Gaza e Israele viste dalla Cina
Pechino spinge la soluzione dei due stati e sostiene l'unità del mondo arabo, con la speranza di non vedersi disfatta la tela diplomatica intessuta in Medio oriente. Frizioni con Tel Aviv e gli Usa, ma si continua a lavorare all'incontro Xi-Biden. Prima, però, c'è il forum sulla Belt and Road con Vladimir Putin
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Journa.host e la proprietà dei server Mastodon. Una storia sulla fragilità emotiva e professionale dei giornalisti
@Giornalismo e disordine informativo
Riportiamo le riflessioni di Laurens Hof, autore della newsletter fediversereport
Il server Journa.host , un server Mastodon dedicato ai giornalisti, ha trasferito la proprietà. Con ciò arrivano domande riguardanti le aspettative tra i proprietari/operatori del server e le persone che utilizzano il server. Il server Journa.host è iniziato come un progetto incentrato sulla comunità, con il finanziamento iniziale del Tow-Knight Center for Entrepreneurial Journalism presso la Craig Newmark Graduate School of Journalism della CUNY. Recentemente la proprietà del server è stata trasferita alla Fourth Estate Public Benefit Corporation. Questa organizzazione gestisce anche il server Mastodon newsie.social e, fino a poco tempo fa, anche il progetto verifyjournalist.org (la cui proprietà è stata recentemente trasferita a The Doodle Project).
Questo trasferimento di proprietà del server ha innescato una discussione da parte del giornalista etiope Zecharias Zelalem, che si è allontanato dal server journa.host a seguito di questo trasferimento di proprietà. Nei suoi post sottolinea i rischi reali che derivano dall'essere un giornalista, soprattutto nel suo contesto. Il trasferimento dei dati personali dei giornalisti e il controllo della loro presenza sui social media alla nuova proprietà senza alcun preavviso e spiegazione solleva interrogativi sulle considerazioni dei precedenti proprietari su questo trasferimento. Uno dei punti sollevati è che ci sono poche informazioni disponibili sull'identità del nuovo proprietario, Jeff Brown. È comprensibile che i giornalisti si sentano a disagio quando non è chiaro chi sia responsabile di una parte importante della loro presenza digitale. Allo stesso tempo, la maggior parte dei server non è finanziariamente sostenibile e non si può presumere che anche i server che ricevono finanziamenti da luoghi affidabili rimangano operativi per sempre quando i fondi si esauriscono. Nel frattempo, sotto la nuova proprietà, journal.host consentirà nuovamente la registrazione di nuove applicazioni per il server journal.host.
Dan Hon ha scritto un articolo interessante sulla situazione, tracciando parallelismi con il nuovo libro di Cory Doctorow "The Internet Con", che vale la pena leggere. Sta anche ospitando un incontro digitale per piccoli gruppi "Giornalismo, notizie e social network federati", organizzato anche in risposta a questa conversazione. Qui puoi trovare ulteriori informazioni su questo incontro "Hallway Track".
Le nostre considerazioni sulla vicenda
Quando abbiamo creato l'istanza mastodon poliversity.it, dedicata agli accademici e ai giornalisti, ci siamo resi conto che mentre gli accademici hanno iniziato a frequentarla, i giornalisti l'hanno praticamente disertata, preferendo stare dentro istanze generaliste come mastodon.uno o la gigantesca mastodon.social Ma altri hanno preferito iscriversi nelle due istanze tematiche anglofone più grandi dedicate al giornalismo, newsie.social e journa.host.
Il motivo dichiarato è che i giornalisti preferivano stare nei luoghi più comodi, più frequentati o più esclusivi. Insomma, preferivano Un posto al sole...
