William Faulkner e i romanzi dello scrittore palestinese Ghassan Kanafani (2a parte)
di Patrizia Zanelli*
Pagine Esteri, 23 novembre 2022 – In The Sound and the Fury, la descrizione della situazione dei membri di una famiglia aristocratica in decadenza serve a raffigurare il declino del Sud degli Stati Uniti avvenuto a seguito della guerra di secessione americana. Faulkner scrisse infatti il romanzo per evidenziare il legame tra eventi storici traumatici e crisi esistenziali personali. In un articolo pubblicato nel 2000 sul Journal of Arabic Literature, Aida Azouqa nota che similmente la Nakba è all’origine dei problemi dei protagonisti di “Tutto ciò che vi resta”: Maryam, una donna dalla vita sentimentale tormentata – il cui ruolo nel racconto è simile a quello di Caddy in The Sound and the Fury – e il fratello sedicenne Hamid. Come numerosi romanzieri occidentali, Kanafani era stato chiaramente influenzato dal freudismo e dall’esistenzialismo; usò la tipica crisi identitaria adolescenziale per raffigurare quella nazionale dovuta alla diaspora palestinese, in questo romanzo in cui ritrae appunto un adolescente per rappresentare la nazione. I conflitti interiori ed esterni affrontati da Hamid evocano la confusione di un’epoca della Storia del popolo della Palestina; il Tempo è il grande nemico del fratello e della sorella la cui infanzia felice è ormai soltanto un ricordo del passato da quando vivono in un campo profughi lontano da Giaffa, dove abitavano in un bel quartiere residenziale moderno con la loro famiglia del ceto medio-alto. La vita infelice di Maryam, dovuta alla lontananza dalla madre, da cui avrebbe potuto ricevere buoni consigli, evitando di mettersi nei guai, conclude Azouqa, rappresenta la disgrazia subita da un’intera nazione.
D’altra parte, “Tutto ciò che vi resta” è forse il romanzo più autobiografico di Kanafani, che da bambino aveva frequentato una scuola missionaria francese a Giaffa, per volontà del padre, un avvocato e attivista nazionalista, che esercitava la professione in quella fiorente città palestinese benché fosse lontana da Acri. Quando poi nell’aprile del ’48 aveva lasciato la Palestina con la famiglia, trovando rifugio in un villaggio sulla frontiera libanese, il dodicenne Ghassan avrà avuto la sensazione che il suo mondo dell’infanzia fosse crollato. Il padre aveva scelto quel paesino come una sistemazione provvisoria, convinto di poter tornare presto a casa, ma dopo la fondazione d’Israele e il prolungarsi dell’attesa decise di trasferirsi con la famiglia a Damasco. Nella capitale siriana il giovane Ghassan dovette lavorare, passando da un mestiere all’altro, per completare l’istruzione secondaria. Nel 1953, iniziò a insegnare in una delle scuole dell’UNRWA, a conoscere direttamente la dura realtà dei campi profughi, a maturare una maggiore consapevolezza politica e il desiderio di contribuire alla causa nazionale del suo popolo. Poi da studente universitario partecipò al movimento studentesco, attivismo per cui fu espulso dall’Università di Damasco, e da qui la decisione di raggiungere la sorella e il fratello in Kuwait, dove erano emigrati come molti altri esuli palestinesi, attratti dalle opportunità di lavoro presenti nel paese petrolifero.
Dunque, l’adolescenza particolarmente difficile vissuta dallo scrittore, accompagnata da una crescente politicizzazione, è simile a quella di Hamid, il protagonista di “Tutto ciò che vi resta”, che molti esperti considerano inoltre come una sorta di ponte, essendo un romanzo che presenta temi o motivi ripresi dall’autore nella fase successiva della sua produzione letteraria, durante la quale si avvicinò maggiormente alla letteratura impegnata teorizzata da Sartre, rinunciando alla tecnica del flusso di coscienza del modello faulkneriano. Questo cambiamento è dovuto a un altro trauma collettivo, una seconda sconfitta, che portò Kanafani a voler dar voce in modo più chiaroalle istanze politiche del suo popolo.
L’arte narrativa dello scrittore fu inevitabilmente influenzata dalla Naksa (Ricaduta), la disfatta militare araba nella guerra lanciata da Israele il 5 giugno 1967, per occupare i territori palestinesi di Gerusalemme Est, Cisgiordania e Gaza, le alture siriane del Golan e la Penisola del Sinai egiziana. Kanafani pubblicò, nell’anno seguente, il saggio “La letteratura palestinese della resistenza sotto occupazione, 1948-1968” 1 ; e nel 1969, il romanzo “Ritorno a Haifa” (2) . In quest’opera, l’autore descrive la situazione post-Naksa, per ricordare la Nakba e la Shoah, unendo la memoria storica delle tragedie dei due popoli. All’indomani della guerra di occupazione, le autorità israeliane effettivamente aprirono la frontiera tra Israele e i territori palestinesi appena occupati. Nel romanzo, il 30 giugno 1967, Said e la moglie Safiya partono in auto da Ramallah per andare a Haifa, dove non erano più potuti tornare dopo l’esodo di massa del 21 aprile 1948, provocato dall’aggressione compiuta dai miliziani sionisti con la complicità dei militari inglesi. Quel giorno lui e lei si trovavano per strada, l’uno lontano dall’altra, erano stati come risucchiati dalla folla di persone in fuga verso il porto durante il bombardamento, spinti su un’imbarcazione britannica e costretti a lasciare la città, senza avere avuto la possibilità di portare con sé il figlio di cinque mesi Khaldun, rimasto da solo a casa loro. È proprio nella speranza di ritrovarlo che i due protagonisti tornano a Haifa. Arrivati a destinazione, scoprono che la loro vecchia casa è abitata da una coppia di ebrei polacchi, Efrat e Miriam, divenuti i genitori adottivi di Khaldun, ora Dov, un soldato israeliano.
Kanafani riprese il modello faulkneriano, come lui stesso lo aveva rielaborato in “Uomini sotto il sole”, per creare appunto “Ritorno a Haifa”, in cui è fondamentale la retrospezione. Nel primo dei cinque capitoli del testo, Said e Safiya ricordano l’esodo coatto dalla città; e nel terzo, vengono esposti i fatti accaduti da quando Efrat e Miriam avevano lasciato Varsavia agli inizi del novembre del 1947, finché non si erano stabiliti, il 29 aprile del ’48, nella casa dei protagonisti palestinesi assenti, concessa agli stessi immigrati dall’Agenzia Ebraica a patto che adottassero il bambino ritrovato lì una settimana prima da una donna ebrea che abitava al piano superiore. La storia è narrata da un narratore esterno, e i punti di vista sono multipli in questo racconto, in cui l’autore ricostruisce e intreccia la memoria della Nakba con quella della Shoah. Il principio etico condiviso da tutti i personaggi, espresso nell’enunciato “all’ingiustizia non si pone rimedio con una nuova ingiustizia”, è il nodo centrale di un romanzo tematicamente complesso che unisce dati storici precisi riguardo al tragico conflitto tra i due popoli ad altri temi di portata universale, come l’amore genitoriale, la paternità, il patriottismo e l’idea stessa di patria. I genitori palestinesi sono gli sconfitti, i più deboli e sofferenti, eppure hanno la forza di ammettere i propri errori e le proprie debolezze, e di riconoscere perfino il dolore dell’altro. Nel romanzo, l’autore esprime una piena solidarietà con il popolo ebraico vittima delle persecuzioni naziste, rappresentato dalla coppia di ebrei polacchi appena sfuggiti all’Olocausto nel novembre del ‘47. Ma nel giugno del ’67, Efrat e Miriam rappresentano gli israeliani, i vincitori che, pur riconoscendo le sofferenze inferte ai palestinesi, trovano negli errori e nelle debolezze del popolo vinto un’autogiustificazione che li intrappola nelle loro stesse contraddizioni condensate nella figura di Khaldun/Dov. Il giovane educato all’odio, alla negazione della Nakba, chiuso nella sua crisi identitaria, è un figlio adottato/rubato/perduto, nato a Haifa pochi mesi prima che la città diventasse parte d’Israele come oltre la metà della Palestina. I genitori naturali si sentono in colpa per averlo abbandonato, pur sapendo di essere stati costretti a lasciarlo a casa da solo ancora lattante insieme alla loro terra.
