più profondo di relazionarsi in modo sensibile ed empatico (quasi come con una persona) con tutto ciò che assomiglia a un essere vivente. Si tratta presumibilmente di un’esigenza umana: quella di ridurre il nostro senso di minaccia nei confronti dell’alterità delle macchine[2]. Il nuovo documento dottrinale richiama l’attenzione su un pericolo reale a questo proposito: l’umanizzazione del linguaggio è anche fonte di malintesi, perché alla fine porta ad attribuire ingiustificatamente alle macchine caratteristiche proprie dell’essere umano.
Antiqua et nova avverte che le macchine che vengono dette «intelligenti» non hanno la stessa qualità di intelligenza dell’uomo (cfr AN 7-12), per cui l’introduzione del concetto di intelligenza artificiale – che all’inizio doveva avere un ruolo di marketing e generare interesse, attirando investitori che finanziassero la ricerca[3] – è in realtà fuorviante. È vero che alcuni sistemi di IA – in particolare, la cosiddetta «IA ristretta» (narrow AI) (AN 8) – possono «affiancare o addirittura sostituire le possibilità umane in molti settori» (AN 9). In particolare, essi si sono dimostrati efficaci in compiti specifici come l’analisi dei dati, il riconoscimento delle immagini, la diagnostica medica, nonché le traduzioni da una lingua all’altra, le previsioni del tempo, la classificazione delle immagini, la generazione di immagini su richiesta dell’utente e la risposta a domande complesse. Tuttavia, essi non sono realmente «intelligenti» nel senso stretto del termine.
Certo, ci sono ricercatori, ricorda il documento, che sperano che gli sviluppi porteranno alla creazione della cosiddetta «intelligenza artificiale generale» (AGI), che dovrebbe essere in grado di superare le capacità mentali umane – ad esempio, la biotecnologia dovrebbe consentire la «superlongevità» –, ma questo «tecno-ottimismo» non è condiviso da tutti; alcuni studiosi sono più scettici (cfr AN 9). Qualunque sia l’esito della ricerca, si può generalmente notare che «vi è l’assunto implicito che la parola “intelligenza” vada usata allo stesso modo sia in riferimento all’intelligenza umana che all’IA» (AN 10). Tuttavia, «ciò non sembra riflettere la reale portata del concetto» (ivi). In ogni caso, il punto di riferimento primario della parola «intelligenza» – nel linguaggio scolastico, il princeps analogatum – è l’essere umano: «L’intelligenza è infatti una facoltà relativa alla persona nella sua integralità, mentre, nel contesto dell’IA, è intesa in senso funzionale [cioè meramente analogico]» (ivi). Di conseguenza, l’IA «non dovrebbe essere vista come una forma artificiale dell’intelligenza, ma come uno dei suoi prodotti» (AN 35). Infatti, «le sue caratteristiche avanzate conferiscono all’IA sofisticate capacità di eseguire compiti, ma non quella di pensare» (AN 12)[4].
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Comprensione integrale dell’intelligenza umana e «riduzionismo digitale»
Per dimostrare che la comprensione umana differisce dalla «comprensione» delle macchine non solo in termini pratici, ma anche di principio, la «Nota» fornisce una breve panoramica filosofica (cfr AN 13-29). La parte più importante della sintesi è la tradizione filosofica medievale, che si avvicina all’idea di «intelligenza» con i concetti complementari di intellectus («intelletto») e ratio («ragione»). Secondo san Tommaso d’Aquino, soltanto l’intelletto è in grado di cogliere la verità che sta a fondamento delle cose; la ragione, invece, «deriva [solo] dalla ricerca e dal processo discorsivo [del pensiero]»[5]. L’intelletto, dunque, è l’intuizione più profonda della verità – ossia, il suo «coglierla con gli “occhi” della mente» –, che sta alla base di ogni ragionamento; la ragione è il processo discorsivo e analitico che porta alla formulazione di un giudizio. Va notato che l’IA è capace solo di quest’ultimo processo; perciò si può dire che il suo funzionamento corrisponde solo al livello della ratio, mentre l’intelligenza dell’uomo, in quanto uomo, comprende entrambi i livelli: egli può pensare davvero anche a livello dell’intellectus (cfr AN 14).
Secondo un’opinione diffusa tra gli empiristi, a cui sono particolarmente favorevoli le cosiddette «discipline STEM» (Science, Technology, Engineering e Mathematics), il termine «intelligenza» va inteso in modo funzionalistico. Secondo il Test di Alan Turing, come ricorda il documento, «una macchina è da considerarsi “intelligente” se una persona non è in grado di distinguere il suo comportamento da quello di un altro essere umano» (AN 11). In questo contesto, il comportamento si riferisce chiaramente ad alcuni «compiti intellettuali specifici» (ivi); ma questo ragionamento rischia di trascurare l’esperienza umana in tutta la sua ampiezza: essa, infatti, non consiste solo nel pensiero astratto, ma anche in tutta una serie di emozioni, nella creatività, nel senso estetico, morale e, non da ultimo, religioso. In effetti, l’intelletto umano è in grado di fare molto di più che risolvere semplicemente problemi funzionali: invece di inserire, come una sorta di puzzle, gli elementi che ancora mancano nel quadro generale, può in qualche modo vedere attraverso l’intero sistema, e persino, in una certa misura, inventarlo, crearlo. Da questo punto di vista, c’è una differenza irriducibile tra l’intelligenza umana, per eccellenza creativa, e quella artificiale: differenza che viene quasi oscurata dall’uso superficiale del linguaggio. In contrasto con gli approcci scientifici metodici ma riduzionistici, Antiqua et nova mette in primo piano proprio questa verità: «Nel caso dell’IA, l’“intelligenza” di un sistema è [di solito] valutata, metodologicamente ma anche riduzionisticamente, sulla base della sua capacità di produrre risposte appropriate […], a prescindere dalla modalità con cui tali risposte vengono generate» (ivi).
In un passo successivo, il documento sottolinea pure che il ruolo del corpo – come presenza o assenza – non è affatto trascurabile in termini di differenza tra l’uomo e l’algoritmo. Gli autori di Antiqua et nova mostrano giustamente che, sebbene ai sistemi avanzati di IA si possa insegnare ad «apprendere» (machine learning) in determinate condizioni, «questa sorta di addestramento è essenzialmente diverso dallo sviluppo di crescita dell’intelligenza umana, essendo questa plasmata dalle sue esperienze corporee: stimoli sensoriali, risposte emotive, interazioni sociali e il contesto unico che caratterizza ogni momento» (AN 31). Elementi di questo tipo modellano e formano il singolo individuo, perché «l’intelligenza umana continuamente si sviluppa in modo organico nel corso della crescita fisica e psicologica» (ivi), e nel suo sviluppo è «plasmata da una miriade di esperienze vissute nella corporeità» (ivi). Pertanto, nel confronto con essa, l’intelligenza delle macchine «va considerata per quello che è: uno strumento, non una persona» (AN 59; cfr AN 68; 102).
Responsabilità morale basata sulla dignità della persona e sul bene comune
Lo scopo principale della pubblicazione di Antiqua et nova era chiaramente quello di coinvolgere le persone di buona volontà in una riflessione sulle questioni morali suscitate dall’IA alla luce della coscienza cristiana e della Dottrina sociale della Chiesa, e di sensibilizzare il grande pubblico su possibili abusi. Non è un caso che la radice della parola «responsabilità» compaia più di 40 volte nel testo italiano[6]. In un passo significativo, si legge: «Per rispondere a queste sfide, va richiamata l’attenzione sull’importanza della responsabilità morale fondata sulla dignità e sulla vocazione della persona. Questo principio è valido anche per le questioni riguardanti l’IA. In tale ambito, la dimensione etica assume primaria importanza, poiché sono le persone a progettare i sistemi e a determinare per quali scopi essi vengano usati» (AN 39). Il documento afferma, con un’antropologia realistica, che «tra una macchina e un essere umano, solo quest’ultimo è veramente un agente morale, cioè un soggetto moralmente responsabile che esercita la sua libertà nelle proprie decisioni e ne accetta le conseguenze» (ivi), perché solo gli esseri umani «sono in relazione con la verità e il bene», e solo loro «sono guidati dalla coscienza morale», che ci chiama tutti «ad amare, a fare il bene e a fuggire il male» (ivi). A causa di questa responsabilità peculiare, l’uomo è chiamato a «seguire la voce della coscienza, discernendo con prudenza e ricercando il bene possibile in ogni situazione». Tutto ciò è eminentemente umano, «appartiene all’esercizio dell’intelligenza da parte della persona» (ivi).
Nella teologia morale tradizionale (aristotelico-tomista), che è alla base di Antiqua et nova, la qualità morale di un’azione dipende da tre fattori: l’oggetto morale, l’intenzione e le circostanze. La «Nota» esorta quindi a tener conto di tutti e tre gli aspetti in ogni applicazione della IA. Antiqua et nova, continuando e sviluppando il contenuto dell’enciclica di papa Francesco Fratelli tutti (2020), offre un duplice criterio per il giudizio morale sull’IA: quello della dignità umana e quello del bene comune. L’intelligenza artificiale può essere considerata moralmente buona solo se, da un lato, è a servizio della «dignità intrinseca di ogni uomo e di ogni donna» e, dall’altro, aiuta «a manifestare questa dignità e ad incrementarne l’espressione, a tutti i livelli della vita umana, inclusa la sfera sociale ed economica» (AN 42). Il documento, che si concentra sul benessere integrale (cfr AN 27; 111) e sul bene generale della persona umana (cfr AN 1; 6; 10; 16; 26-29; 51; 54; 68; 74; 77-79; 97-98; 111; 116 ecc.), chiede una cura integrale dell’altro (cfr AN 116) e colloca anche lo sviluppo dell’IA in questa prospettiva etica.
Tutto ciò va ben oltre la logica delle macchine e presuppone l’esercizio della virtù cardinale della «prudenza». Questa fa sì che individui e comunità possano «discernere come usare l’IA a beneficio dell’umanità, evitando al contempo applicazioni che potrebbero sminuire la dignità umana o danneggiare il pianeta» (AN 47). In questo contesto, il concetto di responsabilità deve essere inteso in senso ampio: esso non significa solo «dare conto di ciò che si è fatto», ma include anche il «prendersi cura dell’altro» (AN 47; 111). Queste idee sottolineano la responsabilità dell’individuo – che una macchina o un algoritmo non hanno – e si aprono alla responsabilità della comunità, applicando la Dottrina sociale della Chiesa alle sfide della tecnologia.
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Il significato teologico del documento
Già da quanto si è detto risulta evidente che sarebbe ingiustificato accusare Antiqua et nova di occuparsi solo di un argomento mondano, che non ha nulla a che vedere con la salvezza dell’uomo. L’accusa è resa del tutto infondata dal fatto che la premessa della «Nota» è comunque eminentemente teologica. Nell’introduzione al capitolo IV sull’etica viene messa in rilievo la domanda principale: come l’IA può essere compresa all’interno del disegno di Dio? (cfr AN 36). La risposta rimanda necessariamente a un quadro filosofico-teologico concettuale. Poiché le verità fondamentali del cristianesimo possono essere espresse con una varietà di modelli, il documento ricorre all’aiuto di diversi pensatori.
L’elenco degli autori citati è lungo: oltre alle fonti magisteriali, si fa riferimento allo Pseudo-Dionigi Areopagita (cfr AN 21), a san Tommaso d’Aquino (cfr AN 13; 14; 16; 17), a san Bonaventura (cfr AN 24; 25), a Dante (cfr AN 28), a Blaise Pascal (cfr AN 21), a Paul Claudel (cfr AN 28), a John Henry Newman (cfr AN 27), a Hannah Arendt (cfr AN 82, nota 152) e, in relazione alla sua critica della tecnica, a Martin Heidegger (AN 12, nota 13). Le molteplici fonti della «Nota» sono organizzate in un insieme coerente, basato sull’antropologia tomistica, che parla dell’uomo all’interno del tradizionale quadro antropologico-metafisico di interpretazione (intellectus–ratio, corpo-anima ecc.). La qualità più importante della persona così compresa è l’«innata […] ricerca della verità» (AN 22; cfr AN 23; 56; 85). Essa si manifesta nell’«andare sempre oltre» i limiti empirici, tendendo al «sempre più grande» (AN 21) e all’«al di là» (AN 29), invece di essere catturata dalla «limitazione intrinseca» (AN 31). Questa ricerca della verità «raggiunge la sua espressione più alta nell’apertura a quelle realtà che trascendono il mondo fisico e creato» (AN 23).
Gli elementi del pensiero moderno e personalistico – che caratterizzano l’insegnamento di papa Francesco, ma che si possono rintracciare anche nei documenti pubblicati dai suoi predecessori – fanno sì che l’argomentazione metafisica non diventi astratta. Ad esempio, il Catechismo della Chiesa Cattolica, al numero 357, ricorda che tutti gli esseri umani sono per natura chiamati a un’alleanza con il loro Creatore e con gli altri, il che significa che le persone hanno «la capacità di conoscersi reciprocamente, di donarsi per amore e di entrare in comunione con gli altri. Pertanto, l’intelligenza umana non è una facoltà isolata, bensì si esercita nelle relazioni» (AN 18). Ciò significa che, come la persona stessa, così pure l’intelligenza può esprimersi in pienezza solo nel dialogo e nella collaborazione, ossia in una profonda solidarietà con gli altri (cfr AN 18). Secondo la «Nota», le ragioni più profonde di questo fatto sono teologiche: «L’intelligenza umana riflette l’intelligenza divina che ha creato tutte le cose» (AN 25).
Va notato che questa prospettiva esistenziale e personalistica è in profonda sintonia con l’insegnamento della Sacra Scrittura: l’amore per Dio non può essere separato dall’amore per il prossimo (cfr Mt 22,37-39 e par.; 1 Gv 4,20). In definitiva, quindi, «l’orientamento relazionale della persona umana si fonda […] sull’eterno dono di sé del Dio Uno e Trino, il cui amore si rivela sia nella creazione che nella redenzione» (AN 19). Perciò ogni persona umana è chiamata «a condividere, nella conoscenza e nell’amore, la vita di Dio» (ivi) e, poiché è creata a immagine e somiglianza di Dio, «possiede un’essenziale dimensione contemplativa» (AN 29); «la vera intelligentia è modellata dall’amore divino» (ivi).
Questioni aperte
Nonostante la coerenza e gli indubbi meriti della «Nota», è possibile individuare due questioni – una filosofica e l’altra teologica – che rimangono ancora aperte. Innanzitutto, l’uso del vocabolo «strumento» o «mezzo» riferito all’intelligenza artificiale[7]. Ovviamente, in termini di comprensione colloquiale, la scelta delle parole è del tutto giusta e legittima: l’IA è solo una nostra invenzione, che esegue compiti, ma non può pensare. Come abbiamo già visto, è fuorviante attribuirle caratteristiche umane, perché, in questo senso, essa è solo uno strumento che si muove nell’ambito logico-matematico: non è capace di una comprensione semantica della realtà, né di una vera e propria creatività o intuizione; non è in grado di formulare giudizi morali, né è interessata a questioni trascendentali di bellezza, bontà e verità ecc. In altre parole, manca di tutto ciò che è intrinsecamente umano. Sarebbe quindi filosoficamente e teologicamente inammissibile «personificare» l’intelligenza artificiale, o parlare, con un eccessivo tecno-ottimismo, del suo «risveglio alla coscienza»[8]. Pertanto, l’IA è davvero solo uno strumento, e l’analisi del documento in questo senso è esemplare.
Nel frattempo, però, la sensibilità e il linguaggio filosofico di oggi si sono evoluti. Alla luce delle più recenti intuizioni filosofiche, non si è più soliti dire, ad esempio, che il linguaggio è solo un mezzo di comunicazione; in realtà, esso è molto di più: permea la nostra percezione, determina fondamentalmente la nostra visione del mondo e influenza il nostro intero approccio all’esistenza[9]. Allo stesso modo, la tecnologia – in quanto sistema – non dovrebbe essere vista come un semplice «strumento». Martin Heidegger – la cui opera sul linguaggio viene citata nella nota 13 di Antiqua et Nova – ha fatto giustamente notare che considerare la tecnica un mero strumento o mezzo significherebbe sottovalutare il suo ruolo da un punto di vista filosofico. Nell’esempio portato dal filosofo tedesco, un vecchio mulino a vento trasformava il vento in energia, ma non faceva violenza alla natura: permetteva al vento di rimanere vento[10]; allo stesso modo, il ponte di legno che da secoli collegava la due sponde del fiume poteva ancora essere definito uno strumento nella misura in cui assicurava il passaggio di carrozze trainate da cavalli. Ora, la centrale idroelettrica costruita sul Reno non è più solo uno strumento, ma è molto di più: ha modificato il suo ambiente a tal punto che, in un certo senso, si può dire che il Reno sia stato incorporato nella centrale idroelettrica, piuttosto che il contrario[11]. Mutatis mutandis, si potrebbe anche sospettare che i «sistemi di intelligenza artificiale» – espressione che il documento stesso usa, dimostrando così una sorta di giusto pensiero sistemico (cfr AN 8; 30; 45-46; 53; 82; 9; 11; 31; 95; 99-100 ecc.) – rappresentino, o presto rappresenteranno, un «ecosistema» tecnologico del linguaggio o della tecnologia, che, in modo nascosto ma tanto più efficace, influenzano il nostro atteggiamento verso il mondo e trasformano il nostro ambiente, la nostra visione del mondo e il nostro intero pensiero culturale. Quindi, tali sistemi non possono più essere considerati fondamentalmente semplici strumenti.
Una seconda questione aperta, collegata alla precedente, è di natura specificamente teologica. Antiqua et nova sottolinea giustamente la responsabilità individuale dei promotori dell’intelligenza artificiale (cfr AN 3; 34; 38-39; 42; 44-48; 53; 55; 69; 71; 74; 82; 93; 99; 105; 108-109; 111; 117). È innegabile infatti che, a rigore, solo l’uomo, in quanto persona ed essere libero, può essere ritenuto responsabile delle sue azioni, siano esse buone o cattive, peccaminose o virtuose, sbagliate o giuste.
La posizione di Antiqua et nova a questo riguardo è chiara[12]. Si deve tuttavia notare che il campo semantico del concetto di «peccato» nella teologia morale contemporanea si è andato progressivamente allargando. Nel corso del tempo, il concetto del cosiddetto «peccato strutturale» – un sintagma reso popolare negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso soprattutto dai teologi della liberazione latinoamericani –, superate le resistenze, è entrato a pieno diritto nel vocabolario della teologia[13]. Ciò significa che, almeno in senso analogico, in certe situazioni anche le strutture possono essere responsabili del peccato commesso da una persona: pensiamo, ad esempio, a chi non può ottenere un lavoro senza il permesso della mafia, mentre da lui dipende il sostentamento della propria famiglia. Certo, le circostanze non esonerano la persona dalla responsabilità individuale – in senso proprio e primario, il peccato è sempre un atto personale[14] –, e tuttavia non si può negare – e una teologia «incarnata» deve tenerne conto – che ci sono circostanze che predispongono al peccato[15], come pure circostanze che aiutano a progredire nel cammino delle virtù. Le prime sono giustamente chiamate «strutture peccaminose», mentre le seconde «strutture di grazia»[16].
In questo caso, non potremmo forse attribuire un carattere colpevole anche a certe forme di intelligenza artificiale, come le attribuiamo a quelle sviluppate per produrre droghe o armi? O, al contrario, non potremmo forse attribuire un analogo carattere «di grazia» a forme di intelligenza artificiale che rendono la vita delle persone più virtuosa e più centrata su Dio? Quindi, non potremmo aspettarci di veder sorgere, nel prossimo futuro, un concetto teologico di sistemi di intelligenza artificiale «peccaminosi» o «di grazia»? La stessa «Nota» Antiqua et nova sembra dare spazio a un possibile sviluppo dottrinale in questa direzione, nella misura in cui, almeno una volta, utilizza con enfasi il termine «struttura» (AN 73), e in quanto fa spesso riferimento ai «sistemi di IA» (AN 8; 30; 45-46). Lo scopo di un documento emesso da un Dicastero – in questo caso, addirittura da due Dicasteri – non è, ovviamente, quello di essere «in anticipo sui tempi», ma è soprattutto quello di fornire una guida. In questo senso, si deve riconoscere che Antiqua et nova, almeno nell’ambito dell’«algoretica» (Paolo Benanti), lo fa in modo esemplare.
* * *
Il documento Antiqua et nova, esprimendo la posizione della Chiesa, espone un’opinione forte e chiara, mentre, fortunatamente, evita la trappola di due estremi: da un lato, non insegna da una posizione difensiva, con l’indice alzato, in modo apologetico; dall’altro, non sminuisce il pericolo. Non sostiene quindi un progressismo ingenuo, ma non è nemmeno tecno-pessimista. Invece di un’opposizione «reazionaria» (demonizzando l’IA) o di un ottimismo acritico (divinizzando l’IA), assume una posizione aperta, piena di speranza e cauta, sulla sfida più importante della nostra vita, la Rivoluzione dell’intelligenza artificiale[17]. Se è vero – come sostengono molti autori – che lo sviluppo dell’IA va oltre i soliti rischi ed effetti collaterali, cioè se il futuro dell’umanità dipende letteralmente dalla posizione che essa assume in merito, allora possiamo affermare che Antiqua et nova costituisce un documento di particolare importanza per la Chiesa. Il fatto che papa Leone XIV nei suoi primi interventi si sia già riferito all’IA ha evidenziato ulteriormente l’importanza di una problematica strettamente connessa alla dignità umana e al bene comune.
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[1] La «Nota» si può consultare in vatican.va/roman_curia/congreg…
[2] Cfr Ch. Barrone, «Etica ed educazione alla pace: le sfide delle IA», in C. D’Antoni – A. Michieli (edd.), Intelligenze artificiali e pace, Roma, Ave, 2024, 43 s.
[3] Ricordiamo che la prima volta che è stata usata l’espressione «intelligenza artificiale» per indicare la disciplina che oggi conosciamo fu il 31 agosto 1955, con una richiesta di finanziamento di 13.500 dollari alla Fondazione Rockefeller per un progetto dal titolo «Una proposta di progetto per una ricerca estiva a Dartmouth sull’Intelligenza Artificiale»: cfr C. G. Ferrauto (ed.), Intelligenza Artificiale. Cos’è davvero, come funziona, che effetti avrà, Torino, Bollati Boringhieri, 2020, 27.
[4] Poi, per chiarire il campo semantico dell’IA, il documento afferma: «L’espressione “intelligenza artificiale” è da intendersi come un termine tecnico per indicare la relativa tecnologia, ricordando che l’espressione è usata anche per designare il campo di studi e non solo le sue applicazioni» (AN 35, nota 70). L’IA è quindi solo un prodotto dell’intelligenza umana, e non qualcosa di direttamente paragonabile ad essa (cfr AN 12: l’IA non è creativa nel senso della creatività umana, né è capace di «pensiero critico»).
[5] Tommaso d’Aquino, s., Summa Theologiae, II-II, q. 49, a. 5, ad 3.
[6] Sulla nozione di «responsabilità», cfr AN 47; sulla triade «libertà, responsabilità e fraternità», cfr AN 48; sulla responsabilità come accountability, cfr AN 53; sulla responsabilità di essere «custodi e servitori della vita umana», cfr AN 71; sulla «pubblica responsabilità», cfr AN 93; e così via.
[7] Il termine «strumento» ricorre più volte nel testo; cfr AN 59; 68: «uno strumento, non una persona»; e AN 75-76; 81; 102: «L’IA dovrebbe essere utilizzata solo come uno strumento complementare all’intelligenza umana e non sostituire la sua ricchezza». Anche il termine «mezzo» ricorre più volte; cfr AN 58; 104; e anche 54; 63; 76.
[8] Cfr F. Patsch, «Macchine coscienti? Riflessioni sulla cosiddetta “intelligenza artificiale”», in Civ. Catt. 2024 I 452-465.
[9] Per il pensiero fenomenologico-ermeneutico di oggi è chiaro che il linguaggio non è solo uno strumento. Secondo Heidegger, il linguaggio non è mai un semplice «mezzo di espressione» (Ausdrucksmittel), ma una «rivelazione», un «rischiaramento», una «rivelazione di sé» (cfr M. Heidegger, «Da un colloquio nell’ascolto del linguaggio», in Id., In cammino verso il Linguaggio, Milano, Mursia, 1959, 83-125. Anche Hans-Georg Gadamer, discepolo di Heidegger, sottolinea con forza il fatto che il linguaggio non è un sistema metafisico fisso, dato una volta per tutte, ma un medium dinamico di comprensione, che di per sé plasma fondamentalmente il nostro pensiero (cfr H.-G. Gadamer, Verità e metodo, Milano, Bompiani, 2001, 441-447).
[10] Cfr M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, Klostermann, Frankfurt am Main, 2000, 15.
[11] Cfr ivi, 16. Cfr C. Rentmeester, Heidegger and the Environment, London – New York, Rowman & Littlefield, 2016, 73; F. Patsch, «Heideggerian Foundations in Pope Francis?», in J. Azetsop – P. Conversi (edd.), Foundations of Integral Ecology, Roma, Gregorian & Biblical Press, 2022, 371-378.
[12] Ecco un’altra chiara citazione: «Come ogni prodotto dell’ingegno umano, anche l’IA può essere diretta verso fini positivi o negativi. Quando viene usata secondo modalità che rispettano la dignità umana e promuovono il benessere degli individui e delle comunità, essa può contribuire favorevolmente alla vocazione umana. Malgrado ciò, come in tutti gli ambiti in cui gli esseri umani sono chiamati a decidere, anche qui si estende l’ombra del male. Laddove la libertà umana consente la possibilità di scegliere ciò che è male, la valutazione morale di questa tecnologia dipende da come essa venga indirizzata e impiegata» (AN 40).
[13] Secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica, «le “strutture di peccato” sono l’espressione e l’effetto dei peccati personali. Inducono le loro vittime a commettere, a loro volta, il male. In un senso analogico esse costituiscono un “peccato sociale”» (n. 1869).
[14] In linea di principio, la teologia morale cattolica considera la nozione di «agenti morali artificiali» (artificial moral agents) un’esagerazione, e quindi, in senso stretto, non permette di estendere la nozione di «responsabilità» all’IA (essendo questa priva di libertà di scelta), se non in senso analogico.
[15] Sul concetto di «strutture di peccato», cfr S. Bastianel (ed.), Strutture di peccato, Una sfida teologica e pastorale, Casale Monferrato (Al), Piemme, 1989; M. Nebel, La catégorie morale du péché structurel. Essai de systematique, Paris, Cerf, 2006; U. Mauro, Peccato sociale, dissertazione dottorale presso la Pontificia Università San Tommaso d’Aquino, Roma, 1986.
[16] Per il concetto di «struttura di grazia» o «grazia sociale», cfr R. Haight, The experience and Language of Grace, New York – Toronto, Paulist Press, 1979, 161-186. Haight attualizza così questo concetto: «La famiglia, nella misura in cui nutre i suoi membri e promuove l’amore reciproco, può essere vista come un modello sociale di grazia esistente. Come ulteriore esempio, le organizzazioni volontarie per il benessere degli altri, come un ospedale o gli Alcolisti anonimi, possono essere viste come forme istituzionalizzate d’amore e sono quindi grazie sociali» (ivi, 176).
[17] Essa può essere considerata l’ultima ondata della Rivoluzione industriale. Cfr C. Perez, «What Is AI’s Place in History?», in Project Syndacate 30 (2025) 26-31. Sulle Rivoluzioni industriali, cfr Id., Technological Revolutions and Financial Capital: The Dynamics of Bubbles and Golden Ages, Cheltenham (Regno Unito), Edward Elgar, 2002.
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Da «Manga» a icona: i quarant’anni di «Dragon Ball»
Un anno fa ci lasciava Akira Toriyama, mangaka conosciuto in tutto il mondo per i personaggi dal tratto morbido nati dalla sua fantasia, da Arale a Dragon Quest. È un momento per celebrarne la memoria, soprattutto in occasione dei quarant’anni di uno dei più famosi manga al mondo, di cui è autore: Dragon Ball[1].
Il «manga» in Giappone
In questa rivista sono stati già presentati diversi manga editi recentemente in Giappone[2]; ora possiamo soffermarci un po’ di più su un settore editoriale che negli ultimi anni si è sviluppato molto anche in Italia. Se infatti nel 2010 il settore fumettistico rappresentava lo 0,4% del mondo dell’editoria[3], oggi si parla del 17%, con circa 7 milioni e mezzo di lettori e un giro di affari di circa 260 milioni di euro[4].
In Italia, il termine manga designa un fumetto prodotto in Giappone, ma cosa significa? Molti studiosi riconducono l’uso di questo lemma a Hokusai, sebbene il termine fosse stato già usato in precedenza[5]. In generale, si adotta la definizione «immagini in movimento» o «immagini umoristiche», utilizzando i due ideogrammi che formano la parola e che troviamo rappresentata nella pubblicazione di successo dello stesso Hokusai. Con l’apertura del Giappone al mondo occidentale alla fine dell’Ottocento, si scoprì l’uso satirico delle immagini, dando un diverso significato alla definizione. L’unione di disegno e testo scritto, già utilizzata nella stampa nipponica dei secoli precedenti, ebbe così una fioritura maggiore e venne usata sia come strumento politico sia come mezzo di svago.
La grande rivoluzione nella produzione e ideazione dei manga si ebbe con Osamu Tezuka. Con lui si passò a un uso «cinematografico» della vignetta, dando espressione e movimento alla storia[6]. Se prima, infatti, non c’era una descrizione del movimento, lasciando all’immaginazione del lettore il compito di riempire lo spazio tra una scena e l’altra, ora l’azione è impressa sulla pagina stampata, dando una sensazione nuova di dinamicità.
Questa evoluzione grafica e questo coinvolgimento attivo del lettore permangono tuttora, tant’è vero che nei fumetti giapponesi non si trovano «dei riquadri di testo con funzione didascalica. In altre parole, la voce narrativa di tipo sopra-diegetico scompare»; inoltre, «la vignetta è un’icona che racchiude il tempo e il suo scorrimento: muovendo l’occhio ne nascerà l’impressione di leggere eventi che si susseguono a livello della narrazione»[7].
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Questa particolarità del manga, nata negli anni Cinquanta, caratterizza maggiormente gli shōnen manga, come Dragon Ball: fumetti destinati a un pubblico maschile adolescente, in cui è importante dare movimento, azione, soprattutto se si tratta di un battle shōnen, fumetto con tematiche di lotta e combattimento. Invece, negli shōjo manga, il cui pubblico di riferimento è l’adolescente di sesso femminile, l’importante è la connotazione emozionale, sia attraverso l’espressività degli occhi sia nella campitura del frame, che ha lo scopo di far capire cosa passa nel cuore del personaggio, più che l’ambiente esterno o il movimento.
Gioventù, «manga» e «kawaii»
Il manga è un prodotto culturale e, come tale, riflette la situazione sociale dell’epoca in cui viene pubblicato, ma anche incide su di essa. Dragon Ball non fa eccezione. Esce alla fine degli anni Ottanta, e non è l’unico manga o anime (parola che fa riferimento al disegno animato) a tema «combattimento»: molti esponenti della generazione dei Millennials o di quella precedente ricorderanno titoli come Hokuto no Ken (in Italia, Ken il guerriero) o Saint Seya (in Italia, I Cavalieri dello Zodiaco). Le differenze non riguardano solo la trama, ma anche la resa stilistica: debitore dello stile «morbido» di Tezuka (il quale si rifà al suo grande mito, ovvero Walt Disney[8]), Toriyama crea uno stuolo di personaggi kawaii. Già con Dr. Slump, sua prima serializzazione per la casa editrice Shueisha, trova questo modo di caratterizzare il personaggio: testa sproporzionata rispetto al corpo, occhi grandi, forme rotondeggianti.
Non è un caso che ciò avvenga in Giappone in questo periodo storico, in cui la ditta Sanrio sta facendo affari sfruttando tale tipo di prodotto[9]: «Il kawaii è una peculiarità del Giappone contemporaneo. Attraversa i mass media, il voluttuario, l’industria culturale e le tendenze giovanili, e penetra in profondità nei discorsi e nei dibattiti sull’attualità di quel paese. Kawaii è aggettivo riferito al sostantivo kawaisa, “dolcezza”, “carineria”. Il termine, nell’uso odierno, indica un attaccamento emotivo a creature come cuccioli paffuti e oggetti rotondeggianti, di dimensioni ridotte, che forniscano una qualche reminiscenza, anche inconscia, tanto all’infanzia quanto alla cultura tradizionale giapponese. […] Oggi il kawaii, inteso come stile di pensiero giovanile, nelle sue espressioni profonde si basa su un atteggiamento infantilistico e su un rifiuto delle responsabilità che arrivano passati dall’adolescenza alla vita adulta. Un tipo di condotta che si è riverberata su e nutrita di un vasto corpus di oggetti dal disegno accattivante, dai colori vivaci, corrispettivo stilistico di un regresso verso il mondo dell’infanzia»[10]. Questo ritorno all’infanzia è dovuto al cambiamento culturale, alla pressione competitiva, per cui i giovani cercano un mondo dove rifugiarsi.
I giovani giapponesi cercavano una fuga nei manga già agli inizi del Novecento, ma ora sempre di più grazie all’offerta del mercato, con la comparsa, nel 1959, delle prime riviste specializzate[11]. Rispetto all’uso dei personaggi come emblema di lotta sociale – come è stato il caso di Rocky Joe negli anni Settanta del secolo scorso[12] –, ora «in Giappone la comicità, parimenti allo stato di ubriachezza, è una condizione nella quale ci si può permettere di abbandonare per un tempo limitato il rispetto della rigida cornice delle posizioni sociali, un ikinuki [“riprendere fiato un attimo”] a volte indispensabile per potersi riappropriare di un po’ di serenità e porsi al riparo dalle tensioni della vita quotidiana. In una società che si configuri con tali presupposti, viene logico comprendere come anche e soprattutto nella sfera del manga, la cui accessibilità è la più immediata tra i prodotti dell’entertainment system nipponico, la produzione comica assuma una dimensione di rilievo notevole»[13].
Il successo di Dr. Slump presso i lettori del Weekly Shōnen Jump di Shueisha[14] e la realizzazione della serie animata con la Toei Animation hanno portato Akira Toriyama a lanciare il suo nuovo prodotto, che potesse unire la funzione comica a un’iconografia kawaii, senza tralasciare il senso di avventura e di sfida che può vivere un adolescente. Gli ingredienti ci sono tutti, il pubblico è preparato e il tempo è maturo per uno dei manga più iconici degli anni Ottanta e Novanta.
«Dragon Ball»
Come tutti i manga editi in Giappone, Dragon Ball è uscito a puntate, all’interno del fascicolo settimanale Weekly Shōnen Jump, dal 20 novembre 1984 al 23 maggio 1995. Come per tutte le serie di successo, i diversi capitoli poi sono stati raccolti in tankoōbon, ossia in volumi singoli, ciascuno con una copertina a colori e con all’interno una decina di capitoli. Spesso essi contengono anche i ringraziamenti del mangaka, disegni bonus, i risultati delle gare dei personaggi più amati della serie ecc.Nel caso di Dragon Ball, si tratta di 519 capitoli, divisi in 42 albi (62 nella prima edizione in Italia, nel 1995).
Dragon Ball prende spunto da un racconto della tradizione cinese del XVI secolo, Il viaggio in Occidente, che si apre con la storia del Re Scimmia Sun Wukong (nella traduzione giapponese Son Goku). Infatti, nei primi 23 capitoli assistiamo proprio a un viaggio in cui Goku – ben diverso per carattere e virtù dall’originale cinese e dalla versione di Tezuka di qualche decennio prima – assiste Bulma nel viaggio alla ricerca di sette sfere, come l’originale Sun Wukong accompagna Sanzang nel suo viaggio in cerca del Budda. Lo scopo è evocare un drago che possa esaudire qualsiasi desiderio.
Dal capitolo 24 in poi inizia una nuova narrazione con una struttura elicoidale[15]; il protagonista non cerca più l’oggetto desiderato; l’obiettivo è ora diventare il più forte. Si susseguono dunque diversi archi narrativi, che hanno come fulcro centrale il Torneo Tenkaichi (che farà da sfondo anche all’ultima saga e al capitolo finale della serie). Questa è stata una scelta dettata dalla richiesta dei lettori e dell’editore, più che da un desiderio dell’autore. Grande appassionato di arti marziali e dei film di Bruce Lee e Jackie Chan, Toriyama crea una dinamica in cui la lotta diventa la verifica della propria preparazione, del proprio posto nel mondo. In questo modo, «seguendo le vicende di Goku e dei suoi amici, non si può fare a meno di notare come i vari e frequenti incrementi di potenza (power scaling) abbiano condotto a una escalation che tuttora non ha paragoni in nessun altro manga o fumetto»[16], in cui non c’è un reale limite se non il nuovo avversario.
Inoltre, anche nella ricerca del desiderio da esaudire c’è un cambiamento: se nella prima parte la richiesta è leggera o addirittura buffa (Pilaf vorrebbe diventare più alto), nella seconda c’è la volontà di inseguire il potere, sia esso legato al dominio fisico o economico o morale.
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Un evento importante caratterizza il capitolo 135, in cui ci troviamo di fronte a un cambio radicale di paradigma: il male entra prepotentemente nel mondo di Dragon Ball con la morte di Crilin. Il Re Demone (padre del grande mago Piccolo) rappresenta radicalmente il male, tant’è che si rivela la parte malvagia di Dio, il creatore delle sette sfere del drago. Morte e vita sono due tematiche così legate dal punto di vista antropologico che in Dragon Ball non sono antitetiche. In un mondo ipertecnologico, c’è ancora spazio per la magia, per cui il drago può portare in vita nuovamente sia Crilin sia le tante vittime della distruzione subita.
La vita assume un significato così pregnante che Goku è il primo a risparmiare i suoi avversari, anche i più temibili e pericolosi, siano essi il Re Demone, o Vegeta, il principe dei Saiyan. Sì, perché dal capitolo 195 si apre la storia delle origini di Goku. Toriyama non fa nulla per nascondere il riferimento a Superman[17]: il protagonista è un alieno Saiyan arrivato sulla Terra e allevato da un saggio anziano, Son Gohan; i genitori lo mettono in salvo poco prima della distruzione del loro pianeta di origine, Vegeta.Come in altri manga, nel passato come nel presente, siamo di fronte a un eroe orfano, immagine di una generazione i cui genitori sono assenti per lavoro e che deve trovare in altre figure adulte (nonni, professori, allenatori…) qualcuno che si prenda cura di lui[18].
Nella saga di Namecc, che si apre subito dopo, assistiamo a un nuovo salto qualitativo: il «Super Saiyan», una forma potenziata del protagonista, un guerriero leggendario, una trasformazione avvenuta dopo la seconda morte del grande amico del cuore, Crilin.Qui siamo di fronte al cattivo più amato da tutti, Freezer, «un prototipo futuristico di capitalista intergalattico con caratteristiche di monarca assoluto. […] Freezer è l’idealtipo del capitalista, posto in contrapposizione a un protagonista (anzi, a un’intera specie, i Saiyan) del tutto incapace di concepire il concetto di moneta»[19]. Toriyama sembra quasi profetico: da lì a qualche anno, infatti, il Giappone vivrà una grandissima crisi finanziaria, dovuta alla speculazione borsistica, trascinando l’economia del Paese in recessione.
Le ultime due saghe perdono un po’ la dinamica del miglioramento di sé. Infatti, con Cell si arriva a fronteggiare un «essere perfetto», un bio-androide nel cui Dna ci sono già tutti i più grandi guerrieri. Ma questa predisposizione diventa anche una gabbia: egli non solo rimane vittima della sua superbia, ma anche diventa vulnerabile da chi, come Gohan (primogenito di Goku), ha potenzialità inespresse.
L’ultima saga, Majin Bu, esemplifica e racchiude tutto il pensiero dell’autore: siamo arrivati a un punto in cui solo pochi «eletti» possono combattere, perché il power scaling, come una sorta di selezione naturale, ha eliminato tutti i personaggi che non sono rimasti al passo; c’è una piena redenzione dell’antieroe per eccellenza, Vegeta[20]; non è possibile passare il testimone a Gohan, che si è legato indissolubilmente a Piccolo; non ci sono scorciatoie di fronte al male, che va affrontato e superato solamente da tutti insieme; solo la Genkidama, la sfera che racchiude l’energia spirituale di tutti i viventi, può vincere.
Gli anni successivi e l’arrivo in Italia
Toriyama ci consegna una narrazione semplice, che può essere gustata a diverse età e, pur senza la leggerezza di Dr. Slump, offre diverse opportunità di immedesimazione: uno sguardo positivo sulla realtà, dove tradizione (rappresentata dalla magia) e innovazione (tecnologia futuristica) possono convivere; uno stimolo sul lavoro su di sé per affrontare le sfide della vita[21]; l’importanza delle relazioni e di una rete amicale, che possa sostenere e dare gusto alla vita (non dimentichiamo la morte di Crilin come cliché che scatena cambiamenti).
Dopo il successo di Dr. Slump, la Toei Animation propose la trasposizione animata anche di Dragon Ball, ed è proprio questo lo strumento con cui si fece conoscere per la prima volta in Italia, dove sbarcò in alcune reti locali già nel 1989. Ma fu dagli anni Novanta che iniziò il vero successo: dopo la messa in onda degli episodi su Mediaset, il manga venne pubblicato nella traduzione italiana nel 1995 e, per la prima volta, si ebbe la lettura da destra verso sinistra. Fino a quel momento, infatti, le tavole venivano specchiate per poter offrire l’ordine di lettura occidentale, da sinistra a destra. Questa scommessa editoriale – sia di Shueisha sia della Star Comics – non solo fu ampiamente ripagata dai ricavi, ma stabilì il nuovo standard, mantenendo l’apertura giapponese per i titoli pubblicati in seguito e dando una maggiore caratterizzazione all’esperienza di lettura del manga come prodotto diverso dal normale fumetto.
Quando la serializzazione sullo Shōnen Jump terminò, la Toei Animation creò uno spin-off chiamato Dragon Ball GT, che non deriva da alcun testo. Negli ultimi anni, il maestro Toriyama, con il suo discepolo Toyotarō, diede vita a una nuova serie, denominata Dragon Ball Super, che si inseriva all’interno della serie «canonica» tra gli ultimi due capitoli, andando a esplorare quei 10 anni che introducono l’epilogo della serie.
In Italia, ci fu anche una seria protesta per alcune tavole del manga accusate di fornire ai bambini modelli fuorvianti di erotismo e pedofilia, ma le accuse caddero in seguito agli accertamenti[22]. Questo evento però fa riflettere sulla ricezione del manga e della versione animata come racconto per bambini, mentre, come abbiamo già detto, il pubblico di riferimento è adolescenziale. Non sono mancati emulazioni, approfondimenti o studi più fantasiosi a tema Dragon Ball[23].