Ma questa individuazione dell'istanza del fediverso più affollata nasconde la pigrizia tipica della maggior parte dei giornalisti oltre alla impellente necessità di mettersi in mostra. Quando abbiamo creato la nostra istanza dedicata al giornalismo, abbiamo sempre affermato che si doveva trattare di una soluzione temporanea, in attesa di fare in modo che i giornalisti stessi creassero delle proprie istanze, legate alla piattaforma editoriale per cui già lavoravano o ai consorzi di cui fanno parte alcuni dei migliori giornalisti italiani ed esteri.
Invece questi progetti non sono ancora nati. In questo senso, troviamo che le lamentazioni di Zecharias Zelalem siano stucchevoli: non riguardano l'orgoglio del giornalismo, ma la semplice lamentela del giornalista che si vede cambiare padrone, che si vede cambiare il soggetto ospitante
Anche l'accusa nei confronti di Jeff Brown ossia quella di non essere un giornalista, è una cosa volgare che manca totalmente l'obiettivo: Il fatto è che Jeff Brown non deve essere un giornalista ma al massimo deve essere un bravo "editore"!
Il punto però è che il fediverso consente a ciascun giornalista o a ciascun gruppo di giornalisti di essere editore di se stesso. L'incapacità di comprendere la realtà da parte proprio di quei soggetti che dovrebbero raccontarle, è al nostro avviso l'aspetto più problematico e in un certo senso oscena di tutta questa vicenda.
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Colombia. Petro: “pronti a rompere le relazioni con Israele”
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di Redazione
Pagine Esteri, 16 ottobre 2023 – «Se occorre sospendere le relazioni con Israele le sospenderemo. Non appoggiamo i genocidi». Così si è espresso il presidente della repubblica della Colombia rispondendo alle proteste sollevate dall’esecutivo israeliano nei confronti di Bogotà per le forti prese di posizione del capo di stato colombiano contro il massacro compiuto da Israele nella Striscia di Gaza.
Riferendosi all’assedio e ai bombardamenti su Gaza, che hanno provocato in pochi giorni migliaia di vittime civili, Petro aveva paragonato la situazione del territorio palestinese ai campi di concentramento nazisti.
Poco prima, il ministero degli Esteri israeliano aveva convocato l’ambasciatrice colombiana, Margarita Manjarrez, per censurare le ultime esternazioni del primo presidente di sinistra del paese, accusato da Tel Aviv di «istigazione all’antisemitismo». «Israele – recitava un comunicato della rappresentanza diplomatica israeliana in Colombia – condanna le dichiarazioni del presidente colombiano che riflettono un sostegno alle atrocità commesse dai terroristi di Hamas, alimentano l’antisemitismo, colpiscono i rappresentanti dello Stato di Israele e minacciano la pace della comunità ebraica in Colombia».
«Il presidente della Colombia non si insulta. Chiamo l’America Latina a una solidarietà reale con la Colombia. Né gli Yair Klein, ne i Rafael Eithan potranno dire qual è la storia della pace in Colombia. Hanno scatenato i massacri e il genocidio in Colombia. La Colombia, come ci hanno insegnato Bolivar e Narino, è una nazione indipendente, sovrana e giusta» ha quindi reagito Petro riferendosi a due ex militari israeliani coinvolti negli eccidi compiuti nei decenni scorsi dagli squadroni della morte di estrema destra contro i movimenti guerriglieri e i movimenti sociali. Se Yair Klein, ex militare di Tel Aviv e mercenario, è noto per aver addestrato i paramilitari di estrema destra colombiani, Rafael Eithan suggerì all’ex presidente colombiano Virgilio Barco di sterminare i membri del partito di sinistra Unione Patriottica, cosa che effettivamente avvenne negli anni ’80 e ’90 con migliaia di militanti assassinati.
Il presidente colombiano, sempre molto attivo sulle reti sociali, è intervenuto spesso nei giorni scorsi sulla crisi mediorientale, denunciando tra le altre cose il fatto che il «potere mondiale tratta in modo distinto l’occupazione russa sull’Ucraina e quella israeliana in Palestina». Dopo aver ricordato che “uccidere bambini innocenti significa terrorismo, sia in Colombia sia in Palestina”, Petro ha invitato le parti a sedere a un tavolo negoziale per arrivare ad una soluzione politica del conflitto attraverso la fondazione di due Stati sovrani.