Ancora una volta l’autore raffigura la relazione tra Spazio e Tempo nella Storia e la crisi identitaria di un adolescente associata a quella collettiva. Alla fine, però, Khaldun/Dov rappresenta la Nakba, un passato da dimenticare per Said e Safiya il cui figlio più giovane Khaled si è appena arruolato in un gruppo di fedayin per liberare il suo popolo. Lui è il presente e il futuro, conosce la propria identità e quella dei suoi genitori, che lo hanno cresciuto, raccontandogli la verità; quindi personifica la consapevolezza, l’autocoscienza nazionale, la rivoluzione, la salvezza della nazione. La crisi familiare non è però affatto risolta. I genitori, che hanno già perduto un figlio e non sopportano l’idea di perderne un altro, accettano con grande amarezza la decisione di Khaled di sacrificarsi per la patria. È altrettanto amara la constatazione che i due fratelli, entrambi vissuti sotto il peso di un destino crudele, potrebbero combattere l’uno contro l’altro. Solo la pace li può salvare.
In questo terzo romanzo di Kanafani, lo stile è più lineare, e il messaggio politico più esplicito, il che è tipico della letteratura palestinese della resistenza, nell’ambito della quale i sentimenti di rabbia e frustrazione vengono mitigati o addirittura soppiantati da una volontà di riscatto, alimentata dalla speranza nella possibilità di cambiare la situazione. Su “Ritorno a Haifa” si basano un omonimo film, del 1982, girato in Libano dal regista iracheno Kassem Hawal (n. 1940), e un altro, del 1995, intitolato “Il sopravvissuto”, diretto dal cineasta iraniano Seifollah Dad (1955-2009). Lo stesso romanzo ha inoltre ispirato diversi spettacoli teatrali presentati in vari paesi del mondo.
Per quanto riguarda invece “Gli ingannati”, l’adattamento di “Uomini sotto il sole”, Saleh cambiò non solo il titolo ma anche il finale dell’opera originale; nel film infatti i tre protagonisti bussano alle pareti della cisterna (3) . La loro richiesta d’aiuto rimane però inascoltata. Il regista egiziano, ideologicamente marxista, espresse così la propria rabbia nei confronti dei regimi arabi responsabili della Naksa, una seconda sconfitta che in ambito culturale stimolò da un lato l’impegno a registrare la memoria della Nakba e dall’altro una volontà di ribellarsi in generale, particolarmente spiccata nella cultura giovanile dell’epoca. In un articolo pubblicato nel 1976 sul periodico British Society for Middle Eastern Studies Bulletin, Hillary Kilpatrick ricorda che Kanafani vide il film e approvò il cambiamento del finale per il messaggio politico che veicolava; inoltre lo considerava una sorta di aggiornamento storico necessario. La passività dei protagonisti del romanzo ormai contrastava con la lotta armata che i profughi palestinesi stavano conducendo sin dagli anni ’60. Kanafani dava grande importanza all’arte, si identificava anzitutto come un artista, riteneva che lo scopo della letteratura fosse di contribuire alla trasformazione della società, ma come romanziere lui preferivaconcentrarsi sull’individuo, basandosi sulla propria esperienza personale e su quella delle persone che conosceva.
Questo atteggiamento letterario e politico dello scrittore palestinese spiega ulteriormente la sua predilezione per il modello faulkneriano. Va poi ricordato che, sempre nel 1969, Kanafani pubblicò “Umm Saad” (4) ; in questo caso, la narrazione è in prima persona, ma il narratore – che sembra essere l’autore reale – racconta la storia di un altro personaggio, una figura femminile veramente esistita. La protagonista del romanzo è una donna resiliente, una contadina sulla quarantina abituata al duro lavoro nei campi; rappresenta la resistenza palestinese e addirittura la Palestina stessa i cui figli l’avevano sempre coltivata e ora lottano per liberarla e tornare da lei. Umm Saad è la madre di tutti loro. Sembra che Kanafani abbia scritto questo romanzo dall’atmosfera fiabesca, per esporre in forma artistica le idee che aveva espresso nel già citato saggio sulla letteratura palestinese della resistenza. Nel libro dice infatti che il suo popolo aveva iniziato a lottare per liberare la patria difendendola dal colonialismo sionista sin dall’epoca del mandato britannico sulla Palestina. L’autore si concentra sui contadini palestinesi che in passato avevano sofferto per la vendita dei terreni ai coloni da parte dei latifondisti e dopo la Nakba soffrivano vivendo nei campi profughi.
In “Umm Saad”, il narratore del racconto sembra quasi un cantastorie moderno. Descrivendo la vicenda della protagonista, presenta man mano altri personaggi, di cui lei gli parla e così nasce di volta in volta una storia nella storia. Ciò spiega ancor più la frammentazione del racconto, un espediente narrativo generalmente volto anche a raffigurare la disgregazione sociale che caratterizza le società contemporanee, e di cui Kanafani si serviva per rappresentare la diaspora palestinese. Lo scrittore cercò nuove modalità artistiche per veicolare un messaggio rivoluzionario tramite questo breve romanzo, che scrisse attingendo alla letteratura popolare araba, senza però rinunciare a certe tecniche moderniste, e specialmente ai punti di vista multipli. L’autore riuscì a esprimere la propria creatività, fondendo perfettamente tradizione e modernità in “Umm Saad”, un’opera intrisa di quel tipico ottimismo che è la vera linfa della resilienza del popolo palestinese. È inoltre interessante ricordare che in un’intervista rilasciata al quotidiano kuwaitiano al-Siyāsa (La politica) durante questa seconda fase spiccatamente politicizzata della sua produzione narrativa, Kanafani dichiarò: “Per quanto mi riguarda, la politica e il romanzo sono tutt’uno e posso categoricamente affermare di essere diventato politicamente impegnato, perché sono un romanziere, e non viceversa”. Pagine Esteri
La prima parte dell’articolo di Patrizia Zanelli è a questo link:
CULTURA. William Faulkner e i romanzi dello scrittore palestinese Ghassan Kanafani (1a parte)
pagineesteri.it/2022/11/16/in-…
NOTE
1) Kanafani scrisse questo saggio letterario per completare un altro dal titolo simile pubblicato sempre nel ’68 e che ricopre il periodo 1948-1966.
2) Ghassan Kanafani, Ritorno a Haifa, tr. Isabella Camera d’Afflitto, Rispostes, 1985; Edizioni Lavoro, 2014.
3) Il film “Gli ingannati” (al-Makhdū‘ūn) è noto anche col titolo inglese “The Dupes”.
4) Ghassan Kanafani, Umm Saad, tr. Isabella Camera d’Afflitto, Rispostes, 1985; Edizioni Lavoro, 2014.
*Patrizia Zanelli insegna Lingua e Letteratura Araba all’Università Ca’ Foscari di Venezia. È socia dell’EURAMAL (European Association for Modern Arabic Literature). Ha scritto L’arabo colloquiale egiziano (Cafoscarina, 2016); ed è coautrice con Paolo Branca e Barbara De Poli di Il sorriso della mezzaluna: satira, ironia e umorismo nella cultura araba (Carocci, 2011). Ha tradotto diverse opere letterarie, tra cui il romanzo Memorie di una gallina (Istituto per l’Oriente “C.A. Nallino”, 2021) dello scrittore palestinese Isḥāq Mūsà al-Ḥusaynī.
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Qatar, i Mondiali della vergogna
di Marco Santopadre*
Pagine Esteri, 17 novembre 2022 – «Gli alimenti non sono freschi. Puzzano già quando arrivano, ma bisogna mangiarli (…) L’acqua da bere era molto sporca, per bere quella di qualità bisogna avere i soldi. Noi bevevamo acqua sporca… e ti vengono malattie ai reni, calcoli. Il denaro che ho guadagnato l’ho speso all’ospedale» racconta un lavoratore nepalese, reduce da un lungo periodo in Qatar, intervistato nel suo paese da “La Media Inglesa” nel documentario “Qatar: el mundial a sus pies”. «Trasportavo, da solo, 300 o 400 sacchi ogni giorno. Non potevamo mai riposare, le guardie non ce lo permettevano» racconta un altro manovale. Questo anche per 12 ore al giorno, esposti a temperature che arrivano sovente a 50°.