Conclusione
Scrive Alberto Rossetti: «Manga e serie TV per adolescenti mostrano dunque che la crisi è necessaria, inevitabile. Perché la vita non è lineare, non tutto scorre liscio, la strada non è mai in discesa. Questa è, in fondo, una delle chiavi del successo di questi prodotti culturali: mostrano ai ragazzi la complessità della vita, estremizzando in alcuni casi il bene e il male, ma obbligandoli a fare i conti con la realtà e mettendoli di fronte a delle scelte etiche più o meno importanti. A tenere incollati a queste storie, però, è un altro ingrediente che mai come in questo periodo è diventato tanto raro quanto prezioso: il futuro. Sempre presente nelle fiction, messo in discussione nella vita di tutti i giorni»[24]. Nel caso di Dragon Ball, si cresce insieme al protagonista, che vediamo inizialmente bambino e via via sempre più adulto, fino a diventare nonno. Un’intera vita vissuta cercando di superare i limiti fisici e spirituali, donando tutto sé stesso per la difesa degli altri: amici, nemici, innocenti, colpevoli, arrivando a salvare l’intero Universo 7.
Il medium rappresentato dal fumetto ha attratto diversi milioni di lettori in tutto il mondo, aiutandoli, consapevolmente o meno, a una ricerca di senso per la propria vita, avendo davanti a sé la storia di Son Goku, un Superman scimmione capace di lottare con i pugni e con la purezza di cuore. Una ricerca che va oltre le «sette sfere del drago», verso i desideri profondi di ciascuno, in avventure arricchite da un mondo di relazioni e di eroi.
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[1] Per avere un’idea dell’importanza internazionale dell’evento, oltre alle mostre e iniziative organizzate, rimandiamo al sito ufficiale en.dragon-ball-official.com/fe…
[2] Cfr G. Andreetta, «“My hero academia”, di Kohei Horikoshi», in Civ. Catt. 2024 IV 195; Id., «“Blue box”, di Kouji Miura», in Civ. Catt. 2024 I 298 s.; Id., «“Full-Metal Alchemist”, di Hiromu Arakawa», in Civ. Catt. 2023 IV 97.
[3] Cfr R. Ferrero Camoletto, «Prefazione», in F. Calderone, Universo manga. Indagine sui lettori di fumetto giapponese in Italia, San Marco Evangelista (Ce), La Torre, 2011, 11.
[4] Cfr i dati AIE in aie.it/Cosafacciamo/Studierice…
aspx?IDUNI=ve2o41cbs5mlyidiprc3wnju9029&MDId=17800&Skeda=MODIF105-
10165-2024.12.7
[5] Per un quadro completo, cfr M. Pellitteri, I manga. Introduzione al fumetto giapponese, Roma, Carocci, 2021, 16-21.
[6] Per approfondire l’argomento, cfr A. Cavallaro, Comics e manga. La storia del fumetto in dieci racconti, Milano, Feltrinelli, 2024, 42-57; M. Alt, Pop ポップ. Come la cultura giapponese ha conquistato il mondo, Torino, add, 2023, 55-72.
[7] D. Sarti, Capire il manga. Caratteristiche grafiche e narrative del fumetto giapponese, San Marco Evangelista (Ce), La Torre, 2018, 71.
[8] Cfr M. Pellitteri, Il Drago e la Saetta. Modelli, strategie e identità dell’immaginario giapponese, Latina, Tunuè, 2008, 198 s.
[9] Cfr M. Alt, Pop…,cit., 104-131. Sanrio è creatrice, tra l’altro, di Hello Kitty, di cui detiene i diritti.
[10] M. Pellitteri, Il Drago e la Saetta…, cit., 192.
[11] Cfr A. Cavallaro, Comics…,cit., 82 s.
[12] Cfr M. Alt, Pop…, cit., 72-78.
[13] S. Lucianetti – A. Antonini, Manga. Immagini del Giappone contemporaneo, Roma, Castelvecchi, 2001, 65.
[14] Per una introduzione al mondo editoriale, cfr A. Cavallaro, Comics…, cit., 133-135.
[15] Cfr M. Pellitteri, Conoscere l’animazione. Forme, linguaggi e pedagogie del cinema animato per ragazzi, Roma, Valore Scuola Cooperativa, 2004, 113. Un racconto di questo cambiamento è presente nel volume celebrativo per i cinquant’anni della pubblicazione del Weekly Shōnen Jump di Shueisha: AA.VV., Weekly Shōnen Jump Exhibition, vol. 2, Tokyo, Shueisha, 2018.
[16] C. Kulesko, Il più forte del mondo. La filosofia di Dragon Ball, San Giuliano Milanese (Mi), Moscabianca, 2024, 5 s.
[17] Già in Dr. Slump vi era un accenno, con una versione comica e buffa, nel personaggio di Suppaman. Sebbene riprenda la storia di Siegel e Shuster, Toriyama mantiene una propria identità e una propria narrazione.
[18] Cfr M. Pellitteri, Il Drago e la Saetta…, cit., 228 s.
[19] C. Kulesko, Il più forte del mondo…, cit., 59. Freezer, nella forma finale, si allontana dall’idea classica di villain («malvagio»): corpo esile, aggraziato e aristocratico. Eppure è del tutto malvagio e infantile nei modi: capriccioso, testardo, sbruffone. Diventa talmente amato che ricompare anche nella continuazione di Dragon Ball, cambiando solo il colore: da bianco si trasforma in oro, e infine in nero. C’è un legame con l’idea di capitalismo intergalattico sfrenato, perché ricorda le tre versioni di cartadi credito: le MasterCard Titanium, Black e Gold.
[20] «Vegeta è lì per ricordarci quanto siamo affascinati dal male e dalla violenza, ma anche per farci crogiolare nell’illusione che un individuo così corrotto e così plagiato dalla propria società d’appartenenza possa, prima o poi, cambiare e passare dalla parte dei buoni. […] Il tema fondamentale dell’opera: l’idea che solo un essere privo di vincoli fisici e morali sia in grado di difendere il mondo dai pericoli provenienti dalle regioni più remote e rarefatte del multiverso» (C. Kulesko, Il più forte del mondo…, cit., 51).
[21] Dragon Ball è stato anche citato come modello per la popolazione afroamericana negli Usa: cfr kotaku.com/why-black-men-love-…
[22] Nel 2000, il movimento dei consumatori Cittadinanzattiva, su impulso di una mamma umbra, presentò un esposto-denuncia alla Procura della Repubblica di Roma. Su questo episodio, cfr M. Pellitteri, Conoscere l’animazione…, cit., 115-122.
[23] Basti immaginare la ricerca di una forma nella vita reale della Kamehameha («Onda Energetica», nella traduzione anime su Mediaset), in A. Delnegro, La fisica dei manga, Milano, Mondadori, 2022, 9-17.
[24] A. Rossetti, Le persone non nascono tutte uguali. Perché manga e serie TV contribuiscono a definire l’identità dell’adolescente, Roma, Città Nuova, 2022, 36.
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Le carceri italiane, i «numeri» della sofferenza
Il carcere è stato l’ultimo luogo visitato da papa Francesco, un contesto dove ha voluto fortemente l’apertura di una Porta Santa, seconda solo a quella della Basilica di San Pietro, per inaugurare il Giubileo della Speranza. Ai detenuti, papa Francesco ha voluto fare visita il 17 aprile 2025, pochi giorni prima della sua morte, incontrandoli di persona nella Casa Circondariale di Regina Coeli. «Posso e voglio essere vicino a voi – da detto papa Francesco nel pomeriggio del Giovedì Santo -. Prego per voi e per le vostre famiglie».
Ai detenuti, infatti, papa Francesco aveva rivolto un pensiero anche nella Bolla d’indizione del Giubileo della Speranza, rivolgendo un appello alle istituzioni. «Nell’Anno giubilare saremo chiamati ad essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio – si legge nel testo -. Penso ai detenuti che, privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto. Propongo ai Governi che nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi».
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Un mondo, quello del sistema penitenziario italiano, che da tempo vive una condizione di difficoltà dovuta in primo luogo al sovraffollamento, come sottolinea il nuovo rapporto di Antigone – associazione italiana che si occupa del tema dal 1991 – presentato oggi a Roma. «Al 30 aprile 2025 erano 62.445 le persone detenute nelle carceri italiane. A fronte di queste presenze la capienza regolamentare è di 51.280 posti – si legge nel rapporto -, un dato addirittura in lieve calo rispetto alla fine del 2024, e dunque il tasso di affollamento ufficiale sarebbe del 121,8%. Però, i posti non disponibili per inagibilità o ristrutturazioni sono almeno 4.500, e dunque il tasso medio effettivo di affollamento è almeno del 133%». Secondo l’associazione, inoltre, negli ultimi due anni «la capienza effettiva è calata di 900 posti, mentre le presenze sono aumentate di oltre 5.000 unità». Una situazione di difficoltà diffusa su tutto il territorio nazionale, sottolinea il rapporto. «Delle 189 carceri italiane, quelle non sovraffollate sono ormai solo 36 – spiega l’associazione -, mentre quelle con un tasso di affollamento uguale o superiore al 150% sono ormai 58. A fine marzo 2023 erano 39».
Tra i tanti dati presentati nel rapporto, ne evidenziamo solo alcuni che mostrano un sistema in sofferenza in cui non mancano, però, alcuni segnali di speranza.
I giovani detenuti nelle carceri minorili italiane
Un dato di particolare interesse è quello che riguarda i 611 (di cui 27 ragazze) giovani detenuti nelle carceri minorili italiane al 30 aprile 2025. «Alla fine del 2022 le presenze erano 381 e alla fine del 2024 raggiungevano le 587 unità, con una crescita del 54% in due anni», sottolinea Antigone. Numeri che fanno registrare un sovraffollamento anche negli Istituti Penali per Minorenni. Secondo l’associazione, «ben 9 Istituti Penali per Minorenni sui 17 soffrono di sovraffollamento», un dato mai registrato prima nelle carceri minorili. «A Treviso si sfiora il doppio delle presenze rispetto ai posti disponibili – si legge nel rapporto -, il Beccaria di Milano e l’Ipm di Quartucciu a Cagliari hanno un tasso di affollamento del 150%, Firenze supera il 147%».
Suicidi in carcere. Il 2024 è l’anno con più morti di sempre
Secondo i dati raccolti da Antigone, inoltre, sono in aumento gli atti autolesivi e i tentati suicidi. «Nel 2024 l’autolesionismo è aumentato del 4,1% rispetto al 2023 – si legge nel rapporto -, mentre i tentati suicidi sono cresciuti addirittura del 9,3%». Il 2024, però, fa segnare anche un record negativo che mostra, in tutta la sua drammaticità, la sofferenza dei detenuti nel sistema penitenziario. «Nel 2024 sono stati almeno 91 i casi di suicidi commessi da persone private della libertà – spiega l’associazione -. Tra gennaio e maggio 2025, almeno 33. Il 2024 passa così alla storia come l’anno con più suicidi in carcere di sempre, superando addirittura il record del 2022 quando l’emergenza ha avuto inizio». I dati sui suicidi, spiega Antigone, provengono dal conteggio elaborato da Ristretti Orizzonti nel Dossier “morire di carcere”. Una fonte, spiega l’associazione, che tiene conto di decessi esclusi dal rilevamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, per ragioni spesso puramente formali (come i decessi avvenuti in ospedale dopo che la persona aveva commesso il gesto suicidario in carcere).
Che questi dati siano allarmanti lo dimostra anche la comparazione con il numero dei suicidi nella società esterna e quello dei suicidi in carcere a livello europeo. «Nel 2024 con 91 suicidi e una popolazione detenuta media di a 61.507 persone, tale tasso è pari a 14,8 casi ogni 10.000 persone detenute – si legge nel rapporto -. Secondo l’Istituto Superiore di Sanità, nel 2021 il tasso di suicidi in Italia era pari a 0,59 casi ogni 10.000 abitanti. Mettendo in relazione i due dati, vediamo come oggi in carcere ci si levi la vita ben 25 volte in più rispetto alla società esterna». Infine, secondo l’ultimo dossier del Consiglio d’Europa, «nel 2022 il tasso di suicidi nelle carceri italiane era più del doppio della media europea – spiega Antigone -: 15 casi ogni 10.000 persone detenute, a fronte di una media di 7,2 casi».
Aumentano le manifestazioni di protesta collettiva
Secondo i dati del Garante dei detenuti, riportati nel rapporto di Antigone, nel 2024 rispetto al 2023 gli scioperi della fame o della sete hanno registrato un aumento in termini assoluti del 35%; il rifiuto del vitto o delle terapie del 21%; l’astensione dalle attività del 7%; il rifiuto di rientrare nelle celle del 64% e gli atti turbativi dell’ordine e della sicurezza addirittura del 72%. «Anche le aggressioni tra persone detenute registrano una crescita pari al 7% e quelle commesse nei confronti del personale di polizia penitenziaria del 22%», si legge nel rapporto.
Le visite compiute dai volontari di Antigone in 95 istituti di pena italiani, inoltre, hanno messo in evidenza come in 30 istituti «c’erano celle in cui non erano garantiti 3 mq calpestabili per ogni persona. In 12 istituti c’erano celle senza riscaldamento e in 43 celle senza acqua calda. In 53 c’erano celle senza doccia e in 4 istituti nelle celle visitate il wc non si trovava in ambiente separato. In merito agli spazi comuni, in 40 istituti, pur essendoci una biblioteca, questa non è accessibile come spazio comune. In 4 istituti visitati su 95 non c’erano spazi esclusivamente dedicati alla scuola, 2 dei 4 erano case di reclusione. In 20 dei 95 istituti visitati non c’erano spazi per le lavorazioni. In 12 non vi erano spazi dedicati alla socialità all’interno delle sezioni detentive, mentre in 24 non vi erano aree di passeggi esclusive per ciascuna sezione detentiva».
Crescono le misure alternative e gli iscritti all’università
Un dato senza dubbio positivo è quello che riguarda le misure alternative al carcere. Secondo Antigone, sarebbero oltre 141mila i soggetti in carico presso gli Uffici di Esecuzione Penale Esterna (Uepe) al 15 marzo 2025. «Il complesso delle misure è aumentato del 3,8% rispetto alla fine del 2023 – si legge nel rapporto -. A questa crescita ha contribuito soprattutto l’Affidamento in prova al servizio sociale, che è cresciuto del 4,4%. Esponenziale l’aumento, del 142,6%, delle pene sostitutive. Si è passati da 2.638 soggetti in carico alla fine del 2023 a 6.028 nel 2024, fino ai 6.399 al 15 aprile 2025».
In lieve aumento anche il numero dei detenuti che lavorano. «Al 31 dicembre 2024, su un totale di 61.861 persone ristrette, 18.063 persone lavoravano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, circa il 29,2% del totale della popolazione detenuta. La maggior parte risultava impiegata in servizi d’istituto. Rispetto all’anno scorso si registra un lieve aumento (era alla fine del 2023 del 28,3%) – si legge nel rapporto -. Il 5,1% del totale della popolazione detenuta (3.172 persone ristrette) è composto da detenuti lavoranti alle dipendenze di altri datori di lavoro. Tra questi si conteggiano i semiliberi (1.123), i lavoratori all’esterno in art. 21 (898) e coloro che lavorano in istituto per conto di cooperative sociali (902). I detenuti che a quella data lavoravano in carcere per imprese private erano in tutta Italia 249».
Infine, mentre risulta stabile il numero dei detenuti che frequentano corsi scolastici, nell’ultimo anno si è registrato un aumento del 17% di iscrizioni all’università per quanto riguarda i detenuti italiani. «Il bilancio del monitoraggio svolto dalla Conferenza Nazionale dei Delegati dei Rettori per i Poli Universitari Penitenziari (Cnupp) sull’anno accademico 2023-2024 è il seguente: 1.707 studenti universitari iscritti (1.636 uomini e 71 donne); gli stranieri che decidono di intraprendere il percorso universitario sono 177 (166 uomini e 11 donne)».
«La speranza mai delude»
A poco più di un mese dalla scomparsa di papa Francesco, tornano alla mente le sue parole rivolte ai detenuti, pronunciate durante l’apertura della Porta Santa nel carcere di Rebibbia, il 26 dicembre 2024: «Non perdere la speranza. È questo il messaggio che voglio darvi; a tutti, a tutti noi. Io il primo. Tutti. Non perdere la speranza. La speranza mai delude». «Quando il cuore è chiuso diventa duro come una pietra; si dimentica della tenerezza. Anche nelle situazioni più difficili – ognuno di noi ha la propria, più facile, più difficile, penso a voi – sempre il cuore aperto; il cuore, che è proprio quello che ci fa fratelli». Parole che oggi, nel cuore dell’anno giubilare, rinnovano l’invito a far sì che, anche nelle situazioni di sofferenza, si possa far germogliare la speranza.
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Eventi | Disarmare. Voce del Verbo Amare
Sabato 7 gennaio 2025, alle ore 17.30, presso la sede de La Civiltà Cattolica a Roma (Villa Malta – Via di Porta Pinciana, 1) è in programma l’evento «Disarmare. Voce del Verbo Amare».
Angela Iantosca, giornalista e scrittrice – dopo il successo de «La Ventiduesima Donna», monologo teatrale che continua il suo tour e che è un viaggio nei suoi nove libri – torna in scena con un nuovo lavoro, «Disarmare. Voce del Verbo Amare. Ovvero Spogliare l’Informazione delle Armi», un testo che vuole sollecitare una riflessione sul giornalismo, sulle ‘S’ (Sesso, Sangue e Soldi, Sport, Salute e Share…) che troppo spesso sono la vera ispirazione per i giornalisti, sui titoli e la deontologia, sulla necessità di interrogarsi in merito alla direzione di un mestiere che rischia di far arretrare sulla battaglia dei diritti. Una riflessione che parte dal giornalismo e dalle parole di Papa Francesco pronunciate in occasione del Giubileo della Comunicazione, per arrivare agli esseri umani, Uomini e Donne, sollecitati a rispondere alla domanda delle domande: “Adamo (ed Eva) dove sei?”.
E allora le parole diventano volti: quello di Salvatore, un papà carcerato che conosce il cambiamento, quello di Hamza, vittima come tanti di conflitti senza senso capaci di produrre solo dolore e sofferenza, e di Maria e Domenico, madre e figlio vittime del Kanun in Albania. Storie incontrate dalla Iantosca nel suo percorso di giornalista e, prima di tutto, di essere umano, che prendono vita inchiodandoci di fronte alle nostre responsabilità, alla necessità di una narrazione che corrisponda a quella verità che prima di tutto deve essere dentro di noi.
Monologo di e con Angela Iantosca
Dialogheranno con l’autrice p. Claudio Zonta S. I., Scrittore de La Civiltà Cattolica e il prof. Francesco Proietti, docente di italiano dell’Istituto Massimo di Roma.
Ingresso libero fino a esaurimento posti – NO PARKING
Info: eventi@laciviltacattolica.it
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Leone XIV, le parole-chiave che indicano il cammino del Pontificato
«Una Chiesa unita, segno di unità e di comunione, che diventi fermento per un mondo riconciliato». È questo il «primo grande desiderio» che papa Leone XIV ha affidato ai partecipanti alla Celebrazione Eucaristica per l’inizio del Ministero Petrino lo scorso 18 maggio, in Piazza San Pietro. Nel corso della sua omelia, papa Leone XIV è tornato a parlare della sua elezione, sottolineando due parole chiave: amore e unità. «Sono stato scelto senza alcun merito e, con timore e tremore, vengo a voi come un fratello che vuole farsi servo della vostra fede e della vostra gioia, camminando con voi sulla via dell’amore di Dio, che ci vuole tutti uniti in un’unica famiglia. Amore e unità: queste sono le due dimensioni della missione affidata a Pietro da Gesù». In un tempo segnato da «troppa discordia, troppe ferite causate dall’odio, dalla violenza, dai pregiudizi, dalla paura del diverso, da un paradigma economico che sfrutta le risorse della Terra ed emargina i più poveri», ha detto Leone XIV, «noi vogliamo essere, dentro questa pasta, un piccolo lievito di unità, di comunione, di fraternità».
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Dalle prime omelie e dai suoi primi interventi, emerge con forza il cammino segnato dal nuovo Pontefice. In più di un’occasione, Leone XIV è tornato a parlare non solo delle sfide per la Chiesa, ma anche per l’intera umanità, a partire dai forti richiami al dialogo e alla pace, fino alla necessità di un nuovo discernimento sulla questione sociale, alle prese oggi con nuove e inedite sfide. Come ha ricordato lo scorso 17 maggio ai membri della Fondazione Centesimus Annus Pro Pontifice. «Già il Papa Leone XIII – vissuto in un periodo storico di epocali e dirompenti trasformazioni – aveva mirato a contribuire alla pace stimolando il dialogo sociale, tra il capitale e il lavoro, tra le tecnologie e l’intelligenza umana, tra le diverse culture politiche, tra le Nazioni – ha ricordato papa Leone XIV -. Papa Francesco ha usato il termine “policrisi” per evocare la drammaticità della congiuntura storica che stiamo vivendo, in cui convergono guerre, cambiamenti climatici, crescenti disuguaglianze, migrazioni forzate e contrastate, povertà stigmatizzata, innovazioni tecnologiche dirompenti, precarietà del lavoro e dei diritti. Su questioni di tanto rilievo la Dottrina Sociale della Chiesa è chiamata a fornire chiavi interpretative che pongano in dialogo scienza e coscienza, dando così un contributo fondamentale alla conoscenza, alla speranza e alla pace».
Papa Leone XIV ha poi ricordato come nel contesto della rivoluzione digitale in corso, «il mandato di educare al senso critico va riscoperto, esplicitato e coltivato, contrastando le tentazioni opposte, che possono attraversare anche il corpo ecclesiale – ha aggiunto -. C’è poco dialogo attorno a noi, e prevalgono le parole gridate, non di rado le fake news e le tesi irrazionali di pochi prepotenti. Fondamentali dunque sono l’approfondimento e lo studio, e ugualmente l’incontro e l’ascolto dei poveri, tesoro della Chiesa e dell’umanità, portatori di punti di vista scartati, ma indispensabili a vedere il mondo con gli occhi di Dio. Chi nasce e cresce lontano dai centri di potere non va semplicemente istruito nella Dottrina Sociale della Chiesa, ma riconosciuto come suo continuatore e attualizzatore: i testimoni di impegno sociale, i movimenti popolari e le diverse organizzazioni cattoliche dei lavoratori sono espressione delle periferie esistenziali in cui resiste e sempre germoglia la speranza. Vi raccomando di dare la parola ai poveri».
Nel corso dell’udienza al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, lo scorso 16 maggio, inoltre, papa Leone XIV ha sottolineato altre tre parole-chiave, che per il Pontefice «costituiscono i pilastri dell’azione missionaria della Chiesa e del lavoro della diplomazia della Santa Sede». La prima parola è pace. «Troppe volte la consideriamo una parola “negativa” – ha aggiunto il Papa -, ossia come mera assenza di guerra e di conflitto, poiché la contrapposizione è parte della natura umana e ci accompagna sempre, spingendoci troppo spesso a vivere in un costante “stato di conflitto”: in casa, al lavoro, nella società. La pace allora sembra una semplice tregua, un momento di riposo tra una contesa e l’altra, poiché, per quanto ci si sforzi, le tensioni sono sempre presenti, un po’ come la brace che cova sotto la cenere, pronta a riaccendersi in ogni momento».
La seconda parola è giustizia. «Perseguire la pace esige di praticare la giustizia – ha sottolineato Leone XIV -. Come ho già avuto modo di accennare, ho scelto il mio nome pensando anzitutto a Leone XIII, il Papa della prima grande enciclica sociale, la Rerum novarum. Nel cambiamento d’epoca che stiamo vivendo, la Santa Sede non può esimersi dal far sentire la propria voce dinanzi ai numerosi squilibri e alle ingiustizie che conducono, tra l’altro, a condizioni indegne di lavoro e a società sempre più frammentate e conflittuali. Occorre peraltro adoperarsi per porre rimedio alle disparità globali, che vedono opulenza e indigenza tracciare solchi profondi tra continenti, Paesi e anche all’interno di singole società». Inoltre, ha aggiunto il Santo Padre, «nessuno può esimersi dal favorire contesti in cui sia tutelata la dignità di ogni persona, specialmente di quelle più fragili e indifese, dal nascituro all’anziano, dal malato al disoccupato, sia esso cittadino o immigrato».
La terza parola-chiave sottolineata da papa Leone XIV è verità. «Non si possono costruire relazioni veramente pacifiche, anche in seno alla Comunità internazionale, senza verità – ha aggiunto Leone XIV -. Laddove le parole assumono connotati ambigui e ambivalenti e il mondo virtuale, con la sua mutata percezione del reale, prende il sopravvento senza controllo, è arduo costruire rapporti autentici, poiché vengono meno le premesse oggettive e reali della comunicazione. Da parte sua, la Chiesa non può mai esimersi dal dire la verità sull’uomo e sul mondo, ricorrendo quando necessario anche ad un linguaggio schietto, che può suscitare qualche iniziale incomprensione. La verità però non è mai disgiunta dalla carità, che alla radice ha sempre la preoccupazione per la vita e il bene di ogni uomo e donna». Nella prospettiva cristiana, ha proseguito papa Leone XIV, «la verità non è l’affermazione di principi astratti e disincarnati, ma l’incontro con la persona stessa di Cristo, che vive nella comunità dei credenti. Così la verità non ci allontana, anzi ci consente di affrontare con miglior vigore le sfide del nostro tempo, come le migrazioni, l’uso etico dell’intelligenza artificiale e la salvaguardia della nostra amata Terra. Sono sfide che richiedono l’impegno e la collaborazione di tutti, poiché nessuno può pensare di affrontarle da solo».
Nel suo discorso ai rappresentati di altre Chiese e comunità ecclesiali del 19 maggio, papa Leone XIV è tornato poi a parlare di ponti, un’immagine già richiamata nel suo primo intervento da Pontefice subito dopo l’elezione. «Il nostro cammino comune può e deve essere inteso anche in un senso largo, che coinvolge tutti, nello spirito di fraternità umana a cui accennavo sopra. Oggi è tempo di dialogare e di costruire ponti – ha detto Leone XIV il 19 maggio -. E pertanto sono lieto e riconoscente per la presenza dei Rappresentanti di altre tradizioni religiose, che condividono la ricerca di Dio e della sua volontà, che è sempre e solo volontà d’amore e di vita per gli uomini e le donne e per tutte le creature».
Un ulteriore spunto programmatico arriva dal discorso del Santo Padre ai partecipanti del Giubileo delle Chiese Orientali, dove invita a «guardarsi negli occhi» per superare le divisioni e costruire una pace duratura.«La pace di Cristo non è il silenzio tombale dopo il conflitto, non è il risultato della sopraffazione, ma è un dono che guarda alle persone e ne riattiva la vita», ha sottolineato papa Leone XIV. «Perché questa pace si diffonda, io impiegherò ogni sforzo. La Santa Sede è a disposizione perché i nemici si incontrino e si guardino negli occhi, perché ai popoli sia restituita una speranza e sia ridata la dignità che meritano, la dignità della pace. I popoli vogliono la pace e io, col cuore in mano, dico ai responsabili dei popoli: incontriamoci, dialoghiamo, negoziamo! La guerra non è mai inevitabile, le armi possono e devono tacere, perché non risolvono i problemi ma li aumentano; perché passerà alla storia chi seminerà pace, non chi mieterà vittime; perché gli altri non sono anzitutto nemici, ma esseri umani: non cattivi da odiare, ma persone con cui parlare». E infine, da papa Leone XIV l’inesauribile appello alla pace, come già fatto durante l’incontro con i rappresentanti dei media e giornalisti nell’Aula Paolo VI il 12 maggio corso,: «La Chiesa non si stancherà di ripetere: tacciano le armi».
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Leone XIV, le parole-chiave che indicano il cammino del Pontificato
«Una Chiesa unita, segno di unità e di comunione, che diventi fermento per un mondo riconciliato». È questo il «primo grande desiderio» che papa Leone XIV ha affidato ai partecipanti alla Celebrazione Eucaristica per l’inizio del Ministero Petrino lo scorso 18 maggio, in Piazza San Pietro. Nel corso della sua omelia, papa Leone XIV è tornato a parlare della sua elezione, sottolineando due parole chiave: amore e unità. «Sono stato scelto senza alcun merito e, con timore e tremore, vengo a voi come un fratello che vuole farsi servo della vostra fede e della vostra gioia, camminando con voi sulla via dell’amore di Dio, che ci vuole tutti uniti in un’unica famiglia. Amore e unità: queste sono le due dimensioni della missione affidata a Pietro da Gesù». In un tempo segnato da «troppa discordia, troppe ferite causate dall’odio, dalla violenza, dai pregiudizi, dalla paura del diverso, da un paradigma economico che sfrutta le risorse della Terra ed emargina i più poveri», ha detto Leone XIV, «noi vogliamo essere, dentro questa pasta, un piccolo lievito di unità, di comunione, di fraternità».
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Dalle prime omelie e dai suoi primi interventi, emerge con forza il cammino segnato dal nuovo Pontefice. In più di un’occasione, Leone XIV è tornato a parlare non solo delle sfide per la Chiesa, ma anche per l’intera umanità, a partire dai forti richiami al dialogo e alla pace, fino alla necessità di un nuovo discernimento sulla questione sociale, alle prese oggi con nuove e inedite sfide. Come ha ricordato lo scorso 17 maggio ai membri della Fondazione Centesimus Annus Pro Pontifice. «Già il Papa Leone XIII – vissuto in un periodo storico di epocali e dirompenti trasformazioni – aveva mirato a contribuire alla pace stimolando il dialogo sociale, tra il capitale e il lavoro, tra le tecnologie e l’intelligenza umana, tra le diverse culture politiche, tra le Nazioni – ha ricordato papa Leone XIV -. Papa Francesco ha usato il termine “policrisi” per evocare la drammaticità della congiuntura storica che stiamo vivendo, in cui convergono guerre, cambiamenti climatici, crescenti disuguaglianze, migrazioni forzate e contrastate, povertà stigmatizzata, innovazioni tecnologiche dirompenti, precarietà del lavoro e dei diritti. Su questioni di tanto rilievo la Dottrina Sociale della Chiesa è chiamata a fornire chiavi interpretative che pongano in dialogo scienza e coscienza, dando così un contributo fondamentale alla conoscenza, alla speranza e alla pace».
Papa Leone XIV ha poi ricordato come nel contesto della rivoluzione digitale in corso, «il mandato di educare al senso critico va riscoperto, esplicitato e coltivato, contrastando le tentazioni opposte, che possono attraversare anche il corpo ecclesiale – ha aggiunto -. C’è poco dialogo attorno a noi, e prevalgono le parole gridate, non di rado le fake news e le tesi irrazionali di pochi prepotenti. Fondamentali dunque sono l’approfondimento e lo studio, e ugualmente l’incontro e l’ascolto dei poveri, tesoro della Chiesa e dell’umanità, portatori di punti di vista scartati, ma indispensabili a vedere il mondo con gli occhi di Dio. Chi nasce e cresce lontano dai centri di potere non va semplicemente istruito nella Dottrina Sociale della Chiesa, ma riconosciuto come suo continuatore e attualizzatore: i testimoni di impegno sociale, i movimenti popolari e le diverse organizzazioni cattoliche dei lavoratori sono espressione delle periferie esistenziali in cui resiste e sempre germoglia la speranza. Vi raccomando di dare la parola ai poveri».
Nel corso dell’udienza al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, lo scorso 16 maggio, inoltre, papa Leone XIV ha sottolineato altre tre parole-chiave, che per il Pontefice «costituiscono i pilastri dell’azione missionaria della Chiesa e del lavoro della diplomazia della Santa Sede». La prima parola è pace. «Troppe volte la consideriamo una parola “negativa” – ha aggiunto il Papa -, ossia come mera assenza di guerra e di conflitto, poiché la contrapposizione è parte della natura umana e ci accompagna sempre, spingendoci troppo spesso a vivere in un costante “stato di conflitto”: in casa, al lavoro, nella società. La pace allora sembra una semplice tregua, un momento di riposo tra una contesa e l’altra, poiché, per quanto ci si sforzi, le tensioni sono sempre presenti, un po’ come la brace che cova sotto la cenere, pronta a riaccendersi in ogni momento».
La seconda parola è giustizia. «Perseguire la pace esige di praticare la giustizia – ha sottolineato Leone XIV -. Come ho già avuto modo di accennare, ho scelto il mio nome pensando anzitutto a Leone XIII, il Papa della prima grande enciclica sociale, la Rerum novarum. Nel cambiamento d’epoca che stiamo vivendo, la Santa Sede non può esimersi dal far sentire la propria voce dinanzi ai numerosi squilibri e alle ingiustizie che conducono, tra l’altro, a condizioni indegne di lavoro e a società sempre più frammentate e conflittuali. Occorre peraltro adoperarsi per porre rimedio alle disparità globali, che vedono opulenza e indigenza tracciare solchi profondi tra continenti, Paesi e anche all’interno di singole società». Inoltre, ha aggiunto il Santo Padre, «nessuno può esimersi dal favorire contesti in cui sia tutelata la dignità di ogni persona, specialmente di quelle più fragili e indifese, dal nascituro all’anziano, dal malato al disoccupato, sia esso cittadino o immigrato».
La terza parola-chiave sottolineata da papa Leone XIV è verità. «Non si possono costruire relazioni veramente pacifiche, anche in seno alla Comunità internazionale, senza verità – ha aggiunto Leone XIV -. Laddove le parole assumono connotati ambigui e ambivalenti e il mondo virtuale, con la sua mutata percezione del reale, prende il sopravvento senza controllo, è arduo costruire rapporti autentici, poiché vengono meno le premesse oggettive e reali della comunicazione. Da parte sua, la Chiesa non può mai esimersi dal dire la verità sull’uomo e sul mondo, ricorrendo quando necessario anche ad un linguaggio schietto, che può suscitare qualche iniziale incomprensione. La verità però non è mai disgiunta dalla carità, che alla radice ha sempre la preoccupazione per la vita e il bene di ogni uomo e donna». Nella prospettiva cristiana, ha proseguito papa Leone XIV, «la verità non è l’affermazione di principi astratti e disincarnati, ma l’incontro con la persona stessa di Cristo, che vive nella comunità dei credenti. Così la verità non ci allontana, anzi ci consente di affrontare con miglior vigore le sfide del nostro tempo, come le migrazioni, l’uso etico dell’intelligenza artificiale e la salvaguardia della nostra amata Terra. Sono sfide che richiedono l’impegno e la collaborazione di tutti, poiché nessuno può pensare di affrontarle da solo».
Nel suo discorso ai rappresentati di altre Chiese e comunità ecclesiali del 19 maggio, papa Leone XIV è tornato poi a parlare di ponti, un’immagine già richiamata nel suo primo intervento da Pontefice subito dopo l’elezione. «Il nostro cammino comune può e deve essere inteso anche in un senso largo, che coinvolge tutti, nello spirito di fraternità umana a cui accennavo sopra. Oggi è tempo di dialogare e di costruire ponti – ha detto Leone XIV il 19 maggio -. E pertanto sono lieto e riconoscente per la presenza dei Rappresentanti di altre tradizioni religiose, che condividono la ricerca di Dio e della sua volontà, che è sempre e solo volontà d’amore e di vita per gli uomini e le donne e per tutte le creature».
Un ulteriore spunto programmatico arriva dal discorso del Santo Padre ai partecipanti del Giubileo delle Chiese Orientali, dove invita a «guardarsi negli occhi» per superare le divisioni e costruire una pace duratura.«La pace di Cristo non è il silenzio tombale dopo il conflitto, non è il risultato della sopraffazione, ma è un dono che guarda alle persone e ne riattiva la vita», ha sottolineato papa Leone XIV. «Perché questa pace si diffonda, io impiegherò ogni sforzo. La Santa Sede è a disposizione perché i nemici si incontrino e si guardino negli occhi, perché ai popoli sia restituita una speranza e sia ridata la dignità che meritano, la dignità della pace. I popoli vogliono la pace e io, col cuore in mano, dico ai responsabili dei popoli: incontriamoci, dialoghiamo, negoziamo! La guerra non è mai inevitabile, le armi possono e devono tacere, perché non risolvono i problemi ma li aumentano; perché passerà alla storia chi seminerà pace, non chi mieterà vittime; perché gli altri non sono anzitutto nemici, ma esseri umani: non cattivi da odiare, ma persone con cui parlare». E infine, da papa Leone XIV l’inesauribile appello alla pace, come già fatto durante l’incontro con i rappresentanti dei media e giornalisti nell’Aula Paolo VI il 12 maggio corso,: «La Chiesa non si stancherà di ripetere: tacciano le armi».
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«L’uomo vuole lodarti»
Le Confessioni di sant’Agostino[sup]1[/sup] si aprono con un prologo (I 1-5), che potrebbe essere considerato una sorta di «principio e fondamento», per usare il linguaggio degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola[sup]2[/sup]. Cercheremo di rileggere questo testo agostiniano proprio alla luce del testo ignaziano, non per trovarvi corrispondenze forzate, ma per farne un commento spirituale, cioè nella prospettiva dell’esperienza di Dio proposta dall’itinerario degli Esercizi[sup]3[/sup].
Creato per la lode
Agostino inizia con alcune espressioni tratte dai Salmi, che inneggiano alla grandezza e alla sapienza di Dio: «Tu sei grande, Signore, e molto degno di lode (cfr Sal 47[48],2; 95[96],4; 144[145],3); grande è la tua potenza, e la tua sapienza non si può misurare (cfr Sal 146[147],5)». Mentre però il testo biblico usa la terza persona singolare («Grande è il Signore…»), Agostino pone la seconda, dove risuona il «tu» del dialogo e della preghiera. Siamo già introdotti in un clima orante, che sarà quello di tutte le Confessioni. Dio non è qui l’«essere immutabile» della speculazione astratta, ma il partner della lode dell’uomo, una lode che prende l’avvio dalla parola stessa di Dio.
L’uomo dunque sente in sé questa volontà di dare lode a Dio («l’uomo vuole lodarti»). Ma chi è l’uomo? «Una piccola parte della tua creazione, l’uomo, che porta con sé il suo destino di morte, che porta con sé la testimonianza del suo peccato e la testimonianza che tu ti opponi ai superbi (superbis resistis)» (I 1, 1). Agostino non si sofferma su una definizione filosofica dell’uomo, ma va diritto alla sua condizione esistenziale e teologale: davanti a se stesso, l’uomo non è che una piccolissima parte della creazione e un essere segnato dal proprio destino mortale; davanti a Dio, l’uomo è in una situazione di peccato, che consiste essenzialmente in una presuntuosa superbia, in quell’autoesaltazione che blocca la comunicazione della grazia divina (allusione a 1 Pt 5,5 e Gc 4,6: «Dio si oppone ai superbi [superbis resistit], ma dà la sua grazia agli umili»)[sup]4[/sup].
E tuttavia l’inclinazione sterile all’autoesaltazione non può cancellare il progetto originario di Dio, iscritto nell’essere stesso creaturale dell’uomo: un progetto che è essenzialmente apertura all’Altro, gioia di lodare l’Altro, di sapersi creato per l’Altro: «E tuttavia l’uomo, piccola parte della tua creazione, vuole lodarti. Tu lo risvegli (excitas)[sup]5[/sup], perché egli trovi la sua gioia nel lodarti. Sì, ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto finché non trova quiete in te» (I 1, 1)[sup]6[/sup].
Il richiamo di Dio viene dunque dal più profondo dell’essere umano; non è un elemento aggiuntivo, quasi un optional, di cui l’uomo potrebbe anche fare a meno. In quel cor inquietum c’è tutto il tormento esistenziale di chi vorrebbe realizzarsi senza Dio, ma non ci riesce perché non ci potrà mai riuscire. Se l’uomo è stato fatto per Dio, vuol dire che non una creatura, non il mondo intero, ma soltanto Dio è l’oggetto proporzionato del suo desiderio di felicità. Agostino qui invita non a fare speculazioni, ma un’esperienza, quella del passaggio dall’«inquietudine» — che l’uomo prova quando si getta sulle creature considerate come fine[sup]7[/sup] — alla «quiete» del cuore che ha trovato Dio. È l’esperienza di un godimento (delectatio) interiore, superiore a qualsiasi godimento di beni creati[sup]8[/sup].
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«Ti invoca la mia fede»
Agostino si chiede poi se si possa iniziare subito con la lode a Dio o se ci sia bisogno prima d’invocarlo. L’invocazione però suppone la conoscenza: «Come potrebbe invocarti chi non ti conosce? O forse non si deve piuttosto invocarti per conoscerti?» (I 1, 1). Il discorso sembra perdersi in un circolo vizioso, all’interno di una soggettività che non riesce a trovare un adeguato punto di partenza, un principium su cui appoggiarsi.
Il circolo si spezza solamente accogliendo la parola della fede, suscitata dall’annuncio, secondo il testo di Rm 10,14: «Come potranno invocarlo senza prima aver creduto in lui? E come potranno credere […] senza uno che l’annunci?» (I 1, 1). Bisogna dunque partire dall’annuncio, cioè dalla parola di Dio. Tutte le altre operazioni — cercare Dio, invocarlo, lodarlo — non sono che conseguenze della fede, quella giunta a noi attraverso l’incarnazione del Figlio di Dio: «Ti cercherò, Signore, invocandoti e ti invocherò credendo in te: infatti ci è giunta la buona notizia di te. ti invoca, Signore, la mia fede, quella che tu mi hai dato e ispirato mediante il tuo Figlio fatto uomo, mediante il mistero di colui che ti ha fatto conoscere» (I 1, 1).
Agostino non esita a ricorrere al principio oggettivo dell’annuncio, che ha la sua origine nel Figlio di Dio fatto uomo. Così dalla predicazione viene il dono della fede, che è fede orante, invocante (invocat te fides mea); l’invocazione è ricerca, e chi cerca il Signore lo trova, e chi lo trova lo loda. L’uomo, fatto per la lode di Dio, non può raggiungere questo «Tu» che dà riposo al suo cuore inquieto, se non nella fede in Cristo, rivelatore e annunciatore del Padre. Questo riferimento cristologico è estremamente importante, perché Agostino sa che non vi può rinunciare, neanche con il pretesto (o illusione) di rendere la via a Dio più universale.
Immanenza e trascendenza
Ma che senso ha invocare Dio? Letteralmente «in-vocare» significa «chiamare» qualcuno a «venire», colmando così una distanza e un’assenza. Ora questa immagine spaziale si rivela inadeguata se riferita a Dio: «C’è un posto in me, — si chiede Agostino — dove possa venire in me il mio Dio?» (I 2, 1). La preposizione «in» indica uno spazio delimitato da un contenente. Ma esiste forse un luogo dove Dio non sia già presente e che sia in grado di contenerlo? Non è lui che ha «fatto il cielo e la terra»? Dio dunque è già in me, perché è in tutte le cose, le quali non esisterebbero se non fossero in Dio. Anche negli «inferi», cioè nel luogo dei morti secondo la concezione antica — lo sheòl della Bibbia — Dio è presente[sup]9[/sup]. Ecco allora che l’in me si rovescia nell’in te: «Io non esisterei, Dio mio, non sarei nulla, se tu non fossi in me: O meglio, non esisterei, se non fossi in te, poiché tutto è da te, tutto per te, tutto in te» (I 2, 2)[sup]10[/sup].