«Nessun democratico al mondo può accettare che Gaza sia trasformata in un campo di concentramento» ha scritto Petro su Twitter. «I campi di concentramento sono vietati dal diritto internazionale e coloro che li allestiscono si trasformano in colpevoli di reati di lesa umanità» ha aggiunto il presidente della Colombia suscitando la rabbia dell’ambasciatore di Israele a Bogotà, Gali Dagan.
Il governo israeliano è intervenuto annunciando il blocco della vendita di armi alle forze armate colombiane.
Da parte sua Gustavo Petro ha esortato le Nazioni Unite a convocare quanto prima una sessione straordinaria, ha promesso l’invio di aiuti umanitari alla popolazione della Striscia di Gaza e che cercherà la mediazione e la collaborazione delle autorità egiziane.
Ovviamente i partiti di destra all’opposizione non hanno preso bene né le dichiarazioni di Petro contro Tel Aviv né la crisi aperta con Israele, da sempre fornitore privilegiato di armi e alleato delle oligarchie colombiane nella repressione dei movimenti guerriglieri, sociali e sindacali del paese, tra i più estesi di tutto il continente. – Pagine Esteri
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Non c’è differenza tra Isis e Hamas: vogliono entrambe distruggere Israele
«Benjamin Netanyahu è un dirigente catastrofico, ma non è per questo che Israele è stato colpito da Hamas». Secondo il filosofo francese Alain Finkielkraut, figlio di ebrei polacchi sopravvissuti all’Olocausto, le cause dell’attacco condotto da Hamas sono riconducibili «ai tentativi di normalizzazione tra Israele e l’Arabia saudita». Sulla minaccia islamista in Europa, diventata più concreta dopo l’attacco avvenuto venerdì nel nord della Francia dove un ventenne originario del Caucaso ha ucciso un insegnante a coltellate, l’intellettuale ricorda l’esistenza «una comunità arabo-musulmana che si identifica da sempre alla causa palestinese». «La questione sta nel sapere fino a dove arriverà questo riconoscimento», spiega il filosofo.
Come giudica gli ultimi avvenimenti che hanno scosso la Francia?
«Stiamo assistendo allo spirito e alla messa in atto dei pogrom condotti da Hamas sotto forma di guerriglia urbana e al modo in cui si installano sul nostro continente. Gli ebrei di Israele e quelli della diaspora sono sulla stessa barca, uniti da un destino comune. Nessuno poteva immaginare una simile situazione, ma c’è un nuovo antisemitismo in marcia, che non ha nulla a che vedere con il nazismo e si presenta sotto le vesti dell’antirazzismo. Bisognerà affrontarlo, ma penso che, nonostante le divisioni di Israele, gli ebrei non sono mai stati così solidali tra loro come oggi».
Che conseguenze potrà avere la risposta militare di Israele in Occidente?
«Gli israeliani hanno chiesto agli abitanti della parte nord di Gaza di rifugiarsi a sud dell’enclave. Hamas, che non si preoccupa della sua popolazione, respinge questa richiesta, così come l’Onu. Il rischio è quello di avere molte vittime civili, con conseguenze devastanti per l’Europa. Le manifestazioni palestinesi si moltiplicheranno, così come gli atti antisemiti. Vorrei però ricordare che i bombardamenti effettuati dall’Occidente per distruggere l’Isis hanno fatto molti più danni rispetto a quelli mirati di Israele. In quel caso, però, nessuno ha urlato allo scandalo».
A proposito, che ne pensa dei tanti cortei pro-palestinesi di questi giorni?
«Dimostrano l’esistenza e la forza di quello che in Francia è chiamato islamo-gauchisme, termine utilizzato per indicare una parte della sinistra che vede nei musulmani dei dominati in rivolta contro un occidente dominatore e colonialista».