Sportwashing
Lavoro forzato, caldo, morti sul lavoro, maltrattamenti: i racconti dei lavoratori e delle lavoratrici straniere sono spesso una fotocopia l’uno dell’altro. E i rapporti delle organizzazioni internazionali per i diritti umani riportano in maniera unanime una situazione caratterizzata da una violazione sistematica.
Eppure, il 20 novembre nel piccolo emirato si aprirà la ventiduesima edizione della Coppa del Mondo di calcio maschile. Per quanto, dopo anni di parziali silenzi, i media di tutto il mondo stiano finalmente rivelando il contesto in cui 32 squadre si sfideranno per la conquista del più ambito dei trofei, i timidi tentativi di boicottaggiodella competizione non hanno sortito gli effetti sperati e la kermesse andrà in onda per un mese, catalizzando l’attenzione di miliardi di persone.
Un’enorme vetrina internazionale per la petromonarchia qatariota, che sull’evento ha investito – non sempre in maniera limpida e legale – miliardi di euro al fine di rendere possibile una formidabile occasione di sportwashing che accrediti Doha come potenza mondiale dello sport e non solo.
Da quando nel 2010 riuscì ad aggiudicarsi il ballottaggio contro gli Stati Uniti – 16 dei 22 grandi elettori della Fifa, nel frattempo, hanno o hanno avuto a che fare con la giustizia per vicende di corruzione – ottenendo la possibilità di ospitare la prestigiosissima competizione, il piccolo ma incredibilmente ricco Qatar ha fatto molta strada.
Con soli 3 milioni di abitanti, Doha occupa il 55esimo posto nella classifica del FMI con un Pil di 221 miliardi di dollari. Sempre secondo il Fondo Monetario, i cittadini possono contare su un reddito pro capite di quasi 83 mila dollari, il decimo più alto al mondo (in classifica è tra le Isole Caiman e Singapore). Questa grande ricchezza è in gran parte dovuta al fatto che il paese detiene il 15% delle riserve mondiali di gas naturale, terzo al mondo alle spalle di Russia e Iran.
Dal 2017 l’emirato ha dovuto subire un certo isolamento da parte dei suoi soci del Consiglio di Cooperazione del Golfo che, guidati dall’Arabia Saudita, lo hanno sottoposto ad un duro embargo commerciale, accusando la tv satellitare Al Jazeera di fomentare il terrorismo e spingere i popoli del Medio Oriente alla rivolta contro i propri regimi. Dopo che Doha si è legata a doppio filo ad Ankara in nome della comune adesione alla Fratellanza Musulmana – un contingente militare turco è incaricato della sicurezza del piccolo petrostato – Riad e soci hanno deciso di concludere l’assedio e il Qatar arriva all’appuntamento dei mondiali al massimo della sua influenza.
Per dotarsi delle infrastrutture necessarie ad ospitare i Mondiali di Calcio il Qatar ha speso l’esorbitante cifra di 229 miliardi di dollari, un valore equivalente al proprio Pil annuale.
Un sistema basato sull’apartheid
Il sistema sociale e politico della petromonarchia, governata col pugno di ferro dall’emiro Cheikh Tamim bin Hamad Al Thani (la cui dinastia regna ininterrottamente dalla metà del XIX secolo) si fonda su una netta separazione tra i cittadini autoctoni e gli immigrati, che costituiscono il 95% circa della forza lavoro complessiva, e sulla discriminazione totale di questi ultimi.
Il 79,6% della popolazione attuale del paese (alcune fonti parlano addirittura dell’85%) è costituita da immigrati provenienti dall’India (la comunità più grande con 700 mila membri), dal Bangladesh, dall’Indonesia, dal Nepal, dal Pakistan, dalle Filippine, dallo Sri Lanka e da alcuni paesi africani come il Kenya.
Ovviamente sono stati centinaia di migliaia di migranti a costruire le mirabolanti infrastrutture di cui il Qatar si è dotato negli ultimi 12 anni: 7 stadi (climatizzati!), un nuovo aeroporto, una rete ferroviaria ad hoc, grattacieli, strade, autostrade, hotel e Lusail, una città costruita dal nulla nel deserto sulla costa orientale.
Prima dell’assegnazione dei Mondiali, il Qatar contava meno di un milione di abitanti. Dal 2010, attratti dal miraggio di uno stipendio – 7-800 euro – in grado di consentirgli di sfamare le proprie famiglie, milioni di lavoratori sono arrivati in Qatar da vari paesi per scoprire che le condizioni di lavoro e le retribuzioni non erano affatto quelle promesse.
La kafala
Centinaia di migliaia di immigrati – manovali, operai, vigilantes, inservienti, domestici – sono caduti nella rete della kafala, un sistema di “patrocinio” – vigente in molti paesi della Penisola Arabica e del Medio Oriente – da parte delle imprese che permette ai lavoratori stranieri di accedere al paese, ottenere il permesso di residenza temporanea e quello di lavoro. Il sistema della kafala, affermatosi negli ultimi 50 anni, assogetta i lavoratori stranieri ad una condizione semi-schiavile, privandoli dei più elementari diritti: al loro arrivo gli viene confiscato il passaporto in modo che non possano cambiare lavoro né tantomeno allontanarsi dal paese, se non dopo aver ottenuto l’approvazione del padrone. In questa condizione le aziende impongono condizioni di lavoro disumane, contando anche sul fatto che i cittadini stranieri in Qatar non possono affiliarsi ai sindacati. I reportage di numerosi media e i rapporti delle organizzazioni umanitarie internazionali hanno documentato orari di lavoro anche di 14-16 ore al giorno per retribuzioni medie di 200 euro – che spesso non vengono corrisposte affatto o lo sono con mesi di ritardo; turni di lavoro di sette giorni a settimana senza giorno di riposo; lavoratori alloggiati in tuguri sporchi e striminziti; maltrattamenti; licenziamenti e rimpatri arbitrari; aggressioni; violenze sessuali.
Nel 2020, dopo anni di pressioni e denunce e quando comunque la maggior parte delle infrastrutture per il mondiale erano state completate, il Qatar ha approvato due leggi per “umanizzare” questa moderna forma di schiavitù, permettendo in alcune condizioni ai lavoratori migranti di cambiare lavoro o di abbandonare il paese senza il consenso dell’azienda, fissando un salario minimo (circa 250 euro) e regolamentando in maniera più precisa gli orari di lavoro. La legislazione ha anche inasprito le regole per evitare l’esposizione dei lavoratori a temperature troppo elevate e teoricamente dal primo giugno al 15 settembre è vietato lavorare all’aperto.
Se applicate capillarmente, le nuove leggi potrebbero contrastare efficacamente il sistema della kafala, ma nonostante le rassicurazioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (agenzia dell’Onu basata proprio a Doha) Amnesty International e Human Rights Watch continuano a documentare abusi sistematici contro i lavoratori stranieri.
I cantieri, un bagno di sangue
La realizzazione delle strabilianti infrastrutture del Mondiale è costata un vero e proprio bagno di sangue. Le autorità qatariote forniscono un bilancio di pochi morti sul lavoro certificati, ma la realtà è ben diversa. Nel febbraio del 2021 un reportage del Guardian parlò di 6500 morti considerando solo alcune delle comunità immigrate nella petromonarchia. Altre fonti azzardano addirittura cifre ancora più spaventose, come Amnesty che dal 2010 al 2019 documenta 15 mila decessi. Si tratta ovviamente di stime, non suffragate da documenti ufficiali che Doha si guarda bene dal fornire. E a chi tenta di indagare le autorità del petrostato non rendono le cose facili: nel novembre del 2021 due giornalisti norvegesi che realizzavano un’inchiesta sulle condizioni di lavoro nei cantieri dei mondiali sono stati arrestati per 30 ore e tutto il girato è stato cancellato prima della loro espulsione.
Secondo il Guardian, «un documento proveniente dal servizio legale del governo qatariota raccomandava di commissionare uno studio sulle numerose morti per arresto cardiaco dei lavoratori migranti, e di varare una legge che permettesse di fare autopsie in tutti i casi di morti improvvise o inaspettate sul lavoro, ma nessuno di questi provvedimenti è stato adottato».