La lontananza da Dio è allora un’illusione? «Da dove dunque ti invoco, se sono in te? O da dove tu verresti in me?» (I 2, 2). Agostino cerca di scrutare il mistero dell’immanenza e della trascendenza divina. Dio «riempie», «contiene» il cielo e la terra, cioè tutto ciò che esiste, ma non come una sostanza materiale, racchiusa in un contenitore e divisibile in parti. Infatti Dio è «tutto dappertutto» (ubique totus) [= immanenza], eppure «nessuna cosa ti può contenere tutto (te totum capit) [= trascendenza]» (I 3, 2)[sup]11[/sup]. Questo è il paradosso. Perciò non è Dio che ha bisogno del mondo per essere contenuto, ma è il mondo che ha bisogno di Dio per essere riempito. «Non sono i contenitori (vasa), pieni di te, a renderti stabile, perché anche se si rompono, tu non vai versato. E quando tu ti versi su di noi, non sei tu che ti abbassi, ma innalzi noi, non tu ti disperdi, ma noi raccogli» (I 3, 1). È chiara qui l’allusione al mistero salvifico, cioè a quel legame d’amore che Dio ha voluto porre con la sua creatura e che si è manifestato nell’«abbassamento» dell’incarnazione e nella croce di Cristo (il sangue «versato» per noi). In questo reale abbassamento, Dio non ha perso qualcosa, non è caduto in un’alienazione, ma è la creatura che è stata elevata e risanata.
«Che cos’è dunque il mio Dio?»
Il mistero della trascendenza e immanenza di Dio va dunque considerato, per Agostino, non semplicemente secondo un a priori astratto, e quindi estremamente riduttivo, ma va riempito con i contenuti ricavati dalla rivelazione biblica. Ne esce una specie di «inno teologico», da leggersi non in chiave puramente filosofica, ma tenendo conto del retroterra biblico:
Che cosa è dunque il mio Dio?
Che cos’è, mi chiedo, se non il Signore Dio?
Chi infatti è il Signore se non il Signore?
O chi è Dio se non il nostro Dio?[sup]12[/sup]
Sommo, ottimo,
potentissimo, onnipotentissimo,
misericordiosissimo e giustissimo[sup]13[/sup],
lontanissimo e presentissimo[sup]14[/sup],
bellissimo e fortissimo,
stabile e inafferrabile,
immutabile che tutto muti[sup]15[/sup],
mai nuovo, mai vecchio;
tutto rinnovi[sup]16[/sup] e fai invecchiare i superbi senza che lo sappiano;[sup]17[/sup]
sempre attivo, sempre in riposo;
raccogli, ma non hai bisogno di nulla;
porti, riempi e proteggi [tutto],
crei, nutri e porti a compimento [ogni cosa];
chiedi, mentre nulla ti manca;
ami senza bruciare di passione,
sei geloso[sup]18[/sup] ma resti tranquillo,
ti dispiaci[sup]19[/sup]ma non provi dolore,
ti adiri[sup]20[/sup] ma rimani calmo,
cambi le opere ma non il progetto[sup]21[/sup],
riprendi ciò che trovi e mai perdesti[sup]22[/sup];
mai indigente, sei contento di guadagnare,
mai avaro, esigi gli interessi[sup]23[/sup];
accetti che si spenda di più per te, per poter rifondere[sup]24[/sup],
ma chi possiede qualcosa che non sia tuo?[sup]25[/sup]
Paghi i debiti senza dover nulla a nessuno[sup]26[/sup],
condoni i debiti[sup]27[/sup] senza perdere niente» (I 4, 1-2)[sup]28[/sup].
I superlativi, ma più ancora la congiunzione degli opposti attributi, esprime l’inesprimibile mistero di Dio. Tutto quello che diciamo di lui, per quanto ci sforziamo di usare tutte le risposte del linguaggio, rimane sempre inadeguato. La Scrittura stessa, con le sue molteplici e contrapposte immagini, lo attesta: «Che cosa ho mai detto, Dio mio, vita mia, dolcezza mia santa? O che cosa dice uno, quando parla di te?» (I 4, 2). Non sarebbe allora il silenzio l’atteggiamento più adeguato? Agostino qui si pone appena la domanda e lascia intravedere la risposta. Sì, se il silenzio è suscitato e portato dalla parola; no, se è il silenzio muto, senza parola[sup]29[/sup]; «Guai a quelli che tacciono di te, se persino chi parla molto [di te] è come se fosse muto!» (I 4, 2)[sup]30[/sup].
L’incontro con Dio-Signore
Agostino ha considerato il mistero di Dio nella sua trascendenza e immanenza. Se Dio fosse solanto il trascendente, il totalmente altro, sarebbe assolutamente inaccessibile e non avrebbe senso invocarlo. Se, al contrario, egli fosse totalmente immanente, si confonderebbe con il mondo e con l’io, e il dialogo con lui sarebbe in realtà solo un parlare a se stessi[sup]31[/sup]. Perciò Agostino privilegia il «colloquio», dove non c’è fusione — o confusione —, ma spazio per un sempre nuovo incontro, fatto di rispetto e riverenza, ma insieme di familiarità: «Chi mi farà riposare in te? Chi farà sì che tu venga nel mio cuore a inebriarlo? Così dimenticherei i miei mali e abbraccerei te, il mio unico bene» (I 5, 1).
Già presente in tutte le cose come Creatore — e qui non c’è scelta, perché l’alternativa sarebbe il nulla —, Dio può essere ancora invocato e desiderato dall’uomo per un incontro di grazia, liberamente scelto e desiderato da entrambe le parti[sup]32[/sup]. In effetti, non soltanto l’uomo cerca Dio, ma, prima ancora, Dio cerca l’uomo: «Che cosa sei per me? […] E che cosa sono io per te? Tu esigi di essere amato da me, e se non lo faccio ti adiri con me e minacci gravi sventure, come se il non amarti non fosse già la sventura più grave di tutte!» (I 5, 1).
Dio ha già fatto la sua scelta, ora tocca all’uomo trovare in Dio «l’unico bene», pena il suo stesso fallimento, la sua stessa «perdizione». Agostino è consapevole che questo passo non può essere fatto senza la grazia (miseratio) di Dio stesso, senza che egli si riveli come «Salvatore», cioè come «salvezza» o, più letteralmente, «salute» di un’anima malata: «Oh, dimmi, per la tua misericordia, Signore Dio mio, che cosa sei per me. Di’ all’anima mia: sono io la tua salvezza (Sal 34,3). Dillo in modo che io senta! Ecco le orecchie del mio cuore sono davanti a te, Signore: àprile, e di’ all’anima mia: sono io la tua salvezza. Correrò dietro questa voce e ti raggiungerò. Non nascondermi il tuo volto[sup]33[/sup]: possa io morire per non morire, e così vederlo!» (I 5, 1)[sup]34[/sup].
Quando una persona umana, risvegliata dalla grazia, fa la scelta di Dio come fine e senso della propria esistenza, riscopre tutte le sue potenzialità naturali di amore, desiderio, unione. Riscopre se stessa, ma nello stesso tempo si accorge che questa «struttura» naturale — il suo cuore, la sua casa — è mal ridotta. La preghiera allora diventa un «consegnare le chiavi», un darsi nelle mani di colui che, avendo creato, può ri-creare e restaurare: «Stretta è la casa della mia anima perché tu possa entrarvi: dilatala. Cade in rovina: restaurala. Contiene alcune cose che offendono i tuoi occhi, lo confesso e lo so. Ma chi potrà purificarla? A chi altri griderò, se non a te?» (I 5, 2).
Invitare Dio nella propria casa — nel proprio cuore — significa accettare di fare la verità («Tu sei la Verità») e di non mentire più a se stessi. Il peccato infatti cerca sempre di giustificarsi con la menzogna (ne mentiatur iniquitas mea sibi), anche davanti a Dio: di questa pseudo-religione, Agostino non vuole più saperne, perché è ancora un camuffamento dell’io superbo. «Quindi non disputo con te in giudizio» (I 5, 2). Se Agostino prende la parola davanti a Dio non è più per giustificarsi, ma per accusare se stesso dei propri peccati. Fatta davanti alla misericordia divina, questa autoaccusa nella verità — ridicola agli occhi umani — conduce invece all’assoluzione: «E tu hai assolto l’empietà del mio cuore» (I 5, 2).
Podcast | INTELLIGENZE ARTIFICIALI E PERSONA UMANA
Con ogni probabilità, la nostra epoca sarà ricordata come quella della nascita delle intelligenze artificiali. Ma cosa sono le intelligenze artificiali? Qual è l’impatto sociale di queste nuove tecnologie e quali sono i rischi? Ascolta la serie completa di Ipertèsti, il podcast de «La Civiltà Cattolica».
Conclusione
Il prologo delle Confessioni ci pone subito davanti al mistero di Dio e al mistero dell’uomo, come a due facce di un unico mistero: chi sei tu Signore? E chi sono io? L’uomo si riconosce creatura mortale, ma fatto per Dio; per cui nessuna creatura, ma solamente Dio è il fine che può appagare il desiderio infinito che c’è nell’essere umano. Come Creatore, certamente Dio è in tutte le cose e tutte le cose sono in Dio. L’uomo però ha la singolare vocazione e capacità di poter scegliere Dio come senso e fine della propria vita, come quel Bene al quale congiungersi inseparabilmente e così trovare la salvezza.
Ma che cosa diciamo quando parliamo di Dio? Agostino è come smarrito di fronte alla inadeguatezza del linguaggio umano — anche quello ispirato delle Scritture —, chiamato a esprimere qualcosa che non può «comprendere», perché lo trascende[sup]35[/sup]. L’uomo dunque dovrebbe doppiamente tacere davanti a Dio: primo perché è creatura, secondo perché è peccatore. E tuttavia, proprio il riconoscere l’una e l’altra realtà rivela il volto di Dio, che è misericordia[sup]36[/sup].
La parola perde così, almeno in parte, la sua inadeguatezza, perché è suscitata dalla fede: «Credo, e perciò anche parlo (cfr Sal 115[116],10; 2 Cor 4,13)» (I 5, 2). È una parola che è passata, mediante la fede, sotto il giogo di Cristo, la «via» attraverso cui Dio si è «abbassato», è venuto a noi e attraverso la quale anche noi, abbassando il nostro orgoglio, possiamo andare a lui. Sembra «stretta» questa via, ma è quella che sconvolge i pensieri dell’uomo su Dio, è quella che «salva» l’uomo, liberandolo dalla menzogna del peccato e liberando in lui il canto della lode.
Il clima orante nel quale Agostino immerge tutte queste riflessioni fa sì che le pagine introduttive delle Confessioni possano essere utilmente proposte, a nostro avviso, all’inizio di un cammino di «esercizi spirituali», come una sorta di «principio e fondamento», che si apre naturalmente sui grandi temi della «Prima settimana» (peccato e misericordia)[sup]37[/sup]. Il grande vescovo di Ippona ha il pregio, raro ai nostri tempi, di saper congiungere il rigore del pensiero con una intensa spiritualità affettiva[sup]38[/sup]. Non sono forse queste le qualità che ritroviamo negli Esercizi spirituali di Ignazio?
***
1 Cfr S. AGOSTINO, Le Confessioni, testo latino dell’edizione di M. SKUTELLA, riveduto da M. PELLEGRINO, traduzione e note di C. CARENA, Roma, Città Nuova, 19753. Qui seguiremo una nostra traduzione.
2 S. IGNAZIO DI LOYOLA, Esercizi spirituali [23]: «Principio e fondamento. L’uomo è creato per lodare, riverire e servire Dio nostro Signore, e per salvare, in questo modo, la propria anima; e le altre cose sulla faccia della terra sono create per l’uomo affinché lo aiutino al raggiungimento del fine per cui è stato creato. Da qui segue che l’uomo deve servirsene tanto quanto lo aiutano a conseguire il fine per cui è stato creato e tanto deve liberarsene quanto glielo impediscono. Per questa ragione è necessario renderci indifferenti verso tutte le cose create (in tutto quello che è permesso alla libertà del nostro libero arbitrio e non le è proibito), in modo da non desiderare da parte nostra più la salute che la malattia, più la ricchezza che la povertà, più l’onore che il disonore, più la vita lunga che quella breve, e così per tutto il resto, desiderando e scegliendo solo ciò che più ci porta al fine per cui siamo stati creati» (in M. GIOIA [ed.], Gli scritti di Ignazio di Loyola, Torino, UTET, 1977, 100 s). Per un commento a questo testo, con il suo implicito cristocentrismo, cfr S. RENDINA, «Principio e fondamento», in Appunti di spiritualità, n. 24, suppl. a Notizie dei Gesuiti d’Italia 22 (1989) 5-20.
3 Già altri si sono cimentati, con profondità ed erudizione, nel commento di Confessioni I 1-5. Cfr in particolare R. GUARDINI, L’inizio. Un commento ai primi cinque capitoli delle «Confessioni» di Agostino, Milano, Jaca Book, 19752; L. F. PIZZOLATO, Un primo libro delle «Confessiones» di Agostino: ai primordi della «confessio», in L. F. PIZZOLATO – G. CERIOTTI – F. DE CAPITANI, Commento ai libri I-II delle Confessioni di Agostino d’Ippona, Palermo, Augustinus, 1984, 9-30.
4 Agostino vedrà sempre in questa «superbia» il maggiore ostacolo alla conversione. Il richiamo a 1 Pt 5,5 = Gc 4,6 è frequente nelle Confessioni: cfr III 5, 9; IV 3, 5; 15, 26; VII 9, 13; X 36, 59.
5 Penso che si possa conservare qui al verbo excitare il significato di «risvegliare». Per Agostino l’uomo non toccato dalla grazia è tutto proiettato «fuori», all’esterno, così che «l’uomo interiore» è come addormentato. Soltanto la potenza della grazia può risvegliare i «sensi spirituali», come si legge nel famoso passo «sero te amavi» di Confessioni X 27, 38: «Tu chiamasti e gridasti, e rompesti la mia sordità», quella cioè dell’uomo interiore. Cfr E. CATTANEO, «“Tardi ti ho amato”. L’esperienza spirituale di s. Agostino in Confessioni 10, 27, 38», in M. GIOIA (ed.), Teologia spirituale. Temi e problemi, in dialogo con Ch. A. Bernard, Roma, AVE, 1991, 53-61, ripreso in E. CATTANEO, Evangelo, Chiesa e carità nei Padri, ivi, 1995, 99-107.
6 Si cerca di rendere in italiano il gioco di parole latino: inquietum est cor nostrum donec requiescat in te. Cfr G. CERIOTTI, Inquietum cor (Confessioni I 1, 1), in L. F. PIZZOLATO – G. CERIOTTI – F. DE CAPITANI, Commento…, cit., 78-88.
7E allora le creature, che pure sono in Dio, diventano un ostacolo, non per colpa loro (esse sono «belle»), ma per colpa dell’uomo, che le usa in modo sbagliato, cioè assolutizzandole. Cfr E. CATTANEO, Evangelo…, cit., 103 s.
8 Tuttavia nel tempo presente tale esperienza è solo incipiente e troverà la sua perfezione soltanto nel «riposo» dell’eternità immutabile (cfr Confessioni XIII 36, 51).
9 Agostino cita appunto Sal 138,8: «Anche se scendo negli inferi, là tu sei». Tutto questo Salmo (139, secondo la numerazione ebraica) potrebbe fare da contrappunto alla meditazione agostiniana, soprattutto con il v. 7: «Dove andare lontano dal tuo spirito, / dove fuggire dalla tua presenza?».
10 Cfr 1 Cor 8,6; Rm 11,36
11 Cfr Confessioni VI 3, 4: «Non sei formato di membra alcune più grandi e altre più piccole, ma sei tutto dappertutto (ubique totus) e nessun luogo Ti contiene».
12 Sal 17,32.
13 Questi due attributi (misericordia e giustizia) sono sempre stati considerati dai Padri come inseparabili. Cfr E. CATTANEO, «Dio Padre buono nella polemica antignostica del II secolo», in O. F. PIAZZA (ed.), Padre, liberaci dal male, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 1999.
14 Cfr Confessioni VI 3, 4: «Tu, altissimo e vicinissimo, lontanissimo e presentissimo».
15 Cfr Nm 23,19; Mal 3,6; Dn 2,21.
16 Cfr Sap 7,27.
17 Cfr Gb 9,5 (LXX). Il testo greco dice: «Fai invecchiare i monti senza che lo sappiano». Evidentemente, nell’interpretazione allegorica, i «monti» sono il simbolo dei «superbi».
18 La «gelosia» di Dio è uno dei più forti antropomorfismi biblici (cfr Dt 4,24).
19 Cfr Gn 6,6; Gio 3,10.
20 Anche l’«ira» di Dio è un altro antropomorfismo biblico molto audace: cfr Nm 11,1; Rm 1,18.
21 Cfr Dn 2,21; Eb 6,17.
22 Allusione alle parabole della «misericordia» di Lc 15 (pecora smarrita, moneta perduta, figlio perduto e ritrovato). Cfr R. GUARDINI, L’inizio…, cit., 57.
23 Cfr Mt 25,21.27 (parabola dei talenti).
24 Cfr Lc 10,35 (parabola del buon samaritano).
25 Cfr 1 Cor 4,7.
26 Cfr Mt 20, 1-16.
27Cfr Mt 18,32.
28 Per un’analisi stilistico-tematica di questo «inno», cfr G. BOUISSOU, in «Bibliothèque Augustinienne», n. 13, Bar le Duc, DDB, 1962, 652-657.
29 Cfr T. J. VAN BAVEL, «God in between Affirmation and Negation According to Augustine», in J. T. LIENHARD – E. C. MULLER – R. J. TESKE (edd.), Augustine: Presbyter Factus Sum, New York, Lang, 1993, 73-97.
30 Et vae tacentibus de te, quoniam loquaces muti sunt. Queste ultime parole sono variamente interpretate: «poiché sono muti ciarlieri» (C. Carena); «dal momento che anche chi è muto ne parla» (L. F. Pizzolato); «puisque, bavards, ils sont muets» (Tréhorel-Bouissou); «perché nella loro loquacità sono muti» (Guardini).
31 Va però riconosciuto che una delle attività dello spirito è anche «parlare con se stessi», cioè ragionare tra sé e sé, e Agostino amava farlo, come attestano i Soliloqui, scritti alla vigilia del suo battesimo nel 387. Lì egli dialoga con la propria «ragione», la quale, essendo «a immagine e somiglianza di Dio», distingue bene Dio da se stessa, e invita anzitutto a rivolgersi a lui: da qui la preghiera di Soliloqui I 1, 2-6, «una delle più belle dell’antichità cristiana» (P. DE LABRIOLLE, in «Bibliothèque Augustinienne», n. 5, Bruges, DDB, 1948, 401).
32 L’opposizione lontano/vicino, dentro/fuori è spesso usata da Agostino per esprimere lontano da te. Tu eri in me più dentro della mia parte più intima (intimior intimo meo) e più alto della mia parte più alta (superior summo meo) (III 6, 11). «E io dov’ero, quando ti cercavo? Tu eri davanti a me, ma io mi ero allontanato da me (a me discesseram) e non trovavo me stesso. Tanto meno trovavo te!» (V 2, 2). «Io ti cercavo fuori di me (foris a me) e non ti trovavo, perché tu sei il Dio del mio cuore (Sal 72,26)» (VI 1, 1). Finalmente però la lontananza viene percepita: «Mi scoprii lontano da te, nella regione della dissomiglianza (dissimilitudinis)» (VII 10, 16). La scoperta amorosa di Dio coincide con il ritrovamento della propria identità-interiorità perduta, una vera rinascita: cfr X 27, 38 e più sopra, nota 5.
33 Le allusioni al Cantico dei cantici (Vulgata) sono abbastanza evidenti: «Correremo dietro a te (post te curremus) (Ct 1,3); «mostrami il tuo volto, risuoni la tua voce nelle mie orecchie (ostende mihi faciem tuam, sonet vox tua in auribus meis)» (Ct 2,14); «ti raggiungerò e ti porterò nella mia casa (adprehendam te, et ducam in domum)» (Ct 8,2). Notiamo inoltre che in questo prologo l’esperienza di Dio viene espressa in termini di «sensi spirituali», come cosa già abituale per Agostino: l’udito («le orecchie del mio cuore… àprile… correndo dietro a questa voce…»); la vista («non nascondermi il tuo volto… per vederti»); il tatto («abbraccerei te, unico mio bene»); il gusto («dolcezza mia santa»). Manca qui l’odorato, ma tale assenza indica che questo tipo di linguaggio è usato da Agostino in modo spontaneo, non artificioso.
34 Moriar, ne moriar, ut eam videam. L’interpretazione di A. Solignac («sia che muoia, sia che non muoia, purché lo veda») ci sembra banalizzare un po’ il testo (cfr «Bibliothèque Augustinienne», n. 13, 282-283). Il senso più accettabile ci pare quello ripreso da F. PIZZOLATO, Commento…, cit., 29: «C’è in quel primo moriar il senso della morte mystica (morire in Cristo al peccato), che vince la morte naturale e la morte del peccato».il cercarsi tra l’uomo e Dio: «Tu dov’eri, e quanto lontano da me? Ero io che vagavo
35 Tuttavia Agostino non è d’accordo con l’apofatismo estremo di Plotino, per il quale ogni affermazione su Dio risulta priva di senso, perché allora dietro il termine «Dio» uno ci potrebbe mettere qualsiasi cosa. Il linguaggio su Dio rimane sempre inadeguato, ma non vuoto di senso (cfr T. J. VAN BAVEL, «God in between…», cit., 84 s).
36 Cfr Sermo Denis II 5: «Non puoi comprendere il nome della mia essenza (nomen substantiae); comprendi il nome della mia misericordia (nomen misericordiae)» («Miscell. August.», I 16-17). Quindi «parlare» di Dio significa «confessare» Dio, nel duplice significato di confessio — anche se il termine non compare in questo prologo —: «l’esperienza del peccato (confessio peccatorum) si trasfigura in materia di lode (confessio laudis)» (L. F. PIZZOLATO, Commento…, cit., 29).
37 Cfr S. IGNAZIO DI LOYOLA, Esercizi spirituali, cit, [45]-[72].
38 L’originalità della spiritualità agostiniana è stata bene messa in rilievo da CH. A. BERNARD, Il Dio dei misteri. I: Le vie dell’interiorità, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 1996, 189-222.
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«L’uomo vuole lodarti»
Le Confessioni di sant’Agostino[sup]1[/sup] si aprono con un prologo (I 1-5), che potrebbe essere considerato una sorta di «principio e fondamento», per usare il linguaggio degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola[sup]2[/sup]. Cercheremo di rileggere questo testo agostiniano proprio alla luce del testo ignaziano, non per trovarvi corrispondenze forzate, ma per farne un commento spirituale, cioè nella prospettiva dell’esperienza di Dio proposta dall’itinerario degli Esercizi[sup]3[/sup].
Creato per la lode
Agostino inizia con alcune espressioni tratte dai Salmi, che inneggiano alla grandezza e alla sapienza di Dio: «Tu sei grande, Signore, e molto degno di lode (cfr Sal 47[48],2; 95[96],4; 144[145],3); grande è la tua potenza, e la tua sapienza non si può misurare (cfr Sal 146[147],5)». Mentre però il testo biblico usa la terza persona singolare («Grande è il Signore…»), Agostino pone la seconda, dove risuona il «tu» del dialogo e della preghiera. Siamo già introdotti in un clima orante, che sarà quello di tutte le Confessioni. Dio non è qui l’«essere immutabile» della speculazione astratta, ma il partner della lode dell’uomo, una lode che prende l’avvio dalla parola stessa di Dio.
L’uomo dunque sente in sé questa volontà di dare lode a Dio («l’uomo vuole lodarti»). Ma chi è l’uomo? «Una piccola parte della tua creazione, l’uomo, che porta con sé il suo destino di morte, che porta con sé la testimonianza del suo peccato e la testimonianza che tu ti opponi ai superbi (superbis resistis)» (I 1, 1). Agostino non si sofferma su una definizione filosofica dell’uomo, ma va diritto alla sua condizione esistenziale e teologale: davanti a se stesso, l’uomo non è che una piccolissima parte della creazione e un essere segnato dal proprio destino mortale; davanti a Dio, l’uomo è in una situazione di peccato, che consiste essenzialmente in una presuntuosa superbia, in quell’autoesaltazione che blocca la comunicazione della grazia divina (allusione a 1 Pt 5,5 e Gc 4,6: «Dio si oppone ai superbi [superbis resistit], ma dà la sua grazia agli umili»)[sup]4[/sup].
E tuttavia l’inclinazione sterile all’autoesaltazione non può cancellare il progetto originario di Dio, iscritto nell’essere stesso creaturale dell’uomo: un progetto che è essenzialmente apertura all’Altro, gioia di lodare l’Altro, di sapersi creato per l’Altro: «E tuttavia l’uomo, piccola parte della tua creazione, vuole lodarti. Tu lo risvegli (excitas)[sup]5[/sup], perché egli trovi la sua gioia nel lodarti. Sì, ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto finché non trova quiete in te» (I 1, 1)[sup]6[/sup].
Il richiamo di Dio viene dunque dal più profondo dell’essere umano; non è un elemento aggiuntivo, quasi un optional, di cui l’uomo potrebbe anche fare a meno. In quel cor inquietum c’è tutto il tormento esistenziale di chi vorrebbe realizzarsi senza Dio, ma non ci riesce perché non ci potrà mai riuscire. Se l’uomo è stato fatto per Dio, vuol dire che non una creatura, non il mondo intero, ma soltanto Dio è l’oggetto proporzionato del suo desiderio di felicità. Agostino qui invita non a fare speculazioni, ma un’esperienza, quella del passaggio dall’«inquietudine» — che l’uomo prova quando si getta sulle creature considerate come fine[sup]7[/sup] — alla «quiete» del cuore che ha trovato Dio. È l’esperienza di un godimento (delectatio) interiore, superiore a qualsiasi godimento di beni creati[sup]8[/sup].
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«Ti invoca la mia fede»
Agostino si chiede poi se si possa iniziare subito con la lode a Dio o se ci sia bisogno prima d’invocarlo. L’invocazione però suppone la conoscenza: «Come potrebbe invocarti chi non ti conosce? O forse non si deve piuttosto invocarti per conoscerti?» (I 1, 1). Il discorso sembra perdersi in un circolo vizioso, all’interno di una soggettività che non riesce a trovare un adeguato punto di partenza, un principium su cui appoggiarsi.
Il circolo si spezza solamente accogliendo la parola della fede, suscitata dall’annuncio, secondo il testo di Rm 10,14: «Come potranno invocarlo senza prima aver creduto in lui? E come potranno credere […] senza uno che l’annunci?» (I 1, 1). Bisogna dunque partire dall’annuncio, cioè dalla parola di Dio. Tutte le altre operazioni — cercare Dio, invocarlo, lodarlo — non sono che conseguenze della fede, quella giunta a noi attraverso l’incarnazione del Figlio di Dio: «Ti cercherò, Signore, invocandoti e ti invocherò credendo in te: infatti ci è giunta la buona notizia di te. ti invoca, Signore, la mia fede, quella che tu mi hai dato e ispirato mediante il tuo Figlio fatto uomo, mediante il mistero di colui che ti ha fatto conoscere» (I 1, 1).
Agostino non esita a ricorrere al principio oggettivo dell’annuncio, che ha la sua origine nel Figlio di Dio fatto uomo. Così dalla predicazione viene il dono della fede, che è fede orante, invocante (invocat te fides mea); l’invocazione è ricerca, e chi cerca il Signore lo trova, e chi lo trova lo loda. L’uomo, fatto per la lode di Dio, non può raggiungere questo «Tu» che dà riposo al suo cuore inquieto, se non nella fede in Cristo, rivelatore e annunciatore del Padre. Questo riferimento cristologico è estremamente importante, perché Agostino sa che non vi può rinunciare, neanche con il pretesto (o illusione) di rendere la via a Dio più universale.
Immanenza e trascendenza
Ma che senso ha invocare Dio? Letteralmente «in-vocare» significa «chiamare» qualcuno a «venire», colmando così una distanza e un’assenza. Ora questa immagine spaziale si rivela inadeguata se riferita a Dio: «C’è un posto in me, — si chiede Agostino — dove possa venire in me il mio Dio?» (I 2, 1). La preposizione «in» indica uno spazio delimitato da un contenente. Ma esiste forse un luogo dove Dio non sia già presente e che sia in grado di contenerlo? Non è lui che ha «fatto il cielo e la terra»? Dio dunque è già in me, perché è in tutte le cose, le quali non esisterebbero se non fossero in Dio. Anche negli «inferi», cioè nel luogo dei morti secondo la concezione antica — lo sheòl della Bibbia — Dio è presente[sup]9[/sup]. Ecco allora che l’in me si rovescia nell’in te: «Io non esisterei, Dio mio, non sarei nulla, se tu non fossi in me: O meglio, non esisterei, se non fossi in te, poiché tutto è da te, tutto per te, tutto in te» (I 2, 2)[sup]10[/sup].
La lontananza da Dio è allora un’illusione? «Da dove dunque ti invoco, se sono in te? O da dove tu verresti in me?» (I 2, 2). Agostino cerca di scrutare il mistero dell’immanenza e della trascendenza divina. Dio «riempie», «contiene» il cielo e la terra, cioè tutto ciò che esiste, ma non come una sostanza materiale, racchiusa in un contenitore e divisibile in parti. Infatti Dio è «tutto dappertutto» (ubique totus) [= immanenza], eppure «nessuna cosa ti può contenere tutto (te totum capit) [= trascendenza]» (I 3, 2)[sup]11[/sup]. Questo è il paradosso. Perciò non è Dio che ha bisogno del mondo per essere contenuto, ma è il mondo che ha bisogno di Dio per essere riempito. «Non sono i contenitori (vasa), pieni di te, a renderti stabile, perché anche se si rompono, tu non vai versato. E quando tu ti versi su di noi, non sei tu che ti abbassi, ma innalzi noi, non tu ti disperdi, ma noi raccogli» (I 3, 1). È chiara qui l’allusione al mistero salvifico, cioè a quel legame d’amore che Dio ha voluto porre con la sua creatura e che si è manifestato nell’«abbassamento» dell’incarnazione e nella croce di Cristo (il sangue «versato» per noi). In questo reale abbassamento, Dio non ha perso qualcosa, non è caduto in un’alienazione, ma è la creatura che è stata elevata e risanata.
«Che cos’è dunque il mio Dio?»
Il mistero della trascendenza e immanenza di Dio va dunque considerato, per Agostino, non semplicemente secondo un a priori astratto, e quindi estremamente riduttivo, ma va riempito con i contenuti ricavati dalla rivelazione biblica. Ne esce una specie di «inno teologico», da leggersi non in chiave puramente filosofica, ma tenendo conto del retroterra biblico:
Che cosa è dunque il mio Dio?
Che cos’è, mi chiedo, se non il Signore Dio?
Chi infatti è il Signore se non il Signore?
O chi è Dio se non il nostro Dio?[sup]12[/sup]
Sommo, ottimo,
potentissimo, onnipotentissimo,
misericordiosissimo e giustissimo[sup]13[/sup],
lontanissimo e presentissimo[sup]14[/sup],
bellissimo e fortissimo,
stabile e inafferrabile,
immutabile che tutto muti[sup]15[/sup],
mai nuovo, mai vecchio;
tutto rinnovi[sup]16[/sup] e fai invecchiare i superbi senza che lo sappiano;[sup]17[/sup]
sempre attivo, sempre in riposo;
raccogli, ma non hai bisogno di nulla;
porti, riempi e proteggi [tutto],
crei, nutri e porti a compimento [ogni cosa];
chiedi, mentre nulla ti manca;
ami senza bruciare di passione,
sei geloso[sup]18[/sup] ma resti tranquillo,
ti dispiaci[sup]19[/sup]ma non provi dolore,
ti adiri[sup]20[/sup] ma rimani calmo,
cambi le opere ma non il progetto[sup]21[/sup],
riprendi ciò che trovi e mai perdesti[sup]22[/sup];
mai indigente, sei contento di guadagnare,
mai avaro, esigi gli interessi[sup]23[/sup];
accetti che si spenda di più per te, per poter rifondere[sup]24[/sup],
ma chi possiede qualcosa che non sia tuo?[sup]25[/sup]
Paghi i debiti senza dover nulla a nessuno[sup]26[/sup],
condoni i debiti[sup]27[/sup] senza perdere niente» (I 4, 1-2)[sup]28[/sup].
I superlativi, ma più ancora la congiunzione degli opposti attributi, esprime l’inesprimibile mistero di Dio. Tutto quello che diciamo di lui, per quanto ci sforziamo di usare tutte le risposte del linguaggio, rimane sempre inadeguato. La Scrittura stessa, con le sue molteplici e contrapposte immagini, lo attesta: «Che cosa ho mai detto, Dio mio, vita mia, dolcezza mia santa? O che cosa dice uno, quando parla di te?» (I 4, 2). Non sarebbe allora il silenzio l’atteggiamento più adeguato? Agostino qui si pone appena la domanda e lascia intravedere la risposta. Sì, se il silenzio è suscitato e portato dalla parola; no, se è il silenzio muto, senza parola[sup]29[/sup]; «Guai a quelli che tacciono di te, se persino chi parla molto [di te] è come se fosse muto!» (I 4, 2)[sup]30[/sup].
L’incontro con Dio-Signore
Agostino ha considerato il mistero di Dio nella sua trascendenza e immanenza. Se Dio fosse solanto il trascendente, il totalmente altro, sarebbe assolutamente inaccessibile e non avrebbe senso invocarlo. Se, al contrario, egli fosse totalmente immanente, si confonderebbe con il mondo e con l’io, e il dialogo con lui sarebbe in realtà solo un parlare a se stessi[sup]31[/sup]. Perciò Agostino privilegia il «colloquio», dove non c’è fusione — o confusione —, ma spazio per un sempre nuovo incontro, fatto di rispetto e riverenza, ma insieme di familiarità: «Chi mi farà riposare in te? Chi farà sì che tu venga nel mio cuore a inebriarlo? Così dimenticherei i miei mali e abbraccerei te, il mio unico bene» (I 5, 1).
Già presente in tutte le cose come Creatore — e qui non c’è scelta, perché l’alternativa sarebbe il nulla —, Dio può essere ancora invocato e desiderato dall’uomo per un incontro di grazia, liberamente scelto e desiderato da entrambe le parti[sup]32[/sup]. In effetti, non soltanto l’uomo cerca Dio, ma, prima ancora, Dio cerca l’uomo: «Che cosa sei per me? […] E che cosa sono io per te? Tu esigi di essere amato da me, e se non lo faccio ti adiri con me e minacci gravi sventure, come se il non amarti non fosse già la sventura più grave di tutte!» (I 5, 1).
Dio ha già fatto la sua scelta, ora tocca all’uomo trovare in Dio «l’unico bene», pena il suo stesso fallimento, la sua stessa «perdizione». Agostino è consapevole che questo passo non può essere fatto senza la grazia (miseratio) di Dio stesso, senza che egli si riveli come «Salvatore», cioè come «salvezza» o, più letteralmente, «salute» di un’anima malata: «Oh, dimmi, per la tua misericordia, Signore Dio mio, che cosa sei per me. Di’ all’anima mia: sono io la tua salvezza (Sal 34,3). Dillo in modo che io senta! Ecco le orecchie del mio cuore sono davanti a te, Signore: àprile, e di’ all’anima mia: sono io la tua salvezza. Correrò dietro questa voce e ti raggiungerò. Non nascondermi il tuo volto[sup]33[/sup]: possa io morire per non morire, e così vederlo!» (I 5, 1)[sup]34[/sup].
Quando una persona umana, risvegliata dalla grazia, fa la scelta di Dio come fine e senso della propria esistenza, riscopre tutte le sue potenzialità naturali di amore, desiderio, unione. Riscopre se stessa, ma nello stesso tempo si accorge che questa «struttura» naturale — il suo cuore, la sua casa — è mal ridotta. La preghiera allora diventa un «consegnare le chiavi», un darsi nelle mani di colui che, avendo creato, può ri-creare e restaurare: «Stretta è la casa della mia anima perché tu possa entrarvi: dilatala. Cade in rovina: restaurala. Contiene alcune cose che offendono i tuoi occhi, lo confesso e lo so. Ma chi potrà purificarla? A chi altri griderò, se non a te?» (I 5, 2).
Invitare Dio nella propria casa — nel proprio cuore — significa accettare di fare la verità («Tu sei la Verità») e di non mentire più a se stessi. Il peccato infatti cerca sempre di giustificarsi con la menzogna (ne mentiatur iniquitas mea sibi), anche davanti a Dio: di questa pseudo-religione, Agostino non vuole più saperne, perché è ancora un camuffamento dell’io superbo. «Quindi non disputo con te in giudizio» (I 5, 2). Se Agostino prende la parola davanti a Dio non è più per giustificarsi, ma per accusare se stesso dei propri peccati. Fatta davanti alla misericordia divina, questa autoaccusa nella verità — ridicola agli occhi umani — conduce invece all’assoluzione: «E tu hai assolto l’empietà del mio cuore» (I 5, 2).
Podcast | SIRIA. «LA SITUAZIONE ECONOMICA È CATASTROFICA»
Le incognite sul futuro di milioni di rifugiati, le città devastate da anni di guerra e una pace ancora fragile. A raccontarci da Damasco come sta vivendo questo momento di incertezza la popolazione siriana è p. Vincent de Beaucoudrey S.I., direttore del Jesuit Refugee Service in Siria.
Conclusione
Il prologo delle Confessioni ci pone subito davanti al mistero di Dio e al mistero dell’uomo, come a due facce di un unico mistero: chi sei tu Signore? E chi sono io? L’uomo si riconosce creatura mortale, ma fatto per Dio; per cui nessuna creatura, ma solamente Dio è il fine che può appagare il desiderio infinito che c’è nell’essere umano. Come Creatore, certamente Dio è in tutte le cose e tutte le cose sono in Dio. L’uomo però ha la singolare vocazione e capacità di poter scegliere Dio come senso e fine della propria vita, come quel Bene al quale congiungersi inseparabilmente e così trovare la salvezza.
Ma che cosa diciamo quando parliamo di Dio? Agostino è come smarrito di fronte alla inadeguatezza del linguaggio umano — anche quello ispirato delle Scritture —, chiamato a esprimere qualcosa che non può «comprendere», perché lo trascende[sup]35[/sup]. L’uomo dunque dovrebbe doppiamente tacere davanti a Dio: primo perché è creatura, secondo perché è peccatore. E tuttavia, proprio il riconoscere l’una e l’altra realtà rivela il volto di Dio, che è misericordia[sup]36[/sup].
La parola perde così, almeno in parte, la sua inadeguatezza, perché è suscitata dalla fede: «Credo, e perciò anche parlo (cfr Sal 115[116],10; 2 Cor 4,13)» (I 5, 2). È una parola che è passata, mediante la fede, sotto il giogo di Cristo, la «via» attraverso cui Dio si è «abbassato», è venuto a noi e attraverso la quale anche noi, abbassando il nostro orgoglio, possiamo andare a lui. Sembra «stretta» questa via, ma è quella che sconvolge i pensieri dell’uomo su Dio, è quella che «salva» l’uomo, liberandolo dalla menzogna del peccato e liberando in lui il canto della lode.
Il clima orante nel quale Agostino immerge tutte queste riflessioni fa sì che le pagine introduttive delle Confessioni possano essere utilmente proposte, a nostro avviso, all’inizio di un cammino di «esercizi spirituali», come una sorta di «principio e fondamento», che si apre naturalmente sui grandi temi della «Prima settimana» (peccato e misericordia)[sup]37[/sup]. Il grande vescovo di Ippona ha il pregio, raro ai nostri tempi, di saper congiungere il rigore del pensiero con una intensa spiritualità affettiva[sup]38[/sup]. Non sono forse queste le qualità che ritroviamo negli Esercizi spirituali di Ignazio?
***
1 Cfr S. AGOSTINO, Le Confessioni, testo latino dell’edizione di M. SKUTELLA, riveduto da M. PELLEGRINO, traduzione e note di C. CARENA, Roma, Città Nuova, 19753. Qui seguiremo una nostra traduzione.
2 S. IGNAZIO DI LOYOLA, Esercizi spirituali [23]: «Principio e fondamento. L’uomo è creato per lodare, riverire e servire Dio nostro Signore, e per salvare, in questo modo, la propria anima; e le altre cose sulla faccia della terra sono create per l’uomo affinché lo aiutino al raggiungimento del fine per cui è stato creato. Da qui segue che l’uomo deve servirsene tanto quanto lo aiutano a conseguire il fine per cui è stato creato e tanto deve liberarsene quanto glielo impediscono. Per questa ragione è necessario renderci indifferenti verso tutte le cose create (in tutto quello che è permesso alla libertà del nostro libero arbitrio e non le è proibito), in modo da non desiderare da parte nostra più la salute che la malattia, più la ricchezza che la povertà, più l’onore che il disonore, più la vita lunga che quella breve, e così per tutto il resto, desiderando e scegliendo solo ciò che più ci porta al fine per cui siamo stati creati» (in M. GIOIA [ed.], Gli scritti di Ignazio di Loyola, Torino, UTET, 1977, 100 s). Per un commento a questo testo, con il suo implicito cristocentrismo, cfr S. RENDINA, «Principio e fondamento», in Appunti di spiritualità, n. 24, suppl. a Notizie dei Gesuiti d’Italia 22 (1989) 5-20.
3 Già altri si sono cimentati, con profondità ed erudizione, nel commento di Confessioni I 1-5. Cfr in particolare R. GUARDINI, L’inizio. Un commento ai primi cinque capitoli delle «Confessioni» di Agostino, Milano, Jaca Book, 19752; L. F. PIZZOLATO, Un primo libro delle «Confessiones» di Agostino: ai primordi della «confessio», in L. F. PIZZOLATO – G. CERIOTTI – F. DE CAPITANI, Commento ai libri I-II delle Confessioni di Agostino d’Ippona, Palermo, Augustinus, 1984, 9-30.
4 Agostino vedrà sempre in questa «superbia» il maggiore ostacolo alla conversione. Il richiamo a 1 Pt 5,5 = Gc 4,6 è frequente nelle Confessioni: cfr III 5, 9; IV 3, 5; 15, 26; VII 9, 13; X 36, 59.
5 Penso che si possa conservare qui al verbo excitare il significato di «risvegliare». Per Agostino l’uomo non toccato dalla grazia è tutto proiettato «fuori», all’esterno, così che «l’uomo interiore» è come addormentato. Soltanto la potenza della grazia può risvegliare i «sensi spirituali», come si legge nel famoso passo «sero te amavi» di Confessioni X 27, 38: «Tu chiamasti e gridasti, e rompesti la mia sordità», quella cioè dell’uomo interiore. Cfr E. CATTANEO, «“Tardi ti ho amato”. L’esperienza spirituale di s. Agostino in Confessioni 10, 27, 38», in M. GIOIA (ed.), Teologia spirituale. Temi e problemi, in dialogo con Ch. A. Bernard, Roma, AVE, 1991, 53-61, ripreso in E. CATTANEO, Evangelo, Chiesa e carità nei Padri, ivi, 1995, 99-107.
6 Si cerca di rendere in italiano il gioco di parole latino: inquietum est cor nostrum donec requiescat in te. Cfr G. CERIOTTI, Inquietum cor (Confessioni I 1, 1), in L. F. PIZZOLATO – G. CERIOTTI – F. DE CAPITANI, Commento…, cit., 78-88.
7E allora le creature, che pure sono in Dio, diventano un ostacolo, non per colpa loro (esse sono «belle»), ma per colpa dell’uomo, che le usa in modo sbagliato, cioè assolutizzandole. Cfr E. CATTANEO, Evangelo…, cit., 103 s.
8 Tuttavia nel tempo presente tale esperienza è solo incipiente e troverà la sua perfezione soltanto nel «riposo» dell’eternità immutabile (cfr Confessioni XIII 36, 51).