Che responsabilità ha in questa crisi l’esecutivo del premier Benjamin Netanyahu?
«Il governo israeliano ha dimostrato la sua incapacità. Il fronte sud è rimasto sguarnito. I miliziani di Hamas hanno superato la barriera di sicurezza con una facilità incredibile perché una parte dell’esercito israeliano è stata inviata a proteggere gli insediamenti in Cisgiordania, mentre sotto la pressione dei religiosi ultra ortodossi il 40% dei soldati ha ottenuto un permesso per festeggiare in famiglia le feste ebraiche. È stata una situazione delirante e una volta che questa crisi sarà finita il governo dovrà pagare».
È d’accordo con il parallelo tra l’Isis e Hamas?
«L’attacco contro Israele dimostra che non c’è nessuna differenza tra questi due gruppi. Del resto, molte bandiere dello Stato islamico sono state piantate nei kibbutz attaccati. L’unica missione di Hamas, fin dalla sua creazione, è quella di distruggere Israele, non di obbligarlo a lasciare i territori occupati. Il principale nemico dei palestinesi e della causa palestinese è Hamas».
Da filosofo, cosa pensa delle recenti dichiarazioni di Papa Francesco, che in riferimento ai tanti conflitti in corso ha parlato di una “Terza Guerra mondiale combattuta a pezzi”?
«Sono sbalordito dalle posizioni del Pontefice, che non si preoccupa dell’Europa e in nome dell’ospitalità incondizionata approva la scomparsa programmata della civilizzazione europea. Fa esattamente il contrario dei suoi predecessori: Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Non ha mai condannato come si deve l’invasione russa dell’Ucraina e non ha mai nemmeno voluto prendere in considerazione la realtà della violenza islamista. Per me Papa Francesco è ormai totalmente screditato e rappresenta una catastrofe per la Chiesa e per l’Europa».
Quindi non è d’accordo con le sue parole?
«Temo naturalmente un ampliamento del conflitto. Se Hezbollah interverrà, si aprirà un nuovo fronte, con il rischio di veder entrare anche l’Iran nelle danze. Tuttavia, credo che questa guerra rimarrà circoscritta. C’è però un blocco anti- occidentale in fase di costruzione, che comprende la Russia, l’Iran e altri Paesi membri dei Brics. È come se all’orizzonte si stesse delineando quello che il politologo Samuel Huntington definiva “scontro di civiltà”».
Pensa che questo scontro sia già iniziato?
«C’è qualcosa del genere in atto. La mia unica speranza è che una parte dei musulmani residente in Europa si rivolti contro questa radicalizzazione e dica “Not in my name”».
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🥗 Oggi, 16 ottobre è la Giornata mondiale dell’alimentazione 2023 dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO).
🚰 Il tema di quest’anno è: “L’acqua è vita, l’acqua ci nutre. Non lasciare nessuno indietro.
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Taekwondo diplomacy: arti marziali e governi asiatici
La popolarità delle arti marziali tradizionali asiatiche nel mondo è oggi tanto uno strumento di soft power quanto una base narrativa utile a rafforzare l'identità nazionale. Un estratto dall’ultimo e-book di China Files su Sport e Politica (per sapere come ottenerlo, clicca qui)
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Ecuador: la destra di Daniel Noboa vince le elezioni
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di Davide Matrone –
Pagine Esteri, 16 ottobre 2023.
I primi risultati e le dichiarazioni a caldo
Con il 91% dei voti scrutinanti il candidato Daniel Noboa vince con il 52.1% dei consensi con uno scarto di quasi 500 mila voti sulla candidata Luisa González. Quest’ultima, nonostante avesse recuperato nelle ultime due settimane, non è stata capace di ribaltare il risultato che comunque era sfavorevole sin dal primo turno. I primi exit poll emanati alle 18, un’ora dopo la chiusura dei seggi, davano in vantaggio Noboa con un 53% a 47%. Il tam tam dei primi exit poll ha creato confusione e malumore tra gli addetti ai lavori. Luisa Gonzalez è intervenuta sul suo account di Twitter scrivendo: “Gli exit poll a volte hanno commesso, in passato, dei gravi errori. Attendiamo con calma e determinazione. Con responsabilità democratica seguiremo i dati ufficiali e avremo fiducia nella volontà popolare”.