A queste già drammatiche cifre vanno aggiunte quelle riguardanti gli infortuni, i suicidi e le migliaia di lavoratori stranieri tornati a casa con gravi patologie sviluppate a causa delle condizioni di lavoro alle quali sono stati sottoposti.
Una monarchia assoluta fondata sulla discriminazione
Non sono solo i lavoratori stranieri a subire la violenza del sistema. La monarchia assoluta, che non ammette l’esistenza di partiti politici ed esercita una ferrea censura sulla stampa, secondo un rapporto di Human Rights Watch «applica un sistema discriminatorio di tutela maschile che nega alle donne il diritto a prendere decisioni fondamentali sulle proprie vite».
Tempo fa Nasser Al-Khater, l’amministratore delegato del Mondiale, ha minacciato nel corso di una conferenza stampa: «chiunque sventoli una bandiera del movimento LGBTIQ+ potrà essere condannato a pena tra i 7 e gli 11 anni di carcere» salvo poi affermare che in Qatar «tutti sono ben accolti, ma devono rispettare la cultura e le tradizioni del paese». Ma poi l’ambasciatore dell’evento, Khalid Salman, nel corso di un’intervista alla tv tedesca Zdf ha definito l’omosessualità «un danno psichico».
Anche tralasciando le preoccupazioni sull’impatto ambientale della kermesse calcistica qatariota (ben documentate ad esempio in questo articolo), la definizione di “mondiali della vergogna” è più che giustificata. Vergogna per le autorità del Qatar, che respingono le accuse e le denunce parlando di una campagna di calunnie contro il Qatar. Ma vergogna anche per un sistema sportivo, mediatico ed economico internazionale che nasconde la polvere sotto il tappeto in nome dell’enorme occasione di business e di legittimazione politica che il Mondiale di Calcio rappresenta. – Pagine Esteri
* Marco Santopadre, giornalista e scrittore, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e dell’Africa. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale. Collabora anche con il Manifesto, Catarsi e Berria.
LINK E APPROFONDIMENTI:
amnesty.it/qatar-lavoratori-mi…
hrw.org/es/news/2021/03/29/qat…
indianexpress.com/article/expr…
theguardian.com/global-develop…
apnews.com/article/world-cup-s…
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I social network sono morti. Come si crea un'alternativa vera? L'articolo di di Edward Ongweso Jr su Vice
Segnaliamo a tutta la comunità de @Le Alternative questo articolo molto interessante comparso su Vice e segnalato su mastodon da @Chiara [Ainur] [Айнұр]
La "crisi di Twitter" ha infatti messo in ombra la crisi di Facebook, i suoi licenziamenti, il mancato ROI sul Metaverso, la sua irrilevanza per le elezioni di mid term e il Vietnam globale che i suoi prodotti di punta (Whatsapp e Instagram) stanno subendo da Telegram e soprattutto da TikTok.
Ma la crisi dei social è una realtà.
I cosiddetti “social media” sono pensati per consumo e pubblicità, non per le persone. Ora che stanno crollando, come si crea un’alternativa vera?
Articolo di Edward #Ongweso Jr, Trad. Di Giacomo Stefanini e Giulia Trincardi, su #Vice
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#uncaffèconLuigiEinaudi – Ma il basso giuoco è stato troppe volte ripetuto e più non serve.
Ma il basso giuoco è stato troppe volte ripetuto e più non serve. Gli italiani vogliono fatti e non promesse.
da Corriere della Sera, 6 giugno 1919
L'articolo #uncaffèconLuigiEinaudi – Ma il basso giuoco è stato troppe volte ripetuto e più non serve. proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Mondiali: ambiguità e razzismo … non solo qatarioti
Come all'epoca delle piramidi e alle latitudini europee: migranti morti in tanti, pagati poco, ma, si dice per nettarsi la coscienza, per quanto mal pagati, per loro è molto, e quando tornano a casa sono ricchi per gli standard locali
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R20: la lotta per il potere tra i principali gruppi musulmani e indù
Mentre l’Indonesia ha passato la presidenza del Gruppo dei 20 (G-20) all’India all’inizio di questo mese, le principali organizzazioni musulmane e indù, alcune sostenute dai loro governi, stanno lottando per definire il ruolo della religione nella politica globale e se le fedi significative del mondo hanno bisogno di riforme per sfruttare il potere delle loro […]
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Condanne a morte, arresti, omicidi: così Teheran silenzia le proteste
Le ultime vittime del regime: due attrici finite in manette per i video senza velo
Immaginate di leggere una notizia come questa: Monica Bellucci arrestata per i post provocatori contro il governo pubblicati sui suoi canali social rischia una condanna a morte. Immaginate la reazione. Ora traslate la notizia e spostatela qualcosa come tremilacinquecento chilometri verso Est (la distanza tra Roma e Teheran) e cercate di avere la stessa reazione. Sussultate. Indignatevi. Gridate che la libertà è un valore da difendere anche a costo della vita. No, non ci riusciamo. Ma non è colpa nostra. A parte pochi attivisti (penso al partito radicale che ostinatamente cerca di mantenere viva l’attenzione sulla rivolta dei giovani iraniani con prove di manifestazioni e scioperi della fame) la maggioranza di noi tutti pensa all’Iran come a qualcosa di troppo distante e si accalora più per una maglietta idiota indossata in un programma tv.
Ma in Iran si continua a morire, per difendere la libertà. E ogni famiglia, ogni madre e ogni padre, sa che la sera il figlio e la figlia potrebbero non rientrare a casa. Più di 500 morti e di questi 58 sarebbero minorenni o addirittura bambini. E ieri sì, hanno anche arrestato due attrici famose, Hengameh Ghaziani e Katayoun Riahi – che si sono mostrate senza il velo obbligatorio e hanno espresso solidarietà con le proteste che da oltre due mesi scuotono la Repubblica islamica, dal 16 settembre in cui è morta Mahsa Amini, la vittima numero zero, uccisa dalla polizia morale perché portava male il jihab.
Hengameh Ghaziani e Katayoun Riahi, chi sono costoro? Sono volti noti del piccolo e grande schermo, vincitrici di premi e molto popolari. Ma non solo. Non nascono come modelle o influencer per poi tentare la carriera artistica, sono donne che hanno studiato, attive nei movimenti per la difesa dei diritti umani, impegnate in associazioni caritatevoli. Per questo fanno ancora più paura al regime. Le ho cercate su Google, perché per chiunque nel mondo occidentale, sono nomi sconosciuti.
Hengameh Ghanziani, 52 anni, si è laureata in Geografia umana ed economica presso l’Università Islamica Azad di Mashhad e Shahre-Rey, e ha anche studiato Filosofia occidentale presso l’Università di San Francisco. Ha tradotto un saggio storico sullo status dei nativi americani e nel 2015 ha fondato un gruppo musicale dove canta lei stessa. Sabato ha postato un video su Instagram, dove prima si rivolge alla telecamera senza parlare, poi si gira e si lega i capelli in una coda di cavallo e fa sapere di essere stata convocata dalla magistratura: «Forse questo sarà il mio ultimo post, da questo momento in poi, qualsiasi cosa mi accada, sappiate che come sempre sono con il popolo iraniano fino all’ultimo respiro». È stata arrestata per incitamento e sostegno ai «disordini» e per aver comunicato con i media di opposizione, riferisce l’agenzia di stampa ufficiale Irna. La settimana scorsa, aveva accusato il regime di aver «assassinato» oltre 50 minori.
Katayoun Riahi, 60 anni, è stata arrestata nell’ambito della stessa indagine: nota anche per le sue opere di beneficenza, apparsa in film pluripremiati e conosciuta a livello internazionale per la serie tv Prophet Joseph, a settembre aveva rilasciato un’intervista – a testa scoperta – all’Iran International Tv emittente invisa al regime con sede a Londra, durante la quale aveva espresso solidarietà alle proteste scaturite dalla morte di Mahsa Amini e si era opposta all’obbligo del jihab.