9 Agostino cita appunto Sal 138,8: «Anche se scendo negli inferi, là tu sei». Tutto questo Salmo (139, secondo la numerazione ebraica) potrebbe fare da contrappunto alla meditazione agostiniana, soprattutto con il v. 7: «Dove andare lontano dal tuo spirito, / dove fuggire dalla tua presenza?».
10 Cfr 1 Cor 8,6; Rm 11,36
11 Cfr Confessioni VI 3, 4: «Non sei formato di membra alcune più grandi e altre più piccole, ma sei tutto dappertutto (ubique totus) e nessun luogo Ti contiene».
12 Sal 17,32.
13 Questi due attributi (misericordia e giustizia) sono sempre stati considerati dai Padri come inseparabili. Cfr E. CATTANEO, «Dio Padre buono nella polemica antignostica del II secolo», in O. F. PIAZZA (ed.), Padre, liberaci dal male, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 1999.
14 Cfr Confessioni VI 3, 4: «Tu, altissimo e vicinissimo, lontanissimo e presentissimo».
15 Cfr Nm 23,19; Mal 3,6; Dn 2,21.
16 Cfr Sap 7,27.
17 Cfr Gb 9,5 (LXX). Il testo greco dice: «Fai invecchiare i monti senza che lo sappiano». Evidentemente, nell’interpretazione allegorica, i «monti» sono il simbolo dei «superbi».
18 La «gelosia» di Dio è uno dei più forti antropomorfismi biblici (cfr Dt 4,24).
19 Cfr Gn 6,6; Gio 3,10.
20 Anche l’«ira» di Dio è un altro antropomorfismo biblico molto audace: cfr Nm 11,1; Rm 1,18.
21 Cfr Dn 2,21; Eb 6,17.
22 Allusione alle parabole della «misericordia» di Lc 15 (pecora smarrita, moneta perduta, figlio perduto e ritrovato). Cfr R. GUARDINI, L’inizio…, cit., 57.
23 Cfr Mt 25,21.27 (parabola dei talenti).
24 Cfr Lc 10,35 (parabola del buon samaritano).
25 Cfr 1 Cor 4,7.
26 Cfr Mt 20, 1-16.
27Cfr Mt 18,32.
28 Per un’analisi stilistico-tematica di questo «inno», cfr G. BOUISSOU, in «Bibliothèque Augustinienne», n. 13, Bar le Duc, DDB, 1962, 652-657.
29 Cfr T. J. VAN BAVEL, «God in between Affirmation and Negation According to Augustine», in J. T. LIENHARD – E. C. MULLER – R. J. TESKE (edd.), Augustine: Presbyter Factus Sum, New York, Lang, 1993, 73-97.
30 Et vae tacentibus de te, quoniam loquaces muti sunt. Queste ultime parole sono variamente interpretate: «poiché sono muti ciarlieri» (C. Carena); «dal momento che anche chi è muto ne parla» (L. F. Pizzolato); «puisque, bavards, ils sont muets» (Tréhorel-Bouissou); «perché nella loro loquacità sono muti» (Guardini).
31 Va però riconosciuto che una delle attività dello spirito è anche «parlare con se stessi», cioè ragionare tra sé e sé, e Agostino amava farlo, come attestano i Soliloqui, scritti alla vigilia del suo battesimo nel 387. Lì egli dialoga con la propria «ragione», la quale, essendo «a immagine e somiglianza di Dio», distingue bene Dio da se stessa, e invita anzitutto a rivolgersi a lui: da qui la preghiera di Soliloqui I 1, 2-6, «una delle più belle dell’antichità cristiana» (P. DE LABRIOLLE, in «Bibliothèque Augustinienne», n. 5, Bruges, DDB, 1948, 401).
32 L’opposizione lontano/vicino, dentro/fuori è spesso usata da Agostino per esprimere lontano da te. Tu eri in me più dentro della mia parte più intima (intimior intimo meo) e più alto della mia parte più alta (superior summo meo) (III 6, 11). «E io dov’ero, quando ti cercavo? Tu eri davanti a me, ma io mi ero allontanato da me (a me discesseram) e non trovavo me stesso. Tanto meno trovavo te!» (V 2, 2). «Io ti cercavo fuori di me (foris a me) e non ti trovavo, perché tu sei il Dio del mio cuore (Sal 72,26)» (VI 1, 1). Finalmente però la lontananza viene percepita: «Mi scoprii lontano da te, nella regione della dissomiglianza (dissimilitudinis)» (VII 10, 16). La scoperta amorosa di Dio coincide con il ritrovamento della propria identità-interiorità perduta, una vera rinascita: cfr X 27, 38 e più sopra, nota 5.
33 Le allusioni al Cantico dei cantici (Vulgata) sono abbastanza evidenti: «Correremo dietro a te (post te curremus) (Ct 1,3); «mostrami il tuo volto, risuoni la tua voce nelle mie orecchie (ostende mihi faciem tuam, sonet vox tua in auribus meis)» (Ct 2,14); «ti raggiungerò e ti porterò nella mia casa (adprehendam te, et ducam in domum)» (Ct 8,2). Notiamo inoltre che in questo prologo l’esperienza di Dio viene espressa in termini di «sensi spirituali», come cosa già abituale per Agostino: l’udito («le orecchie del mio cuore… àprile… correndo dietro a questa voce…»); la vista («non nascondermi il tuo volto… per vederti»); il tatto («abbraccerei te, unico mio bene»); il gusto («dolcezza mia santa»). Manca qui l’odorato, ma tale assenza indica che questo tipo di linguaggio è usato da Agostino in modo spontaneo, non artificioso.
34 Moriar, ne moriar, ut eam videam. L’interpretazione di A. Solignac («sia che muoia, sia che non muoia, purché lo veda») ci sembra banalizzare un po’ il testo (cfr «Bibliothèque Augustinienne», n. 13, 282-283). Il senso più accettabile ci pare quello ripreso da F. PIZZOLATO, Commento…, cit., 29: «C’è in quel primo moriar il senso della morte mystica (morire in Cristo al peccato), che vince la morte naturale e la morte del peccato».il cercarsi tra l’uomo e Dio: «Tu dov’eri, e quanto lontano da me? Ero io che vagavo
35 Tuttavia Agostino non è d’accordo con l’apofatismo estremo di Plotino, per il quale ogni affermazione su Dio risulta priva di senso, perché allora dietro il termine «Dio» uno ci potrebbe mettere qualsiasi cosa. Il linguaggio su Dio rimane sempre inadeguato, ma non vuoto di senso (cfr T. J. VAN BAVEL, «God in between…», cit., 84 s).
36 Cfr Sermo Denis II 5: «Non puoi comprendere il nome della mia essenza (nomen substantiae); comprendi il nome della mia misericordia (nomen misericordiae)» («Miscell. August.», I 16-17). Quindi «parlare» di Dio significa «confessare» Dio, nel duplice significato di confessio — anche se il termine non compare in questo prologo —: «l’esperienza del peccato (confessio peccatorum) si trasfigura in materia di lode (confessio laudis)» (L. F. PIZZOLATO, Commento…, cit., 29).
37 Cfr S. IGNAZIO DI LOYOLA, Esercizi spirituali, cit, [45]-[72].
38 L’originalità della spiritualità agostiniana è stata bene messa in rilievo da CH. A. BERNARD, Il Dio dei misteri. I: Le vie dell’interiorità, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 1996, 189-222.
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Leone XIV ai giornalisti: «Respingere il paradigma della guerra»
«Viviamo tempi difficili da percorrere e da raccontare, che rappresentano una sfida per tutti noi e che non dobbiamo fuggire. Al contrario, essi chiedono a ciascuno, nei nostri diversi ruoli e servizi, di non cedere mai alla mediocrità. La Chiesa deve accettare la sfida del tempo e, allo stesso modo, non possono esistere una comunicazione e un giornalismo fuori dal tempo e dalla storia. Come ci ricorda Sant’Agostino, che diceva: “Viviamo bene e i tempi saranno buoni” (cfr Discorso 311). Noi siamo i tempi». Con queste parole, nella giornata di lunedì 12 maggio, papa Leone XIV si è rivolto ai giornalisti arrivati a Roma da tutto il mondo per raccontare l’ultimo saluto a papa Francesco e l’annuncio del nuovo Pontefice.
In un’aula Paolo VI gremita di giornalisti e operatori dei media, Leone XIV ha ricordato il «Discorso della montagna» in cui Gesù ha proclamato «Beati gli operatori di pace» (Mt 5,9). «Si tratta di una Beatitudine che ci sfida tutti e che vi riguarda da vicino, chiamando ciascuno all’impegno di portare avanti una comunicazione diversa, che non ricerca il consenso a tutti i costi, non si riveste di parole aggressive, non sposa il modello della competizione, non separa mai la ricerca della verità dall’amore con cui umilmente dobbiamo cercarla – ha detto Leone XIV -. La pace comincia da ognuno di noi: dal modo in cui guardiamo gli altri, ascoltiamo gli altri, parliamo degli altri; e, in questo senso, il modo in cui comunichiamo è di fondamentale importanza: dobbiamo dire “no” alla guerra delle parole e delle immagini, dobbiamo respingere il paradigma della guerra».
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Il Papa, poi, ha rivolto un messaggio di solidarietà ai giornalisti incarcerati per aver cercato di raccontare la verità, chiedendone la liberazione. «La Chiesa riconosce in questi testimoni – penso a coloro che raccontano la guerra anche a costo della vita – il coraggio di chi difende la dignità, la giustizia e il diritto dei popoli a essere informati, perché solo i popoli informati possono fare scelte libere – ha aggiunto Leone XIV -. La sofferenza di questi giornalisti imprigionati interpella la coscienza delle Nazioni e della comunità internazionale, richiamando tutti noi a custodire il bene prezioso della libertà di espressione e di stampa».
Per il Pontefice, una delle sfide più importanti di oggi è quella di «promuovere una comunicazione capace di farci uscire dalla “torre di Babele” in cui talvolta ci troviamo, dalla confusione di linguaggi senza amore, spesso ideologici o faziosi – ha aggiunto -. Perciò, il vostro servizio, con le parole che usate e lo stile che adottate, è importante. La comunicazione, infatti, non è solo trasmissione di informazioni, ma è creazione di una cultura, di ambienti umani e digitali che diventino spazi di dialogo e di confronto». Il Papa, poi, ha ricordato le potenzialità e i rischi delle nuove tecnologie. «Penso, in particolare, all’intelligenza artificiale col suo potenziale immenso, che richiede, però, responsabilità e discernimento per orientare gli strumenti al bene di tutti – ha detto papa Leone XIV -, così che possano produrre benefici per l’umanità. E questa responsabilità riguarda tutti, in proporzione all’età e ai ruoli sociali».
Infine, papa Leone XIV ha ricordato l’invito fatto da Papa Francesco nel suo ultimo messaggio per la prossima Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali. «Disarmiamo la comunicazione da ogni pregiudizio, rancore, fanatismo e odio; purifichiamola dall’aggressività – ha chiesto papa Leone XIV ai giornalisti -. Non serve una comunicazione fragorosa, muscolare, ma piuttosto una comunicazione capace di ascolto, di raccogliere la voce dei deboli che non hanno voce. Disarmiamo le parole e contribuiremo a disarmare la Terra. Una comunicazione disarmata e disarmante ci permette di condividere uno sguardo diverso sul mondo e di agire in modo coerente con la nostra dignità umana». Salutando i giornalisti e gli operatori, papa Leone XIV ha chiesto loro di scegliere una «comunicazione di pace». «Voi siete in prima linea nel narrare i conflitti e le speranze di pace, le situazioni di ingiustizia e di povertà, e il lavoro silenzioso di tanti per un mondo migliore – ha concluso il Papa -. Per questo vi chiedo di scegliere con consapevolezza e coraggio la strada di una comunicazione di pace».
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Habemus Papam: l’elezione di papa Leone XIV
L’8 maggio 2025, alla fine del pomeriggio, il cardinale protodiacono Dominique Mamberti ha pronunciato le parole rituali che tutti aspettavamo: Annuntio vobis gaudium magnum: habemus papam. Il cardinale Robert Francis Prevost è stato eletto come Romano Pontefice e ha scelto di chiamarsi Leone XIV. Il nuovo Papa è poi apparso sul balcone centrale della basilica di S. Pietro per salutare e benedire la folla di fedeli accorsi per l’occasione. A loro e a tutta la Chiesa, papa Leone XIV ha rivolto questo saluto:
«La pace sia con tutti voi! Fratelli e sorelle carissimi, questo è il primo saluto del Cristo Risorto, il buon pastore che ha dato la vita per il gregge di Dio. Anch’io vorrei che questo saluto di pace entrasse nel vostro cuore, raggiungesse le vostre famiglie, a tutte le persone, ovunque siano, a tutti i popoli, a tutta la terra. La pace sia con voi!
Questa è la pace del Cristo Risorto, una pace disarmata e una pace disarmante, umile e perseverante. Proviene da Dio, Dio che ci ama tutti incondizionatamente. Ancora conserviamo nei nostri orecchi quella voce debole ma sempre coraggiosa di Papa Francesco che benediva Roma! Il Papa che benediva Roma dava la sua benedizione al mondo, al mondo intero, quella mattina del giorno di Pasqua. Consentitemi di dar seguito a quella stessa benedizione: Dio ci vuole bene, Dio vi ama tutti, e il male non prevarrà! Siamo tutti nelle mani di Dio. Pertanto, senza paura, uniti mano nella mano con Dio e tra di noi andiamo avanti. Siamo discepoli di Cristo. Cristo ci precede. Il mondo ha bisogno della sua luce. L’umanità necessita di Lui come il ponte per essere raggiunta da Dio e dal suo amore. Aiutateci anche voi, poi gli uni gli altri a costruire ponti, con il dialogo, con l’incontro, unendoci tutti per essere un solo popolo sempre in pace. Grazie a Papa Francesco!
Voglio ringraziare anche tutti i confratelli cardinali che hanno scelto me per essere Successore di Pietro e camminare insieme a voi, come Chiesa unita cercando sempre la pace, la giustizia, cercando sempre di lavorare come uomini e donne fedeli a Gesù Cristo, senza paura, per proclamare il Vangelo, per essere missionari. Sono un figlio di Sant’Agostino, agostiniano, che ha detto: “con voi sono cristiano e per voi vescovo”. In questo senso possiamo tutti camminare insieme verso quella patria che Dio ci ha preparato. Alla Chiesa di Roma un saluto speciale! Dobbiamo cercare insieme come essere una Chiesa missionaria, una Chiesa che costruisce i ponti, il dialogo, sempre aperta a ricevere come questa piazza con le braccia aperte. Tutti, tutti coloro che hanno bisogno della nostra carità, la nostra presenza, il dialogo e l’amore.
E se mi permettete una parola, un saluto a tutti e in modo particolare alla mia cara diocesi di Chiclayo, in Perù, dove un popolo fedele ha accompagnato il suo vescovo, ha condiviso la sua fede e ha dato tanto, tanto per continuare ad essere Chiesa fedele di Gesù Cristo.
A tutti voi, fratelli e sorelle di Roma, di Italia, di tutto il mondo vogliamo essere una Chiesa sinodale, una Chiesa che cammina, una Chiesa che cerca sempre la pace, che cerca sempre la carità, che cerca sempre di essere vicino specialmente a coloro che soffrono. Oggi è il giorno della Supplica alla Madonna di Pompei. Nostra Madre Maria vuole sempre camminare con noi, stare vicino, aiutarci con la sua intercessione e il suo amore. Allora vorrei pregare insieme a voi. Preghiamo insieme per questa nuova missione, per tutta la Chiesa, per la pace nel mondo e chiediamo questa grazia speciale a Maria, nostra Madre».
Nell’omelia della Messa pro eligendo Romano Pontefice, nella mattina del 7 maggio, il cardinale Giovanni Battista Re, decano del Collegio cardinalizio ha ricordato: «Ogni Papa continua a incarnare Pietro e la sua missione e così rappresenta Cristo in terra; egli è la roccia su cui è edificata la Chiesa (cfr. Mt 16,18)». Proseguendo, ha poi aggiunto, in modo non meno significativo: «L’elezione del nuovo Papa non è un semplice avvicendarsi di persone, ma è sempre l’Apostolo Pietro che ritorna».
In papa Leone XIV accogliamo, quindi, con profonda gioia «l’Apostolo Pietro che ritorna». Lo accogliamo con fiducia, sapendo che eredita il compito di guidarci nel percorso di Speranza che è quello del Giubileo 2025 e che sta al centro della vita cristiana. Si tratta di un percorso che si prolungherà necessariamente al di là dell’Anno Santo, in modo che ognuno di noi sia aiutato a percepire e a vivere i segni di Speranza di cui noi e il mondo intero abbiamo urgente bisogno.
All’inizio di un pontificato, sono inevitabili le comparazioni con quelli precedenti e, in particolare, con quello di papa Francesco che da poco ci ha lasciato. Non è da stupirsi se si cercano i segnali di continuità e quelli di innovazione. Noi crediamo che lo Spirito Santo non si ripeta e che, anche quando si tratta della guida della Chiesa, Egli abbia la capacità di farsi presente in una molteplicità di volti, di stili e di gesti, nei quali si esprime il desiderio di annunciare il Vangelo e di viverlo nella comunione e nell’unità.
Proprio in questa diversità di volti, «l’Apostolo Pietro che ritorna» rappresenta e indica Cristo che, tramite il Suo Spirito, ci guida alla consapevolezza di essere figli di Dio e perciò alla verità, alla pace e alla giustizia. Accogliamo perciò il nuovo Pontefice con fiducia e con gioia.
La Civiltà Cattolica, dall’inizio della sua storia lunga 175 anni, è al servizio dei Pontefici e sarà anche al servizio di papa Leone XIV nel modo che egli vorrà. A lui va la manifestazione della nostra devozione filiale, il nostro augurio e la nostra preghiera.
La Civiltà Cattolica
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Maria e l’unità della Chiesa
Quale ruolo è stato conferito a Maria nell’unità della Chiesa? La domanda è molto ampia e la risposta comporta molteplici risvolti. L’ecumenismo invita ad apprezzare la diversità delle posizioni concernenti la dottrina e il culto mariani, e a studiare le vie di avvicinamento; la situazione ecumenica è diversa a seconda che si tratti dei rapporti tra cattolici e ortodossi o dei loro rapporti con i protestanti. La prospettiva nella quale vorremmo metterci è ancora più ampia: si tratta di determinare il contributo di Maria non solo all’unione di cristiani appartenenti a diverse Confessioni, ma in una maniera più fondamentale all’unità della Chiesa e, più ancora, all’unità dell’insieme del genere umano.
L’impegno primordiale nell’opera della riunione
L’impegno di Maria nell’opera della salvezza, come ci viene presentato nei testi evangelici, non è senza rapporto con un obiettivo essenziale di unità. Le indicazioni sono implicite, ma meritano di essere esplicitate. È necessario, anzitutto, riflettere sul momento essenziale che ha costituito, per Maria, il mistero dell’Annunciazione. L’angelo annuncia che Gesù «regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe» e che «il suo regno non avrà fine» (Lc 1,33). Ricevendo «il trono di Davide suo padre», egli sarà il Messia che stabilirà definitamente il regno ideale verso il quale tendeva tutta la speranza giudaica. Una proprietà caratteristica di questo regno era la riunione che doveva realizzare.
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È così, per esempio, che il servo di Jahvè era stato destinato, fin dal seno materno, a una missione consistente nel «riunire Israele» e ricondurre i superstiti (Is 49,5-6). La dispersione, che aveva assunto la sua forma più tragica nell’esilio a Babilonia, era considerata come una conseguenza dei peccati del popolo. Il peccato è fonte di divisione, come mostra il racconto della torre di Babele, dove l’orgoglio che si erge contro Dio provoca l’impossibilità, per i popoli, di capirsi tra di loro, a causa della mancanza di una lingua comune1. Qui appare il principio secondo cui coloro che si oppongono a Dio finiscono per mettersi gli uni contro gli altri. Infatti, separarsi da Dio significa allontanarsi dalla fonte di ogni unità e abbandonarsi alle passioni che dividono.
La religione giudaica non si limita a prendere coscienza di questo aspetto deleterio del peccato. Essa suscita la speranza di una salvezza che opera una riunione. Il regno che Dio vuole instaurare dovrà porre fine ad ogni divisione e riunire il popolo disperso. Non si può dubitare che Maria condivideva questa speranza messianica e che l’aspirazione all’unità era molto profonda nella sua anima. Ella non aveva mancato di constatare intorno a sé i danni della divisione, i gesti di ostilità, le lotte tenaci tra individui e tra famiglie, gli odi e le vendette, i tormenti inflitti agli altri dalla gelosia. Di fronte a queste rovine, Maria si sentiva impotente, ma prendeva sul serio la promessa divina di un’unione che sarebbe stata restaurata da una mano onnipotente.
All’udire l’annuncio dell’angelo, ella comprende che tutti i beni promessi con il regno messianico saranno accordati al popolo, e sa che tra questi beni vi è quello dell’unità, inseparabile dalla pace. Quando Maria esprime la sua adesione alla proposta che le viene rivolta, è dunque consapevole d’impegnarsi nell’instaurazione di un regno che assicurerà il trionfo dell’unione sulla dispersione. Le parole «avvenga di me quello che hai detto» significano anzitutto l’accettazione della maternità annunciata, ma comportano un consenso a tutto il destino del fanciullo, come le era stato descritto. Il sì che pronuncia è un sì all’unione futura, a questo unico Regno che deve operare una riunione definitiva,
Si può aggiungere che, con la sua adesione, Maria vuole dedicare tutte le sue forze all’instaurazione di questo Regno. Ella non si limita a una speranza che attende passivamente gli avvenimenti; è decisa a cooperare alla loro realizzazione tramite il ruolo materno che le viene assegnato. Ella accetta non soltanto di diventare la madre di Gesù, ma anche di contribuire alla sua opera, diventandone in un certo senso la madre. E siccome sa che quest’opera implica una riunione, una riconciliazione degli uomini, comincia già ad assumere il ruolo di madre dell’unità. Se il Regno descritto dall’angelo è destinato a prendere corpo nella Chiesa, il consenso al messaggio significa — secondo l’intenzione divina — un impegno al servizio dell’unità della Chiesa.
Certo, Maria non può ancora discernere che cosa sarà concretamente la formazione e lo sviluppo della Chiesa. Ella si attiene all’immagine del Regno che le è stata proposta dall’angelo. Ma la qualità del suo consenso è in proporzione alla grazia ricevuta, grazia singolare e abbondante. Come questa grazia non l’avrebbe orientata verso i beni spirituali del regno messianico, in particolare verso l’unità? Quando l’angelo incontra Maria, la chiama «piena di grazia». Questa denominazione illumina tutto il dialogo; colei che ode il messaggio lo comprende con la luce da lei ricevuta ed è in quanto colmata di grazia che aderisce al progetto.
In ciò vi è un principio essenziale d’interpretazione dell’episodio dell’Annunciazione. La grazia ha diretto i pensieri e i sentimenti di Maria verso la meta perseguita da Cristo nella sua missione di Salvatore. Recentemente uno studio esegetico della parola kecharitômenè («piena di grazia») ha sottolineato che si tratta della grazia che aveva ispirato a Maria un profondo desiderio della verginità2. Occorre aggiungere che questa grazia non l’aveva orientata soltanto verso la maternità verginale, ma verso tutto l’orizzonte della salvezza messianica e, più particolarmente, verso la riunione del popolo. Precisiamo che la grazia che aveva colmato Maria non era una grazia puramente funzionale. Come riconosce la Tradizione, era una grazia che aveva trasformato la sua personalità, santificandola. Ma questa grazia, che in qualche modo era diventata sua proprietà personale, aveva una meta, quella di prepararla al suo ruolo nell’opera della salvezza.
Così, nel momento in cui ha accettato la maternità che le veniva offerta dall’alto, Maria ha potuto assumerla secondo le intenzioni divine, quelle di un regno unificante. Queste intenzioni erano diventate sue in virtù dell’azione ispirante dello Spirito Santo; abbiamo inoltre osservato che Maria aveva dovuto appropriarsele in maniera concreta per l’esperienza che faceva della divisione tra gli uomini e i danni che ne risultavano. Ella comprendeva la necessità di un intervento divino per ristabilire l’unità e l’auspicava con tutto il cuore.
L’impegno nella maternità
Dall’Annunciazione passiamo a un altro consenso essenziale di Maria: quello alla sua maternità universale. Al Calvario, la madre sta in piedi accanto a suo figlio. Ella è là perché lo ha voluto e perché desidera condividere tutte le sofferenze del Crocifisso, associarsi nella maniera più completa al sacrificio che deve ottenere la salvezza all’umanità. Gesù consacra definitivamente quest’associazione chiedendole di accettare una nuova maternità: «Donna, ecco tuo figlio» (Gv 19,26). Chiamandola «Donna», le mostra che la considera come la donna destinata a cooperare con il Figlio dell’uomo al compimento del disegno divino. Donandole un altro figlio, le chiede anzitutto di accettare, fin da questo momento, di perdere il suo unico Figlio, per avere ormai come figli i suoi discepoli. È a costo del suo sacrificio materno che Maria acquista una maternità dall’estensione indefinita, che si prolungherà e si moltiplicherà sino alla fine del mondo. La maternità nei riguardi del discepolo prediletto, che inizia in questo momento in virtù di una parola creatrice del Salvatore, è il segno di una maternità nei riguardi di ogni discepolo in quanto è amato da Cristo.
L’interpretazione delle parole di Gesù nel senso di una semplice volontà di adempiere a un obbligo familiare, vegliando sull’avvenire di sua madre e affidandola al discepolo prediletto, sarebbe piuttosto restrittiva. Essa non corrisponde all’intenzione che si manifesta nell’episodio3. Quando aveva lasciato Nazaret per la vita pubblica, Gesù aveva certamente provveduto al futuro di sua madre; non avrebbe potuto aspettare l’ora della sua morte per preoccuparsene. D’altronde constatiamo che le parole che pronuncia sulla croce non hanno come primo scopo l’affidamento di Maria a Giovanni, ma prima di tutto di affidare Giovanni a Maria. Maria è invitata a trattare Giovanni come suo figlio; di conseguenza è lei che riceve un nuovo incarico, quello di vegliare sui discepoli e dedicare ad essi una sollecitudine materna. Le parole rivolte a Giovanni: «Ecco tua madre» sono la conseguenza di questa nuova maternità; il discepolo prediletto dovrà rispondere all’affetto materno di Maria con affetto filiale.
L’evangelista ci fa riconoscere in ciò il compimento della missione salvatrice, poiché aggiunge che Gesù sapeva «che ogni cosa era stata ormai compiuta» (Gv 19,28). Con il dono di sua madre all’umanità, il Salvatore ha consumato l’opera che gli era stata affidata dal Padre. Si tratta di un dono che ha per obiettivo lo sviluppo della vita divina nel mondo. Ha una finalità universale: è così che discerniamo legittimamente, nella maternità nei confronti del discepolo, il segno di una maternità nei riguardi di ogni cristiano. Maria è costituita madre per la più larga diffusione di tutti i beni spirituali che Gesù merita con il suo sacrificio. Come afferma il Vaticano II, ella è diventata nostra madre nell’ordine della grazia.
Tuttavia, le parole pronunciate da Gesù esprimono solo una maternità individuale. Hanno implicitamente un valore universale nel senso che Giovanni rappresenta ogni discepolo. Ma è l’universalità di una maternità nei riguardi di ogni individuo. Gesù non ha fatto dichiarazioni su una maternità di Maria nei riguardi di tutta la comunità dei discepoli. Enunciando unicamente una maternità di ordine individuale, voleva sottolineare che Maria è madre di ogni discepolo come se fosse il suo solo figlio. L’enunciato di una maternità nei riguardi dell’insieme avrebbe potuto essere compreso nel senso di una maternità talmente generale o globale, che l’attenzione materna ad ogni persona sarebbe stata meno evidente o meno necessaria. Il Salvatore voleva istituire, al contrario, i più intimi rapporti tra madre e figlio, in cui ciascuno avrebbe avuto la certezza di ricevere tutto quello che l’amore materno di Maria poteva dare a ciascuno, a seconda dei suoi bisogni personali nell’ordine della grazia. Egli ha dunque dato alla maternità di Maria una forma in cui l’accento era posto sulle relazioni personali.
Questa finalità individuale non impedisce che le parole del Salvatore siano pronunciate in un orizzonte comunitario. Certi commentatori del testo evangelico hanno tentato di fondare questo orizzonte sulla persona di Giovanni, considerato come rappresentante della Chiesa. Sembra che nulla indichi tale rappresentatività, che sarebbe comprensibile di più nel caso di Pietro, roccia sulla quale la Chiesa doveva essere edificata e destinato ad essere proclamato presto pastore universale degli agnelli e delle pecore di Gesù. Ma non è stato Pietro, bensì Giovanni, ad essere scelto come figlio di Maria, e lo è stato più particolarmente come simbolo di relazioni personali di amore con Gesù.
L’orizzonte comunitario risulta piuttosto dall’orientamento dell’opera che Cristo consuma, donando sua madre al discepolo. Quest’opera ha essenzialmente uno scopo unificante. Non solo le promesse dell’antica alleanza l’avevano annunciato, ma Gesù stesso lo ha dichiarato. Egli si presenta come il buon pastore che offre la vita per le sue pecore (Gv 10,11); e perché non si pensi che questa offerta sia destinata a un gregge limitato, aggiunge: «Ho altre pecore che non sono di questo ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore» (Gv 10,16). È per la riunione di tutte le pecore in un solo gregge che Gesù offre la sua vita.
Durante l’ultima Cena, questa volontà di realizzare l’unità appare ancora più manifesta nella preghiera sacerdotale. Essa vi è espressamente menzionata con il motivo supremo che la giustifica: l’unità umana deve riflettere l’unità divina e in una certa maniera incorporarvisi: «Che tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi ha mandato» (Gv 17,21). Questa somiglianza con l’unità delle persone divine implica la ricerca della perfezione nell’unità della comunità umana: «Che siano perfetti nell’unità» (Gv 17,23). In precedenza Gesù aveva chiesto ai suoi discepoli, individualmente, di essere perfetti come il Padre loro celeste è perfetto (cfr Mt 5,48). Alla vigilia del suo sacrificio chiede al Padre di renderli perfetti nell’unità che li riunirà. Sarà un frutto essenziale dell’offerta della sua vita.
San Giovanni ha colto bene questa intenzione fondamentale del sacrificio redentore. Commentando l’affermazione di Caifa che era meglio che un uomo solo morisse per il popolo, vi riconosce una parola profetica; egli aggiunge che Gesù non doveva morire soltanto per la sua nazione, ma «anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi» (Gv 11,52). Dobbiamo trarne la conclusione che i discepoli hanno ben compreso, almeno dopo la morte del loro Maestro, l’importanza capitale che Gesù attribuiva all’unità, al punto di farne l’obiettivo del suo sacrificio.
Maria stessa non ignorava questa volontà riconciliatrice di Gesù. Associandosi al suo sacrificio, desiderava cooperare alla restaurazione dell’unione, all’edificazione di un regno ideale di unità. Con questa cooperazione materna al sacrificio della croce ha realmente contribuito all’instaurazione di questo Regno. Al Calvario è colei che con l’offerta di suo figlio collabora alla fondazione di una Chiesa che riunirà gli uomini nell’unità del Cristo.
Quando Maria accetta la sua nuova maternità, diventa a nuovo titolo madre dell’unità. È in una prospettiva fondamentale di riunione di tutte le pecore sotto un solo pastore che ella assume questo nuovo compito. Cristo l’ha voluta madre della Chiesa e nello stesso tempo madre di ogni discepolo. Nessuna delle due funzioni potrebbe essere adempiuta a scapito dell’altra. Maria dà tutto il suo affetto materno a ciascuno di quelli che le sono affidati come figli; ma nello stesso tempo conserva la preoccupazione di favorire l’accordo tra tutti e di rafforzare l’unità della Chiesa.
È importante osservare che la maternità ricevuta al Calvario è universale nella misura dell’universalità della stessa opera di salvezza. In questo senso, Maria non è soltanto madre di ogni discepolo che aderisce a Gesù mediante la fede, ma madre di ogni essere umano, in quanto ciascuno è chiamato ad accogliere la grazia di Cristo. In modo analogo, non è soltanto madre della Chiesa costituita attualmente sotto la sua forma visibile; ella è madre di quella che si potrebbe chiamare la Chiesa in divenire, la riunione progressiva degli uomini nella fede in Cristo. Il suo ruolo materno si estende a tutta l’umanità, coincidendo con l’universalità della diffusione della grazia. È dunque a buon diritto che la si deve chiamare madre dell’umanità e madre di tutti gli uomini.
Presenza terrestre nell’unità della Chiesa
L’ultima volta che Maria viene citata nel Nuovo Testamento, secondo la cronologia degli eventi della salvezza, è dopo l’Ascensione di Gesù, nella comunità che attende la Pentecoste. Questa presenza appare legata all’unità di questa comunità. In effetti, san Luca dice che tutti gli apostoli «erano assidui e concordi nella preghiera, con alcune donne e con Maria la madre di Gesù e con i fratelli di lui» (At 1,14). In questa assemblea vi è unanimità di sentimenti4. Essa contrasta con le dispute che così spesso avevano messo gli apostoli gli uni contro gli altri per sapere chi avrebbe occupato il primo posto nel Regno. Anche nell’ultima Cena vi era stata una discussione di questo genere. L’accordo unanime che si esprime in una preghiera comune si spiega prima di tutto con il sacrificio redentore di Cristo, che ha ottenuto per i suoi apostoli la grazia dell’unione. Ha per guardiano e garanzia la presenza di Maria. È la prima e la sola volta in cui Maria viene nominata in una riunione comunitaria con gli apostoli; ella non è estranea all’unanimità di cuore che caratterizza questa assemblea. Anche se Maria qui è chiamata semplicemente «madre di Gesù», appare come madre dell’unità nella prima comunità che alla Pentecoste sarà trasformata in Chiesa. La sua presenza materna nello sviluppo della Chiesa non cesserà più di essere un incoraggiamento all’unione.
La preghiera in cui si manifestava l’accordo dei sentimenti era soprattutto una supplica in vista della venuta dello Spirito Santo. Maria, che era più di tutti gli altri membri di quest’assemblea in intimo rapporto con lo Spirito Santo, desiderava ardentemente una venuta di cui ella aveva provato in maniera unica la fecondità. Ella aspirava più particolarmente a questa venuta per assicurare la perseveranza nell’unione. Certo, in questo primo momento di fervore in cui tutti volevano aprirsi allo Spirito Santo, la buona intesa era notevole. Ma Maria, che conosceva i discepoli, si rendeva conto che l’intesa rimaneva fragile, dal punto di vista umano, e che i motivi che avevano suscitato in precedenza le discussioni rischiavano di produrne altre. Pertanto implorava lo Spirito Santo di creare una durevole unità nella Chiesa, nell’attaccamento comune a Cristo. Solo una forza di amore soprannaturale, quella dello Spirito Santo, poteva mantenere i discepoli al di sopra delle tendenze naturali dell’ambizione personale, preservarli dalle rivalità e da ogni dissenso.
Dopo aver fatto l’esperienza dell’unanimità di cuore nell’assemblea in cui era stata presente, Maria non manca di contribuire al mantenimento di questa unanimità dopo la Pentecoste. Fu un’azione discreta ma certamente efficace. Con la nuova maternità che le era stata conferita, Maria si sentiva più responsabile dell’unione che regnava intorno a lei. Nella misura in cui intratteneva contatti con i discepoli e con tutti quelli che prendevano parte alla vita della prima Chiesa, ella esercitava un influsso nel senso di una reciproca comprensione. Si era sempre comportata da artefice della pace; dopo la Pentecoste aveva una ragione supplementare per svolgere un ruolo di conciliazione e di pacificazione, perché la Chiesa poteva svilupparsi solo nell’unità. Ella compì ogni sforzo quindi per avvicinare quelli che avrebbero avuto tendenza a opporsi gli uni agli altri.
Alla Pentecoste Maria ha ricevuto il dono dello Spirito per la missione che le era stata data da Gesù. Questo dono doveva portarla al compimento integrale della sua missione materna, per gli anni che le restavano da vivere nella sua esistenza terrestre. La rendeva capace di adempiere al ruolo di madre presso Giovanni e gli altri discepoli. Le ispirava tutte le iniziative possibili per rafforzare l’unione. La orientava più particolarmente verso una preghiera incessante per ottenere il mantenimento di un accordo unanime nella fede e nell’attaccamento a Gesù.
In questa preghiera per l’unità, l’esempio di Gesù era per Maria lo stimolo più potente. Ella non aveva assistito all’ultima Cena, né aveva udite personalmente le parole che Gesù vi aveva pronunciate. Ma, da quando abitava con Giovanni, aveva potuto avere in merito un’ampia informazione. Il discepolo prediletto le aveva raccontato come aveva vissuto quel momento unico, con tutto quello che Gesù aveva detto e fatto. Le aveva riferito l’istituzione dell’Eucaristia e le parole che ne spiegavano la portata. Le aveva ripetuto la grande preghiera sacerdotale come si era impressa nella sua memoria. Ora, in questa preghiera, l’implorazione per l’unità di tutti i discepoli, simile all’unità del Padre e del Figlio, aveva occupato un posto importante e aveva rivestito una forma particolarmente insistente. Giovanni, il discepolo più vicino a Gesù in questa circostanza, poteva meglio illuminare Maria sull’ardore con il quale il Maestro aveva pronunciato le parole: «Che tutti siano uno…».
Raccogliendo questo ricordo, Maria comprendeva con chiarezza che nella sua missione materna doveva assumersi questa supplica per l’unità. Gesù aveva dimostrato che l’unità è prima di tutto un dono concesso dal Padre e che deve formare oggetto di preghiera. Essendo sempre vissuta all’unisono con suo figlio, Maria ha dunque pregato, con tutto lo slancio della sua anima, per ottenere dal Padre l’unità della Chiesa.
Ella rimane per i cristiani un modello della preghiera per l’unità. La preoccupazione ecumenica, che si è manifestata con molto più vigore in questo secolo, ha fatto comprendere meglio il valore della preghiera per l’unione dei cristiani. Da una parte vi è una presa di coscienza dell’ideale di unità e dello scandalo costituito dalle divisioni tra Chiese separate; d’altra parte vi è la constatazione di estreme difficoltà sulla via della riunione. Davanti agli ostacoli s’impone più chiaramente la necessità della preghiera. Pur moltiplicando i contatti per superare i motivi di disaccordo, le Chiese si rendono conto che solo l’onnipotenza divina, alla quale nulla è impossibile, può aprire il cammino della riconciliazione, che dev’essere sollecitata da ardenti suppliche.
Durante la sua esistenza terrestre, Maria non ha conosciuto una situazione paragonabile a quella dell’ecumenismo contemporaneo, con cristiani così profondamente separati, raggruppati in Chiese che rivendicano la propria indipendenza e dove il contenuto della fede forma spesso l’oggetto di interpretazioni molto divergenti. Ella ha vissuto semplicemente la prima situazione ideale dell’unanimità di cuore, che è stata consacrata dalla Pentecoste; poi ha conosciuto diversi conflitti che hanno minacciato di rompere questa unità. Ella non ha mancato di discernere tutto quello che poteva compromettere l’unione voluta da Gesù; non ha cessato di pregare perché tutte le forze dissolventi potessero essere contenute e perché l’unione trionfasse su tutte le difficoltà.
È con una preghiera dello stesso genere che Maria intercede per la Chiesa odierna. Non si tratta soltanto di pregare per gli obiettivi propri all’ecumenismo, ossia per la riunione dei fratelli separati. La preghiera di Maria tendeva a ottenere la realizzazione di tutti gli aspetti dell’unità ecclesiale, specialmente mediante rapporti fraterni tra tutti i credenti e con il desiderio di evitare il più possibile la minima lacerazione in questa unità. I cristiani sono invitati a condividere questa preghiera, chiedendo che la Chiesa progredisca costantemente nell’unione tramite una carità sempre più sincera, vittoriosa su tutte le passioni contrarie.
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L’azione celeste per l’unità
Entrando nella gloria celeste, Maria ha visto allargarsi indefinitamente il suo influsso sull’unità della Chiesa. Per tutto il tempo che ha vissuto sulla terra doveva limitare la sua azione materna alle persone con le quali era in contatto. Se aveva potuto conoscere tutti quelli che appartenevano alla comunità riunita per la Pentecoste, in seguito non aveva potuto entrare in contatto con quelli che, in gran numero, si erano convertiti alla nuova fede e si erano fatti battezzare. Aveva semplicemente prodigato il suo affetto materno e la sua assistenza spirituale a coloro che l’avvicinavano.
Una volta assunta in cielo, Maria può esercitare, senza alcuna restrizione, il suo compito di madre. Può seguire con lo sguardo tutti quelli che entrano nella Chiesa, aiutandoli in ogni momento. La condizione celeste le permette di dominare lo spazio e il tempo, di conoscere tutte le situazioni e d’intervenire ovunque lo desideri. La rende atta a portare nella sua preghiera a Cristo tutte le sue preoccupazioni per ciascuno di quelli che ama come propri figli.
Pur accompagnando ciascuno in tutte le circostanze della sua vita, Maria abbraccia anche con lo sguardo l’insieme della Chiesa, con tutti i problemi comunitari che in essa si pongono. Per il fatto che la sua maternità individuale nei riguardi di ciascun cristiano s’inserisce in una maternità universale, ella si china su ciascuno, tenendo conto dei bisogni della comunità. Questo spiega perché tutta la sua azione è quella di «Madre dell’unità». Questo titolo le è stato applicato da sant’Agostino, il quale voleva sottolineare che la Chiesa, a immagine di Maria, è madre dell’unità in mezzo alla moltitudine degli uomini5.
La Chiesa è madre dell’unità perché tende a riunire gli uomini nell’unica vita di Cristo. Maria è madre di questa unità in maniera più reale e più concreta perché è una persona e perché ha un cuore materno. Nel suo affetto materno vuole assicurare l’unione di tutti quelli che ama. Una madre tende spontaneamente a favorire l’unione dei suoi figli. Le loro dispute produrrebbero una lacerazione nel suo cuore materno. Ella non può schierarsi per l’uno contro l’altro, perché ama tutti e il suo amore vuole tenerli uniti. In questo senso ogni madre è madre dell’unità.
Nel caso di Maria, è essenzialmente a un livello soprannaturale che agisce come madre dell’unità, poiché è «madre nell’ordine della grazia» (LG, n. 61). Questo livello superiore della grazia non toglie nulla alla spontaneità con la quale agisce per salvaguardare l’unità. Questa spontaneità materna è piuttosto rafforzata dal profondo orientamento della grazia, che tende a sviluppare la carità e ad avvicinare tra di loro i membri del Corpo Mistico di Cristo. Colei che nella sua vita terrestre ha ricevuto la pienezza della grazia e che nel suo stato celeste gode della pienezza della gloria, è interamente presa dal desiderio di riunire sempre più i suoi figli in un’unità di fede e di amore.
Ci si potrebbe chiedere perché Cristo abbia voluto per Maria questo ruolo di madre dell’unità. Nella dottrina di Gesù, nei suoi precetti di carità, nella vita di amore comunicata dalla grazia e in particolare dall’Eucaristia, non vi erano già abbastanza stimoli per perseguire l’obiettivo dell’unità? In effetti il Maestro ha voluto una madre dell’unità per lo stesso motivo che voleva una madre della Chiesa, una madre dei cristiani nell’ordine della grazia. Egli desiderava che una presenza materna incoraggiasse i suoi discepoli alla buona intesa, e che questa presenza fosse la più commovente immagine dell’amore del Padre verso l’umanità. Gli uomini provano spesso difficoltà a riconoscere la bontà e la tenerezza del Padre; sono più sensibili alla presenza di un volto materno e, attraverso questo, possono più facilmente vedere il volto del Padre.