Dopo i risultati ufficiali, la stessa González con Andrés Arauz e i quadri della Revolución Ciudadana ha ringraziato tutti coloro che hanno camminato insieme durante questi giorni di campagna elettorale riconoscendo la vittoria del candidato Daniel Noboa. “Bisogna rispettare la democrazia e la serietà della politica. Il nostro è un progetto che continuerà per il prossimo futuro”.
Verso le 21,30 il neoeletto presidente della Repubblica dell’Ecuador (il più giovane della storia) ha scritto sul suo account twitter: “Oggi abbiamo fatto la storia. Le famiglie ecuadoriane hanno scelto il Nuovo Ecuador, un paese più sicuro e con più occupazione. Andiamo avanti per realizzare le promesse fatte in campagna elettorale e che la corruzione venga castigata. Grazie Ecuador”
Il primo a fare i complimenti a Daniel Noboa è stato il Presidente uscente Guillermo Lasso che ha scritto le seguenti parole sul suo account di Twitter: “Caro Daniel, presidente eletto dell’Ecuador: i miei complimenti. Oggi, il nostro paese ti ha dato la fiducia per governarlo. Sarà un piacere riceverti martedì al Palacio Carondelet (sede della Presidenza della Repubblica). Dovremo già cominciare il processo di transizione perché conosca fino in fondo la situazione dell’Ecuador per quanto concerne l’economia, la parte sociale e la sicurezza. Complimenti. La nostra democrazia si rafforza”.
Un’analisi del voto
La partecipazione resta stazionaria rispetto a 2 anni fa e cioè intorno all’82% degli aventi diritto con un lieve incremento dello 0.4%. Si registra un calo del voto nullo che passa da 1 milione e 700 mila voti a 73a mila voti in queste ultime elezioni con un calo di 3,5%. Tuttavia, il 7.7% di voti nulli di ieri, molto probabilmente, hanno nuovamente svantaggiato la candidata della Revolución Ciudadana come nel caso di Andres Arauz nel 2021. Alle scorse elezioni, il candidato Yaku Perez – che in due anni passa dal 19,3% al 3,9% – fece una dura campagna per il nullo ideologico anche se una parte del suo elettorato votò per Lasso al ballottaggio. Ricordiamo che lo stesso Yaku aveva più volte dichiarato “meglio un banchiere che un despota”. Poi i risultati del banchiere rispetto al despota hanno lasciato molto a desiderare, a mio avviso.
Se si analizza a prima vista la distribuzione territoriale del voto, si replica il voto del 2021.
La Revolución Ciudadana, che rappresenta la forza di centro – sinistra, marca la sua presenza nella costa, da Esmeraldas al Guayas e conserva e si difende nelle due regioni amazzoniche di Sucumbios e Orellana. Mantiene il suo elettorato in definitiva ma non cresce. Questo elemento deve fare riflettere all’entourage della prima forza politica del paese.
Arauz aveva conquistato al secondo turno il 47,64% (4 milioni 263, 515 voti) e Luisa González ieri il 47,70% (4 milioni 451,243 voti). In termini percentuali +0,06% e + 187,728 voti. Pochini se si vuole conquistare Palacio Carondelet.
Mentre invece la destra – che aveva vinto con Lasso nel 2021 con il 52,36% pari a 4 milioni 656,426 voti – in queste elezioni conquista il 52,30 (-0,06%) e 4 milioni 881 100 voti (+ 224,674 voti). Gli ecuadoriani premiano e ridanno fiducia alla destra nonostante il suo ultimo Presidente in carica – di destra – sia stato sfiduciato nel referendum popolare dello scorso febbraio ed esca con una bassissima accettazione popolare intorno al 15%, secondo gli ultimi sondaggi Gallup del giugno 2023.