Intanto sugli account social degli attivisti e delle associazioni umanitarie che riescono a diffondere i post in arrivo dall’Iran, dove Internet è bloccato, scorrono video e scene di orrore. Scontri a fuoco per le strade, maree di giovani in jeans e senza velo che cercando di scappare alle rappresaglie delle milizie del regime, corpi di ragazzi e ragazze riversi a terra in pozze di sangue, corpi avvolti nelle lenzuola bianche della morte, parenti e famiglie che piangono le vittime. Difficile capire il numero dei morti. Per il gruppo Iran Human Rights la repressione statale ha provocato almeno 378 morti, tra cui 47 bambini. Secondo Amnesty International almeno 21 persone sono state accusate di reati che potrebbero portare alla pena di morte mentre le autorità hanno già emesso condanne a morte per sei persone che protestavano in piazza.
Ma come sempre, sono i bambini a colpire di più, anche il nostro distante immaginario. Secondo Hra sono 46 i ragazzi e 12 le ragazze sotto i 18 anni uccise dall’inizio delle proteste. Solo nell’ultima settimana le forze di sicurezza avrebbero ucciso 5 bambini.
L’ultimo numero dell’Observer ha raccolto le testimonianze strazianti delle famiglie che raccontano la morte dei figli, uccisi dalle forze governative. Kian Pirfalak aveva 9 anni, è stato colpito mentre viaggiava nell’auto di famiglia accanto al padre. Kumar Daroftadeh voleva diventare un «grande uomo» ma è stato colpito a distanza ravvicinata a sangue freddo. Il video del padre che piange sulla tomba del bambino è diventato virale sui social. Mohammad Eghbal, 17 anni, è stato colpito alla schiena mentre si recava alla preghiera del venerdì, in quello che è diventato il «venerdì di sangue» (93 persone uccise in tutto l’Iran). Secondo Amnesty nello stesso giorno sono stati uccisi altri 10 bambini. Abolfazl Adinehzadeh, 17 anni, era sceso in piazza per amore delle sue tre sorelle. L’hanno sepolto con ancora 50 pallini di piombo in corpo. «Era un vero femminista che voleva pari diritti per uomini e donne», ha raccontato uno dei parenti all’Observer.
I servizi di sicurezza iraniani negano ogni responsabilità, dando la colpa ai terroristi, con formule di rito che le famiglie delle vittime hanno imparato a conoscere. Le morti, secondo le autorità, hanno sempre cause esterne: malattie pregresse, attacchi di cuore, suicidi, terroristi, fantomatici «stranieri». Ma i giovani continuano a scendere in piazza e il loro messaggio è chiaro. Potete uccidere noi, ma non ucciderete il nostro messaggio. E più li uccidono, più il loro messaggio diventa virale e difficile da fermare.
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BiLancio
Una serie di riflessioni sulla prima legge di bilancio redatta da un governo di destra: alcune promesse mantenute, altre meno. C’è prudenza, si vede meno la prospettiva.
La legge di bilancio non è il collage di tanti provvedimenti diversi, valutabili separatamente. Se viene scritta in quel modo a predisporla è un cattivo governante. Se viene modificata con quello spirito a emendarla è un cattivo legislatore. Se viene esposta e valutata in quella chiave a farlo è un cattivo giornalismo. Se ne può discutere questo o quell’aspetto, ma va prima di tutto considerata nel suo significato unitario. Se c’è.
Nella prima legge di bilancio redatta da un governo di destra si è escluso di sfondare i conti e iscrivere a debito il costo di tutte le promesse elettorali. Ed è positivo. A promettere più spese, più deficit e più debito erano stati Lega e Forza Italia, mentre Fratelli d’Italia aveva tirato il freno e promesso responsabilità. Che l’argine tenga è un bene. Eppure il deficit, rispetto ai conti del governo Draghi, passa dal 3,9 al 4,5% del Prodotto interno lordo, il che non ha destato reazioni e lo spread è rimasto basso. L’aumento non deriva (tanto) da decisioni politiche, ma dal maggiore costo del debito. Quando si dice che questo o quel titolo del debito è andato “a ruba”, ci si dimentica di aggiungere che pagano bene, aumentando la spesa. Se il mercato non reagisce ruvidamente, dando l’aumento per scontato, non significa che si possa dimenticare che quel costo crescerà ancora, togliendo margine ad altre spese.
Sarebbe stato un incrocio fra sciocchezza e presunzione supporre che il nuovo governo potesse dare subito corpo alle promesse elettorali. Anche solo quelle (vaghe) condivise dall’intera coalizione di destra. Chi per questo li critica gareggia in demagogia. Quel che conta è capire se il governo descriva un percorso chiaro e pluriennale, rendendo coerenti i primi passi. E qui le cose si fanno nebbiose, perché avere scelto di puntare su mozziconi di promesse – dal fisco alle pensioni – senza spiegare come possano mai essere interamente compatibili con la stabilità finanziaria fa sì che non si capisca dove intendano andare a parare, tanto meno poterne valutare la coerenza.
Prendiamo il Reddito di cittadinanza: la destra ha detto chiaramente di volerlo cancellare (anche se una delle componenti, la Lega, contribuì a crearlo). Mettiamo pure che “cancellare” diventi “modificare”: chi è in grado di lavorare ci vada. Basta un rifiuto per perdere il beneficio. Bene. Ci sono, però, percettori che non hanno mai rifiutato nulla, ma ai quali neanche nessuno ha mai proposto alcunché. Allora non basta tagliare l’esborso, perché quella non è una riforma, un cambiamento, semmai dovrebbe esserne la conseguenza. Ad esempio: integrazione fra uffici del lavoro e agenzie private, con banca dati nazionale sia di domanda e offerta che di assistenza. Non è un problema dire che ci vuole tempo, lo è non dire dove si voglia arrivare.
L’elevazione della soglia entro la quale un autonomo può utilizzare un regime forfettario (che non è manco per niente una flat tax) non significa nulla e riguarda una percentuale minima di contribuenti. Il problema non è la ridotta portata, ma il non sapere cos’altro significhi se non dare “un segnale”. Manca lo sfondo di una riforma fiscale documentata. Tassare le multinazionali unisce in coro la destra e la sinistra ideologiche, ma significa poco. O, meglio, per quel che significa ci lavora la Commissione europea. Se tassi le consegne a domicilio, però, tassi i clienti. E se detassi l’Iva per quattro centesimi a ogni euro per pane e pasta, non se ne accorge il cliente ma il maggiore incasso del venditore. Se rimangono intenzioni, sono pure segnali equivoci.
C’è la prudenza. Si vede meno la prospettiva. In ultimo: la legge dovrà essere approvata entro il 31 dicembre e l’esame parlamentare sarà compresso. Di questo la destra si lamentò spesso. Ora che si trova a fare quel che detestò, perché non c’è alternativa, potrebbe usare l’inconveniente per ragionare, con l’opposizione, sulla riforma di quel procedimento. Anche ipotizzando la non emendabilità, cui si lega la caduta del governo nel caso di bocciatura.
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Non perdetevi l'incontro di #attiviamoenergiepositive su #mastodon #twitter e il #fediverso!
Oggi martedì 22 novembre alle 17 🐘
Con Paolo Melchiorre, Francesco Macchia e Angelo Rindone
Clicca qui per seguire la live alle h.17
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Attiviamo Energie Positive Attiviamo Energie Positive
Un ciclo di formazione e webinar gratuiti. Condividiamo competenze e saperi per costruire nuove relazioni e progettare insieme il futuroAttiviamo Energie Positive
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La violenza digitale, invasiva e nascosta degli stalkerware che colpisce le donne. | Altreconomia
"Presentate come soluzioni antifurto o per controllo parentale, queste app alla portata di tutti possono essere installate per monitorare i dispositivi all’insaputa dei proprietari, scandagliando email, telefonate e account social. Una prassi illegale che si inserisce nell’ampia galassia della cyberviolenza."
Jonathan Lethem – Motherless Brooklin
L'articolo Jonathan Lethem – Motherless Brooklin proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
In difesa del reddito di cittadinanza | La Fionda
«La vera fotografia del mondo del lavoro in Italia è, dunque, questa: o si è disoccupati involontari (o inattivi) oppure, in alternativa, si ha la “fortuna” di essere, spesso e volentieri, sfruttati. E questa fotografia, come visto, interessa direttamente la quotidianità anche dei percettori occupabili del RdC.