Come madre dell’unità, Maria è destinata a esprimere nella sua condotta l’amore del Padre che vuole riunire tutti gli uomini. La missione di rappresentare il Padre contribuisce a porre in evidenza l’importanza essenziale del ruolo di Maria. Non è una funzione marginale; l’attività materna rivela il disegno divino che guida l’opera della salvezza, l’intenzione del Padre di riunire tutti gli esseri umani come suoi figli nel suo Figlio unico. Tutta la profondità dell’amore che regge i rapporti di Dio con l’umanità tende ad apparire attraverso la sollecitudine di Maria per l’unità della Chiesa.
Come espressione del disegno del Padre, la missione materna di Maria assume più chiaramente tutta la sua ampiezza. Il Padre desidera riunire l’umanità intera nel suo amore. Il cuore materno di Maria è animato dalla stessa intenzione universale. Certo, Maria è madre, a un titolo più speciale, di tutti coloro che aderiscono a Cristo mediante la fede. Ma ella si sente ugualmente la madre di tutti coloro che sono chiamati ad accogliere la grazia di Cristo sotto forme più velate, più implicite; in questo senso la sua maternità assume la più vasta universalità. Da questo punto di vista, Maria è madre della riunione segreta che si effettua nel profondo dei cuori umani, anche dove questa riunione non prende la forma visibile dell’appartenenza alla Chiesa. Ella si dedica dunque a favorire l’intesa tra tutti gli uomini, quali che siano. Certi segni di quest’azione in favore di una unità più vasta appaiono quando, per esempio, il culto di Maria attira sia cristiani sia musulmani.
Nell’ecumenismo è noto che il fervore del culto mariano è un elemento essenziale di avvicinamento tra ortodossi e cattolici. Se nella loro grande maggioranza i protestanti si sono allontanati da questo culto, si nota nondimeno che alcuni, recentemente, hanno riscoperto la Vergine Maria e con ciò un anello di congiunzione con i cristiani che la venerano6. Nella Chiesa cattolica, in cui l’unità istituzionale è più vigorosa, Maria fa in modo che a questa unità corrisponda sempre più un’unanimità di cuori simile a quella che aveva caratterizzato la comunità primitiva. Un tale amore, interamente sostenuto dalla grazia, non può essere che efficace, anche se le meraviglie che esso produce rimangono nell’ombra.
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1Gn 11,1-9. Nel suo commento al racconto della torre di Babele, C. Westermann osserva che l’avvenimento della Pentecoste testimonia che i limiti delle lingue sono stati superati: «Li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio» (At 2,11)(Genesis 1-11, vol. I, Neukirchen-Vluyn 1974, 740). Il racconto della torre di Babele si comprende alla luce del complemento che gli dona l’universalismo instaurato da Cristo.
2I. DE LA POTTERIE, Kecharitômenè en Lc 1,28. Etude exégétique et théologique, in Biblica 68 (1986) 480-508: «Kecharitômenè non descrive semplicemente la santità di Maria (era l’esegesi della Tradizione), ma il suo profondo desiderio della verginità, un desiderio di appartenere a Dio, che le era stato ispirato dalla grazia di Dio, per prepararla appunto a una maternità verginale» (507).
3Sul valore messianico della dichiarazione. cfr J. GALOT, Marie dans l’Evangile, Desclée-De Brouwer, Paris – Bruges 1965, 179-189.
4 Il v. 14 «ha il carattere di un sommario che offre la descrizione di una situazione ideale», osserva G. SCHNEIDER, Die Apostelgeschichte, vol. I, Herder, Freiburg – Basel – Wien 1980, 207.
5Cfr S. AGOSTINO, Sermo 192,2 (PL 38, 1012-1013).
6 Sulla situazione ecumenica della mariologia cfr J. GALOT, Maria. la donna nell’opera di salvezza, PUG, Roma, 1984, 379-415; S. DE FIORES, Maria nella teologia contemporanea, Mater Ecclesiae, Roma 1987, 230-255.
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La signora del lago
Sullo scrittore e sceneggiatore anglo-americano Raymond Chandler (1888-1959), sulla sua carriera letteraria e con i registi di Hollywood che hanno tratto film da quasi tutti i suoi libri e, soprattutto, sul suo proto-detective hard-boiled, Philip Marlowe, sono state scritte montagne di saggi. Per buone ragioni, essendo stato, quello dell’A. – non meno del coevo Dashiell Hammett e del suo Sam Spade –, il contributo alla cultura americana di un intero universo immaginifico, un’influenza travalicante i generi del giallo e del crimine che continua ancora oggi.
La «signora del lago» del titolo svela quel tanto della trama che, per quanto è famoso il romanzo, ancora obbliga a pochi accenni. Marlowe viene assunto per trovare, appunto, una donna scomparsa, la moglie del suo cliente. A quanto pare, lei è fuggita in Messico con un bellimbusto di nome Chris Lavery, sulle cui tracce il detective si getta, ma che, al secondo incontro, trova morto ammazzato. Niente, naturalmente è come appare, e la pista iniziale porterà Marlowe da una grigia Los Angeles, che degli angeli eponimi ha ormai perso ogni battito d’ali, ai raccapriccianti accadimenti nei pressi di un remoto lago di montagna.
La prima persona di Marlowe sulla pagina è la soggettiva della macchina da presa, il film che si dipana nella nostra mente durante la lettura. In scena, troviamo la materialità greve delle cose, i portacenere stracolmi, l’alcool consumato a fiumi, i corpi impacciati da doppiopetti e fondine, le auto che sono direttrici fluide di ogni spostamento in una geografia reale appena dissimulata nei nomi dei luoghi. E non solo torbide vicende, la triade di sesso, denaro e potere, ma anche – come sempre in California, e ancora oggi – la contiguità di una natura selvatica, ostica e non meno protagonista chandleriana di quanto lo siano i paesaggi urbani: «Abbiamo raggiunto il lungo declivio a sud di San Dimas che, dopo la cresta, scende verso Pomona. Lì si è all’estremo confine della fascia nebbiosa, dove comincia quell’area semidesertica in cui al mattino il sole è lieve e secco come sherry invecchiato, a mezzogiorno è rovente come una fornace e la sera crolla come un mattone scagliato con rabbia» (p. 253).
Marlowe è, in fondo, un campione di sprezzatura: non è solo l’epitome dell’antieroe, ma un modello di maschio assai poco viriloide, quindi attualissimo, anche nella temperie culturale attuale. Forse l’unico americano a non portare armi, dubbioso («Magari va sempre così. Non è da molto che faccio questo mestiere», p. 126), egli opera spesso nel sottobosco ambiguo e anche un po’ sordido – tra il disprezzo dei poliziotti in uniforme e la loro disinvolta corruzione – delle indagini private; mette testa e inesorabile acume investigativo dove la tentazione altrui è invece quella di mettere rapidamente mano alla pistola. Ha a che fare con clienti che hanno molto da nascondere e da temere, bravacci, disperati, femmes fatales elusive e pericolose. Disarmato sempre, Marlowe, mai imbelle.
Non c’è vizio o nefandezza di cui il detective non porti cicatrice e da cui non abbia ricavato lezione. Egli conosce bene il legno storto dell’umanità, è naufrago con i naufraghi, si accompagna per mestiere e per destino a quelli di cui Thomas Elliott scriveva, most men live lives of quiet desperation. Ma lui non è affatto cinico o disperato, è piuttosto un romantico: dalla comprensione della natura umana emerge empatia, una complicità tra sommersi in un mondo in cui di salvati non è rimasta traccia.
L’icasticità proverbiale della scrittura di Chandler rivela la sua forza nella madre di tutte le scene, l’affiorare del cadavere della donna: «Ho visto della lana, fradicia e nera, un gilè di pelle più nero dell’inchiostro, dei pantaloni larghi […]. Ho visto un’onda di capelli biondo scuro che si spargevano nell’acqua e rimanevano per un attimo immobili, come in posa, per poi roteare e avvilupparsi di nuovo. […] E poi è stata la volta della faccia. Una massa bianco-grigiastra gonfia e senza forma, senza tratti riconoscibili, senza occhi, senza bocca. Un grumo di pasta grigia, un incubo con capelli umani» (p. 58).
In un mondo simile, la domanda del torvo poliziotto a Marlowe svela una dolente filosofia di vita: «“Fratello, come hai fatto a sopravvivere tanto a lungo?”. “Evitando di abboccare a troppi ami e di farmi spaventare troppo da certi duri di professione”» (p. 255).
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Dentro il Conclave
Mercoledì 7 maggio inizierà un nuovo conclave, l’antica istituzione della Chiesa nata quasi mille anni fa per garantire la libertà dei cardinali-elettori da ogni ingerenza esterna nella scelta del Papa. Dopo la Messa pro eligendo Pontifice, che sarà celebrata al mattino e presieduta dal cardinale Giovanni Battista Re, e i giuramenti del primo pomeriggio, si rinnoverà una tradizione che — come scriveva Giovanni Sale su La Civiltà Cattolica nel 2013 — si fonda su «segretezza, libertà e sollecitudine per la Chiesa».
Il termine conclave, che significa «luogo chiuso», designa l’assemblea dei cardinali riuniti per eleggere il nuovo Pontefice.
Sorprende che l’istituzione del Conclave sia sopravvissuta, quasi inalterata nei suoi tratti principali, all’usura del tempo e soprattutto ai frequenti sconvolgimenti della storia moderna. Nel XX secolo il conclave ha assunto una caratterizzazione ancora più marcata nei suoi elementi più antichi, come quello della «segregazione» e della «segretezza».
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Nel primo millennio del cristianesimo il vescovo di Roma era eletto «dal clero e dal popolo romano». Tuttavia, con l’aumentare del prestigio e del potere del Papato, questa forma di elezione si prestò a essere sfruttata dai potentati locali per imporre uomini a essi favorevoli. Furono gli imperatori tedeschi, in particolare gli Ottoni, a sottrarre l’elezione del Papa ai giochi di potere dei diversi partiti romani, richiedendo come condizione di validità dell’elezione del nuovo Pontefice la «conferma» dell’eletto da parte dell’imperatore.
Fu il papa riformatore Nicolò II a fissare, nel 1059 con il decreto In nomine Domini, una nuova procedura per l’elezione del Pontefice. Egli stabilì che tale compito spettasse soltanto ai cardinali, quali «parte del mantello» del Papa, suoi «senatori» e collaboratori nel governo della Chiesa universale, nonché, secondo la teologia del tempo, eredi e continuatori degli Apostoli.
La costituzione Ubi periculum del 1274, promulgata da Gregorio X durante il II Concilio di Lione, fissò le regole sulla nuova disciplina conclavista. Si affermò il principio che il potere di eleggere il Papa spetta esclusivamente ai cardinali; si impose come sede naturale per l’elezione il luogo in cui il Papa è morto; si fissò un limite massimo (10 giorni) per celebrare il lutto per il Pontefice defunto e dare inizio al «conclave». Tale parola, che presto indicherà l’intero procedimento elettivo, appare per la prima volta espressa in questo importante documento pontificio.
A partire da quel momento, l’elemento della segregazione, insieme a quello della segretezza, ha rappresentato il cardine del procedimento di elezione del vescovo di Roma. Il divieto di comunicare con l’esterno era nato per costringere gli elettori «a fare in fretta», per non lasciare a lungo la Chiesa senza il suo capo, e anche per evitare il pericolo che i cardinali approfittassero della sede vacante per cumulare benefici.
In età contemporanea, invece, il segreto ha lo scopo principale di assicurare la piena libertà dei cardinali-elettori nell’esercizio della loro funzione; per cui essi, entrando in conclave, non soltanto vengono «separati» dal mondo esterno — in modo che le grandi potenze cattoliche e non cattoliche non attentino alla libertà dell’elezione (sebbene ad esse fosse riservato un generico potere di veto) —, ma si impegnano con giuramento a non rivelare nulla di quanto accade in sede elettorale.
La disciplina sulla segretezza del conclave fu resa più severa da Pio X nella costituzione Vacante sede apostolica del 1904; in particolare si fece divieto ai cardinali, sotto pena di scomunica, di farsi latori in sede di conclave di istanze provenienti dal potere secolare. In quell’occasione, l’arcivescovo di Cracovia, card. Jan Puzyna, aveva portato in conclave il veto dell’imperatore d’Austria nei confronti del cardinale Mariano Rampolla del Tindaro, ritenuto eccessivamente filofrancese e quindi non gradito alla corte asburgica.
Ad ogni modo, le nuove riforme sul conclave operate dai Papi del secolo scorso hanno contribuito a conferire un’aura di sacralità all’elezione del Papa, cosicché il «segreto», come indicato nelle nuove costituzioni apostoliche, in realtà espone i cardinali elettori alla curiosità, troppo spesso invadente e imbarazzante, dei media, che nel contesto odierno potrebbero perfino attentare alla libertà dell’elezione. Caso emblematico è quello che si è verificato nel conclave del 1978 dopo la morte di Paolo VI, quando un giornale pubblicò, prima che i cardinali entrassero nel segreto della Cappella Sistina, un’intervista rilasciata giorni prima dal cardinale Giuseppe Siri (e che avrebbe dovuto essere pubblicata soltanto a conclave avviato), che compromise i consensi raccolti intorno all’arcivescovo di Genova.
La segregazione in conclave e la segretezza sono elementi che ci giungono dalla tradizione, e anche oggi si rivelano utili e irrinunciabili per assicurare la libertà dell’elezione del Papa.
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Intelligenza sensibile
Questo libro di Carlo Rinaldi, ingegnere e musicista con l’orecchio assoluto, invita l’uomo moderno a fermarsi, a leggersi dentro e a focalizzare la propria consapevolezza sul ruolo chiave che hanno ancora oggi le emozioni. L’A. si mette in discussione in prima persona ed entra in dialogo con un caleidoscopio di voci, di cuori e di anime che viaggiano in sintonia come in un’orchestra e nel loro agire danno valore alle antenne della propria sensibilità: Mario Calabresi, Andrea Pezzi, Marina Salamon, Pietro Trabucchi e molti altri.
Nella frenesia del vivere in cui siamo immersi, spesso non ci accorgiamo del miracolo che accade e si ripete in modo straordinario allorquando ci mettiamo in relazione con il mondo. L’intelligenza sensibile, la naturale evoluzione di quella «intelligenza emotiva» teorizzata da Daniel Goleman nel 1995, ci guida in questo affascinante processo, che sfugge alla nostra razionalità: «Possiamo progettare un algoritmo, prevedere ogni possibile interazione logica, ma non possiamo progettare l’amore né possiamo prevedere quegli incontri che ci cambiano l’esistenza» (p. 11).
La nostra vita in fondo non è una macchina perfetta e non possiamo sempre controllare o prevedere tutto, ma abbiamo due molle vitali che ci muovono: la curiosità e l’empatia, la risonanza verso il mondo. La curiosità, in particolare, ci apre alla conoscenza, che si genera grazie all’incontro con l’altro e spalanca il nostro sguardo, come sottolinea il monaco camaldolese Claudio Ubaldo Cortoni: «L’Alterità passa sempre attraverso una relazione. Non può esistere Dio se non esistono le relazioni. Ecco, io parto da questo presupposto: l’Alterità compare sempre e solo quando noi conosciamo le relazioni che ci sono nel mondo. Sono loro a dirci che c’è stato un qualcuno prima di noi che ha amato, qualcuno che ha preceduto il nostro amore» (p. 29).
La risonanza è un’epifania dell’infinito, che si rivela quando si entra in connessione con gli altri, ascoltando e vivendo pienamente il momento presente. Il rapporto con il prossimo colora di luce la nostra esistenza, è centrale nella nostra vita, e la sensibilità ci fa sentire parte di un disegno più grande: è un dono da coltivare come la risorsa più preziosa per creare connessioni. L’intelligenza artificiale, al contrario, presenta dei limiti, perché non possiede la sensibilità né è programmata per provare emozioni. Al di là delle etichette che la società ci impone, «la sensibilità è ciò che ci rende veramente umani, ci connette agli altri e ci ricorda che siamo parte di un tutto» (p. 95). La corrispondenza e la connessione emotiva che si innesca quando si entra in relazione con gli altri emanano una luce e un’armonia nuove, come due note musicali che, suonate insieme, generano una sinfonia inedita, che non è semplicemente frutto della loro somma, ma è un miracolo creativo unico e irripetibile.
L’intelligenza sensibile è un’intelligenza più profonda e si dipana in un percorso che si esprime in tre fasi: 1) essere sulla stessa frequenza; 2) generare energia e spazio per accogliere l’altro; 3) riuscire a creare connessioni, relazioni magari complicate, ma pur sempre belle, perché l’uomo è un animale sociale di aristotelica memoria. Nella società della performance, la vera linfa che ci nutrirà sarà l’intensità dei legami umani che sapremo costruire, àncora potente per sostenersi lungo il cammino della vita. La tecnologia e l’intelligenza artificiale sono solo strumenti che possono rivelarsi utili, ma potenzialmente pericolosi, e vanno gestiti con la giusta consapevolezza, sviluppando un pensiero critico che alimenti in noi la curiosità per porre le domande di senso, con fiducia nel futuro e responsabilità.
«Ciò che conta è come utilizziamo queste sfide tecnologiche per riflettere su noi stessi, sul nostro posto nel mondo e su come possiamo contribuire al benessere collettivo. La vera sfida è riscoprire e riaffermare l’importanza della nostra umanità, quella sensibilità unica che, una volta messa in risonanza con l’altro, può trasformare non solo i rapporti, ma l’intera esistenza. In fondo, la sensibilità trasformativa è l’invito a smettere di essere spettatori passivi per diventare protagonisti attivi della nostra realtà, in un continuo dialogo tra le nostre esperienze e quelle degli altri» (p. 105).
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Maria
Se c’è un volto che tocca le corde più intime del cuore umano è senz’altro quello di Maria di Nazaret. Questo volume, commentato da Daniela Del Gaudio, docente di ecclesiologia e membro dell’Accademia mariana, ci introduce nel mistero di Maria, affinché «possiamo scorgere il suo ruolo nel progetto salvifico e l’importanza nel culto della vita cristiana» (p. 5). Attraverso gli interventi di papa Francesco possiamo comprendere chi è Maria, quale ruolo ha nella vita di ogni cristiano, quale mistero avvolge la sua vocazione, cosa la rende maestra di fede, di speranza, di carità e «donna che apre sentieri».
Il libro, costituito da cinque parti, rivela la figura di Maria in modo fluido e molteplice: icona femminile per eccellenza, paradigma antropologico, donna fuori dall’ordinario, sposa dello Spirito Santo, maestra di fede, donna della feconda pienezza, Vergine dell’ascolto, Vergine orante nel Cenacolo e Vergine offerente sotto la croce.
Nella prima parte, il «sì» di Maria irrompe nella storia in maniera luminosa. Il suo è un «sì» senza clamori e senza ostentazione, perché «riceve tutto da Dio con umiltà. Non si autocompiace, non si esalta. È libera da sé stessa, tutta rivolta a Dio e agli altri» (p. 72). Maria accoglie con gioia la vocazione che Dio le propone e partecipa attivamente al disegno salvifico. Mostra una personalità decisa e matura che crede a una cosa impossibile: concepire un figlio senza concorso d’uomo. E questo la rende madre del Verbo incarnato, theotokos. Si stabilisce così una relazione unica con il Padre, per cui Maria diviene figlia prediletta, perché madre del Figlio.
Nella seconda parte, Maria, maestra di speranza, è «l’immagine dell’inizio della fede che dovrà avere il suo compimento nell’età futura» (p. 83). È la donna del silenzio fecondo, dell’attesa virtuosa. Ci insegna che, nell’arte della missione e della speranza, non sono necessarie tante parole né programmi, ma soltanto camminare e cantare. Maria è una ragazza libera, non sottomessa al patriarcato. Ricevuto l’annuncio, parte per visitare Elisabetta; non consulta né il padre, né il marito, come sarebbe stato doveroso fare per un viaggio. Ed è nell’incontro con la cugina che intona l’inno di ringraziamento a Dio, il Magnificat. L’incontro con Elisabetta diviene così l’occasione per riconoscere che la «vita può sopravvivere solo grazie alla generosità di un’altra vita» (p. 106).
Nella terza parte del libro, Maria viene vista come modello della carità gioiosa, testimone della tenerezza, custode intima di Dio: «Dal suo grembo imparò ad ascoltare il battito del cuore del suo Figlio e questo le insegnò il palpitare di Dio nella storia» (p. 113). Gesù esisteva già con il Padre, poi ha assunto la natura umana; allora Maria è diventata sua madre. Gesù ha Dio come padre della natura divina, e Maria come madre della natura umana.
Nella quarta parte, Maria viene presentata come la donna che apre sentieri, perché ci insegna a percorrere le vie del Signore. È capace di allargare gli orizzonti della nostra vita e di indirizzarci a sentieri mai immaginati o pensati. Il suo canto invita ad avere memoria del passato, coraggio nel presente e speranza nel futuro.
L’ultima parte è una bella raccolta di preghiere. «Francesco ci offre la parte più intima della sua devozione mariana. Attraverso la preghiera ci guida alla scoperta dello scopo di Maria nel mondo come madre, sorella e compagna di cammino, come donna che apre sentieri» (p. 35). Maria in cielo intercede per noi; sulla terra ci accompagna e insegna la strada della piena conformazione a Cristo.
In questo libro ci viene presentata, con uno stile chiaro e semplice, l’essenza dell’esperienza umana e spirituale di Maria.
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Nelle tasche degli italiani
Gli ultimi due decenni del XX secolo e i primi tre del XXI hanno scandito e stanno scandendo l’inesorabile, progressiva crescita del debito pubblico italiano: un fenomeno che si pone come un macigno sul percorso di sviluppo del Paese e lo caratterizza in negativo nei confronti internazionali con le economie degli altri principali competitors europei e del mondo intero. Ma cos’è esattamente il debito pubblico, come e quando si è andato formando nel corso della storia economica italiana, cosa si può fare per riposizionare correttamente la nostra economia, liberandola gradualmente da una zavorra così ingombrante?
Sono questi i principali interrogativi a cui prova a rispondere, con chiarezza concettuale e con l’utilizzo di uno stile agile, questo libro, scritto da Giorgio Di Giorgio, professore di Teoria e Politica economica presso l’Università Luiss Guido Carli di Roma; Alessandro Pandimiglio, associato di Economia politica presso l’Università Gabriele D’Annunzio di Chieti – Pescara; e Guido Traficante, associato di Politica economica presso il già citato Ateneo romano.
Il libro, esito di un’iniziativa promossa nell’ambito di un progetto sul debito pubblico avviato dalla Fondazione Ave Verum, costituita da Michele Rinaldi, imprenditore attivo nel settore assicurativo, offre al lettore una ricostruzione di questo fenomeno, articolata in quattro parti.
La prima parte si concentra sulle definizioni e sulle implicazioni teoriche che caratterizzano il tema del debito pubblico, con considerazioni utili a facilitarne la comprensione da parte del lettore.
Segue, nella seconda parte, una ricostruzione storica, che va dal momento dell’unificazione dell’Italia nel 1861, per giungere ai giorni nostri, in un contesto allargato al più ampio scenario internazionale. Vengono così individuati i momenti salienti della crescita del debito pubblico del nostro Paese e, in particolare, quelli in cui si sono registrate le sue impennate più significative.
Molto utili risultano le pagine della terza parte, dedicate a smontare alcuni miti legati al debito pubblico, alcuni dei quali ispirati a una superficiale e mal intesa interpretazione del pensiero keynesiano in tema di efficacia della spesa pubblica. Significativo risulta l’esempio di quanto avvenuto nello scorso decennio in Grecia, con un debito pubblico andato fuori controllo e un conseguente conto, particolarmente salato, fatto pagare all’intera collettività di quel Paese.
Nella quarta parte si illustrano le modalità con cui porre sotto controllo la crescita del debito pubblico per avviare un percorso di graduale riduzione. Indicazioni di aggiustamento, che possono essere integrate con i suggerimenti preziosi al riguardo – accolti in una delle due appendici del libro –, formulati da sei autorevoli economisti: Lilia Cavallari, Elsa Fornero, Giampaolo Galli, Stefano Micossi, Gustavo Piga e Paola Profeta.
Nell’altra appendice, viene presentata la formalizzazione matematica dell’identità relativa al rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo, con i successivi passaggi utili a individuarne le condizioni di sostenibilità nel medio-lungo periodo.
In definitiva, nonostante la tecnicità dell’argomento trattato, questo libro sembra cogliere l’obiettivo di diffondere presso un pubblico ampio la conoscenza e le possibili soluzioni di un problema che, toccando, oltre che le condizioni economiche, la qualità della vita, ci riguarda tutti molto più da vicino di quanto comunemente si è portati a pensare.
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La rivoluzione ungherese e l’imperialismo totalitario
Meticolosamente curato da Simona Forti e Gabriele Parrino – che lo hanno inoltre corredato di due pregevoli saggi introduttivi –, questo testo vide la luce nel 1958: erano trascorsi due anni, dunque, da quando la rivoluzione ungherese era stata repressa dall’intervento dell’Armata Rossa. Finalmente pubblicato nella sua versione integrale anche in italiano, è un contributo che si caratterizza per la lucidità dell’argomentazione e la complessità dell’analisi.
Hannah Arendt pone anzitutto in rilievo come l’Ungheria abbia vissuto sotto il tallone del totalitarismo sovietico per 12 lunghi anni e si sia poi ribellata, nell’autunno del 1956, per 12 giorni: un lasso di tempo estremamente breve, ma che ha consentito ai rivoltosi magiari di scrivere una pagina di storia.
Si è trattato di una rivoluzione capace di cogliere tutti di sorpresa: un movimento spontaneo, privo sia di organizzazione sia di leadership, animato solo dal desiderio di libertà, che ha avuto la forza di mettere in discussione l’impossibilità di ribellarsi contro la gigantesca macchina repressiva allestita dall’Urss. È stato inoltre un avvenimento del tutto inatteso – data la struttura pienamente totalitaria del Paese che governava «imperialisticamente» il satellite ungherese –, dal quale non ha avuto origine alcuna guerra civile, né tantomeno una situazione caotica o vicina all’anarchia: l’esercito si è disintegrato nel giro di poche ore, e il governo in pochi giorni; non ci sono stati saccheggi, né sono state violate le leggi sulla proprietà.
Vi è stata invece la nascita dei consigli rivoluzionari, che, tuttavia, sono stati immediatamente soppressi per volontà dell’occupante sovietico. Scrive al riguardo l’A.: «Nel corso degli ultimi cento anni, queste organizzazioni sono emerse con una regolarità storicamente senza precedenti ogni qual volta il popolo ha avuto l’occasione, per alcuni giorni, settimane o mesi, di seguire le proprie predilezioni politiche senza venire imboccato da un partito o pilotato da un governo» (p. 61). Dall’Ungheria libera, in seguito, sarebbero giunte queste ultime parole, lanciate nell’etere da Radio Kossuth: «Oggi tocca a noi, domani o dopodomani sarà un altro paese, perché l’imperialismo di Mosca non conosce limiti e sta solo cercando di prendere tempo» (p. 79).
Ma cosa intende per «rivoluzione» la filosofa? È stato, a suo parere, il manifestarsi di una democrazia radicale capace di inceppare gli automatismi di una dominazione che, pur nascondendosi dietro la maschera del comunismo, si era ormai fatta sistematica e consolidata. Le richieste degli insorti ungheresi provocarono la prima, vera frattura nell’ambito del totalitarismo sovietico, dal momento che essi contrapposero a una concezione del potere visto come comando, impedimento e limitazione una diversa idea, secondo la quale esso – privo di violenza, ma non di conflittualità – si genera nell’incontro agonale tra esseri umani che ha luogo in uno spazio pubblico.
Altrettanto centrale poi, nel saggio redatto dalla studiosa, è la sua indagine relativa alla «natura dell’imperialismo totalitario», che riveste, a suo avviso, carattere politico e ideologico. Anche se connotato dalla straordinaria flessibilità dell’apparato istituzionale che gli consente di spostare agevolmente il centro del potere, dalla tendenza all’equiparazione delle condizioni materiali tra centro e periferia, dall’esistenza della rete dei Paesi satelliti, che può essere considerata la risposta sovietica al sistema americano delle alleanze, tale imperialismo appare instabile in sé, come è sembrato evidente a causa della coincidenza tra la crisi della successione e un’espansione che non è mai stata realizzata compiutamente. Malgrado le previsioni della studiosa, però, il blocco sovietico – anche se soggetto a crisi ricorrenti – non sarebbe imploso prima di altri tre decenni.
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Dopo Kant, oltre il problematicismo
Il libro di Leonardo Messinese si apre con un Prologo dal titolo «Filosofia contemporanea e metafisica». Dalle prime pagine, infatti, ci troviamo di fronte ai temi centrali che l’A. intende trattare: la filosofia contemporanea, il problematicismo, la metafisica. Mettendo insieme tali temi, bisognerà provare a pensare una «configurazione nuova di uno stile precedente». Questo vuol dire, da un lato, ripensare il pensiero italiano del Novecento e, dall’altro, lasciare emergere in maniera dialettica la duplice tendenza che l’A. presenta in questo contesto: quella problematicista, «dominante nella contemporaneità filosofica» (p. 12), e quella che, d’altra parte, affiora quale soluzione del problema, ossia il sapere metafisico.
In questo modo il libro si propone come una ricostruzione del percorso filosofico novecentesco italiano mediante una sorta di «racconto speculativo», che intende valorizzare in particolare due figure di rilievo del Novecento italiano: Gustavo Bontadini ed Emanuele Severino, il maestro e il suo allievo.
Il volume è suddiviso in cinque parti. Nella prima, possiamo osservare una disamina del rapporto tra metafisica e filosofia; più precisamente, tra metafisica classica, intesa come epistēmē, e filosofia. Quest’ultima è qui rappresentata, per così dire, nella sua eccedenza rispetto alla stessa epistēmē.
Assumendo la prospettiva di Bontadini – Messinese in questa prima parte utilizza come filo conduttore della narrazione uno scritto del 1950, dal titolo La mia prospettiva filosofica –, l’analisi si sofferma sulla filosofia moderna, sul valore che da essa può emergere e sulla capacità di reinterpretarla come compito e sfida, per restituire al sapere filosofico un significato forte e valorizzarne il senso logico e inferenziale. Questa riflessione riesce a intercettare esattamente l’insoddisfazione di un pensiero che ha rinunciato alla sua più profonda vocazione, quella di indagare l’essenza dell’essere.
D’altro canto, il problematicismo, osserva l’A., non costituisce semplicemente un modo generale della filosofia contemporanea, ma anche, per così dire, un modo particolare che segue quei filosofi che hanno teorizzato questa peculiare «figura» (p. 126). Alcuni pensatori qui descritti incarnano infatti, sotto questo aspetto, il problematicismo stesso. Da questa prospettiva si giunge così a introdurre, alla fine della seconda parte, la visione di Severino, soffermandosi in particolare sulla sua interpretazione del rapporto tra Heidegger e la metafisica.
Il discorso si svolge, in questo modo, come un racconto metafisico che si riapre costantemente intorno all’orizzonte dell’incontro tra il maestro e l’allievo. Ciò si fa particolarmente evidente nella terza parte del volume, in cui sono presentati, da una parte, gli elementi costitutivi della metafisica di Bontadini a partire dal concetto di esperienza e, dall’altra, la ricostruzione della metafisica classica di Severino, che segue alla strutturazione della metafisica neoclassica.
La disamina prosegue nella quarta parte, con la retractatio metaphysica di Severino, in cui possiamo di nuovo gettare uno sguardo sulla riflessione del maestro e dell’allievo, questa volta sul modo in cui le due prospettive si dividono. Infatti, il ritorno alla filosofia di Parmenide di Severino intende propriamente rappresentare una distruzione della metafisica classica. Per Bontadini, invece, si tratta di assumere il ripensamento della riflessione parmenidea quale conferma della metafisica stessa.
Nella parte finale, l’A. considera la nuova articolazione della riflessione filosofica di Bontadini, ponendo l’attenzione alla riformulazione di una «metafisica orginaria», in grado di delineare, come preannunciato nel Prologo, uno stile classico in una nuova configurazione.
In ultima analisi, sullo sfondo della discussione tra il maestro e l’allievo, la questione del problematicismo e della metafisica sembra articolarsi in una dialettica tra domanda e risposta. Se tale dialettica può svolgersi come «racconto speculativo», allora noi siamo sempre posti di fronte all’irrinunciabile esigenza del pensiero quale ricerca di senso. Per questo alla fine, osserva l’A. rievocando Kant, non va dimenticato che l’uomo è ente metafisico, prima che animale sociale e politico. La metafisica dunque possiede ancora in sé la forza di quelle domande che appartengono, dall’inizio alla fine, alla storia e al pensiero umano.
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Dio si presenta a noi raggiungibile mediante il lavoro
Il lavoro è sempre stato un tema centrale nel magistero di papa Francesco. Basta ricordare i discorsi ai «movimenti popolari» che hanno al centro le 3 «t» esplicitate nel suo discorso del 28 ottobre 2014: tierra, techo, trabajo, cioè terra, casa e lavoro. Oppure quello pronunciato a Genova, presso l’Ilva il 27 maggio del 2017: «C’è sempre stata un’amicizia tra la Chiesa e il lavoro, a partire da Gesù lavoratore. Dove c’è un lavoratore, lì c’è l’interesse e lo sguardo d’amore del Signore e della Chiesa».
A partire dal 1956, anno in cui la Chiesa celebrò per la prima volta il 1° maggio, e fino ad oggi in occasione della celebrazione del Giubileo dei Lavoratori voluto da papa Francesco, il pensiero va alla grande schiera dei lavoratori giornalieri e occasionali, a quelli con contratti a termine non rinnovati, a quelli pagati a ore, agli stagisti, ai lavoratori domestici, ai piccoli imprenditori, ai lavoratori autonomi, specialmente quelli dei settori più colpiti prima dalla pandemia e oggi dalla crisi finanziaria. Molti sono padri e madri di famiglia che faticosamente lottano per poter apparecchiare la tavola per i figli e garantire ad essi il minimo necessario.
Due articoli per riflettere sul tema del lavoro:
- Il lavoro e la dignità del lavoratore, l’intervista al cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson, Cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze e della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, Prefetto emerito del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale.
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Francesco: un papato intenso e coraggioso
Nei primi tempi dopo l’elezione di papa Francesco, i suoi amici che venivano da Buenos Aires per incontrarlo erano stupefatti della vitalità e dell’energia del nuovo papa. Lo amavano e lo ammiravano ed erano naturalmente felici della sua elezione, ma negli ultimi tempi del suo servizio come arcivescovo avevano avuto l’impressione che fosse meno energico e vivace che in passato, forse perché ormai vicino al traguardo dei 75 anni e quindi al compimento dell’impegno pastorale a cui aveva dedicato per tanto tempo tutte le sue forze. Più di una volta sentii osservare da qualcuno di loro che a Roma trovavano un uomo diverso, in un certo senso molto ringiovanito e più dinamico rispetto a quello che aveva lasciato poco prima l’Argentina.
Anche chi si trovava a collaborare con lui a Roma, senza averlo conosciuto prima, era colpito dalla vivacità e dall’energia che si andava manifestando giorno dopo giorno, in modo piuttosto sorprendente e in un certo senso crescente, in un uomo non più giovane e certo non dotato di un fisico prestante. Negli impegni pastorali, nelle udienze non risparmiava le forze, senza proteggersi neppure dalle intemperie. Si rilanciò senza paura in quei faticosi viaggi internazionali che il suo predecessore aveva riconosciuto ormai superiori alle sue forze. C’era qualcosa di straordinario. Una volta, durante il suo primo viaggio in Corea, gli domandai in confidenza come si spiegasse tale sua inattesa energia. Rispose subito e molto semplicemente: «È la grazia di stato». Voleva dire – come sa ogni credente – che se la volontà di Dio ti mette in una determinata situazione di vita o ti affida una missione, allo stesso tempo ti dà tutta la grazia necessaria per fare quello che si aspetta da te.
Questa «grazia di stato» lo ha accompagnato per 12 anni, un tempo più lungo di quello che forse ci saremmo aspettati e che egli stesso sembrava all’inizio aspettarsi. Ora possiamo guardare indietro e meditare su quanto, collaborando con la grazia di Dio, ha potuto fare a servizio della Chiesa e della comunità umana nel corso di un pontificato che certo lascerà il segno nella storia della Chiesa agli inizi del terzo millennio.
Argentino di origini italiane, primo papa latinoamericano, Jorge Mario Bergoglio scelse – primo e finora unico – il nome «Francesco». Capimmo subito che era una scelta impegnativa e molto coraggiosa: il Cantico delle creature, Madonna Povertà, la visita al Sultano… creazione, poveri, pace. Decise di abitare a Santa Marta piuttosto che nel Palazzo Apostolico. Il Giovedì Santo andò a celebrare la Messa della Cena del Signore non a San Giovanni in Laterano o a San Pietro, ma in un carcere minorile, lavando i piedi a ragazzi e ragazze. Pur non essendo un grande poliglotta, manifestò subito un carisma di prossimità e di empatia spontanea con la gente che ne fece un fenomeno della comunicazione. Entro un mese dall’elezione, raccogliendo un suggerimento delle riunioni pre-conclave dei cardinali, istituì un nuovo Consiglio ristretto di cardinali dei diversi continenti (prima sette, poi nove), con cui incontrarsi più volte l’anno per consultarsi anche al di fuori della Curia romana e studiare progetti di riforma. Fece il suo primo inaspettato viaggio all’isola di Lampedusa, approdo di migranti e naufraghi nel Mediterraneo.
Fin dall’inizio impostò con grande cordialità e trasparenza due rapporti importanti e «nuovi» per un papa: quello con il suo predecessore Benedetto XVI, che rimaneva a vivere in Vaticano, e quello con la Compagnia di Gesù, il suo ordine religioso di appartenenza, allora guidato da p. Adolfo Nicolás. Oltre che al viaggio in Brasile per la Giornata Mondiale della Gioventù, dedicò il tempo estivo a stendere l’esortazione apostolica Evangelii gaudium («La gioia del Vangelo»), vero testo programmatico: una Chiesa missionaria, non «autoreferenziale», che ha da portare al mondo un Vangelo fonte di gioia.
Si può dire che nel giro di pochi mesi abbiamo potuto capire senza ambiguità linee e spirito del nuovo pontificato. Una grande corrente di simpatia e di fiducia percorse la Chiesa e il mondo, diffondendo entusiasmo e slancio rinnovati, dopo un periodo in cui alle difficoltà dei tempi si erano aggiunti i turbamenti della crisi degli abusi sessuali, delle vicende di Vatileaks, delle discussioni sullo Ior e infine anche lo sconcerto di chi non aveva compreso il significato della rinuncia di Benedetto XVI. L’avvio del nuovo pontificato fu quindi senz’altro un tempo di dimostrazione di vitalità della Chiesa, di svolta positiva, incoraggiante, se non addirittura entusiasmante. Un tempo di grazia. Ricordare quel tempo ci aiuta oggi a mettere a fuoco le coordinate per leggere i 12 anni trascorsi di cammino della Chiesa guidata da papa Francesco, pur senza la pretesa impossibile di ricordare tutto.
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Evangelizzazione
La missione della Chiesa è di annunciare il Vangelo, e questo è una buona notizia, che porta la gioia, segno inconfondibile della presenza dello Spirito Santo. Non è un caso che la parola della gioia evangelica torni non solo nel titolo del già ricordato documento programmatico Evangelii gaudium, ma anche nei titoli di diversi fra i principali testi del pontificato: Amoris laetitia, Laudato si’, Gaudete et exsultate, Veritatis gaudium…
Francesco, in particolare nei primi anni del suo pontificato, ha insistito molto su un annuncio del Vangelo che non si disperda in complicazioni e minuzie, ma vada al centro, all’essenziale, e questo essenziale è la misericordia di Dio. Anche i suoi predecessori avevano parlato molto di misericordia, in particolare Giovanni Paolo II, ma Francesco ha continuato a farlo con grande insistenza e moltiplicando iniziative e gesti esemplari molto efficaci. Il Giubileo straordinario della Misericordia (2015-2016) è stato un tempo culminante e originale, con la prima apertura della Porta santa a Bangui, nella Repubblica Centrafricana, invece che a Roma; con le Porte sante nelle carceri e nei santuari del mondo, con le visite a sorpresa del venerdì pomeriggio ad asili per poveri, case per anziani e malati e così via: i gesti di misericordia spirituale e corporale. La raccomandazione ai confessori di essere sempre interpreti della misericordia di Dio, di perdonare sempre, ha ravvivato la pratica di questo sacramento, e Francesco non solo ha dato più volte personalmente l’esempio ai sacerdoti di amministrarlo, ma ha dato anche l’esempio ai fedeli di andare a confessarsi senza timore.
L’esempio come evangelizzatore Francesco lo ha dato da subito anche con le omelie delle celebrazioni mattutine a Santa Marta, che – come ricordiamo bene – erano iniziate in forma più riservata, pur ottenendo grande interesse da parte di moltissimi fedeli; ma, durante la pandemia, sono state poi giustamente trasmesse in diretta, diventando fonte di conforto per innumerevoli persone. Vogliamo sottolineare il servizio di consolazione e di sostegno spirituale svolto da Francesco nel tempo della pandemia. Si è trattato di un flagello inaspettato e per certi aspetti nuovo, che ha colpito l’umanità durante il suo pontificato. Questo gli ha richiesto e dato occasione di allargare il suo servizio spirituale al di là di ogni confine. Fra gli eventi più indimenticabili del suo pontificato rimane certamente la sua grande preghiera in una Piazza San Pietro apparentemente del tutto deserta, ma colma di una presenza spirituale e universale intensissima.
Per quanto riguarda le grandi tematiche pastorali della Chiesa nel mondo di oggi, Francesco ha riservato un’attenzione prioritaria alla famiglia, dedicandovi i primi due sinodi, che hanno dato un contributo prezioso non solo per riproporre in forma positiva e convincente il valore dell’amore come fondamento della famiglia, ma anche per sviluppare un approccio equilibrato, dal punto di vista pastorale e dottrinale, alle situazioni problematiche dal punto di vista canonico, oggi sempre più diffuse. Si trattava di affrontare il divario crescente, evidente e imbarazzante fra la realtà di fatto di numerosissime famiglie e l’insegnamento morale cattolico tradizionale. Francesco ha avuto il coraggio di farlo, proponendo la questione in sede sinodale, per trovare un approccio condiviso. Naturalmente non tutto è stato risolto, ma si è fatto un bel passo avanti, in cui ha trovato il suo posto un tema fondamentale nella visione pastorale di papa Francesco: quello del «discernimento» pastorale e spirituale, cioè la ricerca della volontà di Dio nelle situazioni concrete della vita, senza fermarsi, paralizzati, al livello delle norme e regole generali, pur comprendendone il senso.