Il paradigma di sviluppo neoliberista esce dalla finestra con Lasso e rientra dalla porta con Noboa.
È curioso notare come la destra vinca nelle regioni e zone economicamente più depresse e con maggior indici di povertà (la Sierra interna per esempio). Questo ci porta a pensare che un maggior impatto negativo del neoliberismo non si traduce, necessariamente, in una reazione opposta allo stesso; c’è accettazione, rassegnazione e addirittura rancore verso chi si oppone. Quindi non è il neoliberista il responsabile del fracasso, bensì il suo oppositore che in Ecuador si configura con Correa e con lo slogan “la colpa è di Correa”. Slogan costruito e orchestrato all’infinito dai mezzi di comunicazione privati.
Un altro dato da analizzare è quello del voto all’estero che si è svolto nelle 97 zone elettorali delle 3 circoscrizioni speciali. Qui, gli oltre 400 mila ecuadoriani (180 mila solo in Spagna) hanno votato dalle 9H00 alle 19h00 (in base ai differenti fusi orari). Non hanno votato per motivazioni logistiche e politiche gli ecuadoriani residenti in: Israele, Russia, Bielorussia e Nicaragua.
Ricordiamo che con questo voto si dovevano assegnare 6 parlamenti dei 137 totali. Secondo i dati emanati dal CNE (Consiglio Nazionale Elettorale) la Revolución Ciudadana ha vinto nelle 3 circoscrizioni. In quella Latinoamericana, Caraibi ed Africa ottiene il 37% dei voti validi, nella circoscrizione Europa, Oceania ed Asia conquista il 63% e in Canada e Stati Uniti il 42,1%. Questo vuol dire che la RC conquisterebbe i 6 posti che si sommano ai 48 parlamentari già ottenuti al primo turno.
L’assemblea Nazionale vede quindi una maggioranza del partito della RC con 54 parlamentari su 137, seguito dal gruppo Movimento Construye (28) e poi dal Partido Social Cristiano (14). Il partito ADN del neopresidente Noboa ha solo 13 parlamentari. Quasi scompare Pachakutik che passa da 24 a 4 parlamentari. Sembra ripresentarsi la stessa situazione di 2 anni fa quando Lasso vinse le elezioni ma portò al Parlamento un’esigua flotta di 12 parlamentari che gli permisero di governare solo 2 dei 4 anni previsti. Lasso non riuscì a costruire alleanze politiche, anzi. Litigò finanche con il suo maggiore alleato Nebot. Inoltre, la dura opposizione dell’Assemblea Nazionale lo costrinse alla resa con la firma della famosa Muerte Cruzada (lo scioglimento anticipato delle Camere). Atto che si è registrato per la prima volta nella storia del paese.
Ora Noboa, forse, si troverà nella stessa situazione. Dovrà realizzare le riforme con le atre forze politiche e per farlo dovrà negoziare. A meno che non si formi una maggioranza amplia e compatta. Ci riuscirà?