Il RdC può essere concepito come un dispositivo istituzionale che fornisce un minimo di protezione, seppur condizionata, ovvero a breve termine, in primis, contro la povertà assoluta estrema e, secondariamente, contro lo sfruttamento e forme moderne di schiavitù lavorativa. Non si può pensare che, in un tale contesto di diffuse e laceranti ingiustizie e barbarie sociali, il problema sia rappresentato da un sussidio pari lo scorso anno a 548 euro medi mensili e che, per giunta, è divenuto e diverrà sempre più violentemente condizionato. Se un sussidio di 548 euro fa concorrenza ai salari, soprattutto in settori e sotto-settori con produzioni a più basso valore aggiunto come proprio l’agricoltura, il turismo e la ristorazione, allora il problema è dato dal livello troppo basso dei salari e degli stipendi!»
Costi ambientali dei dispositivi di IA
L’immagine di Internet come cloud lo rende un ambiente apparentemente intangibile, quasi post-fisico. Tale percezione contribuisce a creare un’ingenua fiducia nel suo scarso impatto ecologico. A ciò si aggiungono le dichiarazioni del settore tecnologico, apparentemente a favore della sostenibilità ambientale, che fanno in realtà parte della creazione di un’immagine pubblica opaca e non veritiera.
Digital Service Package: come regolare le piattaforme digitali?
Il 5 luglio 2022, al termine della sessione plenaria del Parlamento Europeo, è stato approvato il Digital Services Package, il primo set normativo composto dal Digital Service Act (DSA) e dal Digital Markets Act (DMA), volto a regolare rispettivamente i servizi e il mercato digitali al fine di creare uno spazio online più sicuro e aperto, fondato sul rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini.
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Diritti Digitali per la Comunità Queer
L’intelligenza artificiale (IA) pervade le nostre vite tramite app di varia tipologia, assistenti digitali, sistemi di rating, dispositivi smart. Diversamente dalla prospettiva che la presenta come strategia oggettiva ed equa per la gestione di determinati compiti, l’IA è intrinsecamente priva di neutralità, in quanto potenzialmente soggetta ad un uso duale. Infatti certi algoritmi...
Safe Cities e Colonialismo Digitale in Sudafrica
La sorveglianza biometrica costituisce un framework di tecnologie invasive che ricercano negli individui specifiche caratteristiche identitarie, al fine non dichiarato di attuare una profilazione di massa. Nel caso specifico del Sudafrica questo si inserisce in un ecosistema più ampio creatosi attorno al progetto Safe Cities del gigante cinese Huawei. Guidato dall’idea che la tecnologia sia la...
Il tracciamento dei contatti nei luoghi di lavoro in Italia
Parte 1: Tracciamento dei contatti, le origini Parte 2: Il contact-tracing nel XXI secolo: dalla MERS al COVID-19 Parte 3: L’approccio europeo e italiano al tracciamento dei contatti Parte 4: Il tracciamento dei contatti fuori dall’Italia Parte 5: Il tracciamento dei contatti: questioni etiche Se l’osservazione delle iniziative sviluppate dai vari Paesi europei aiuta a chiarire il quadro delle...
Oggi, #22novembre, è la Giornata nazionale per la sicurezza nelle scuole, istituita dal Parlamento italiano il 13 luglio 2015.
Qui la lettera alle scuole del Ministro Giuseppe Valditara ▶️ miur.gov.
Ministero dell'Istruzione
Oggi, #22novembre, è la Giornata nazionale per la sicurezza nelle scuole, istituita dal Parlamento italiano il 13 luglio 2015. Qui la lettera alle scuole del Ministro Giuseppe Valditara ▶️ https://www.miur.gov.Telegram
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#uncaffèconLuigiEinaudi – È necessario che ci siano anche alcuni spiriti liberi
“È necessario che ci siano anche alcuni spiriti liberi che tengano viva, nei modi che oggi sono possibili, la fiamma della libera critica, della libertà di parola e di opinione”
da Lettera di Einaudi ad A. Albertini, 31 ottobre 1923
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È disponibile il nuovo numero della newsletter del Ministero dell’Istruzione.
🔸 MIM-Regioni, sbloccati 500 milioni per il potenziamento dei laboratori degli ITS
🔸 Accordo con le Province su #PNRR e scuole superiori
🔸 …
Ministero dell'Istruzione
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Non esiste democrazia senza lavoro
"In definitiva, oggi, mentre leggete queste parole, in Italia è tollerato il furto di lavoro, il furto di ciò che serve ovviamente per guadagnarsi da vivere, ma non solo: serve per guadagnarsi la propria stessa libertà e la propria dignità (l’art. 36 della Costituzione infatti recita: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa»). Un contesto di questo tipo, assai intuibilmente, rende praticamente impossibile la partecipazione democratica delle persone con gravi ricadute in termini di democrazia costituzionale. Non solo, per inciso è bene precisare che questo contesto rende praticamente inattuabili molte altre regole in materia di lavoro, prime fra tutte quelle relative a salute e sicurezza sui luoghi di lavoro."
Il paese delle armi. Falsi miti, zone grigie e lobby nell’Italia armata
Questo libro affronta il tema della produzione, del commercio e dell’uso delle armi “comuni” nel nostro Paese: demolisce falsi miti, fa luce su zone
magozine.it/il-paese-delle-arm…
#Recensionilibri #armi #Beretta #Fiocchi #Italia #lobby #omicidio #patriarcato
Ho cercato informazioni su wiki ma con scarsi risultati: è stato acquistato e reso "chiuso" anche il protocollo?
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E nel dinner talk di Sky, vip, manager e calendiani ci spiegano com'è difficile arrivare a fine mese - Kulturjam
«La nuova frontiera dell'infotainment è in realtà la riedizione fantozziana del "Cari inferiori", in cui amici di un certo livello sociale si abboffano davanti alle telecamere mentre discutono di massimi sistemi. Lo chiamano dinner talk.»
Pensavo che sarebbe interessante (e forse esiste già, ma non l'ho trovato) sviluppare un servizio che funga da proxy aggregatore per i diversi account del fediverso che un utente può possedere.
Provo a spiegarmi. Esistono numerosi social network decentralizzati che utilizzano il protocollo ActivityPub, tramite il quale sono tra loro interoperabili. Così un utente Mastodon può ricevere i video pubblicati da un amico su un'istanza PeerTube. Come utente del Fediverso, potrei aprire un account Pixelfed per pubblicare le mie foto, PeerTube per i video, Friendica per il microblogging ecc. Ognuno di questi account avrà il proprio handle, i propri follower e i propri seguiti, il che può diventare scomodo da gestire.
Invece, mi piacerebbe esporre verso l'esterno un unico handle aggregato, ad esempio @c64@luca.it, e "agganciare" a questo handle i numerosi account del fediverso di cui dispongo, per esempio
- @c64@mastodon.uno per Mastodon,
- @c64@poliverso.it per Friendica, ecc.
Come funzionerebbe dunque l'handle aggregato? Tutti i messaggi in entrata verrebbero aggregati dal proxy, e replicati verso tutti gli account personali. In questo modo, per esempio, avrei la possibilità di leggere lo stream dei post dei seguiti tramite Mastodon, che ha un'interfaccia più comoda e matura rispetto a Friendica, oppure utilizzare proprio Friendica. Anche i messaggi in uscita (post, video ecc.) sarebbero mediati dal proxy, in modo tale che i miei follower vedrebbero tutti i messaggi che pubblico, indipendentemente dal social che ho utilizzato per la pubblicazione per ogni singolo messaggio.
Infine, l'handle aggregato potrebbe essere permanente: così potrei modificare l'istanza dei miei social in modo trasparente, senza dover chiedere ai follower di modificare l'handle seguito.
Silvia Barbero likes this.
#PNRR, decreto di approvazione delle graduatorie dell’investimento per asili nido e scuole dell’infanzia e servizi di educazione e cura per la prima infanzia.
Info ▶️ miur.gov.
Ministero dell'Istruzione
#NotiziePerLaScuola #PNRR, decreto di approvazione delle graduatorie dell’investimento per asili nido e scuole dell’infanzia e servizi di educazione e cura per la prima infanzia. Info ▶️ https://www.miur.gov.Telegram
Poliverso & Poliversity reshared this.
“A Scuola di OpenCoesione": online l’elenco delle scuole ammesse a partecipare al progetto per l’anno scolastico 2022/2023.
Info ▶️ miur.gov.