Un altro grande tema pastorale vissuto e proposto in prima persona da Francesco è stato quello dei giovani. Non solo nelle Giornate Mondiali della Gioventù, che nel tempo non hanno perduto il loro richiamo e la loro efficacia e nelle quali Francesco – a Lisbona nel 2023, come già a Rio de Janeiro, Cracovia, Panama – ha dimostrato il suo carisma eccezionale di comunicatore di gioia ed entusiasmo cristiano, ma anche in un sinodo specifico, organizzato con una metodologia propria per ascoltare e coinvolgere i giovani – compresi i millennials e i nativi digitali –, con i loro nuovi orizzonti e i loro drammatici disagi[1] e che ha trovato espressione nella bella Esortazione apostolica Christus vivit (2019). Come affrontare, alla luce della fede e animati dalla speranza cristiana, le sfide del profondo cambiamento antropologico della posizione dell’uomo nel mondo e nelle sue relazioni con gli altri?
Sulle tracce di Paolo VI, di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, Francesco ha ripreso con grande decisione le vie del mondo con ben 47 viaggi internazionali in 66 nazioni diverse: viaggi pastorali di conferma della fede della Chiesa, di evangelizzazione, di dialogo e di pace. In tutti i continenti, con una distribuzione geografica sostanzialmente equilibrata sull’insieme del Pianeta. Ma vorremmo mettere in rilievo che Francesco è tornato più volte nell’Asia orientale, dove il suo predecessore non si era recato. Ha potuto anche almeno sorvolare la Cina, al cui popolo e alla cui Chiesa ha dedicato tanta attenzione, riuscendo a riportare nella piena comunione con Roma l’intero episcopato del Paese, senza arrestarsi di fronte ai dubbi, alle difficoltà e alle critiche. Come ai suoi predecessori, anche a lui non è stato possibile recarsi in Russia, ma è riuscito a incontrare almeno una volta il Patriarca ortodosso russo, sebbene a Cuba e di passaggio…
La sua è stata una presenza missionaria globale, aperta al dialogo ecumenico e con le altre religioni, all’incontro con tutti i popoli e le loro diverse culture. Il Vangelo di Gesù Cristo non è solo per i cristiani, ma per tutti, come appare evidente dai grandi messaggi più caratteristici di Francesco per il mondo di oggi.
La creazione, i poveri, la fratellanza per la pace
La più importante fra le encicliche di Francesco è senza dubbio la Laudato si’ (2015), «sulla cura della casa comune»[2]. L’argomento delle problematiche ambientali e della responsabilità dell’uomo non era certo nuovo, ma Francesco è riuscito a trattarlo con grande ampiezza di prospettive – teologiche e spirituali, scientifiche, sociali, economiche e politiche –, facendosi efficacemente interprete delle domande più urgenti, drammatiche e cruciali dell’umanità sul suo futuro e sulle sue responsabilità verso tutte le creature, verso tutti i suoi membri – in particolare i più deboli – e verso le prossime generazioni. Il Papa, che già si era segnalato per molti interventi coraggiosi su questioni drammatiche sui rifugiati, i migranti, le ingiustizie economiche e sociali e la «cultura dello scarto», con questa enciclica – rivolta non solo alla Chiesa, ma a tutto il mondo – si è presentato con decisione sulla scena globale come un leader morale autorevole, capace di riconoscere la gravità oggettiva dei rischi, di leggerne le cause e le interconnessioni, e di contribuire a orientare gli impegni positivi necessari per superarli nella prospettiva del bene comune.
Se questa enciclica è rimasta l’intervento più autorevole, è giusto notare che dopo di essa Francesco ha continuato a ritornare sull’argomento in molteplici occasioni durante tutto il suo pontificato, non solo con ulteriori documenti, discorsi e richiami forti e preoccupati, ma anche intervenendo personalmente in incontri internazionali, esponendosi per sollecitare l’impegno dei responsabili politici, sempre troppo debole e insufficiente rispetto ai problemi[3]. Al passo con i tempi e aperto alle problematiche, negli ultimi anni papa Francesco ha dedicato sempre più attenzione anche al tema dell’Intelligenza artificiale e dei suoi effetti sul futuro dell’umanità[4].
Tutti sanno che Francesco ci ha insegnato a guardare realtà e problemi non tanto dal centro, quanto dalle periferie. I problemi reali e urgenti, le situazioni di ingiustizia e sofferenza non solo si vedono, ma soprattutto si comprendono, si sentono meglio, in modo più coinvolto e urgente, non restando nei luoghi protetti del potere politico, economico e anche culturale, ma condividendo la vita nelle regioni e situazioni marginali geografiche e sociali… La realtà appare diversa, «se vista da Madrid o dallo Stretto di Magellano». In effetti, questa linea si è espressa in modo molto chiaro anche nella successione dei viaggi europei del Papa, che si è sviluppata dando nei primi anni una certa priorità a Paesi meno centrali, come l’Albania, la Bosnia Erzegovina, Malta, la Grecia, la Bulgaria, la Romania, la Slovacchia, l’Ungheria…
L’insistenza e la veemenza degli interventi papali sui temi già ricordati dei migranti, rifugiati, emarginati di ogni genere divennero caratteristiche fin da subito e non si sono mai attenuate nel corso degli anni[5]. Rimangono indimenticabili le visite a Lampedusa e a Lesbo, o nel Sud Sudan, o l’incontro con i Rohingya perseguitati…, ma anche le celebrazioni presso il muro di separazione a Betlemme, o le barriere al confine fra Messico e Stati Uniti… Si potrebbe continuare a parlarne a lungo. In molti Paesi del mondo, la Chiesa cattolica si è sentita fortemente incoraggiata e sostenuta dal Papa nel prendere posizioni e iniziative in favore dei migranti e dei rifugiati, nonostante si trattasse ovunque di un tema delicato e controverso.
L’ispirazione di san Francesco ritorna esplicita ed evidente nell’accento messo dal Papa sulla fratellanza fra tutti gli uomini, che non a caso dà il titolo all’altra grande enciclica del pontificato: Fratelli tutti, «sulla fraternità e l’amicizia sociale» (2020), diretta anch’essa, come la precedente, non solo ai fedeli, ma a tutti gli uomini. Il discorso è allo stesso tempo squisitamente evangelico, prendendo avvio dalla parabola del Samaritano, ma assolutamente aperto al mondo intero: un mondo terribilmente diviso, ma da ricostruire nel dialogo e – appunto – nella fraternità.
Francesco ha avuto veramente un carisma particolare nell’incontro con le persone. Nel tempo, abbiamo capito sempre meglio che cosa voleva dire quando parlava della «cultura dell’incontro». Intendeva un atteggiamento sincero e totale di ascolto, disponibilità, apertura, empatia, comprensione, dialogo fiducioso, che andasse oltre i contenuti concettuali di una discussione, per quanto approfondita, per arrivare a una sintonia della mente e del cuore, che, pur nel rispetto delle differenze, costituisse la premessa di un cammino comune, di amicizia e di passi concreti nella stessa direzione, verso la riconciliazione e la costruzione della pace.
Questa ricerca dell’incontro – non solo una disponibilità «passiva» all’incontro, ma anche una ricerca «attiva» di esso – ha avuto molte applicazioni concrete nel corso del pontificato di Francesco, sia a livello personale, sia a livello più ampio, diplomatico, ecumenico, interreligioso, e ha anche prodotto risultati, talvolta molto importanti e al di là delle aspettative. Forse l’esempio più evidente è il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, firmato ad Abu Dhabi nel 2019 da papa Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb, una delle personalità più importanti del mondo musulmano sunnita. Un evento in precedenza ritenuto per lo più impensabile, ma non isolato nel quadro di questo pontificato: si pensi anche al viaggio di papa Francesco in Iraq (2021) e al suo incontro a Najaf con la massima autorità religiosa del mondo musulmano sciita, il Grande Ayatollah Ali al-Sistani.
Podcast | INTELLIGENZE ARTIFICIALI E PERSONA UMANA
Con ogni probabilità, la nostra epoca sarà ricordata come quella della nascita delle intelligenze artificiali. Ma cosa sono le intelligenze artificiali? Qual è l’impatto sociale di queste nuove tecnologie e quali sono i rischi? Ascolta la serie completa di Ipertèsti, il podcast de «La Civiltà Cattolica».
Ma la costruzione della pace rimane un compito mai concluso su questa terra. Con realismo e profonda acutezza, papa Francesco ha parlato, fin dall’inizio, della «terza guerra mondiale a pezzi». Si è impegnato nella misura delle sue forze per superare i conflitti. Basti pensare alla disponibilità dichiarata per mediare in Venezuela o per la riconciliazione nel Sud Sudan; al coraggioso viaggio nella Repubblica Centrafricana… Ma, nel corso del pontificato, ulteriori orribili pezzi di questa guerra mondiale si sono avvicinati a Roma e lo hanno coinvolto dolorosamente. Pensiamo anzitutto all’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022 e poi al conflitto fra Israele, Hamas ed Hezbollah dopo il terribile, feroce attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 e le conseguenti distruzioni a Gaza e nel Libano.
Francesco ha mobilitato la diplomazia vaticana, ha moltiplicato iniziative umanitarie, ha conservato una posizione lungimirante e superiore con i suoi appelli e la sua preghiera, ma ha dovuto assistere ancora una volta all’imperversare dell’odio, alla follia distruttrice delle armi, alle «inutili stragi», alla devastazione dei rapporti umani, alla frustrazione di tanti sforzi ecumenici e dei rapporti con l’ebraismo e con l’islam. In questo contesto oscuro e nella sofferenza, Francesco non si è scoraggiato e ha riproposto al mondo come tema del nuovo Anno giubilare proprio quello della speranza, per mantenerla viva nella lotta fondamentale fra l’odio e l’amore. Dobbiamo continuare a evocare i messaggi di pace del viaggio in Terra Santa (2014), l’abbraccio del Papa con il rabbino Skorka e con il leader musulmano Abboud davanti al Muro del Pianto.
Aspetti della «riforma»
Come già accennato, entro la scadenza di un mese dalla sua elezione papa Francesco creò il nuovo «Consiglio di cardinali» (allora detto «il C7») e pose all’ordine del giorno – anzitutto, anche se non solo – il tema della riforma della Curia romana, a cui aggiunse fin dall’inizio le riflessioni sul Sinodo dei vescovi. Il suo predecessore, consapevolmente, pur conoscendone l’importanza, non lo aveva affrontato se non con piccoli ritocchi marginali. Le Congregazioni generali pre-conclave ne avevano perciò affermato l’urgenza. Francesco cominciò coraggiosamente l’opera, avviando un «processo», senza pretendere di avere in partenza un disegno articolato, coerentemente con il suo modo di procedere con fiducia nel cammino guidato dal discernimento.
Il processo non fu facile – non mancò neppure un nuovo Vatileaks – e si svolse attraverso la realizzazione di numerose riforme parziali di quelli che erano le Congregazioni e i Pontifici Consigli, la Segreteria di Stato, le Istituzioni collegate per le comunicazioni sociali; inoltre, con l’istituzione di nuovi Organismi economici, a cui veniva dato un ruolo assai maggiore che in passato, e con altri provvedimenti. La riforma della Curia romana prese così forma gradualmente nel corso di nove anni, fino alla pubblicazione della costituzione apostolica Praedicate Evangelium del marzo 2022. Dal titolo stesso se ne comprende immediatamente l’ispirazione, che in realtà era chiara a Francesco fin dall’inizio: la Curia romana è uno strumento del Papa per il servizio alla Chiesa nel mondo, cioè l’annuncio del Vangelo. Il Dicastero per l’evangelizzazione occupa perciò simbolicamente il primo posto fra i 16 Dicasteri, e il Papa stesso lo presiede direttamente. Un’operazione così ardua e complessa comporta naturalmente difficoltà e limiti, per cui rimane certamente sempre perfettibile. Ma bisogna riconoscere che papa Francesco l’ha condotta in porto nonostante dubbi, obiezioni non tutte infondate e forti resistenze, grazie a una volontà molto ferma, che non ha avuto paura di chiedere anche sacrifici per il bene superiore della missione.
La riforma delle istituzioni non è certo tutto per rinnovare evangelicamente la Chiesa. Perciò Francesco l’ha accompagnata con il richiamo martellante allo spirito di servizio, che deve animare tutte le sue strutture e l’esercizio di ogni forma di autorità e potere. La polemica contro il «carrierismo» o la «burocratizzazione dei servizi» ha accompagnato senza posa i suoi discorsi, cercando anche di tradursi in regole di termini temporali di mandati e incarichi, per ovviare ai rischi in questo campo. In ciò Francesco non ha cercato di «ingraziarsi» gli ambienti curiali, procedendo talvolta con rigore, ma anche con la consapevolezza di poter contare sullo spirito di obbedienza e di amore alla Chiesa e al Papa della gran parte dei suoi collaboratori.
Oltre che alla Curia romana, Francesco pensò anche immediatamente al Sinodo dei vescovi. Anch’esso ha visto una profonda trasformazione nel corso del pontificato, e si può ben dire che ne aveva bisogno per riprendere vitalità e dinamismo nel suo servizio per il cammino della Chiesa. Nel tempo i sinodi erano diventati una lunga rassegna di apprezzabilissimi interventi dei molti padri sinodali, ma con una dinamica interna di dialogo e approfondimento piuttosto ridotta, tanto da risultare quasi in contraddizione con ciò che dice il suo stesso nome: «fare strada insieme». Da parte nostra, abbiamo considerato lo sforzo di rinnovamento della metodologia e del ruolo del Sinodo come non meno importante di quello dedicato da Francesco per la Curia, anzi forse di più[6]. Non siamo evidentemente ancora in grado di valutare i risultati durevoli dei due «Sinodi sulla sinodalità» nel diffondere alle comunità della Chiesa nel mondo la dinamica e lo stile di questa sinodalità, ma certamente abbiamo capito che papa Francesco ci ha indicato questa via e ha fatto il possibile per orientare ad essa il nostro modo di essere Chiesa nel mondo di oggi, continuamente in cammino insieme, domandando e ascoltando lo Spirito Santo che ci accompagna.
Nella Curia romana, come nel Sinodo, negli ultimi anni è andato crescendo sensibilmente lo spazio di responsabilità delle donne, religiose e laiche, anche in posti elevati. Francesco non ha mutato in nulla la posizione della Chiesa circa il sacerdozio per le donne e non ha neppure fatto passi impegnativi in favore del diaconato femminile, a parte l’istituzione di una commissione di studio; ma non si può non vedere un vero progresso nell’incoraggiare la partecipazione attiva e responsabile delle donne nella vita e nella missione della Chiesa. È un progresso assolutamente doveroso e urgente nel nostro tempo, non solo per motivi sociali, ma per coerenza con la corretta visione della dignità e della vocazione di ogni persona battezzata, così fortemente affermate dal Vaticano II.
Papa Francesco è stato eletto in un tempo in cui la crisi per gli abusi sessuali nella Chiesa, in particolare da parte di membri del clero, era molto grave. Papa Benedetto l’aveva affrontata con onestà e coraggio, con il piede giusto, con un ampio ventaglio di risposte e misure: dall’ascolto personale delle vittime alla migliore selezione dei candidati al sacerdozio, al maggior rigore nelle procedure disciplinari e penali e così via. Ma il cammino era ancora lungo e difficile, e Francesco ebbe molto da impegnarsi e soffrire per continuare, approfondire, allargare la strada aperta dal predecessore, combattendo i crimini, le loro radici e il loro occultamento. Si devono perciò ricordare la convocazione di un grande Incontro a Roma dei rappresentanti di tutte le Conferenze episcopali e di altre autorità (febbraio 2019), numerosi nuovi interventi normativi e pastorali[7], i suoi numerosi incontri personali con vittime di abusi, il coinvolgimento nelle vicende del Cile e l’accettazione della rinuncia collettiva dei vescovi del Paese, la costituzione di una Commissione pontificia… Rimane caratteristico di questo impegno di Francesco l’allargamento della prospettiva dagli abusi sessuali su minori a quella dell’ambito più ampio degli abusi di coscienza e di potere, alla critica del «clericalismo» come componente del problema, all’insistenza sul coinvolgimento dell’intero popolo di Dio nel rinnovamento di conversione e guarigione dalla piaga degli abusi.
In continuità con queste problematiche vanno viste anche le numerose misure di «commissariamento» di diverse congregazioni o comunità religiose o movimenti ecclesiali, spesso di non antica creazione, dove l’esercizio dell’autorità era degenerato o rischiava di degenerare in forme diverse di abuso. Anche figure di notevole fama e carisma sono state scoperte inaspettatamente – spesso dopo molti anni – gravemente colpevoli. La presenza del male e del peccato continuerà sempre a insidiare la Chiesa, ma va contrastata sempre e con decisione, e in ciò la trasparenza, la solidità e la profondità della formazione spirituale e umana svolgono un ruolo essenziale. Papa Francesco ha fatto la sua parte.
«Evangelizzatori con Spirito»
L’esortazione apostolica programmatica di papa Francesco Evangelii gaudium (EG) si concludeva con il capitolo intitolato «Evangelizzatori con Spirito»: cioè, dobbiamo essere servitori del Vangelo aperti all’azione dello Spirito Santo, che pregano e che lavorano. «Dal punto di vista dell’evangelizzazione non servono né le proposte mistiche senza un forte impegno sociale e missionario, né i discorsi e le prassi sociali e pastorali senza una spiritualità che trasformi il cuore» (EG 262).
Oltre alle continue, innumerevoli occasioni di interventi dedicati alla vita cristiana e alla spiritualità nel corso di discorsi, omelie, udienze, celebrazioni di un papa molto attivo e molto desideroso di vivere la sua vocazione pastorale, vogliamo ricordare alcuni documenti caratteristici della sua esperienza e proposta spirituale.
Il principale rimane probabilmente la splendida esortazione apostolica Gaudete et exsultate («Rallegratevi ed esultate»), «sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo» (2018). Per chi si era fatto un’immagine molto limitata di papa Francesco come concentrato essenzialmente su temi sociali, questo scritto fu una bellissima sorpresa, che rivelò a tutti la profondità spirituale della prospettiva del Papa e la sua capacità di illuminare la quotidianità della vita, riattualizzando quella «chiamata universale alla santità» in cui il Concilio Vaticano II portava a compimento il suo grande discorso sulla Chiesa e sulla sua missione. I «santi della porta accanto», «la classe media della santità» non solo i santi canonizzati, ma i genitori che amano i loro figli, gli operai che portano a casa il pane dell’onesto lavoro, gli anziani e i malati che sorridono, i volontari che accudiscono con serenità… camminano nel popolo di Dio, e noi ci sentiamo accompagnati e incoraggiati da loro. Ma in realtà, questi santi sono coloro che ascoltano e seguono lo Spirito Santo, che li accompagna e li aiuta a «discernere», a cercare e trovare con gioia e fervore la via di un amore sempre più generoso e dimentico di sé e simile a quello di Gesù[8].
Francesco ci ha resi partecipi anche delle sue devozioni più care, che lo hanno sempre accompagnato nella sua vita, già ben prima del pontificato. Pensiamo alla lettera apostolica dedicata a san Giuseppe Patris corde («Con cuore di padre»), del 2020. Proprio nel giorno della solennità di san Giuseppe, Francesco aveva celebrato l’inaugurazione del suo pontificato. Oppure pensiamo all’esortazione apostolica dedicata a santa Teresa di Lisieux C’est la confiance («È la fiducia»), del 2023. E infine Francesco ci ha ancora sorpresi dedicando la sua ultima enciclica, la quarta, al Sacro Cuore di Gesù: Dilexit nos («Ci ha amati»), del 2024.
Questo grande inno finale all’amore di Dio per noi in Gesù Cristo ci riporta naturalmente ai discorsi sulla misericordia di Dio che avevano caratterizzato i primi anni di pontificato. Tutta la grande avventura di questo pontificato, che per tanti aspetti non ha mai smesso di stupirci, trova il suo senso complessivo nell’evangelizzazione, ossia nell’annuncio a tutti – «tutti, tutti, tutti» – dell’amore di Dio, della sua misericordia, che si manifesta nel modo più credibile e profondo nel Cuore di Cristo aperto per noi.
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[1]. La canonizzazione di Carlo Acutis in tempi brevissimi va compresa in questo contesto, come pure quella di Pier Giorgio Frassati.
[2]. La bella enciclica Lumen fidei (2013), in realtà la prima firmata da Francesco, è di fatto rimasta in ombra, perché in gran parte già preparata nel precedente pontificato e poi presto superata nell’interesse dal nuovo documento programmatico di Francesco Evangelii gaudium.
[3]. Ad esempio, si può ricordare l’esortazione apostolica Laudate Deum (4 ottobre 2023) sulla gravità delle conseguenze dei cambiamenti climatici e il fatto che il Papa avrebbe desiderato partecipare di persona alla Cop28 a Dubai, svoltasi sullo stesso tema poche settimane dopo a Dubai. Ricordiamo che sui temi della responsabilità ambientale Francesco ha spesso valorizzato la sua piena sintonia con il Patriarca ecumenico ortodosso Bartolomeo di Costantinopoli, anche con messaggi comuni.
[4]. Proprio sul tema degli effetti dello sviluppo dell’Intelligenza artificiale papa Francesco ha voluto partecipare, con un grande discorso, al G7 svoltosi a Borgo Egnazia, in Puglia, il 14 giugno 2024.
[5]. Ci sia permesso un piccolo ricordo personale. Il giorno in cui Francesco avrebbe ricevuto per la prima volta un gruppo di nuovi ambasciatori presso la Santa Sede, mi telefonò personalmente al mattino presto, mentre facevo colazione, per raccomandarmi di dare eco al breve discorso che avrebbe fatto, dedicato proprio a questi temi.
[6]. Nel ripercorrere il pontificato di Francesco, non si può dimenticare il Sinodo speciale per l’Amazzonia (2019), a seguito del quale Francesco ha pubblicato l’esortazione Querida Amazonia («L’amata Amazzonia»). È stato un sinodo dedicato a una regione specifica, in cui significativamente si sono intrecciate le dimensioni sociali, culturali, ecologiche ed ecclesiali/pastorali. Giustizia, inculturazione, conversione ecologica, evangelizzazione: tutto insieme, in una vivace dinamica di dialogo e ricerca spirituale, che non si deve certo ridurre alle discussioni, di cui tanto si parlò, sul celibato sacerdotale. Un «esperimento» di grande portata della «sinodalità» in una grande regione, cruciale per il futuro del nostro Pianeta.
[7]. Ad esempio, la Lettera al popolo di Dio pellegrino in Cile (31 maggio 2018), la Lettera al popolo di Dio (20 agosto 2018), il motu proprio Vos estis lux mundi (2019), la rimozione del «segreto pontificio» in materia di abusi (2019) ecc.
[8]. Probabilmente proprio qui si trova il punto più «gesuitico» della personalità di Francesco. Essa infatti è ispirata dalla dinamica «ignaziana» dell’apertura a un amore sempre più grande e guidata dal discernimento. Non è qualcosa di particolaristico, ma una via per avvicinarsi al cuore della vita cristiana.
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La Dichiarazione Schuman compie 75 anni
Introduzione
Papa Francesco ha posto la speranza al centro dell’Anno giubilare 2025. Nella bolla di indizione del Giubileo, Spes non confundit[1], esprime il desiderio che esso sia un’occasione di rinnovata speranza nei cuori degli esseri umani. Per i cristiani, questa speranza, che mantiene viva la fiducia nella felicità futura nonostante le incertezze e le difficoltà della vita presente, deriva più direttamente dal «Vangelo di Gesù Cristo, morto e risorto», dalla rivelazione dell’amore di Dio, «l’amore che scaturisce dal cuore di Gesù trafitto sulla croce».
Per alimentare ulteriormente la speranza, papa Francesco invita la Chiesa a leggere «i segni della speranza» nel mondo, in linea con l’attenzione ai segni dei tempi promossa dalla costituzione pastorale Gaudium et spes (GS). «Porre attenzione al tanto bene che è presente nel mondo» è un antidoto alla tentazione «di ritenerci sopraffatti dal male e dalla violenza». Tra questi segni di speranza, il Pontefice colloca al primo posto il desiderio di pace.
È quindi una felice coincidenza che nell’anno 2025 si celebri anche il 75° anniversario della Dichiarazione Schuman, un testo nato da un ardente desiderio di pace. Era infatti il 9 maggio 1950 quando Robert Schuman, allora ministro degli Affari esteri della Francia, durante una conferenza stampa al Quai d’Orsay, rese nota una proposta rivolta alla Germania. La Francia prospettava di gestire congiuntamente i mercati del carbone e dell’acciaio in una modalità nuova, di carattere sovranazionale; tale proposta non era rivolta solo alla Francia e alla Germania, ma doveva essere estesa a tutte le parti interessate. Il progetto, concepito dalla mente lungimirante di Jean Monnet, intendeva offrire una vera e propria via d’uscita ai Paesi europei all’indomani della Seconda guerra mondiale e prevenire soluzioni che avrebbero potuto aggravare le divisioni e rafforzare i sospetti, invece di sanarli. I princìpi della Dichiarazione Schuman di fatto costituirono il punto di partenza e il modello per lo sviluppo di quella che sarebbe diventata dapprima la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, poi la Comunità europea e, infine, l’Unione europea (Ue). Quel giorno può quindi essere considerato fondativo del progetto di integrazione europea, e per questo il Consiglio d’Europa nel 1985 ha proclamato il 9 maggio «Giornata dell’Europa».
Settantacinque anni dopo, tornare al testo della Dichiarazione e ai suoi princìpi fondamentali è ancora fonte di ispirazione. Per molti versi, i temi sviluppati da Schuman e Monnet – come la pace, la riconciliazione, il dialogo, la giustizia equa, la pazienza, per citarne solo alcuni – oggi sono più attuali che mai e sono in profonda sintonia con lo spirito di un Anno giubilare incentrato sulla speranza.
Motivi di disperazione, oggi come ieri
In una nota datata 3 maggio 1950[2], Monnet osservava che «ovunque si guardi nel mondo di oggi, non si incontra altro che un vicolo cieco». Proseguiva elencando alcuni di questi punti morti. C’era, in primo luogo, la diffusa percezione dell’«inevitabilità» di una guerra tra l’Occidente e l’Unione Sovietica. C’era poi la difficoltà di far reintegrare la Germania nel consesso delle nazioni occidentali, con una modalità che non risultasse minacciosa per i suoi ex avversari. Inoltre, la riorganizzazione politica dell’Europa sembrava essersi arenata in un vicolo cieco, con un Consiglio d’Europa appena nato che non soddisfaceva le aspettative dei federalisti europei. E l’elenco potrebbe continuare.
Non è azzardato tracciare alcuni parallelismi fra la situazione dell’Europa degli anni Cinquanta del secolo scorso e quella odierna. Perlomeno, bisogna riconoscere che oggi come allora la diagnosi delle sfide che il continente si trova ad affrontare è piuttosto cupa.
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È forte la tentazione di pensare che oggi siamo più divisi che mai. Sul piano della politica interna, la polarizzazione costituisce un motivo di preoccupazione in molti Paesi. Il crescente malcontento nei confronti dell’establishment politico centrista ha favorito l’ascesa di partiti più radicali, che invocano una revisione brutale dell’attuale sistema e delle sue convenzioni. Le radici della crisi sono diverse. Ma, o che si individui la causa scatenante nella disgregazione delle comunità tradizionali, o in una iniqua distribuzione dei benefici della globalizzazione economica, o in un divario crescente tra élite istruite e ampie fasce della popolazione, o nell’emergere di nuove forme patologiche di comunicazione, o in una gestione inadeguata dei flussi migratori, o in una combinazione di tutti questi fattori, il risultato finale è una profonda alterazione avvenuta nel dibattito pubblico negli ultimi anni. La capacità di ricercare il bene comune – e di accettare compromessi per raggiungerlo – è stata messa in crisi dall’incapacità di ampie componenti dello spettro politico di dialogare tra loro. Sebbene in molti Paesi d’Europa i sistemi elettorali proporzionali siano ancora preservati dagli eccessi della politica di parte che si osservano negli Stati Uniti, tuttavia, con i partiti populisti, da un lato, che sperano di emulare l’indignata politica identitaria che ha favorito Donald Trump, e i partiti centristi, dall’altro, incapaci di rivolgersi ai loro elettori smarriti se non con silenzi o condanne, lo spazio per un dialogo politico costruttivo si è drasticamente ridotto.
Anche sul fronte economico, l’Europa, nonostante la sua relativa prosperità, si sente minacciata. La guerra in Ucraina ha messo in luce l’incapacità dell’Unione europea di superare in modo significativo la produzione militare industriale della Russia, che ha un’economia pari a un decimo della sua in termini di Pil. Per quanto riguarda l’innovazione, cresce la preoccupazione che l’Europa rimanga progressivamente indietro. Gli investimenti privati nella ricerca e nello sviluppo nell’Ue rappresentano circa la metà di quelli statunitensi, e il divario di prosperità tra le due economie, che sta lentamente crescendo, rischia di diventare incolmabile, soprattutto se l’Europa non riuscirà a cogliere le opportunità legate a nuove tecnologie dirompenti, come l’intelligenza artificiale. Settori chiave, come l’industria automobilistica tedesca, mostrano segni di cedimento, e le industrie che erano state presentate quali motori del futuro, come quella delle auto elettriche o dell’energia verde, vedono oggi la Cina superare l’Europa. Rapporti recenti, come quello di Enrico Letta sul mercato unico[3], o quello di Mario Draghi sulla competitività[4], hanno formulato diagnosi preoccupanti e indicato possibili vie da percorrere. Ma c’è anche un diffuso scetticismo sulla capacità dell’Unione di mobilitare risorse politiche e finanziarie per attuare effettivamente le soluzioni proposte. Come se tutto questo non bastasse, la guerra commerciale avviata dagli Stati Uniti aggiunge un ulteriore motivo di incertezza al futuro economico dell’Europa.
L’Unione europea è (di nuovo?) alla ricerca della propria anima sul piano del funzionamento istituzionale. Di fronte a crisi senza fine, avanza la tentazione di accentrare il potere. Il funzionamento della Commissione si concentra sempre più intorno alla Presidenza, per dare priorità alla rapidità delle decisioni. Al contempo, il Consiglio rafforza la propria importanza nei confronti del Parlamento, in un contesto dominato da questioni di sicurezza su cui quest’ultimo dispone di competenze limitate. Gli interessi nazionali tornano a imporsi, soprattutto in tema di migrazioni, con governi che minacciano apertamente di disattendere l’applicazione del diritto dell’Unione. Le contestazioni dirette all’idea del sovranazionalismo diventano sempre più frequenti, con richieste di ripensare la sussidiarietà così come oggi viene intesa. Giorno dopo giorno, si moltiplicano le discussioni per revocare normative e regolamenti ritenuti eccessivamente vincolanti per l’economia europea. Non molto tempo fa, queste regolamentazioni erano considerate lo strumento privilegiato dell’Europa per proiettare il proprio potere attraverso il cosiddetto «effetto Bruxelles»[5]. Con la prospettiva di un’ulteriore estensione dell’Unione verso Est, fino a includere l’Ucraina, si diventa consapevoli del fatto che l’attuale architettura istituzionale dell’Ue non è adatta a un tale allargamento, che altererebbe in modo considerevole le dinamiche di potere.
Tuttavia, tutte queste preoccupazioni impallidiscono di fronte agli sconvolgimenti geopolitici in corso. L’Europa è stata bruscamente risvegliata dall’aggressione contro l’Ucraina, dopo tre decenni in cui non aveva conosciuto minacce esistenziali al proprio territorio. I vicinati europei – meridionale e orientale –, dati quasi per scontati come zone d’influenza, riemergono oggi come un luogo di competizione. Una cosiddetta «guerra ibrida», che combina propaganda, influenza economica e attacchi digitali, vede l’Europa e i suoi alleati democratici impegnati a difendersi da tentativi di ridisegnare le sfere d’influenza. Infine, la presuntuosa politica estera statunitense America First ha portato molti a concludere che l’idea di un Occidente unito – che ha sostenuto una comune visone del mondo per ottant’anni – è giunta a una brusca fine. L’Europa potrebbe essere costretta a cavarsela da sola, cercando al contempo di tenere a bada un alleato passato a una logica puramente utilitaristica.
Se a ciò aggiungiamo le preoccupazioni legate a un possibile ridimensionamento del Green Deal, un insieme di politiche pensato per fare dell’Europa un leader nella transizione ecologica, e il crollo dei finanziamenti destinati agli aiuti umanitari e allo sviluppo, avremo un’idea del quadro scoraggiante che anima le menti e le discussioni a Bruxelles. Perché soffermarvisi? Semplicemente per ricordare che, se oggi ci sentiamo preoccupati per il contesto attuale, anche nei primi anni Cinquanta del secolo scorso non mancavano motivi di profonda inquietudine. Spesso diamo per scontato il passato, ma un ritorno al periodo della Dichiarazione Schuman ci mostra che nemmeno allora il contesto era più semplice. Dobbiamo prendere sul serio le preoccupazioni di Monnet così come quelle attuali, per cogliere appieno quanto sia stata rivoluzionaria la proposta contenuta nella Dichiarazione Schuman.
Anche allora esisteva una forte polarizzazione, sebbene assumesse una forma diversa. Dopo la Seconda guerra mondiale, con l’emergere della «guerra fredda», gli atteggiamenti verso l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti tracciavano forti linee di divisione. I partiti comunisti furono rapidamente esclusi dai governi dell’Europa occidentale (nel 1947 sia in Francia sia in Italia, dove erano tra i più forti del continente), ma mantennero comunque una notevole influenza. Le divergenze ideologiche rendevano rapidamente impossibile un dialogo costruttivo. Ogni tentativo di stabilire una cooperazione in Europa veniva screditato dall’estrema sinistra come una manovra teleguidata dagli Usa e volta a impedire la pacifica convivenza con l’Urss. I socialisti moderati, da parte loro, erano spesso paralizzati dalle critiche provenienti dalla loro sinistra, non volendo dare l’impressione di concedere troppo agli Stati Uniti.
Sul piano economico, la scelta del carbone e dell’acciaio viene spesso spiegata con la loro importanza per la produzione di armamenti e con la necessità di instaurare un clima di fiducia tra ex nemici. Ma queste industrie ponevano problemi sotto altri aspetti. All’inizio degli anni Cinquanta, era evidente che l’attività mineraria in alcune regioni della Francia e del Belgio sarebbe presto risultata non competitiva rispetto al carbone proveniente dalla Germania. Vi erano inoltre timori circa la sopravvivenza dei cartelli siderurgici in Germania e circa i vantaggi che questi avrebbero potuto offrire loro rispetto ai produttori francesi. Anche il rischio di investimenti non coordinati nella produzione siderurgica a livello europeo diventava evidente. Tutto ciò, unito alla capacità degli ex Alleati di imporre la propria volontà alla Germania nella gestione economica delle regioni della Ruhr e della Saar, stava preparando il terreno per un aspro scontro di interessi nazionali.
Anche il futuro dell’integrazione europea appariva incerto. I federalisti avevano sperato che l’entusiasmo europeista, culminato nel Congresso dell’Aia del maggio 1948, avrebbe condotto alla creazione di istituzioni dotate di un chiaro mandato federale. Questo non si concretizzò, e prevalse invece un approccio basato sulla cooperazione tra Stati sovrani. In un Paese come la Francia, il principio del sovranazionalismo era tutt’altro che scontato: l’orgoglio nazionale rappresentava un pilastro fondamentale della ricostruzione postbellica, alimentato dal riferimento alla Resistenza e alla lotta contro la Germania nazista. Qualsiasi gesto distensivo nei confronti della Germania poteva essere considerato un tradimento. Allo stesso tempo, la Germania cominciava a manifestare insofferenza nei confronti della tutela esercitata dagli Alleati, che tradiva dubbi sulla sincerità del suo nuovo orientamento democratico e pacifico. La vicenda della Saar, che era stata sottratta alla Germania per essere trasformata in un protettorato francese, stava avvelenando i rapporti tra i due Paesi.
Per quanto riguarda il contesto geopolitico, a dominare la scena era la «guerra fredda». Con l’esplosione della prima bomba atomica sovietica nel 1949, il mondo era entrato in una fase completamente nuova, caratterizzata da un equilibrio precario e da una feroce competizione fra Stati Uniti e Unione Sovietica. In quei primi anni, l’Europa stessa era ancora il campo di battaglia su cui si tracciavano senza scrupoli le sfere d’influenza. Si andavano formando nuove alleanze, la più rilevante delle quali fu l’Alleanza atlantica. Ma anche allora il rapporto fra gli Stati Uniti e l’Europa occidentale era difficile. Desiderosi che l’Europa si assumesse al meglio la propria difesa, gli statunitensi premevano per un rapido riarmo della Germania e per il suo inserimento nelle istituzioni dell’Occidente. Una prospettiva che dagli altri governi europei era vista come prematura, per il timore di dover spiegare tale riarmo alle loro popolazioni. Sulla scena globale, le tensioni tra europei e statunitensi si concentravano soprattutto sul tema delle colonie, con gli Stati Uniti che spingevano per la decolonizzazione, a volte in modo aggressivo.
Rifiutare la disperazione
Nella già citata nota del 3 maggio 1950, Monnet collega strettamente tutti questi aspetti. Egli vede in atto un processo quasi ineluttabile. Poiché l’attenzione di tutti i leader era focalizzata sulla «guerra fredda» e sulla necessità di contenere l’Unione Sovietica, le politiche sarebbero state subordinate a tale obiettivo. Di conseguenza, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna avrebbero voluto mobilitare le risorse della Germania. Il primo passo sarebbe stato quello di aumentare la produzione industriale, in particolare quella dell’acciaio. Con l’industria francese incapace di competere, ciò avrebbe portato a politiche protezionistiche, compromettendo le prospettive generali di crescita in Europa (e della Francia in particolare) e alimentando vecchi rancori (tra Francia e Germania certamente, ma anche tra Francia e altre potenze che avessero forzato la mano sulla questione). A lungo andare, qualsiasi prospettiva di riconciliazione sarebbe stata compromessa. In effetti, una conferenza degli Alleati, prevista a Londra per il 10 maggio, avrebbe probabilmente avviato tale processo. Come osserva ancora Monnet, questo corso d’azione sarebbe avvenuto non perché qualcuno lo volesse, ma solo per mancanza di una soluzione migliore ai problemi in questione.
Questa diagnosi non era di per sé originale. Dall’altra parte del confine, il cancelliere tedesco Konrad Adenauer era giunto a conclusioni analoghe. Desideroso di ripristinare la sovranità del proprio Paese e di porre fine alla molteplicità di regole imposte all’industria tedesca, era ben consapevole della necessità di farlo con una modalità che rafforzasse la fiducia, soprattutto nei confronti della Francia. Nel marzo del 1950, egli aveva proposto l’idea di una piena unione politica ed economica tra Germania e Francia, possibilmente come premessa di più ampi Stati Uniti d’Europa. Questa proposta però era stata respinta subito dai leader francesi, che l’avevano definita irrealistica.
Non si sottolineerà mai abbastanza che, a fronte di questo quadro di determinismo pessimistico e di speranze frustrate, nel corso degli anni si era preparato un più generale sfondo di speranza. L’idea di promuovere la pace attraverso una qualche forma di integrazione europea era in fase di elaborazione da decenni. Idee di federalismo europeo erano già state proposte nel periodo tra le due guerre mondiali, in particolare da Richard Coudenhove-Kalergi e Aristide Briand, in reazione ai massacri della Prima guerra mondiale. Gli orrori della Seconda guerra mondiale diedero ad esse nuovo impulso. Il Congresso dell’Aia del 1948 è un esempio di questo momento politico e culturale, in cui a molti apparve in un certo senso evidente una qualche forma di profonda cooperazione europea.
Oltre agli imperativi del momento, altri fattori alimentarono l’immaginazione di quegli attori che diedero forma alla prima integrazione europea. Parte delle aspirazioni verso nuove forme di solidarietà europea può essere ricondotta alle origini di alcuni di tali protagonisti, come Robert Schuman o Alcide De Gasperi: entrambi provenivano da regioni di confine, che nel corso degli anni avevano regolarmente cambiato appartenenza, il che li rendeva profondamente consapevoli della complessa relazione tra appartenenza locale e identità nazionale. Anche le esperienze personali della Seconda guerra mondiale furono determinanti, sia per quei leader europei che strinsero nuovi legami durante il loro esilio all’estero, come Jean Monnet e Paul-Henri Spaak, sia per coloro che avevano sperimentato in prima persona i pericoli di un nazionalismo incontrollato, come Adenauer.
Una comunità di intenti tra molti dei primi artefici di un’Europa unita può essere fatta risalire anche alla loro comune appartenenza alla Democrazia cristiana. L’ideale europeo era stato strettamente legato al pensiero cristiano da figure influenti come Jacques Maritain, e ulteriormente sostenuto dall’interesse per l’unificazione europea manifestato da papa Pio XII. Il fatto che, verso il 1950, i partiti democratico-cristiani fossero al governo in molti Paesi dell’Europa continentale avrebbe certamente favorito i primi passi dell’integrazione europea[6].
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Tuttavia, la proposta di Monnet, fatta propria da Schuman, non era solo una conseguenza logica del corso della storia né una semplice continuazione del passato. Era al contrario un tentativo deliberato di invertire il corso della storia rispetto a quello che sembrava il suo naturale svolgimento. Lasciata andare «con il pilota automatico», l’Europa avrebbe potuto facilmente ricadere nei suoi vecchi demoni. Tracciare un’altra rotta richiedeva, da un lato, una chiara visione di un futuro migliore: gli ideali e la buona volontà di fondo c’erano, ma non erano sufficienti. Dall’altro lato, per preservare le aspirazioni europee alla pace e all’unità e per dare alla speranza un futuro, il progetto doveva trovare un nuovo veicolo, determinare un cambio di paradigma.
Un nuovo percorso
Il percorso tracciato dalla Dichiarazione Schuman cerca di evitare le insidie di due approcci logici alle difficoltà dell’Europa. Il primo consisteva nel creare strutture intergovernative ad hoc, finalizzate a gestire problemi specifici, o nell’istituire organi intergovernativi di coordinamento. Un simile approccio non comporta alcuna perdita di sovranità per gli Stati e si basa su decisioni negoziate. Il pericolo è che il risultato della negoziazione spesso non si fondi su una soluzione ottimale, ma su un equilibrio tra i diversi interessi nazionali. Inoltre, si tratta di un equilibrio di potere, che potrebbe essere percepito come ingiusto qualora un attore si trovasse in una posizione di debolezza. Il modo in cui la Francia affrontò la reintegrazione della Germania, dando priorità alla propria sicurezza e sentendosi al contempo minacciata dai tentativi anglosassoni di modificare lo status quo, dimostra i limiti di tale percorso.
Il secondo approccio, più vicino agli ideali del federalismo, non cerca di fornire soluzioni dirette a problemi specifici. Piuttosto, cerca di creare un nuovo quadro generale entro cui risolvere tutti i problemi futuri. Logicamente, tale quadro trarrebbe la propria legittimità da qualche tipo di sostegno popolare, assumendo la forma di un processo costituente, dell’istituzione di qualcosa che almeno assomigli a una costituzione. Dotata di una propria legittimazione democratica, la nuova entità può giustificare il proprio potere rispetto alle precedenti istituzioni nazionali. Tuttavia, una simile soluzione richiede un enorme slancio politico per essere avviata. Ne è un esempio la proposta di una piena unione politica tra Francia e Germania avanzata da Adenauer nel marzo del 1950 e respinta come prematura.