In definitiva, c’è un’egemonia culturale delle élite dominanti in Ecuador che continua a rendere dominanti i propri valori e le proprie idee. Anche in queste elezioni vediamo concretizzarsi un processo mediante il quale i poveri e i subalterni appoggiano i propri oppressori. Gramsci lo spiegava quando diceva appunto che la classe dominante mantiene il suo potere non solo attraverso la forza ma anche attraverso un’egemonia culturale e ideologica (consenso) sulla società. La classe dominante ecuadoriana riesce a stabilire quest’egemonia ideologica attraverso le istituzioni come il sistema educativo, i mezzi di comunicazione (tradizionali, reti sociali e influencers) e la religione. E continua a vincere. La sinistra, con l’uscita di scena di Correa e con il processo di neutralizzazione della destra attraverso i suoi mezzi, dovrà rendere maggioritaria la sua egemonia culturale che ha costruito solo in alcune zone del paese ma non riesce ancora a costruirla nelle altre. Pagine Esteri
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In Cina e Asia – Wang Yi accusa Israele di "punizione collettiva sui civili di Gaza”
Wang Yi: "Israele dovrebbe fermare la sua punizione collettiva sui civili di Gaza"
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LIVE. GAZA/ISRAELE. Giorno 10. Protezione civile di Gaza: “sotto le macerie i corpi di altri mille palestinesi”
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della redazione
Pagine Esteri, 16 ottobre 2023 – Sono 2670 i palestinesi, per la maggior parte civili, tra cui centinaia di bambini e ragazzi, morti nei bombardamenti aerei israeliani cominciati il 7 ottobre, giorno dell’attacco di Hamas al sud di Israele (1300 morti). I feriti palestinesi sono circa 10mila. Il bilancio è stato comunicato ieri sera dal ministero della sanità ma la Protezione civile avverte che sotto le macerie degli innumerevoli palazzi, case ed edifici distrutti dalle bombe potrebbero esserci i corpi non recuperati di altri mille palestinesi. La scorsa notte, riferiscono gli abitanti di Gaza, Israele ha colpito con la sua aviazione decine di volte.
Israele non intenderebbe restare nella Striscia di Gaza. Così afferma l’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite Gilad Erdan in risposta all’intervista in cui il presidente americano Joe Biden ha definito un errore la possibile rioccupazione di Gaza. “Non abbiamo alcun interesse a occupare Gaza o a restarvi”, ha detto Erdan alla Cnn, in risposta alle affermazioni del presidente Usa, Joe Biden, secondo il quale l’occupazione di Gaza da parte di Israele sarebbe un “grosso errore”. Erdan ha aggiunto che Israele “farà tutto il necessario per distruggere le capacità di Hamas” e rimuoverlo dal potere ma non ha indicato quale “futuro” i comandi politici e militari di Israele immaginano per il controllo di Gaza. Secondo Erdan il focus ora deve essere solo sulla liberazione degli israeliani prigionieri a Gaza e sull’offensiva militare di terra.
Offensiva che non è ancora scattata. A causa, spiegano alcuni, dell’elevato numero di civili palestinesi nel nord di Gaza. L’ultimatum a lasciare “entro 24 ore” le proprie case e a recarsi a sud lanciato giovedì notte da Israele, ha messo in fuga centinaia di migliaia di civili. Ma altrettanti hanno scelto di non partire o più semplicemente non hanno la possibilità di farlo. Inoltre, sul territorio sono presenti strutture ospedaliere e di assistenza alla popolazione che rifiutano di evacuare.
La tv Canale 13 oggi riferisce che il primo ministro israeliano Netanyahu non vorrebbe allargare i fronti di guerra mentre il suo ministro dell’esercito, Yoav Gallant, insiste per attaccare anche Hezbollah in Libano.
Mentre vanno avanti i bombardamenti aerei e, da parte sua, Hamas continua a lanciare razzi. Israele ha annunciato l’uccisione di due presunti capi militari del movimento islamico e di quattro membri del suo ufficio politico. Hamas accusa Israele di aver colpito con gli aerei e ucciso 70 sfollati che l’altro giorno stavano percorrendo in auto uno due “percorsi sicuri” indicati dallo stesso esercito israeliano per raggiungere il sud di Gaza. Il portavoce militare ha nega e accusa a suo volta Hamas di aver ucciso i civili.