Ministero dell'Istruzione
#NotiziePerLaScuola “A Scuola di OpenCoesione": online l’elenco delle scuole ammesse a partecipare al progetto per l’anno scolastico 2022/2023. Info ▶️ https://www.miur.gov.Telegram
Luca Gasperini reshared this.
Andrea reshared this.
Qualcuno è riuscito a capire il motivo scatenante per cui nelle ultime sei ore c'è stata un'ondata migratoria eccezionale di iscrizioni a #Mastodon?
- Ne ha parlato forse qualche youtuber?
- Un tiktoker?
- Facebook ha deciso di far collassare i server più grandi di Mastodon per eliminare la potenziale concorrenza?
- C'è stato un servizio giornalistico in TV?
- Radio Maria ha sconsigliato mastodon?
- Una catena di S. Antonio che se non ti iscrivi a Mastodon vieni bocciato alla maturità?
- PIERO FASSINO HA DICHIARATO CHE MASTODON NON SARA' MAI UN FENOMENO DI MASSA? 😱😱😱
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Mastodon può sopravvivere alla legge europea sui servizi digitali? Konstantinos Komaitis, un esperto di regolamenti di Internet e diritto d'autore prova a rispondere a questa domanda
Proponiamo di seguito l'articolo di Konstantinos Komaitis
Sono passate circa due settimane da quando Elon Musk, l'uomo più ricco del mondo, ha acquisito Twitter e, già, i crescenti timori su cosa questo significhi per la libertà di parola sulla piattaforma di microblogging hanno iniziato a proliferare. Con Musk che licenzia alcuni membri del personale chiave di Twitter, tra cui il capo legale di Twitter Vijaya Gadde e rescinde i contratti con moderatori di contenuti in outsourcing, molti utenti sono alla ricerca di un'alternativa.
Un numero considerevole sta migrando al "fediverse", e in particolare a Mastodon, una piattaforma di microblogging simile che è stata chiamata "Twitter, con l'architettura sottostante della posta elettronica". Il decentramento di Mastodon solleva interrogativi sostanziali su come si applicheranno i regimi normativi esistenti, come il Digital Services Act (DSA) europeo.
Il passaggio a Mastodon
Il fediverso - una parola macedonia formata da federazione e universo - è una rete di server interconnessi che comunicano tra loro sulla base di protocolli di rete decentralizzati. Questi server possono essere utilizzati per la pubblicazione sul Web e l'hosting di file e consentono agli utenti di comunicare tra loro nonostante si trovino su server indipendenti.
Per Mastodon, l'interoperabilità è fondamentale. Pensalo come un account di posta elettronica: un utente può utilizzare un servizio di posta di Google, ma ciò non gli impedisce di comunicare con qualcuno che utilizza Hotmail o anche con qualcuno che ospita il proprio server di posta. Finché viene seguito un insieme di protocolli, gli utenti possono comunicare facilmente tra i server. L'idea alla base di un'architettura così decentralizzata è dare agli utenti il controllo diretto del loro utilizzo e della loro presenza online. Mastodon è uno dei tanti social network che operano utilizzando software gratuito e open source; altri esempi includono Peertube, che è simile a YouTube, e diaspora* (non capisco perché viene richiamata più spesso Diaspora rispetto a Friendica, ndr) , che assomiglia di più a Facebook.
Dall'acquisizione di Twitter da parte di Musk e dalle turbolenze che ha causato, la crescita di Mastodon è passata da 60-80 nuovi utenti all'ora a 3.568 nuove registrazioni in un'ora la mattina del 7 novembre. Ora ha accumulato oltre 6 milioni di account utente ed è ancora in crescita.
Per iscriversi a Mastodon, un utente può unirsi a un numero di server diversi (noti come "istanze") di sua scelta; queste istanze determinano i contenuti che gli utenti possono vedere e le linee guida della comunità a cui devono iscriversi. In sostanza, l'amministratore o gli amministratori di ciascuna istanza fungono da "moderatore" - decidendo cosa è consentito o meno in quell'istanza - e hanno il potere di filtrare o bloccare i contenuti che contraddicono le regole stabilite. Gli amministratori possono agire da soli come moderatori o utilizzare un team di moderatori. All'interno di un'istanza, un utente può pubblicare testo o altri media, seguire e comunicare con altri utenti (all'interno e all'esterno della propria istanza) e condividere dati pubblicamente o con un gruppo selezionato.
Proprio come Twitter, Mastodon usa gli hashtag, ha un limite di caratteri per i post (500 invece dei 280 di Twitter) ed è già popolato di immagini di gatti. Sebbene alcuni utenti si siano lamentati della complessità del processo di registrazione e della generale facilità d'uso del sito (o della sua mancanza), Mastodon si è rivelato un'alternativa salutare e ha dimostrato che gli utenti sono pronti ad abbandonare i servizi di social media consolidati se lo desiderano sono presentati con le opzioni.
Moderazione dei contenuti su Mastodon
Alla fine, tuttavia, il futuro di Mastodon dipenderà dal modo in cui le sue singole istanze e il sito, come un insieme collaborativo, si occuperanno della moderazione dei contenuti e della libertà di parola. Il fascino di Mastodon sta nel suo decentramento. Quando Eugen Rochko ha fondato la rete nel 2016, proveniva da un "sentimento di sfiducia nei confronti del controllo dall'alto che Twitter esercitava" . Contrastando questa sfiducia, affermando anche con orgoglio che "non è in vendita",la rete Mastodon non ha un unico proprietario o amministratore che possa stabilire le regole; invece, l'amministratore di ciascuna istanza locale stabilisce le regole del proprio server, che gli utenti devono rispettare. Se un utente non è d'accordo con queste regole, può facilmente passare a un'istanza che si allinea con il suo punto di vista, creando solide strade per la libertà di parola. Se un amministratore rileva che un utente ha pubblicato qualcosa in violazione delle regole dell'istanza, può rimuovere il contenuto o persino rimuovere l'utente dall'istanza; l'utente può quindi semplicemente passare a un altro server.
L'amministratore può anche bloccare il contenuto dall'istanza che esegue se disturba gli utenti. Nel 2019, la piattaforma di social media Gab, un hub per i suprematisti bianchi, ha testato i limiti di Mastodon sulla moderazione dei contenuti. Anche se Mastodon non poteva negare l'uso da parte di Gab del suo software open source, dal momento che chiunque può utilizzare il software se "mantiene la stessa licenza e rende pubbliche le proprie modifiche", le singole istanze sono state in grado di bloccare, e di conseguenza isolare, Gab e i suoi utenti. Non essendo in grado di interagire con altre istanze, Gab divenne un'istanza senza valore per il collettivo Mastodon. In risposta a questo, mastodon . sociale— uno dei server gestiti da Mastodon — ha aggiornato la sua politica relativa alla promozione delle istanze sul proprio sito Web ufficiale, prima di bloccare definitivamente Gab.
Sebbene non esista un'autorità centrale su Mastodon, quando ti iscrivi alla rete ti mostra alcune istanze popolari a cui puoi unirti per avere un'idea generale del contenuto sulla rete. Queste istanze devono rispettare determinate regole come non consentire il razzismo, il sessismo, l'omofobia, la transfobia, ecc. Sui loro server. Questo mostra come il contenuto (o meglio una piattaforma) può essere moderato su una rete decentralizzata: mentre il contenuto offensivo non è necessariamente completamente rimosso dalla rete, l'azione locale può essere intrapresa da ciascun amministratore di istanza per evitare e infine ostracizzare i server "problematici".
I chiari vantaggi di tali sistemi decentralizzati, specialmente se non sono a scopo di lucro, come Mastodon, sono le responsabilità diffuse di moderazione dei contenuti, l'empowerment degli utenti e i disincentivi per i conflitti degli utenti (soprattutto legati alla conduzione del coinvolgimento, come si vede nei grandi social media). Tuttavia, questo ci lascia ancora con la questione dei contenuti manifestamente discutibili, come materiale sullo sfruttamento sessuale di minori o contenuti terroristici. Certamente, le istanze hanno i propri incentivi per moderare e sbarazzarsi di tali contenuti; tuttavia, è anche importante ricordare che le reti decentralizzate non sono al di sopra della legislazione del governo, né sono una panacea per la moderazione dei contenuti. Allo stesso modo in cui i governi possono ordinare la rimozione di un sito Web, possono anche ordinare la rimozione delle istanze di Mastodon.