Il nuovo approccio, che è alla base della Dichiarazione, affronta una questione specifica, sottraendola alle competenze nazionali e ponendola sotto una nuova autorità sovranazionale. In tal modo, gli ex concorrenti devono vedere la situazione da una nuova prospettiva. Questa nuova dinamica, se gestita con onestà, li spinge ad adottare una prospettiva più ampia, che apre nuove possibilità. Regolamentazioni vantaggiose, come le leggi antitrust, che in precedenza avrebbero potuto essere rifiutate o rinviate per timore di indebolire la posizione del proprio Paese, diventano improvvisamente concepibili, una volta che vengano applicate equamente a tutti. Inoltre, una sottomissione comune a un’autorità sovranazionale ristabilisce l’uguaglianza tra i Paesi, e con essa anche la dignità, perché i Paesi in posizione di debolezza non sono più costretti a elemosinare concessioni, ma partecipano equamente al processo decisionale. Idealmente, gli Stati vengono così spinti ad abbandonare l’atteggiamento di commercianti che cercano i propri interessi e ad assumere invece quello di collaboratori alla ricerca del modo migliore per costruire qualcosa insieme. Presumibilmente, nelle intenzioni di Schuman e Monnet, questo atteggiamento di cooperazione avrebbe dovuto radicarsi ed estendersi a nuovi settori della vita economica e politica.
Qui si assiste a un chiaro trasferimento di sovranità dagli Stati nazionali alla nuova autorità. Esso è reso politicamente accettabile, in un primo momento, dalla sua portata limitata. Tuttavia, la legittimità democratica a lungo termine di un tale approccio può essere paragonata a una scommessa di speranza. Con gli Stati nazionali ancora in vita, la nuova struttura dovrà dimostrare la necessità della sua esistenza in base ai risultati che sarà in grado di produrre. La complessità della valutazione di tali risultati deriva dal fatto che alcuni di quegli obiettivi sono ambiziosi e fluidi, mentre altri sono più pratici.
Gli obiettivi della Dichiarazione
Il testo della Dichiarazione[7] prevede innanzitutto molteplici obiettivi ambiziosi, legati alla messa in comune del carbone e dell’acciaio: creare una solidarietà di fatto, eliminare la secolare opposizione tra Francia e Germania, rendere materialmente impossibile qualsiasi guerra tra i due Paesi, gettare solide basi per la loro unificazione economica, contribuire all’innalzamento del tenore di vita, perseguire lo sviluppo del continente africano ecc. Tutti questi obiettivi si riassumono in un’unica dinamica: una fusione di interessi indispensabile per la creazione di un sistema economico comune, da cui possa nascere una comunità più ampia e profonda. Questa comunità, necessaria per preservare la pace, dovrebbe prendere corpo in una Federazione europea.
Gli obiettivi pratici della Dichiarazione appaiono piuttosto modesti rispetto a questa grande visione. Essi sono enunciati così: 1) assicurare nel più breve tempo possibile la modernizzazione della produzione e il miglioramento della sua qualità; 2) fornire carbone e acciaio a condizioni identiche ai mercati francese e tedesco, nonché a quelli degli altri Paesi membri; 3) sviluppare esportazioni comuni verso altri Paesi; 4) uniformare e migliorare le condizioni di vita dei lavoratori in queste industrie.
Qualsiasi valutazione dell’eredità della Dichiarazione Schuman, o della traiettoria del progetto europeo alla luce dei suoi princìpi fondanti, deve tener conto di questi molteplici livelli di intenzionalità. Un primo livello di interrogativi deve riguardare gli obiettivi pratici dell’impresa, che si rivelano come un intreccio complesso. Lungi dall’essere focalizzati semplicemente su un mercato ottimale del carbone e dell’acciaio o sulla crescita economica, essi rivelano anche una preoccupazione sociale per le condizioni di vita dei lavoratori (e non solo per le loro condizioni di lavoro). La scelta delle industrie del carbone e dell’acciaio non era infatti disgiunta da una riflessione sociale: le condizioni lavorative in tali industrie erano emblematiche di quelle affrontate dalla classe operaia nel suo complesso. In due discorsi pronunciati al Collegio di Bruges nel 1953[8] – che probabilmente sono tra i migliori commenti che si possano leggere sulla Dichiarazione –, Schuman sottolineava l’importanza dei sindacati nella definizione dell’atto fondativo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Allo stesso modo, il riferimento all’uguaglianza delle condizioni di vita confuta l’idea che le condizioni di vita in tutta Europa si possano armonizzate semplicemente attraverso le forze del mercato. Impatto economico, progresso sociale e armonizzazione degli standard di vita: ecco tre indicatori di una visione concreta dell’Europa.
Non sorprende che questi obiettivi concreti si integrino perfettamente con gli obiettivi ambiziosi menzionati nella Dichiarazione. Ciò che era stato previsto per il settore del carbone e dell’acciaio era infatti solo un modello iniziale per un progetto più ampio. Nei suoi discorsi del 1953, Schuman tuttavia sottolineò che questo settore era, in pratica, un obiettivo abbastanza facile. Il livello tecnologico simile tra i Paesi, il numero ridotto di imprese rispetto alla loro importanza per l’economia, l’indipendenza da fattori culturali facevano sì che l’armonizzazione non presentasse particolari difficoltà. Oggi, questo motivo di preoccupazione potrebbe tradursi nel chiedersi se, in primo luogo, lo sviluppo indotto dalla partecipazione all’Unione europea sia sufficiente ad assicurare la coesione di un’Unione sempre più diversificata e, in secondo luogo, quanto siano dannose per la dinamica dell’integrazione politica le persistenti differenze di ricchezza tra i Paesi europei.
L’accenno al contribuire allo sviluppo dell’Africa, per quanto ambiguo potesse essere nel 1950 nel contesto del colonialismo ancora in corso, dovrebbe anche indurre a una riflessione critica, quando si tratta del rapporto tra un continente ricco e il resto del mondo[9].
Per approfondire ulteriormente la questione, bisognerebbe chiedersi se gli sviluppi degli ultimi 75 anni abbiano effettivamente portato a quella fusione di interessi e a quel sistema economico comune immaginati da Monnet. Alla luce degli evidenti risultati raggiunti dall’Unione europea, una domanda più pertinente che potremmo porci è se un sistema economico apparentemente comune abbia effettivamente portato a una fusione commensurabile di interessi nazionali, da un punto di vista oggettivo come pure soggettivo.
La comunità come obiettivo
Quando si tratta di valutare l’obiettivo finale della Dichiarazione Schuman, sarebbe un tragico errore confondere il mezzo – un’Europa federale – con il fine – la creazione di una comunità –. In effetti, il risultato finale formale previsto – il federalismo – era soltanto un modo per preservare ciò che era stato raggiunto durante l’intero processo. L’idea di comunità dà un’anima al federalismo. Il pericolo sarebbe quello di concentrarsi sulle istituzioni e sui progressi esteriori raggiunti verso il federalismo formale, senza valorizzare ciò che esso incarna realmente: la cura reciproca, la fiducia, la solidarietà. Tutti questi valori non si scoprono creando istituzioni, ma attraverso l’esperienza esistenziale del lavoro comune, reso a sua volta possibile da nuove istituzioni e dall’esplorazione comune di nuovi campi di cooperazione.
L’accento posto sulla comunità permette inoltre di creare un ponte tra la dimensione collettiva e quella personale. Mentre gli ideali di azione comune, appartenenza e responsabilità possono orientare l’azione collettiva e fornirle una direzione, essi possono essere sperimentati solo da persone concrete. Poiché l’Europa non può mobilitare le risorse della storia nazionale per giustificare la propria esistenza come comunità «naturale», essa deve continuamente interrogarsi su come aiutare i propri cittadini a sperimentare concretamente questo senso di comunità attraverso l’azione comune.
In quest’ottica, consentire all’Unione europea di svilupparsi verso uno stile di relazioni tra i suoi membri più transnazionale, nel quale la conciliazione degli interessi nazionali venga considerata soddisfacente tanto quanto il consenso innovativo, rappresenterebbe un tradimento delle intenzioni dei suoi fondatori pari a quello di un totale euroscetticismo.
Sempre a Bruges, nel 1953, Schuman spiegò come l’idea di comunità fosse al centro delle sue azioni: «Si tratta di un cambiamento senza precedenti nel nostro pensiero politico. L’idea di comunità deve costituire la base di tutte le future relazioni tra Paesi belligeranti. Questo è l’inizio di una comunità generalizzata, una comunità politica, una comunità militare, una comunità economica, al di là del settore del carbone e dell’acciaio. Questa è l’inevitabile catena degli eventi che volevamo. […] Questa comunità, questo principio di comunità, è una di quelle idee potenti, un’idea paragonabile a una scoperta scientifica il cui risultato non solo rimane stabilmente consolidato nel proprio campo, ma diventa anche il punto di partenza per nuovi progressi, più adatto alle esigenze di un’epoca più evoluta. La storia umana è quindi costituita da fasi successive, ciascuna delle quali si basa sulle esperienze precedenti, ma apporta il proprio contributo distintivo. Cerchiamo quindi, come nazioni e come individui, di essere gli strumenti della Provvidenza quando si tratta di individuare e far emergere quegli elementi che non abbiamo inventato noi, ma che dobbiamo portare alla luce nella nostra coscienza e nella coscienza dei popoli con cui siamo in cammino»[10].
In tempi di rinnovata polarizzazione, si corre il rischio di leggere queste parole e giudicarle ingenue, segni di un periodo di eccessivo ottimismo. Ma, così facendo, dimenticheremmo che questo appello alla comunità non è stato lanciato in tempi più facili dei nostri. Inoltre, perderemmo di vista il fatto che la comunità a cui Schuman aspirava non era un dato di fatto, ma qualcosa ancora da realizzare, qualcosa ancora da costruire sulle ceneri della guerra e di secoli di risentimenti. Così facendo, ci condanneremmo alla disperazione e all’isolamento, perché non c’è un modo giusto di relazionarsi agli altri se non all’interno di una comunità.
Qualunque giudizio possiamo dare sui risultati dei 75 anni di integrazione europea, la questione non è se abbiamo realizzato una comunità europea. Realisticamente, non l’abbiamo realizzata, e probabilmente non la realizzeremo mai completamente. La domanda è piuttosto: permettiamo ancora all’idea di comunità di plasmare le nostre speranze per l’Europa?
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[1]. Cfr Francesco, Spes non confundit. Bolla di indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025, 9 maggio 2024.
[2]. Cfr Discussion paper by Jean Monnet, 3 maggio 1950, disponibile sul sito web del Centre virtuel de la connaissance sur l’Europe, cvce.eu/obj/discussion_paper_b…
[3]. Cfr E. Letta, «Much more than a Market (Speed, Security, Solidarity)», aprile 2024 (https://www.consilium.europa.eu/media/ny3j24sm/much-more-than-a-market-report-by-enrico-letta.pdf).
[4]. Cfr M. Draghi, «Il futuro della competitività europea», settembre 2024 (eunews.it/2024/09/09/il-rappor…).
[5]. È l’idea secondo la quale il mercato europeo sia così rilevante da spingere le imprese ad adottare le normative dell’Ue – spesso più rigorose – come linee guida e pratiche di riferimento per operare non solo nell’Unione, ma anche a livello globale.
[6]. Per un’introduzione ai primi anni dell’integrazione europea dalla prospettiva dei padri fondatori, cfr V. M. de la Torre, Europe, a Leap into the Unknown: A Journey Back in Time to Meet the Founders of the European Union, Frankfurt a. M., Lang, 2014.
[7]. Per il testo della Dichiarazione in italiano, cfr european-union.europa.eu/princ…
[8]. Cfr «Discours de Robert Schuman sur les origines et sur l’élaboration de la CECA», Bruges, 22-23 ottobre 1953 (cvce.eu/obj/discours_de_robert…).
[9]. Questa menzione, di fatto, è assente dal progetto di Monnet e appare soltanto nella versione letta da Schuman, a sottolineare l’importanza attribuita all’argomento.
[10]. «Discours de Robert Schuman sur les origines et sur l’élaboration de la CECA»,cit.
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Il Pkk e la svolta storica di Öcalan
Dopo 40 anni di lotta armata, il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), il gruppo armato curdo che ha combattuto per l’indipendenza e l’autonomia della popolazione curda, ha annunciato ufficialmente di deporre le armi nella sua lotta contro lo Stato turco, che considera questa organizzazione il suo principale nemico. Ciò è avvenuto dietro iniziativa del suo leader supremo, Abdullah Öcalan, imprigionato nell’isola di Imrali, nel Mar di Marmara, e su decisione del Comitato esecutivo del Pkk, che ha la sua sede nel Nord dell’Iraq. Öcalan non guida più attivamente l’organizzazione dal 1999 (anno del suo arresto), ma la sua figura rimane centrale nella storia del movimento. Di fatto, egli continua a esercitare una grande influenza sull’organizzazione e sulla sua ideologia politica. La decisione avrà certamente conseguenze, oltre che in Turchia, anche in tutta la regione, soprattutto in Siria e in Iraq, dove sono attivi gruppi alleati o vicini al Pkk[1].
Ricordiamo che i curdi in Medio Oriente sono circa 40 milioni[2], distribuiti in diversi Paesi (Turchia, Siria, Iraq e Iran); 15 milioni sono presenti nella parte anatolica della Turchia[3], dove si è sviluppata l’organizzazione armata. Se alle parole e alle decisioni seguiranno i fatti, come si spera, si tratterebbe di una svolta storica per la Turchia e per l’intero Medio Oriente, che non va in nessun modo sottovalutata.
Il messaggio di Öcalan
Il messaggio di Öcalan è datato 25 febbraio 2025 ed è stato letto in una conferenza stampa da una rappresentanza del partito filo-curdo Dem (Partito democratico dei popoli), la terza forza politica rappresentata nel Parlamento turco e il maggior partito di opposizione. Si legge nel documento: «Non c’è alternativa alla democrazia per ottenere rispetto per le identità, libera espressione e autoorganizzazione democratica. Tutti i gruppi devono abbandonare le armi, il Pkk deve sciogliersi». Öcalan poi afferma: «La volontà di Bahçeli, insieme con la volontà de Presidente [Erdoğan] e le risposte positive degli altri partiti hanno creato le condizioni per chiedere di deporre le armi. Davanti alla Storia mi prendo la responsabilità di questo appello»[4].
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Era dal mese di ottobre 2024 che il governo turco trattava con i curdi, attraverso la mediazione di Devlet Bahçeli, per porre fine al lungo conflitto che, a partire dagli anni Ottanta, aveva causato la morte di circa 40.000 persone. Va ricordato che Bahçeli è un leader del Partito del movimento nazionalista (Mhp), che è al governo con Erdoğan, quindi tradizionalmente lontano dalla causa nazionale curda[5]. I colloqui si sono intensificati dopo la caduta, a dicembre, di Assad in Siria, che faceva intravedere ai turchi maggiori spazi di manovra e la possibilità di porre fine al terrorismo curdo. Il Pkk è considerato un’organizzazione terroristica non solo dalla Turchia, ma anche dagli Stati Uniti e dall’Unione europea. Da parte curda, la svolta per l’autoscioglimento è maturata in tre incontri in carcere tra Öcalan e alcuni deputati del Partito democratico dei popoli. L’appello ha avuto un’accoglienza positiva sia da Nechirvan Barzani, il leader curdo della regione autonoma irachena, dove il Pkk ha basi e depositi di armi, sia dalla comunità internazionale, come l’Onu, la Casa Bianca e le cancellerie occidentali[6].
Un’opportunità storica
Il presidente turco Erdoğan ha definito l’annuncio un’opportunità storica, ma non si sa ancora che cosa abbia concesso o concederà in cambio il governo di Ankara, anche se Öcalan, che è un fine politico, ha certamente ricevuto alcune promesse. I curdi, da parte loro, vogliono diritti, autonomia amministrativa e la liberazione di centinaia di prigionieri politici rinchiusi nelle carceri turche[7]. Tra essi, il leader del Dem Selahattin Demirtaş, condannato a 42 anni di prigione con una sentenza contestata dalla Corte di giustizia europea. Come minimo, il Dem si aspetta la fine della repressione che deve subire in quanto viene considerato dal governo in carica il braccio politico del Pkk: un’accusa che è stata sempre negata dal partito filo-curdo. Inoltre, si aspetta il riconoscimento della legittimità delle elezioni amministrative in molti comuni curdi: negli ultimi 10 anni oltre un centinaio di sindaci del partito Dem, democraticamente eletti, sono stati licenziati e sostituiti dal governo, e in alcuni casi arrestati. Decine di altri politici curdi hanno subìto la stessa sorte.
L’appello di Öcalan e l’autoscioglimento del Pkk dovrebbero normalizzare la situazione e avviare un processo di pacificazione, sebbene Erdoğan abbia detto che non intende scendere a patti con il Pkk. Ciò che la Turchia sta cercando, egli ha dichiarato, non è un processo di pace, ma la resa incondizionata del movimento armato. Nel primo sabato di Ramadan, il premier ha affermato di essere pronto a riprendere le operazioni militari contro il Pkk, fino all’eliminazione dell’ultimo terrorista, «se la promessa di lasciare le armi rimane in stallo e vedremo solo qualche mossa apparente e qualche cambio di nome»[8].
Non tutti nell’organizzazione hanno accolto favorevolmente l’appello di Öcalan; Cemil Bayik, uno dei fondatori del Pkk e membro del Consiglio esecutivo dell’Unione delle comunità curde, in un messaggio ha affermato: «Il popolo curdo combatte per difendersi ed evitare lo sterminio. Se ci siamo armati, è perché la Turchia persegue politiche di violenza, guerra e massacri per eliminare i curdi. Se il Pkk si disarma, si risolve il problema? No. Se lo “zio” Öcalan fa questo appello, il problema svanisce? No. Lo Stato turco sta ingannando sia la sua società sia la comunità internazionale»[9].
Cauta è stata la reazione di Mazloum Abdi, comandante delle Forze democratiche siriane (Fds), che sostengono i curdi al confine siriano nel Rojava. Egli ha detto di accogliere con favore la prospettiva di pace in Turchia, ma ha lasciato intendere che il suo gruppo non è vincolato alle dichiarazioni del Pkk: «Non vogliamo sciogliere le Fds; al contrario, crediamo che rafforzeranno il nuovo esercito siriano»[10].
Nonostante lo scetticismo di una parte dei miliziani curdi, la dirigenza del Pkk ha accolto l’appello di Öcalan e ha dichiarato unilateralmente il cessate il fuoco a partire dal 1° marzo 2025, per «aprire la strada alla pace – si legge nel comunicato – e a una società democratica», sottolineando che, se «non saremo attaccati, non attaccheremo»[11]. Secondo quanto dichiarato, il gruppo è pronto a convocare un congresso che sancirà formalmente l’autoscioglimento dell’organizzazione paramilitare, come stabilito dal suo fondatore. A tale riguardo, si chiede che Öcalan venga rilasciato dalla prigione e che possa presiedere il congresso. Cosa che non sembra per nulla facile.
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Insomma, siamo di fronte a un passaggio storico, che dovrebbe segnare la fine del lungo e sanguinoso conflitto tra Pkk e Stato turco. Secondo Gülistan Kiliç Koçyiğit, vicepresidente del partito Dem, «adesso si apre un’occasione grazie alla quale non solo i curdi, ma tutti i turchi possono vincere. Perché ciò che chiamiamo questione curda è in realtà una questione di libertà, un problema di uguaglianza, un problema del riconoscimento dell’identità, un problema di accettazione come popolo»[12].
Secondo alcuni osservatori, lo scioglimento del gruppo armato negli ultimi tempi era prevedibile, dal momento che esso aveva subìto numerose sconfitte da parte dell’esercito turco. «Da un punto di vista militare – si è detto –, l’organizzazione è molto indebolita. I suoi vertici hanno accettato l’accordo anche perché negli ultimi dieci anni la Turchia ha fatto notevoli sforzi, in termini di nuove tecnologie, droni e armi, per indebolirlo militarmente»[13].
Öcalan dalla lotta armata alla lunga prigionia
Ma chi è Abdullah Öcalan, denominato dai propri sostenitori e amici «Apo» (in curdo, «zio»)? Nato nel 1949 da una famiglia di contadini nel villaggio di Omerli, Öcalan si avvicinò all’estrema sinistra quando frequentava, ad Ankara, la Facoltà di Scienze politiche. Nel 1978, assieme a un gruppo di studenti universitari curdi, fondò il Pkk, ponendo l’ideologia marxista-leninista alla base della lotta di liberazione del Kurdistan. Ne 1980 fu mandato in esilio fuori dalla Turchia e iniziò il suo peregrinare tra Damasco e la Valle della Bekaa libanese (che a quel tempo apparteneva alla Siria). Lì i curdi del Pkk si addestravano per la lotta armata, sparando a manichini e imparando ad assemblare ordigni esplosivi[14]. Nel 1998 Damasco gli intimò di abbandonare il Paese, e così Öcalan continuò la sua peregrinazione alla ricerca di un asilo politico. Dopo aver cercato rifugio in Russia, in Italia (65 giorni) e in Grecia, nel 1999 venne catturato a Nairobi, in Kenya, dagli agenti dei servizi segreti turchi. Detenuto nell’isola-prigione di Imrali, fu condannato alla pena di morte per tradimento e attentato alla sovranità dello Stato. Questa pena nel 2002 gli fu commutata in ergastolo.
L’attività terroristica del movimento cominciò nell’estate del 1984, quando il Pkk prese di mira le postazioni e i blindati dell’esercito turco. Fu l’inizio di uno scontro che durò 40 anni ed ebbe il suo epicentro nel sud-est della Turchia, regione a maggioranza curda[15]. Lo scontro, negli anni, assunse i connotati di una vera e propria guerra civile combattuta da un’organizzazione paramilitare (composta da circa 10.000 guerriglieri) che sia Ankara sia i Paesi occidentali considerano terroristica. Öcalan è ritenuto il leader dell’organizzazione; la sua persona è quasi oggetto di culto da parte dei suoi sostenitori, e di fatto le sue decisioni influenzano i destini dei curdi turchi, siriani e iracheni. Del resto, è proprio in Iraq, sulle montagne di Qandil, al confine con l’Iran, che è situato il quartiere generale dell’organizzazione.
I 26 anni di prigionia in un carcere di massima sicurezza, e in regime di isolamento, per Öcalan non sono trascorsi invano. Per l’organizzazione da lui creata è stato come un nuovo inizio sotto il profilo ideologico-politico. In quegli anni, egli ha cambiato il paradigma della lotta curda, «passando dall’indipendenza e dai postulati marxisti-leninisti a una visione confederale per i popoli del Medio Oriente, basata sulla democrazia diretta, sul femminismo e sull’ambientalismo, che oggi è condiviso da gran parte delle organizzazioni curde»[16]. In effetti, anche se i curdi sono in gran parte musulmani sunniti, nelle loro comunità le donne hanno ruoli politici e amministrativi di rilievo e l’autonomia locale di solito è molto sviluppata. Va anche sottolineato che essi non sono, come gli sciiti o i drusi, una fazione del variegato molto islamico, ma semplicemente un popolo che vive sparso in diversi Paesi, senza patria, senza uno Stato che li rappresenti.
Tornando all’appello di Öcalan, va ricordato che esso non è l’unico da lui lanciato in tutti questi anni. Altri appelli per la pacificazione erano stati inviati dalla prigione di Imrali. In quello del 28 settembre 2006, Öcalan, attraverso il suo legale, chiedeva al Pkk di dichiarare un armistizio e di cercare di raggiungere la pace con la Turchia: «È molto importante – scriveva – costruire un’unione democratica tra i turchi e i curdi. Con questo processo la via al dialogo democratico verrà finalmente aperta»[17]. Il messaggio non ebbe però alcun risultato e la lotta continuò come prima. Un nuovo appello dello stesso tenore fu lanciato nel marzo del 2013, quando Erdoğan era primo ministro e considerava Öcalan, per la sua grande autorevolezza e popolarità tra i curdi, la persona giusta per porre fine ai combattimenti. In un messaggio letto davanti a un’immensa folla radunata in occasione del capodanno curdo, nel marzo del 2015, Öcalan scrisse: «Questa lotta del nostro movimento quarantenne, che è stata piena di dolore, non è andata sprecata, ma allo stesso tempo è diventata insostenibile»[18]. Allora si arrivò a un cessate il fuoco, che però dopo pochi mesi, il 25 luglio 2015, saltò, e il conflitto entrò nella sua fase più sanguinosa. In quella occasione alcune città a maggioranza curde, come Diyarbakir, furono distrutte dall’esercito turco.
La differenza tra gli appelli precedenti di Öcalan e l’ultimo è che, mentre i primi chiedevano una tregua nei combattimenti, ora il leader e il comitato esecutivo del Pkk chiedono all’organizzazione di deporre le armi, di sciogliersi e di accettare il percorso democratico nazionale. Il cammino verso la pacificazione appare non scontato. La decisione del Pkk ha rappresentato certamente un’apertura importante, ma è stata accolta con cautela da entrambi i fronti. Alcuni settori della società turca hanno denunciato l’operazione come un tradimento nei confronti delle famiglie delle vittime degli attentati del Pkk. Inoltre, tra le forze nazionaliste c’è un forte scettiscismo nei confronti della pacificazione; in particolare, c’è il timore che ai curdi vengano concessi diritti di autoregolamentazione troppo ampi[19].
Conclusione
L’appello di Öcalan avrà una grande ripercussione anche fuori della Turchia, in particolare al confine siriano del Rojava, roccaforte dei curdi, dove le Fds, sostenute militarmente dagli Stati Uniti (presenti nel territorio con circa 2.000 soldati[20]), subiscono le pressioni sia dal nuovo governo di Damasco sia dalla Turchia, che ne chiedono insistentemente la soppressione. In particolare, la nuova leadership siriana, guidata dal presidente ad interim Ahmed al-Sharaa, vuole che le Fds si disarmino e si sciolgano, proponendo di inserirne una parte nel nuovo esercito nazionale siriano e, inoltre, che il controllo delle numerose riserve di idrocarburi nelle regioni in mano alle forze curde venga trasferito a Damasco[21]. I curdi, da parte loro, sono disposti a integrarsi in Siria, ma come unità collettiva, non come individui[22].
La Turchia nel frattempo ha minacciato un’offensiva di terra contro le milizie curde presenti nel Fds[23], perché le considera un’estensione del Pkk. Da tempo Ankara stava pianificando un’operazione contro il Pkk nel nord della Siria. Questo non è stato possibile, perché all’inizio del 2025 c’è stato un cambio di potere a Damasco[24]. Recentemente, il governo di al-Sharaa ha raggiunto un accordo con il capo delle Fds per l’integrazione di tutte le istituzioni civili e militari curde del nord-est della Siria, all’interno dell’amministrazione statale. L’attuazione di questo piano è prevista entro la fine del 2025. Nell’accordo è specificato che «la comunità curda è una componente essenziale dello Stato siriano, che garantisce il suo diritto alla cittadinanza e tutti i suoi diritti costituzionali»[25].
Infine, l’appello di Öcalan alla pacificazione ha anche un’importante ricaduta sulla politica interna turca. Erdoğan, il cui mandato presidenziale scade nel 2028, non potrà ricandidarsi, a meno che non riuscirà a convincere il Parlamento a modificare la Costituzione o a indire elezioni anticipate. Poiché il suo Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp) e il suo partner di coalizione (ilPartito del Movimento Nazionalista) non hanno i numeri per portare avanti tale progetto, egli potrebbe aver bisogno dell’aiuto di un altro grande partito. Alcuni osservatori «ritengono che egli finirà per usare il nascente processo di pace e il possibile sostegno del Dem, partito filo-curdo, per ottenere ciò che vuole»[26]. In ogni caso, lo scioglimento del Pkk potrebbe dargli quella spinta di popolarità fondamentale per prolungare il suo governo. Erdoğan «potrebbe passare alla storia come colui che ha ridimensionato o addirittura pacificato e completamente disarmato il Pkk»[27]. E questo gli darà, anche in termini elettorali, molto credito.
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[1] Cfr F. Gnetti, «Come la decisione di Öcalan può cambiare le cose in Siria e in Iraq», in Internazionale, 6 marzo 2025.
[2] Cfr P. Haski, «Il futuro del popolo curdo dopo il discorso di Abdullah Öcalan», in Internazionale, 28 febbraio 2025.
[3] Cfr «One of the world’s longest conflicts may be ending», in The Economist, 27 febbraio 2025.
[4] F. Tonacci, «Turchia, storico appello di Öcalan: “Il Pkk si sciolga e deponga le armi”», in la Repubblica, 28 febbraio 2025.
[5] Cfr M. Ricci Sargentini, «La svolta storica di Öcalan: “Basta armi, il Pkk si sciolga”», in Corriere della Sera, 28 febbraio 2025, 14.
[6] Cfr ivi.
[7] Cfr P. Haski, «Il futuro del popolo curdo dopo il discorso di Abdullah Öcalan», cit.
[8] F. Tonacci, «Il Pkk depone le armi. Svolta storica in Turchia: “Ora liberate Öcalan”», in la Repubblica, 2 marzo 2025.
[9] Id., «Turchia, storico appello di Öcalan: “Il Pkk si sciolga e deponga le armi”», cit.
[10] T. Krotoff, «Cosa cambia dopo l’invito di Öcalan a deporre le armi», in Internazionale, 7 marzo 2025.
[11] F. Tonacci, «Il Pkk depone le armi…», cit.
[12] Ivi.
[13] T. Krotoff, «Cosa cambia dopo l’invito di Öcalan a deporre le armi», cit.
[14] Cfr F. Tonacci, «Lo zio che sognava una patria e ha mostrato al mondo la causa del popolo curdo», in la Repubblica, 28 febbraio 2025.
[15] I curdi in Turchia rappresentano il 20% della popolazione. Cfr P. Haski, «Il futuro del popolo curdo dopo il discorso di Abdullah Öcalan», cit.
[16] M. Ricci Sargentini, «La lotta, la fuga e l’infinita prigionia. L’odissea di “Apo” che coinvolse l’Italia», in Corriere della Sera, 28 febbraio 2025, 15.
[17] Ivi.
[18] Ivi.
[19] Cfr msn.com/it-it/notizie/mondo/tu…
[20] Erdoğan ha chiesto a Trump di ritirare le truppe e di lasciare che l’esercito turco si occupi della gestione dei campi di detenzione dove sono internati i guerriglieri dell’Is e le loro famiglie. Considerata la politica di disimpegno del nuovo Presidente, è possibile che gli Usa in futuro abbandonino il Paese.
[21] Cfr «One of the world’s longest conflicts may be ending», cit.
[22] Cfr F. Gnetti, «Come la decisione di Öcalan può cambiare le cose in Siria e in Iraq», cit.
[23] Le cosiddette «Unità di difesa popolare», che costituiscono la spina dorsale delle Fds.
[24] Cfr C. Hage, «L’ultimatum della Turchia alle forze curde», in Internazionale, 17 gennaio 2025.
[25] F. Tonacci, «Siria, caccia jihadista agli alawiti. Damasco fa l’accordo con i curdi», in la Repubblica, 11 marzo 2025.
[26] «One of the world’s longest conflicts may be ending», cit.
[27] T. Krotoff, «Cosa cambia dopo l’invito di Öcalan a deporre le armi», cit.
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La concezione cristiana dell’impresa
San Giovanni Paolo II, incontrando lavoratori e imprenditori durante la sua visita in Spagna nel 1982, affermò che il lavoro, pur essendo certamente un bene dell’uomo e per l’uomo, non può essere adeguatamente valorizzato se per prima cosa non si riconosce l’inviolabile dignità di ogni essere umano. Aggiunse che la disoccupazione involontaria va contro il diritto ad avere il lavoro, che è un diritto fondamentale, perché assolutamente necessario per poter soddisfare le necessità vitali. E dopo aver riconosciuto ed elogiato gli imprenditori per l’opera che svolgono, in quanto generatori di occupazione e di ricchezza, li invitò a riflettere sulla concezione cristiana dell’impresa. Ricordò loro che l’economia non ha senso se non è riferita all’uomo, al cui servizio deve porsi. Poiché il lavoro è per l’uomo, e non l’uomo per il lavoro, di conseguenza l’impresa è per l’uomo, e non l’uomo per l’impresa[1].
Karol Wojtyła, che solo un anno prima aveva pubblicato l’enciclica Laborem exercens (LE)[2], rinnovò la sua proposta centrale: la necessità di superare l’innaturale e illogica antinomia tra capitale e lavoro. Sottolineò che solo l’uomo – imprenditore o lavoratore – è il soggetto del lavoro, ed è persona; il capitale non è altro che un insieme di cose. Concluse sintetizzando il concetto di impresa proprio della Dottrina sociale della Chiesa: essa non è solo una struttura produttiva, bensì una comunità di vita, un luogo dove l’uomo convive e si pone in relazione con i suoi simili e in cui viene favorito lo sviluppo personale.
Ci proponiamo qui di chiarire se questa proposta rappresenti soltanto un ideale o se si tratti di un progetto realizzabile. Quali modelli di impresa può ispirare? E di fatto li ha ispirati?
I rapporti umani in azienda
Che cosa significa considerare l’impresa come una comunità umana? Siamo di fronte a una proposta sviluppata per gradi. La sua portata può essere compresa solo se si mettono in evidenza la retrostante concezione del lavoro, della retribuzione e del ruolo dei lavoratori nella gestione dell’impresa, e quale sia la concezione della funzione e dei doveri dell’imprenditore.
Il lavoro è la preoccupazione primaria della Dottrina sociale della Chiesa. Ne sta addirittura all’origine, dal momento che essa non nasce come una considerazione astratta, ma in reazione alle concrete, e in particolare disumane, condizioni del lavoro nelle fabbriche e nelle miniere che la Rivoluzione industriale aveva causato. Con espressioni molto vicine a quelle di Karl Marx, Leone XIII, nella Rerum novarum (RN), denuncia il fatto che un piccolo gruppo di ricchi abbia imposto poco meno che il giogo della schiavitù a una moltitudine di proletari. Quindi, la prima cosa da fare è liberare i poveri operai dalla crudeltà degli sfruttatori che abusano delle persone. Bisogna fare in modo che la giornata lavorativa non duri più ore di quelle consentite dalle forze, e sempre a condizione che il lavoro venga interrotto di tanto in tanto e ci sia spazio per il riposo[3].
La sua seconda preoccupazione e richiesta è che il salario sia giusto, e da lì si creano le basi per il necessario ruolo dei sindacati. Il salario, elemento fondamentale per giudicare la giustizia dei rapporti tra dipendenti e datori di lavoro, non può essere determinato semplicemente dal libero gioco della domanda e dell’offerta[4]: deve coprire i bisogni della famiglia che è a carico dal lavoratore e, allo stesso tempo, deve tener conto delle condizioni economiche dell’azienda e della società nazionale nel suo insieme. Queste affermazioni furono sottolineate da Pio XI nella Quadragesimo anno (QA).
A poco a poco, nel discorso dei Papi si faceva strada il diritto di partecipazione alla gestione come un requisito naturale del lavoro. Pio XI, raccogliendo la riflessione provocata in quarant’anni di esistenza del sistema capitalista e nella crisi del 1929, consigliava di introdurre nel contratto di lavoro alcuni elementi del contratto societario. Così i dipendenti venivano associati alla conduzione e all’amministrazione e partecipavano in una certa misura dei benefici. Giovanni XXIII ha proseguito questo discorso nella Mater et magistra (MM), e il Vaticano II lo ha ripreso nella Gaudium et spes (GS)[5].
La Laborem exercens (1981) di Giovanni Paolo II rappresenta il culmine della dottrina pontificia, in quanto considera il lavoro come la chiave più adeguata per comprendere e valorizzare eticamente tutti i problemi sociali. L’enciclica prende le mosse dalla constatazione del grande conflitto scatenato dalla Rivoluzione industriale tra il «mondo del capitale» e il «mondo del lavoro», perché i datori di lavoro cercano di fissare il salario più basso, togliendo sicurezza al lavoro e garanzie alla salute. Ricorda che il principio della Dottrina sociale della Chiesa è quello della priorità del lavoro sul capitale. Il lavoro è sempre una causa efficiente primaria, mentre il capitale, cioè l’insieme dei mezzi di produzione, è solo uno strumento o la causa strumentale. Il capitale non può essere separato dal lavoro, né il lavoro può essere contrapposto al capitale, o il capitale al lavoro, né agli uomini specifici che stanno dietro a questi concetti. L’enciclica stabilisce che può essere intrinsecamente vero e allo stesso tempo moralmente legittimo quel sistema di lavoro che supera alla radice l’antinomia tra lavoro e capitale, cercando di strutturarsi secondo il principio sopra esposto della priorità sostanziale ed effettiva del lavoro[6].
L’imprenditore nella Dottrina sociale della Chiesa
Certamente la Chiesa ha avuto cura di specificare il profilo dell’imprenditore che ritiene adatto per realizzare la sua proposta riguardante l’impresa, e non poteva essere altrimenti. Lo ha fatto in relazione alle varie circostanze prevalenti. Così Leone XIII, allo scoppio della Rivoluzione industriale, enunciò i rapporti tra datore di lavoro e lavoratore in termini di padrone-operaio. Stabilì che i padroni non dovevano trattare gli operai come schiavi, ma rispettarne la dignità, senza imporre un lavoro eccessivamente gravoso, e remunerare il lavoro tempestivamente. Gli operai dovevano rispettare il contratto, non danneggiare il capitale, non offendere i padroni e non fomentare rivolte.
Questo era il discorso pertinente in quel momento. L’evoluzione degli eventi economici ha fatto sì che nell’analisi entrassero nuovi elementi. Per questo Giovanni XXIII, che continuava e sviluppava la visione di Pio XI sul diritto dei lavoratori a partecipare alla vita attiva dell’impresa, ha attribuito all’imprenditore la missione di garantire l’unità necessaria per una gestione efficiente[7].
In questo contesto, Pio XII ha manifestato il suo caloroso apprezzamento del lavoro degli imprenditori per il ruolo essenziale che essi ricoprono nello sviluppo dell’economia: «Sarebbe sbagliato credere che quest’attività coincida sempre con il proprio interesse […]. Si potrebbe paragonarla piuttosto all’invenzione scientifica, all’opera artistica che nasce da un’ispirazione disinteressata e che si rivolge molto di più all’intera comunità umana che arricchisce»[8]. Paolo VI ha confermato e ampliato questo ritratto dell’imprenditore: «Qualunque sia il giudizio che si voglia dare di voi, si dovrà riconoscere la vostra bravura, la vostra potenza, la vostra indispensabilità. La vostra funzione è necessaria per una società, che trae dal dominio della natura la sua vitalità, la sua grandezza, la sua ambizione. Avete molti meriti e molte responsabilità»[9].
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Visione dell’imprenditore dopo il crollo del comunismo e la crisi del 2008
La Dottrina sociale della Chiesa è un intreccio di princìpi immutabili e applicazioni contingenti e mutevoli in risposta ai diversi problemi che si presentano. Questa dimensione storica, che le è così propria, ha fatto sì che essa reagisse a due eventi di grande importanza. Trentaquattro anni fa, nel 1991, scompariva l’Unione Sovietica. Nel 2008 abbiamo assistito a una nuova crisi finanziaria che ha scosso l’economia internazionale. Due encicliche hanno preso in considerazione gli insegnamenti di tali eventi: la Centesimus annus (CA) di Giovanni Paolo II e la Caritas in veritate (CV) di Benedetto XVI.
Secondo Giovanni Paolo II, il fattore decisivo che ha avviato il processo di caduta del comunismo è stato senza dubbio la violazione dei diritti dei lavoratori (cfr CA 23). A ciò si è aggiunta l’inefficienza del sistema economico a causa della violazione dei diritti umani all’iniziativa, alla proprietà e alla libertà nel settore economico. Ciò lo porta a riconoscere che il libero mercato è lo strumento più efficace per allocare le risorse e rispondere efficacemente ai bisogni; e che sono evidenti e decisivi il ruolo del lavoro umano, disciplinato e creativo, e quello delle capacità di iniziativa e di spirito imprenditoriale come parte essenziale del lavoro stesso[10]. In precedenza Giovanni Paolo II, nella già citata Laborem exercens, aveva distinto due tipologie di datori di lavoro. Quella diretta comprende la persona o l’ente con cui il lavoratore stipula il contratto di lavoro a determinate condizioni; in quella indiretta, invece, rientrano tutti coloro che in un modo o nell’altro influenzano il contratto e le condizioni del lavoro (partiti politici, sindacati, associazioni di categoria, associazioni dei consumatori e lo Stato stesso).
Benedetto XVI, in reazione alla crisi economica del 2008 – la più grave dal secondo dopoguerra, causata dalla speculazione finanziaria basata sui mutui senza garanzie sufficienti concessi negli Stati Uniti –, ha affermato che la grande sfida è quella di dimostrare che non si possono lasciare da parte i princìpi tradizionali dell’etica sociale e che il principio di gratuità e la logica del dono come espressione di fraternità possono e devono trovare posto all’interno della normale attività economica come esigenza della sua logica intrinseca, della carità e della verità[11].
Tutto questo ha dato origine a un documento del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, pubblicato nel 2012 con un titolo un po’ sorprendente: La vocazione del leader d’impresa[12].
La vocazione imprenditoriale
Questo documento è una guida destinata agli imprenditori e ai docenti di economia, che mette in luce l’importanza della vocazione dell’imprenditore nel contesto dell’economia globalizzata, nonché l’apporto dei princìpi fondamentali della Dottrina sociale della Chiesa per l’organizzazione delle moderne attività di impresa[13]. Le sue formulazioni principali possono essere riassunte nei seguenti punti.
- Quando le aziende e i mercati, adeguatamente regolati dai governi, funzionano bene, contribuiscono in modo insostituibile al benessere materiale e spirituale della società. La recente esperienza della crisi finanziaria ha dimostrato fino a che punto, quando ciò non avviene, possano arrivare i danni provocati.
- Gli imprenditori cristiani possono sempre contribuire al raggiungimento del bene comune.
- Le difficoltà a contribuire con il lavoro personale e a servire il bene comune derivano dalle carenze dello stato di diritto, dalla corruzione, dall’avidità e dalla cattiva amministrazione delle risorse; ma, sul piano personale, la difficoltà più grande si manifesta quando si accetta di condurre una vita dissociata e di tributare una deplorevole devozione al successo mondano. Una leadership ispirata al servizio e fondata sulla fede aiuta a bilanciare le esigenze del business con i presupposti dell’etica sociale. Questo richiede di vedere, giudicare e agire.
- Vedere i segni dei tempi implica considerare quattro fattori, anch’essi ambigui e intrecciati: la globalizzazione; lo sviluppo delle comunicazioni; lo sviluppo dell’economia finanziaria; l’ascesa dell’individualismo.
- Le buone decisioni imprenditoriali sono quelle basate sul rispetto della dignità umana e sulla ricerca del bene comune. Ciò porta a produrre beni che soddisfino necessità umane autentiche in modo responsabile, con un’organizzazione che riconosca la dignità dei lavoratori. In base al principio di sussidiarietà, i lavoratori acquisiscono esperienza, si assumono le proprie responsabilità e possono prendere decisioni. Usando la loro libertà e intelligenza, diventano coimprenditori. In questo modo si ottiene una ricchezza sostenibile, che può essere distribuita equamente, cioè attraverso prezzi, salari, benefici e tasse equi.
- I leader aziendali seguono la loro vocazione quando praticano virtù e princìpi etici nel loro lavoro quotidiano. In questo modo, chi ha ricevuto molto restituisce molto alla comunità. I leader creano così un mondo migliore. La loro saggezza pratica consente di rispondere alle sfide, vedendole e giudicandole secondo princìpi illuminati dal Vangelo, e di agire come credenti che servono Dio.
Valutazione del documento
Questo documento approfondisce le potenzialità del mercato nella sua versione migliore e il comportamento corretto da mantenere al suo interno. I contributi fondamentali che offre riguardano, come attesta il titolo, l’attività imprenditoriale, intesa in termini di vocazione cristiana, e la stretta relazione che questa ha con il perseguimento del bene comune, e quindi con una visione positiva di tale attività in quanto generatrice di ricchezza.
La riflessione che vi si dipana è rivolta a coloro che, lavorando nelle aziende, hanno una profonda convinzione di essere stati chiamati da Dio a tale attività, e di essere quindi collaboratori della sua creazione. Si comincia da qui. Questa convinzione, d’altronde, viene subito rafforzata, affermando che la vocazione all’esercizio dell’impresa è un’autentica vocazione dal punto di vista sia umano sia cristiano. Bisogna tener conto del fatto che questo documento nasce in un seminario sulla citata enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI, in cui è centrale la riflessione sullo sviluppo umano come vocazione[14].
L’importanza di tale formulazione è inestimabile. Come abbiamo detto, contrariamente all’opinione di chi tende a vedere i lavori rilevanti nel sistema di mercato come realtà difficilmente compatibili con una vita cristiana e con la pratica della spiritualità, si afferma che tale attività costituisce un’autentica vocazione cristiana, e per giunta di tale importanza da non avere nemmeno bisogno di essere ulteriormente fondata. Essa contribuisce al bene comune. Una buona gestione promuove la dignità dei dipendenti e lo sviluppo di virtù quali la solidarietà, la saggezza pratica, la disciplina e il sacrificio. I potenziali benefìci sono evidenti. Basta guardare alla storia recente per capire come l’innovazione nelle aziende abbia portato prosperità in innumerevoli modi, alcuni notevoli, come l’eliminazione di terribili malattie. Quando parliamo e riflettiamo sui benefìci che lo sviluppo economico ci ha apportato, spesso dimentichiamo di riconoscere coloro che vi hanno svolto un ruolo essenziale: gli imprenditori, creatori di ricchezza, che hanno reso le nostre società più prospere e più umane. A loro dobbiamo attribuire gran parte del merito del fatto che oggi viviamo, nelle aree sviluppate, molto meglio dei nostri genitori e nonni.
Qual è il limite fondamentale di questo documento? Forse il fatto di riflettere un contesto specifico: quello del mondo accademico e imprenditoriale cattolico negli Stati Uniti[15]. Il documento rispecchia i suoi risultati e convinzioni su come le aziende dovrebbero essere a tutti i livelli, ed esprime l’impresa ideale[16]. È consapevole che «costruire una impresa come una comunità di persone […] non è un compito facile. In particolare, le grandi multinazionali possono trovare difficile creare prassi e politiche atte a promuovere una comunità di uomini tra i propri associati»[17].
La realtà delle imprese tradizionali
Le organizzazioni imprenditoriali tradizionali sono caratterizzate dalla separazione dei lavoratori dai proprietari, dalla concentrazione del potere decisionale nella proprietà e dall’attribuzione a essa dei benefìci economici. Poiché mirano soprattutto a massimizzare la ricchezza degli azionisti, perseguono incessantemente la minimizzazione dei costi. Ciò significa che per loro i lavoratori sono un mero fattore di produzione, e pertanto, se c’è da alleviare una situazione economica o semplicemente da migliorare la redditività, esse ricorrono all’attuazione di politiche di licenziamento.
Podcast | INTELLIGENZE ARTIFICIALI E PERSONA UMANA
Con ogni probabilità, la nostra epoca sarà ricordata come quella della nascita delle intelligenze artificiali. Ma cosa sono le intelligenze artificiali? Qual è l’impatto sociale di queste nuove tecnologie e quali sono i rischi? Ascolta la serie completa di Ipertèsti, il podcast de «La Civiltà Cattolica».
La perdita dell’impiego ha conseguenze disastrose per i lavoratori colpiti, per le loro famiglie e per la comunità. Essi subiscono il venir meno del sostegno economico, la comprensibile demoralizzazione, la perdita di autostima, di dignità e l’emarginazione sociale.
È noto che la globalizzazione produttiva comporta la perdita di posti di lavoro, che emigrano verso le economie meno sviluppate, dove i salari sono più bassi[18]. Le acquisizioni implicano che coloro che hanno costruito l’azienda vengano spesso licenziati. L’automazione comporta che i robot svolgano lavori che prima venivano assegnati agli esseri umani. «Ristrutturazione» è un eufemismo che in realtà significa «licenziamento». Inoltre, l’eliminazione dei dipendenti stabili crea un gruppo contingente di lavoratori a tempo limitato e con uno stipendio inferiore. Così si avvantaggia la proprietà.
Spesso vengono offerte spiegazioni inverosimili del licenziamento dei lavoratori, e questo è un attentato alla dignità umana e alla dignità del lavoro umano. Quanti manager si assumono la responsabilità personale, chiedendo scusa per gli errori che hanno contribuito a causare quei problemi che ora essi vogliono risolvere con i licenziamenti? Quanti accettano una riduzione del salario e dei benefìci per condividere l’onere della ristrutturazione? C’è chi guadagna prestigio anche come manager inesorabile, capace di sbarazzarsi delle persone. Per gente simile si tratta solo di forza lavoro.
Questa pratica crea un ambiente di paura e di abuso sul posto di lavoro. Coloro che rimangono occupati spesso si ritrovano sovraccarichi e vulnerabili. Il capo che agisce con metodi coercitivi arreca disagio, provoca dolore. Lavorare in un ambiente intimorito priva le persone della loro dignità: «La paura permea tutto il nostro essere, trasformando il coraggio in codardia, la nostra passione in dolore, la nostra verità in menzogna, e la nostra mente creativa e fertile in una terra desolata. Può distruggere le nostre anime e le nostre idee»[19].
Giovanni Paolo II ha scritto: «Nel lavoro […] l’uomo stesso non subisca una diminuzione della propria dignità. È noto, ancora, che è possibile usare variamente il lavoro contro l’uomo […], che si può fare del lavoro un mezzo di oppressione dell’uomo, che infine si può in vari modi sfruttare il lavoro umano, cioè l’uomo del lavoro» (LE 21)[20]. Nello stesso tempo, Giovanni Paolo II ha condannato il pensiero economico che riduce il lavoro umano a una «merce» che il lavoratore «vende» all’imprenditore, proprietario del capitale, come mero fattore di produzione[21]. Secondo il Premio Nobel per l’economia Milton Friedmann, la responsabilità sociale delle imprese non va oltre l’aumentarne i profitti[22].
L’economicismo porta a escludere le persone
In un mondo sempre più competitivo e agguerrito, i diritti dei lavoratori ne risentono. L’irruzione della Cina nell’economia mondiale ha influito negativamente sui salari di molti lavoratori in Occidente, con conseguenze sociali e politiche[23]. Il fattore «lavoro», dopo la grande recessione del 2008, è stato caratterizzato da un’intensificazione della precarietà e della disuguaglianza, da una maggiore flessibilità e da cambiamenti strutturali derivati dalla polarizzazione dell’occupazione e del progresso tecnologico. Sebbene siano stati compiuti sforzi per mitigare gli effetti della crisi, i suoi impatti sono ancora visibili nelle condizioni lavorative e nelle disuguaglianze socioeconomiche a livello globale[24]. Il Fondo monetario internazionale e l’Organizzazione internazionale del lavoro hanno valutato la situazione in questi termini: «La disoccupazione colpisce con particolare durezza le economie avanzate e avrà ripercussioni sociali a lungo termine, per esempio sulla salute e sui figli dei lavoratori licenziati»[25]. Numerosi studi hanno evidenziato che la disoccupazione e la sottoccupazione sono cause di suicidio[26]. Non è forse proprio questo il contesto della denuncia di papa Francesco: «Oggi dobbiamo dire “no a un’economia dell’esclusione e della inequità”»[27]?
L’immagine che ricaviamo della moderna vita economico-imprenditoriale non è piacevole. Troppe volte chi viene considerato superfluo viene scartato, e chi è semplicemente utilizzato non viene rispettato. Con ciò si corre il rischio che troppi esseri umani non siano in grado di affrontare le sfide che si presentano e cadano nella depressione e nell’emarginazione[28].
Si tratta di mettere in pratica la vocazione che gli esseri umani hanno di essere costruttori di fraternità. La cultura dell’indifferenza e dello scarto va contrastata promuovendo la cultura della cura[29]. Ciò richiede che si affronti la questione centrale di come superare l’antinomia tra capitale e lavoro riconoscendo la priorità del lavoro (cfr LE 13).
Un nuovo modello d’impresa conforme alla dignità del lavoro
Il movimento cooperativo esiste da quasi 200 anni. È nato come reazione agli eccessi del capitalismo. I promotori si ispirarono alle idee dei socialisti utopisti, in particolare a quelle di Robert Owen.
Oggi, più di 720 milioni di persone nel mondo hanno qualche tipo di rapporto con una cooperativa. Il fatto che queste cooperative in nessun Paese rappresentino più del 10% del Pil dimostra che questa formula non è stata un’alternativa maggioritaria alle scelte aziendali tradizionali. Esiste però l’eccezione della Corporación Mondragón. Riferimento mondiale nel movimento cooperativista per sviluppo e coerenza, essa è il più grande gruppo imprenditoriale dei Paesi Baschi e il decimo in Spagna[30], un modello paradigmatico di creazione e mantenimento di posti di lavoro.
Queste imprese sono caratterizzate dal principio che tutte le persone hanno la stessa dignità e devono essere trattate di conseguenza, e che quindi è essenziale promuovere la partecipazione dei lavoratori alla gestione, ai benefìci e alla proprietà delle aziende. La solidarietà tra i componenti si manifesta in una ripartizione retributiva ragionevole. Ciò facilita la coesione sociale e un progetto condiviso. Lo scopo dell’organizzazione non è solo quello di ottenere benefìci, ma di produrre beni utili per le persone e la società, e l’azienda deve anche assumersi la responsabilità di collaborare alla risoluzione dei loro problemi. Queste aziende fanno parte di un gruppo in cui esiste intercooperazione, in modo che una cooperativa accetta le eccedenze di personale delle altre. Nessun socio viene eliminato, ma eventualmente viene trasferito. Padre José María Arizmendiarrieta, il suo ispiratore, aveva come obiettivo un progetto di trasformazione sociale a partire dalla trasformazione dell’impresa in base ai princìpi e ai valori dell’umanesimo cristiano. La sua visione, nelle sue stesse parole, è che «il socio nella cooperativa, oltre a essere un lavoratore, è anche un imprenditore»[31].
Verso un cambio di paradigma
Il nostro grande compito oggi è quello di cercare di evangelizzare l’economia, e questo implica concepire adeguatamente l’impresa, prima cellula economica sociale. Il compito è quello di realizzare un’economia sia etica sia efficace, che abbia a cuore anche la comunità.
Oggi si moltiplicano le alternative all’organizzazione tradizionale. Così nella Caritas in veritate si fa cenno all’Economia di Comunione. Questa, fondata da Chiara Lubich nel maggio 1991 a San Paolo, comprende imprenditori, lavoratori, manager, consumatori, risparmiatori, cittadini, ricercatori e operatori economici impegnati a diversi livelli nella promozione di una prassi e di una cultura economica caratterizzate dalla comunione, dalla gratuità e dalla reciprocità, proponendo e vivendo uno stile di vita alternativo a quello dominante nel sistema capitalista. Altre proposte imprenditoriali che vanno in questa linea sono i movimenti come l’autogestione, l’economia solidale, l’economia di cooperazione, l’economia civile di mercato, l’economia del bene comune e l’economia popolare e solidale.
Sappiamo che nella società i cambiamenti di paradigma non avvengono all’improvviso, né con la stessa celerità in tutte le sue componenti. Ma senza dubbio questo è stato uno degli sforzi di papa Francesco. A mo’ di conclusione, riportiamo qui due paragrafi della Dichiarazione finale di The Economy of Francesco: «Crediamo fermamente che attraverso il lavoro siamo in grado di partecipare alla creazione di Dio, realizzando noi stessi all’interno delle nostre comunità. Chiediamo una nuova cultura del lavoro che dia priorità alla dignità delle persone, che riconosca il contributo di ogni lavoratore, che generi un valore economico condiviso, rompendo la povertà dei lavoratori. […] Crediamo nella gestione come l’arte di unire le persone per il bene comune attraverso la leadership comunitaria, non la supremazia»[32].
Senza credere negli ideali non si può vivere. Realizzarli permette di essere all’altezza della vocazione alla quale siamo stati chiamati (cfr Ef 4,1-13).
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[1]. Cfr Giovanni Paolo II, s., Incontro con i lavoratori e gli imprenditori, Barcellona, 7 novembre 1982 (vatican.va/content/john-paul-i…).
[2]. Con quel documento il Papa avviò il rilancio della Dottrina sociale della Chiesa, dandole una importanza maggiore di quanta ne avesse avuto prima e accentuando aspetti che le elaborazioni del Vaticano II e dello stesso Paolo VI avevano lasciato più in ombra. Giovanni Paolo II era un Papa diverso, veniva dal freddo e aveva conosciuto il vero socialismo in prima persona, e ora si trovava a fronteggiare il liberalismo.
[3]. Questa denuncia conserva tuttora la sua ragion d’essere. Per esempio, ai raccoglitori nei campi della Florida e del Texas (Usa) la legislazione lavorativa non riconosce il diritto alle pause programmate per evitare colpi di calore (cfr aljazeera.com/program/fault-li…).
[4]. Viene in mente il famoso passo di John Steinbeck: «Metti che tu hai lavoro per un operaio, e che per avere quel posto si presenta solo uno. Ti tocca dargli la paga che vuole. Ma metti che si presentano in cento. […] Metti che quel posto lo vogliono in cento. Metti che quei cento hanno dei bambini, e che quei bambini sono affamati. Metti che dieci centesimi bastano per comprare un po’ di farina di mais a quei bambini. […] Tu offrigli cinque centesimi, e vedi se non s’ammazzano tra loro per avere i tuoi cinque centesimi» (J. Steinbeck, Furore, Milano, Bompiani, edizione Kindle Amazon, 2024, 359).
[5]. Cfr QA 65; MM 82-83; GS 65.
[6]. Cfr LE 13.
[7]. Cfr MM 83-91.
[8]. Pio XII, Discorso ai Partecipanti al Congresso dell’Associazione Internazionale degli economisti, Roma, 9 settembre 1956, in Acta Apostolicae Sedis XLVIII, 673.
[9] . Paolo VI, s., Discorso al XI Congresso nazionale dell’Unione cristiana imprenditori e dirigenti, 8 giugno 1964 (vatican.va/content/paul-vi/it/…).
[10]. Cfr CA 23; 24; 32.
[11]. Cfr CV 36.
[12]. Il documento La vocazione del leader d’impresa. Una riflessione trae origine da un seminario, svoltosi nel febbraio 2011, su «Caritas in veritate: la logica del dono e il significato dell’impresa», organizzato dal Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, assieme al John A. Ryan Institute for Catholic Social Thought presso l’Università St. Thomas a Minneapolis, Minnesota, e alla Fondazione Ecophilos. Il documento, preparato da una équipe di colleghi provenienti da tutto il mondo, è stato coordinato da Michael Naughton, direttore del John A. Ryan Institute, e da Helen Alford, attuale presidente della Pontificia Accademia delle scienze sociali (tinyurl.com/yckcd2uj).
[13]. In inglese ne è apparsa, nel 2018, una quarta edizione, in cui vengono inseriti gli insegnamenti più recenti di papa Francesco riguardo alla vocazione dell’imprenditore, all’ecologia integrale, al paradigma tecnocratico e all’importanza di una più equa distribuzione della ricchezza (tinyurl.com/fe32ymfp).
[14]. Cfr CV 11; 16-19.
[15]. Cfr H. Alford – M. Naughton, Managing as if Faith Mattered: Christian Social Principles in the Modern Organization, Notre Dame, IN, University of Notre Dame Press, 2001.
[16]. Cfr S. Del Bove – F. de la Iglesia, «Annotazioni a margine del decennale della pubblicazione del documento “La vocazione del leader d’impresa”», in Gregorianum, n. 103, 2022, 877-900.
[17]. La vocazione del leader d’impresa, cit., 59.
[18]. Cfr M. Camdessus, «Globalization, Subjective Dimensions of Work and the World Social Order», in Pontifical Council for Justice and Peace, Work as Key to the Social Question, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2002, 291-300.
[19]. L. Wright – M. Smye, Corporate Abuse: How «Lean and Mean» Robs People and Profits, New York, MacMillan, 1996, 6.
[20]. Cfr H. Alford, «Job design in the perspective of “Laborem Exercens”, in Pontifical Council for Justice and Peace, Work as Key to the Social Question, cit., 215-233.
[21]. Cfr R. G. Lipsey – P. N. Courant – D. D. Purvis – P. O. Steiner, Economics: Tenth Edition, New York, Harper Collins College Publishers, 1992, 178; P. Drucker, Management: Tasks, Responsibilities, Practices, New York, Harper Colophon, 1985, 40.
[22]. Cfr M. Friedman, «A Friedman Doctrine – The Social Responsibility of Business Is to Increase Its Profits», in The New York Times (nytimes.com/1970/09/13/archive…), 13 settembre 1970.
[23]. Cfr R. B. Freeman, «Are Your Wages Set in Beijing?», in The Journal of Economic Perspectives, vol. 9, n. 3, 1995, 15-32 (aeaweb.org/articles?id=10.1257…).
[24]. F. Hoffer, «La Gran Recesión. ¿Un momento decisivo para el trabajo?», in Crisis financieras, deflación y respuestas de los sindicatos. ¿Cuáles son las enseñanzas?, Ginevra, Oficina internacional del trabajo, 2010 (tinyurl.com/3wxzzmbr).
[25]. «Fuerte aumento del desempleo debido a la recesión mundial», in Boletín del FMI, 2 settembre 2010 (imf.org/external/spanish/pubs/…).
[26]. Cfr A. Skinner et Al., «Unemployment and underemployment are causes of suicide», in Science Advances, vol. 9, n. 28, 12 luglio 2023 (science.org/doi/10.1126/sciadv…).
[27]. Francesco, Evangelii gaudium (EG), n. 53.
[28]. Cfr F. Chica Arellano, «Globalización y desperdicio: grandes desequilibrios y desafíos socioeconómicos y ambientales para la búsqueda de la paz», in Ecclesia 38 (2024) 301-327.
[29]. «Francesco: dobbiamo opporci alla cultura dello scarto con la cultura della tenerezza», in Vatican News (vaticannews.va/it/papa/news/20…), 20 febbraio 2023.
[30]. La Corporación Mondragón impiega più di 70.000 persone; ha una presenza globale e opera nei settori della finanza, dell’industria, della distribuzione e della conoscenza. Conta su una banca, una compagnia di assicurazioni e una propria università. Cfr F. de la Iglesia Viguiristi, «Don José María Arizmendiarrieta, creatore della “esperienza cooperativa di Mondragón”», in Civ. Catt. 2024 IV 373-389.
[31]. J. M. Arizmendiarrieta, Pensamientos. Selección de Joxe Azurmendi, Otalora, 2023, n. 492.
[32]. The Economy of Francisco, Dichiarazione finale di Assisi 2022, nn. 7 e 9 (francescoeconomy.org/it/final-…).
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Il Verbo incarnato tra divinità e umanità
Il ritratto di Gesù nel Vangelo di Giovanni differisce molto rispetto a quello dei Sinottici. Non solo la forma del Vangelo è diversa rispetto a Matteo, Marco e Luca, ma anche il Gesù che ne emerge presenta caratteristiche peculiari. A dispetto dell’onniscienza che egli rivela nel corso del racconto evangelico[1], nonostante appaia pienamente sovrano durante tutta la narrazione della passione, e sebbene la sua solida relazione con il Padre venga menzionata più volte, Gesù si mostra anche fragile e vulnerabile. Nel quarto Vangelo, egli è stanco e nel bisogno (Gv 4,6); chiede da mangiare (Gv 21,5) e da bere (Gv 19,28); è assetato (Gv 4,7); è costretto alla fuga (Gv 10,39; 11,54); dichiara di essere contento (Gv 11,15), ma anche appare in più occasioni turbato (Gv 11,33; 12,27; 13,21) e grato (Gv 11,41), fino al pianto (Gv 11,35).
Il Vangelo di Giovanni esordisce con un Prologo che rivela e sintetizza la convergenza-congiunzione di divino e umano in Gesù: «Il Verbo si fece carne» (Gv 1,14). La Parola divina si incarna e assume su di sé la precarietà della carne (sarx), facendo propri la debolezza e il limite della condizione umana, fino alla morte. Il turbamento e il pianto di Gesù, dunque, non vanno considerati come una finzione, ma sono parte dell’esperienza umana del Verbo incarnato. Pertanto, come interpretare il Gesù giovanneo alla luce delle manifestazioni delle sue emozioni e dei suoi bisogni?
Lo zelo appassionato di Gesù nel tempio
Nel secondo capitolo del quarto Vangelo, Gesù inaugura il suo ministero a Gerusalemme con un’azione irruente, a tratti violenta, scacciando dal tempio i venditori e gli animali, ribaltando i loro banchi, gettando via il denaro e ammonendo i mercanti con veemenza[2]. La drammatizzazione scenica risulta quindi impressionante e travolgente: «Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori dal tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: “Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!”. I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: “Lo zelo per la tua casa mi divorerà”»(Gv 2,15-17).
Le emozioni di Gesù si esprimono in maniera dirompente. I discepoli vedono questa azione profetica di Gesù e la interpretano secondo il Sal 69,9. Lo zelo-gelosia del salmista è ardore e fervore dello spirito, come una passione che consuma[3]. Questo zelo ora viene attribuito a Gesù che si scaglia contro la mercificazione del tempio. Nel testo del Vangelo è presente una variazione rispetto al Salmo; in Giovanni il verbo «divorare» è al futuro, è un’anticipazione, che rinvia alla glorificazione della croce: Gesù, Verbo incarnato, si consumerà fino all’estremo per la sua missione.
Gesù, onnisciente e vulnerabile
Nel racconto della risurrezione di Lazzaro (cfr Gv 11) convergono e coesistono tutti gli elementi finora menzionati: la sicurezza e l’onniscienza di Gesù, basata sul suo rapporto incrollabile con il Padre che sempre lo ascolta (cfr Gv 11,42), e la sua vulnerabilità davanti alla morte dell’amico Lazzaro e nel confronto con la sofferenza di chi gli sta intorno.
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Dalle parole di Marta e Maria apprendiamo che Gesù voleva bene a Lazzaro, il loro fratello che si era ammalato: «Le sorelle mandarono dunque a dirgli: “Signore, ecco, colui a cui vuoi bene[4] è malato”» (Gv 11,3). Anche la voce narrante fa capire al lettore i sentimenti di Gesù, affermando che egli ama Marta, Maria e Lazzaro con un amore totale e incondizionato, espresso dal verbo agapaō: «Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro» (Gv 11,5). Più avanti è lo stesso Gesù che definisce Lazzaro «il nostro amico (philos)» (Gv 11,11).
Nonostante tutte queste espressioni di affetto, Gesù si mostra distaccato. La notizia della malattia dell’amico non sembra turbarlo: «All’udire questo, Gesù disse: “Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato”» (Gv 11,4). A queste parole, che esprimono fiducia, si accompagna il fatto che Gesù rimane dov’è, senza far nulla, per due giorni interi, fino a quando decide di andare in Giudea dall’amico Lazzaro. Le sue parole allora sono taglienti: «Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!» (Gv 11,14-15). Paradossalmente, Gesù esprime la propria contentezza – chairō – per non aver visitato prima Lazzaro, in modo che i discepoli possano credere. Egli appare sicuro di sé, fiducioso, nel pieno controllo della situazione e dei propri sentimenti. Non c’è alcuna reazione emotiva di dolore; Gesù sa che Lazzaro, ora addormentato, si risveglierà.
La situazione cambia quando Gesù arriva a Betania. L’incontro con Marta prima, e con Maria dopo, intacca in lui quell’aura di apparente distacco e imperturbabilità. Davanti alla protesta di Marta – «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!» (v. 21) –, Gesù la invita a credere che suo fratello risorgerà, perché lui è la risurrezione e la vita.
La conversazione con Maria, invece, assume immediatamente un tono diverso, più affettivo. Il rimprovero rivolto a Gesù è lo stesso – «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!» (v. 32) –, ma quello che accade dopo suscita stupore. Al lettore viene presentata la situazione di Gesù, che vede Maria e coloro che sono con lei piangere addolorati per il lutto (in greco, klaiō): «Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, fremette nello spirito e, molto turbato, domandò: “Dove lo avete posto?”. Gli dissero: “Signore, vieni a vedere!”» (Gv 11,33-34). Gesù ora perde quella compostezza che lo aveva caratterizzato sin dall’annuncio della malattia mortale dell’amico Lazzaro. La sua reazione viene descritta dal narratore con due verbi: «fremette nello spirito» (enebrimēsato tō pneumati) e «fu turbato» (etaraxen eauton).
La traduzione del primo verbo, embrimaomai, è complessa, perché esso indicherebbe lo sbuffare con indignazione, come un cavallo incollerito e arrabbiato[5]. Contro chi è infuriato Gesù? Contro la morte che lo ha privato dell’amico[6]? Contro Maria e i presenti che non credono? Oppure egli freme dentro di sé, con sé stesso – letteralmente, nel suo spirito – perché non si è mosso prima per salvare l’amico?
Il secondo verbo, tarassō, esprime l’agitazione interiore di Gesù, scosso come l’acqua quando è mossa (cfr Gv 5,4). Gesù è turbato e agitato, e sarà accompagnato da questo stato d’animo anche nelle fasi successive del racconto evangelico. Mentre è turbato, chiede dove sia il corpo di Lazzaro. Il Verbo incarnato non è indifferente davanti al pianto degli esseri umani. Egli sa che Lazzaro risorgerà, ma adesso il dolore di chi lo circonda è reale, ed egli ne viene scosso. «Gesù scoppiò in pianto (dakruō). Dissero allora i Giudei: “Guarda come gli voleva bene!”. Ma alcuni di loro dissero: “Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?”» (Gv 11,35-37).
Gesù piange. Questo è il versetto più breve del Nuovo Testamento. Questa volta non viene usato il verbo klaiō («piangere»), ma il verbo dakruō, presente solo qui nel Nuovo Testamento[7]; questo verbo indica il versare lacrime e il piangere silenziosamente. Si tratta di una commozione profonda e personale, che viene interpretata in modo differente da coloro che sono presenti. Il pianto di Gesù può essere una dimostrazione di affetto, secondo l’opinione dei giudei, che usano il verbo phileō; oppure un segno di inazione o di impotenza. Anche in questo caso, l’equivoco e il fraintendimento accompagnano il Gesù giovanneo[8].
Gesù allora si reca al sepolcro, fremendo dentro di sé: «Allora Gesù, ancora una volta, fremendo in se stesso, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra» (Gv 11,38). Ancora una volta ricorre il verbo embrimaomai («fremere»), accompagnato dal pronome riflessivo en eautō («in sé stesso»). Persiste in Gesù uno stato di inquietudine interiore, mista a irritazione. Il comando di sollevare la pietra suscita perplessità in Marta, che è esitante; ma, di fronte all’insistenza di Gesù, la pietra viene tolta: «Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: “Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato”» (Gv 11,41-42).
Gesù alza gli occhi, cioè si rivolge al Padre e lo interpella direttamente. Gli rende grazie, come aveva fatto già al momento della moltiplicazione dei pani e dei pesci (cfr Gv 6,11.23). La sua gratitudine giunge dopo lo sconvolgimento emotivo e il pianto, e prima che Lazzaro, l’amico morto, esca vivo dalla tomba. La relazione di Gesù con il Padre è salda, al di là delle vicissitudini e della turbolenza interiore. Poi egli grida verso Lazzaro, che esce dal sepolcro. Di fronte a questo segno, c’è chi crede in Gesù e c’è chi riferisce la notizia ai farisei, che fanno un complotto contro di lui.
Alle soglie della passione
Il turbamento di Gesù però continua anche nei capitoli successivi e si rivela come una disposizione emotiva che persiste e lo accompagna alle soglie della sua passione. Nel capitolo 12 di Giovanni, è Gesù stesso a esprimere il proprio stato d’animo ad Andrea e Filippo: «Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome» (Gv 12,27-28).
Tuttavia Gesù non si lascia condizionare dal proprio stato d’animo, perché confida nel Padre e nel suo proposito. Successivamente, all’inizio dell’Ultima Cena, il narratore rivela al lettore che Gesù è mosso da un amore totale e oblativo verso i propri discepoli, che si manifesta concretamente nel gesto della lavanda dei piedi[9]: «Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1).
Dopo aver citato la Scrittura per annunciare il tradimento di un amico – «Colui che mangia il mio pane ha alzato contro di me il suo calcagno [cfr Sal 41,10]» –, Gesù rimane profondamente turbato nel suo intimo: «Dette queste cose, Gesù fu turbato nello spirito e dichiarò: “In verità, in verità io vi dico: uno di voi mi tradirà”» (Gv 13,21). Dopo l’uscita di Giuda dalla sala, mentre era notte fuori e dentro il traditore (cfr Gv 13,30), Gesù riprende a parlare e, in modo sorprendente, confessa il suo amore per i discepoli, esortandoli ad amare come ha fatto lui: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34); «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9); «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,12).
Podcast | INTELLIGENZE ARTIFICIALI E PERSONA UMANA
Con ogni probabilità, la nostra epoca sarà ricordata come quella della nascita delle intelligenze artificiali. Ma cosa sono le intelligenze artificiali? Qual è l’impatto sociale di queste nuove tecnologie e quali sono i rischi? Ascolta la serie completa di Ipertèsti, il podcast de «La Civiltà Cattolica».
I discepoli non sono i servitori, ma gli amici (philoi) di Gesù, a cui il Signore offre tutta la propria vita. C’è una condivisione intima e profonda di Gesù con i discepoli. Proprio con loro egli vuole condividere la gioia paradossale che alberga dentro di sé: «Nessuno ha un amore (agapē) più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici (philoi), se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,13-15). «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). «Perché abbiano in sé stessi la pienezza della mia gioia» (Gv 17,13). Inoltre, Gesù confessa di amare il Padre e di essere amato da lui (cfr Gv 15,9-10; 17,23-26), in una relazione reciproca: «Bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, e come il Padre mi ha comandato, così io agisco» (Gv 14,31).
Al tempo stesso, Gesù invita i suoi discepoli a non rimanere turbati, a superare la paura davanti all’«ora» che lo attende: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. […] Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore» (Gv 14,1.27).
Il lungo discorso di addio (cfr Gv 13–16) e la preghiera di Gesù al Padre (cfr Gv 17) costituiscono insieme quasi un testamento, la Magna Carta per i discepoli di ogni tempo e di ogni luogo. Nell’ambito del quarto Vangelo, essi rappresentano una svolta, perché, quando sarà catturato, Gesù non mostrerà più agitazione e turbamento, ma apparirà sereno e pienamente consapevole di ciò che accade, in cammino verso quella glorificazione che si manifesterà attraverso la croce. È lui che nella passione conduce i giochi, e non appare per nulla in balìa degli eventi e di chi vuole eliminarlo. Il Gesù che va verso la croce è solenne e composto, come chi si avvia verso un’intronizzazione, e non come chi sta andando al patibolo: «Gesù allora, sapendo tutto quello che doveva accadergli, si fece innanzi e disse loro: “Chi cercate?”. Gli risposero: “Gesù, il Nazareno”. Disse loro Gesù: “Sono io!”. Vi era con loro anche Giuda, il traditore. Appena disse loro “Sono io”, indietreggiarono e caddero a terra» (Gv 18,4-6).
Il discepolo che Gesù amava
Nella seconda parte del Vangelo di Giovanni è presente la figura misteriosa del discepolo che Gesù amava, identificato dalla tradizione con l’evangelista (cfr Gv 21,24) e apostolo Giovanni. «Era adagiato nel grembo (kolpon) di Gesù uno dei suoi discepoli, quello che Gesù amava» (Gv 13,23). Questo personaggio esordisce nel racconto dell’Ultima Cena. È uno dei discepoli, che però occupa un posto speciale accanto a Gesù, proprio sul suo grembo. Questo rivela una grande intimità tra lui e il maestro e rimanda il lettore direttamente al Prologo del Vangelo: «Dio, nessuno lo ha mai visto: Il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno (kolpon) del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1,18)[10].
La relazione tra il discepolo e Gesù corrisponde a quella tra Gesù e il Padre. Qui c’è senz’altro una dimensione affettiva, ma anche una teologica: l’intimità con il Verbo incarnato porta direttamente nel grembo della Trinità.
Dopo avercelo mostrato accanto a Gesù, la voce narrante annota che questo discepolo era quello che Gesù amava. Il verbo agapaō all’imperfetto sta a indicare un affetto duraturo, che persiste nel tempo e che caratterizza la relazione di Gesù con questo discepolo. Tale relazione privilegiata con il maestro è testimoniata anche da Pietro, che si rivolge proprio al discepolo amato per sapere di chi stia parlando Gesù quando afferma che qualcuno lo tradirà (cfr Gv 13,21): «Simon Pietro gli fece cenno di informarsi chi fosse quello di cui parlava. Ed egli, chinandosi sul petto di Gesù, gli disse: “Signore, chi è?”» (Gv 13,24-25). Il gesto del discepolo è eloquente: egli si china sul petto di Gesù, mostrando una grande confidenza e familiarità. Il legame tra Gesù e questo discepolo emerge in maniera chiara e forte proprio in un momento di intenso turbamento emotivo per il maestro a causa del tradimento ormai prossimo da parte di uno dei suoi discepoli.
Il discepolo che Gesù amava è presente anche in un altro momento topico del quarto Vangelo: sul Golgota, quando gli viene affidata da Gesù sua madre. Il Signore crea un nuovo legame e una nuova relazione tra i due sotto la croce. È qui l’origine della Chiesa, che nasce dall’«amore» (agapē) di Gesù «fino alla fine» (Gv 13,1): «Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”. E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé» (Gv 19,26-27).
A Pasqua, il discepolo amato è colui che corre al sepolcro vuoto, vede e crede (cfr Gv 20,8), a differenza di Pietro, ed è capace di riconoscere i segni della risurrezione nell’assenza del corpo di Gesù. «[Maria di Magdala] corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!”» (Gv 20,2).
Anche nel terzo racconto della risurrezione compare nuovamente questo discepolo, che il narratore presenta ancora come «colui che Gesù amava». Egli è il primo a riconoscere Gesù: «Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: “È il Signore!”. Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare» (Gv 21,7).
Mentre Gesù dialoga con Pietro – «Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?» (Gv 21,15) –, il discepolo che Gesù amava è presente. Il narratore lo richiama attraverso un flashback che rimanda alla sua prima comparsa nel racconto giovanneo: «Pietro si voltò e vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava, colui che nella cena si era chinato sul suo petto e gli aveva domandato: “Signore, chi è che ti tradisce?”» (Gv 21,20). In questo contesto, il discepolo che Gesù amava, sulla cui sorte Pietro rivolge una domanda a Gesù (cfr Gv 21,21-23), viene identificato come il testimone veritiero che ha scritto il Vangelo: «Questi è il discepolo che testimonia queste cose e le ha scritte, e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera» (Gv 21,24).
Solo l’amore permette di conoscere e penetrare il mistero del Dio fatto carne che viene nel mondo. Questa è la strada per ogni discepolo e per il lettore del Vangelo, che può identificarsi in questo testimone anonimo e raccontare l’amore ricevuto da Gesù.
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Parlare delle emozioni e degli affetti di Gesù nel Vangelo di Giovanni non è facile, perché il racconto su Gesù viene letto attraverso le lenti della peculiare teologia giovannea. Il Verbo incarnato rimane Dio, ma, una volta fattosi carne, assume tutta la precarietà e fragilità dell’essere umano.
Il Gesù onnisciente e il Gesù turbato sono la stessa persona. Colui che confida nel Padre e colui che piange il dolore degli uomini sono la stessa persona. Gesù non è un essere scisso o schizofrenico, ma è lo stesso Gesù, uomo-Dio, che soffre e ama fino alla fine, totalmente. In lui c’è la rivelazione di un Dio che è appassionato per l’uomo. Non è il dio imperturbabile e impassibile dei filosofi[11], ma è il Dio vivo e vivace, agitato e irrequieto, pieno di compassione. Come testimonia anche il profeta Osea, dando voce all’amore viscerale e vibrante di Dio: «Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione» (Os 11,8).
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[1]. Cfr J. Tripp, «Jesus’s Special Knowledge in the Gospel of John», in Novum Testamentum 61 (2019/3) 269-288.
[2]. Nei Vangeli sinottici, invece, questa azione di Gesù è collocata prima della sua passione e morte (cfr Mt 21,8-19; Mc 11,7-19; Lc 19,45-48).
[3]. L’espressione ebraica el-kana (cfr Dt 4,24; 5,9; 6,15; e anche Es 20,5; 34,14) di solito viene tradotta con «Dio geloso»; più propriamente la si potrebbe tradurre con «Dio appassionato», indicando la dimensione affettiva ed emotiva di un Dio che coniuga insieme giustizia e misericordia. Per un’approfondita trattazione di questo argomento, cfr D. Markl, «Ein “leidenschaftlicher Gott”. Zu einem zentralen Motiv biblischer Theologie», in Zeitschrift für Katholische Theologie 137 (2015) 193–205.
[4]. Qui viene usato il verbo phileō. Riguardo ai termini philia, agapē ed eros, papa Benedetto XVI afferma: «Quanto all’amore di amicizia (philia), esso viene ripreso e approfondito nel Vangelo di Giovanni per esprimere il rapporto tra Gesù e i suoi discepoli. La messa in disparte della parola eros, insieme alla nuova visione dell’amore che si esprime attraverso la parola agapē, denota indubbiamente nella novità del cristianesimo qualcosa di essenziale, proprio a riguardo della comprensione dell’amore. […] In opposizione all’amore indeterminato e ancora in ricerca, questo vocabolo esprime l’esperienza dell’amore che diventa ora veramente scoperta dell’altro, superando il carattere egoistico prima chiaramente dominante. Adesso l’amore diventa cura dell’altro e per l’altro. Non cerca più se stesso, l’immersione nell’ebbrezza della felicità; cerca invece il bene dell’amato: diventa rinuncia, è pronto al sacrificio, anzi lo cerca» (Benedetto XVI, Deus caritas est,nn. 3; 6).
[5]. Cfr Eschilo, I sette contro Tebe, 460–464. Nel Nuovo Testamento, il verbo embrimaomaiviene utilizzato in Mt 9,30: «Quindi Gesù li ammonì dicendo: “Badate che nessuno lo sappia!”»; in Mc 1,43: «E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito»; e in Mc 14,5: «Ed erano infuriati contro di lei». La connotazione del verbo è negativa.
[6]. Come intendono i Padri della Chiesa.
[7]. Invece, il sostantivo dakruon («lacrima») nel Nuovo Testamento si trova anche in Mc 9,24 (alcuni manoscritti); Lc 7,38.44; At 20,19.31; 2 Cor 2,4; 2 Tm 1,4; Eb 5,7; 12,17; Ap 7,17; 21,4.
[8]. Cfr Gv 2,19-21; 3,3-5; 4,10-15; 4,31-34; 6,32-35; 6,51-53; 7,33-36; 8,21-22; 8,31-35; 8,51-53; 8,56-58; 11,11-15; 11,23-25; 12,32-34; 13,36-38; 14,4-6; 14,7-9; 16,16-19.
[9]. Il Vangelo di Giovanni è il Vangelo dell’amore che si dona incondizionatamente, espresso attraverso il verbo agapaō, che compare 37 volte (il sostantivo agapē, invece, ha 7 occorrenze). In Mt il verbo agapaō ricorre 11 volte, in Mc 8, in Lc 15. Anche il verbo phileō («voler bene») in Gv compare 13 volte, con un’evidente sproporzione rispetto a Mt (5), Mc (1) e Lc (2).
[10]. Riguardo alla traduzione di kolpos come «grembo», cfr D. F. Stramara, Jr., «The Kolpos of The Father (Jn. 1:18) As The Womb of God in The Greek Tradition», in Magistra 22 (2016/2) 37-53.
[11]. Per i filosofi greci, l’atarassia è l’imperturbabilità, ossia lo stato di annientamento di tutti i desideri e impulsi naturali e la rimozione di tutte le paure che consente all’uomo di sperimentare la piena felicità. Al contrario, Gesù, uomo-Dio, non è indifferente, ma passionale, come conferma anche la presenza del verbo tarassō (cfr Gv 11,33; 12,27; 13,21), che letteralmente è l’opposto di a-tarassia («mancanza di turbamento»). Gesù è turbato per il suo amore per l’uomo.
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Identità Alterità Riconoscimento
In questo libro Marcello Paradiso, docente di teologia sistematica presso l’Istituto teologico abruzzese-molisano di Chieti, affronta tematiche classiche del pensiero occidentale, trattate non soltanto da pensatori cristiani, ma anche da autori comunemente presentati come critici verso l’eredità del pensiero giudaico-cristiano. Le correnti del personalismo, esistenzialismo, dialogismo, e categorie filosofiche come identità, alterità, riconoscimento, relazione, incontro sono il terreno fertile sul quale si fonda la società europea, pur nelle sue diverse declinazioni e versioni, a volte aspre e conflittuali.
La tesi proposta nel libro è che nella cultura europea continua a scorrere un fiume carsico di linfa cristiana, nonostante emergano posizioni estremamente dialettiche. Un pensiero onestamente critico non può non riconoscerlo. Non è illusorio ottimismo nutrire la speranza che tale eredità continui a essere indispensabile per il futuro della nostra civiltà. L’autore non nasconde la pretesa di affrontare problematiche attuali e interrogativi presenti nell’agorà della cultura contemporanea, non tanto per offrire risposte preconfezionate, quanto per contribuire al confronto e al dialogo tra diverse prospettive.
Il libro si articola in quattro capitoli, preceduti da una premessa e un preludio (che precisa i concetti presi in esame) e seguiti da un’appendice. Il primo capitolo è uno sguardo filosofico che va da Hegel fino a Ricœur, passando per alcune figure singolari come Kierkegaard, Heidegger, Sartre, Lévinas, e indaga i registri con i quali il percorso filosofico della modernità e contemporaneità si è cimentato riguardo alle questioni fondamentali dell’identità, alterità, riconoscimento, differenza e relazioni.
Il secondo capitolo è uno sguardo biblico, quasi una modalità di approccio al contenuto della rivelazione dal punto di vista dell’incontro tra Dio e l’uomo.
Il terzo capitolo – che vuol essere il cuore della proposta dell’autore – tratteggia il mistero delle relazioni tra le Persone divine.
Il quarto capitolo è uno sguardo sulla realtà della Chiesa nell’attuale contesto, insistendo sul tema dei suoi rapporti con il mondo, oltre che al suo interno. Il testo si conclude, nell’appendice, con una riflessione sulla preghiera come luogo dell’incontro tra Dio e l’uomo.
MARCELLO PARADISO
Identità Alterità Riconoscimento. Sulle relazioni umane e divine
Assisi (Pg), Cittadella, 2021, 232, € 17,90.
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