Mastodon e la legge sui servizi digitali
Mentre Mastodon continua a guadagnare popolarità, una domanda che rimane è come gli sforzi legislativi esistenti possano influenzare l'intero sito web e/o le sue istanze. In particolare, il Digital Services Act (DSA) in Europa è stato creato per affrontare i problemi di moderazione dei contenuti che si manifestano in piattaforme molto più grandi e centralizzate, come Facebook. Quale sarà l'effetto del DSA su Mastodon?
Attualmente, ci sono più di 3000 istanze sulla rete, tutte con i propri utenti, linee guida e amministratori. In questo contesto, il DSA non fornisce chiarezza sulle questioni dei social media decentralizzati. Tuttavia, sulla base delle categorizzazioni del DSA, è molto probabile che ogni istanza possa essere vista come una ' piattaforma online ' indipendente su cui un utente ospita e pubblica contenuti che possono raggiungere un numero potenzialmente illimitato di utenti. Pertanto, ciascuna di queste istanze dovrà rispettare una serie di obblighi minimi per i servizi di intermediazione e hosting, incluso avere un unico punto di contatto e un rappresentante legale, fornire termini e condizioni chiari, pubblicare relazioni semestrali sulla trasparenza, avere un meccanismo di notifica e azione e comunicare informazioni su rimozioni o restrizioni sia ai fornitori di avvisi che a quelli di contenuto .
Oggi, dato il modello senza scopo di lucro e l'amministrazione limitata e volontaria della maggior parte delle istanze esistenti, tutti i server Mastodon sembrerebbero esenti dagli obblighi per le grandi piattaforme online. Tuttavia, cosa significherà se un'istanza finirà per generare oltre 10 milioni di EUR di fatturato annuo o assumerà più di 50 membri del personale? Ai sensi del DSA, se tali soglie vengono raggiunte, gli amministratori di tale istanza dovrebbero procedere all'attuazione di requisiti aggiuntivi, tra cui un sistema di gestione dei reclami, la cooperazione con segnalatori attendibili e organismi extragiudiziali per le controversie, una maggiore trasparenza delle relazioni e l'adozione delle misure di protezione dei bambini, così come il divieto di modelli oscuri. Il mancato rispetto di questi obblighi può comportare multe o il blocco geografico dell'istanza in tutto il mercato dell'UE.
Inoltre, in teoria, c'è sempre la possibilità che un'istanza possa raggiungere la soglia per lo stato "Very Large Online Platform" (VLOP) del DSA se la sua base di utenti continua a crescere e raggiunge i 45 milioni di utilizzo mensile. Oggi, mastodon.social è l'istanza più grande, con 835.227 utenti . Se supera la soglia dell'utente VLOP, vi è un numero significativo di obblighi che questa istanza dovrebbe rispettare, come valutazioni del rischio e audit indipendenti. Questo può rivelarsi un onere amministrativo costoso e gravoso, dato il suo fatturato attuale . È quindi importante che la Commissione europea fornisca ulteriori chiarimenti su questi casi e lo faccia rapidamente.
È difficile prevedere cosa accadrà se, e quando, il numero di utenti di Mastodon raggiungerà piattaforme come Twitter e Facebook, specialmente nel regno della moderazione dei contenuti. Poiché la moderazione nelle principali piattaforme di social media è condotta da un'autorità centrale, il DSA può effettivamente ritenere una singola entità responsabile attraverso obblighi. Questo diventa più complesso nelle reti decentralizzate, dove la moderazione dei contenuti è prevalentemente guidata dalla comunità.
Ambiguità normativa e Fediverso
Attualmente, Mastodon tenta di rispondere ai problemi della moderazione dei contenuti attraverso la sua architettura decentralizzata. Non esiste un'autorità o un controllo centrale che si possa indicare e ritenere responsabile per le pratiche di moderazione dei contenuti; invece, la moderazione avviene in modo organico dal basso verso l'alto. Per quanto riguarda il modo in cui le imminenti normative digitali possono essere applicate a queste piattaforme, ci rimangono ancora una miriade di domande, che crescono solo se consideriamo come una rete decentralizzata potrebbe implementare questi requisiti.
L'ambiguità sul fediverso mostra che quando si progetta la regolamentazione di Internet, è importante farlo con la più ampia creatività e innovazione possibile, invece di avere in mente determinati attori. L'ultima cosa che l'Europa vuole è la sua regolamentazione che limiti l'innovazione futura, alzando le barriere all'ingresso sia per le nuove imprese che per gli utenti.
Link al post originale: techpolicy.press/can-mastodon-…
Note sugli autori:
Konstantinos Komaitis è un veterano dello sviluppo e dell'analisi della politica Internet per garantire un Internet aperto e globale. Konstantinos ha trascorso quasi dieci anni nello sviluppo di politiche e strategie attive come Senior Director presso la società di Internet. Prima di allora, ha trascorso 7 anni come docente senior presso l'università di Strathclyde, Glasgow, nel Regno Unito, dove facevamo ricerca e insegnavamo politica di Internet. Konstantinos è un oratore pubblico che ha parlato a molti eventi in tutto il mondo, incluso un discorso TedX, e uno scrittore che ha scritto per vari punti vendita tra cui Brookings, Slate, TechDirt, EuroActive. Ha conseguito due lauree magistrali e un dottorato ed è autore di un libro sulla regolamentazione dei nomi a dominio. È anche co-conduttore del "Podcast di Internet of Humans". Il suo sito personale è: www.komaitis.org .
Louis-Victor de Franssu è il CEO e co-fondatore di Tremau, una start-up tecnologica Trust & Safety che aiuta i servizi online ad adattarsi al quadro normativo in evoluzione. Prima di Tremau, Louis-Victor è stato vice dell'ambasciatore francese per gli affari digitali. In questo ruolo, si è specializzato in questioni relative alla lotta ai contenuti illegali online e alla disinformazione, guidando anche il lavoro della Francia sull'invito all'azione di Christchurch. Prima di entrare a far parte del Ministero per l'Europa e gli Affari Esteri, Louis-Victor ha lavorato per un'importante società di consulenza per la gestione del rischio non finanziario nel settore finanziario. Louis-Victor ha conseguito un MBA presso l'INSEAD e un BA presso l'Università di Notre Dame.
Can Mastodon Survive Europe’s Digital Services Act?
Konstantinos Komaitis & Louis-Victor de Franssu say Mastodon’s decentralization raises questions about how regulatory regimes will apply.Konstantinos Komaitis (Tech Policy Press)
Jun Bird
in reply to J. Alfred Prufrock • • •Ma ti riferisci a BitTorrent, Inc.? Credo che fondamentalmente abbiano in mano solo BitTorrent, cioè il popolare client (e pare che la stessa azienda sia pure quella di uTorrent? The more you know). Non voglio dire cazzate, ma penso che il protocollo sia sin troppo diffuso e popolare per essere chiuso. Non mi sorprenderebbe, però, scoprire che ci abbiano effettivamente provato.
octt :VerifiedCoffee:
in reply to J. Alfred Prufrock • • •La storia è un sacco complicata, e farsi un giro per Wikipedia (en) aiuta a schiarire le idee ma non troppo.
A quanto ho capito, Rainberry, Inc., la ex-BitTorrent Inc., fu fondata dallo stesso creatore di BitTorrent tanti secoli fa. Questa Inc ha inizialmente comprato uTorrent facendolo diventare nel tempo da un buon programma seppur proprietario, ad adware; ha creato il client "BitTorrent" che è uTorrent ma viola, e questo è.
La crypto la sento solo ora, curioso in effetti.
Comunque, il protocollo per ora resta aperto... semplicemente perché (a quanto so) non subisce aggiornamenti da un'eternità.
1, [2](en.wikipedia.org/wiki/Rainberr….), 3
American programmer, creator of BitTorrent protocol
Contributors to Wikimedia projects (Wikimedia Foundation, Inc.)Jun Bird
in reply to octt :VerifiedCoffee: • • •J. Alfred Prufrock
in reply to J. Alfred Prufrock • •Jun Bird
in reply to J. Alfred Prufrock • • •J. Alfred Prufrock
in reply to J. Alfred Prufrock • •