Intanto dopo pressioni statunitensi, Israele ieri ha annunciato di aver ripreso la fornitura idrica al sud di Gaza, dove si ammassano gli sfollati, ma i palestinesi non confermano e sottolineano che la rete idrica è stata gravemente danneggiata dai raid aerei. Pagine Esteri
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La Fiera del libro di Francoforte cancella la premiazione della scrittrice palestinese: “più spazio a voci israeliane”
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di Eliana Riva
Era stato assegnato alla scrittrice palestinese Adania Shibli, per il suo libro “Un dettaglio minore“, il prestigioso premio letterario LiBeraturpreis, riservato ad autori e autrici del Medio Oriente, dell’Africa e dell’Asia. L’agenzia letteraria Litprom, aveva deciso di consegnarle il premio il 20 ottobre, durante la prestigiosissima Fiera del libro di Francoforte, che ogni anno organizza insieme ad altri attori. La giuria ha scelto proprio lei perché, “crea un’opera d’arte composta formalmente e linguisticamente in modo rigoroso che racconta il potere dei confini e ciò che i conflitti violenti causano alle e con le persone. Con grande attenzione, dirige lo sguardo verso i piccoli dettagli, le banalità che ci permettono di intravedere le vecchie ferite e cicatrici che si trovano dietro la superficie“.
Ieri l’agenzia ha fatto sapere che il premio non le verrà più consegnato. La motivazione? “La guerra in Israele”. Il direttore della Fiera di Francoforte, Juergen Boos, ha precisato di voler “rendere le voci ebraiche e israeliane particolarmente visibili alla fiera del libro”. Venerdì, oltre alle 1.300 vittime israeliane fino a quel momento accertate, erano stati già 1.900 i palestinesi uccisi nella Striscia di Gaza, tra i quali 614 bambini. Un bilancio purtroppo destinato nei giorni successivi a salire fino a raggiungere, oggi, domenica 15, tra le 1.400-1.500 vittime israeliane e 2.228 morti palestinesi a Gaza.
Dopo le proteste degli editori arabi e delle associazioni che li rappresentano, che hanno comunicato che non parteciperanno alla Fiera del libro di Francoforte, l’agenzia Litprom ha fatto un passo indietro, specificando che la cerimonia di assegnazione si farà ma in seguito, quando riusciranno “a trovare un format e un’impostazione adatti per l’evento”. Questo può vuol dire, come altre volte è accaduto, che la presentazione del libro non sarà consentita con la presenza della sola autrice ma che proveranno a imporle, pena la cancellazione definitiva della cerimonia, una presenza israeliana, cosa che trasformerebbe l’evento letterario in una sorta di dibattito politico, facendone perdere il senso. Dalle dichiarazioni del direttore Juergen Boos non pare che questa sorta di singolare “par conditio culturale” valga anche per gli eventi che, in misura consistente, ospiteranno autori israeliani.
La scrittrice palestinese Adania Shibli aveva già ricevuto due nomination per il National Book Award, nel 2020, e per l’International Booker Prize nel 2021. Il suo romanzo, Un dettaglio minore, tradotto dall’arabo al tedesco nel 2020 ed edito in Italia da La nave di Teseo, parte dal racconto della storia vera di una giovane beduina violentata e uccisa dai soldati israeliani nel 1949.
Di seguito l’articolo scritto per Pagine Esteri dopo la pubblicazione della traduzione italiana.
È dei particolari che raramente si parla quando si affronta la condizione dei palestinesi in Israele, nei Territori Occupati e a Gaza.
Eppure, i dettagli sono essenziali per capire cosa significhi vivere sotto occupazione, farsi un’idea chiara del livello di fallimento dei negoziati di pace, per leggere intero il quadro ideato e pianificato dall’occupante.
Solo i particolari possono mostrare a noi, lontani, quello che è più difficile da capire: come avviene che la straordinarietà si converta in quotidianità, come accade che il modo di vivere e persino quello di pensare siano trasformati, piegati giorno dopo giorno alla consuetudine della sopraffazione, delle ingiustizie e della violenza.
Adania Shibli con “Un dettaglio minore”, finalista al National Book Awards 2020, ci mostra questi particolari, portandoci a spasso tra il passato e il presente, tra i luoghi che esistevano e non ci sono più, cancellati persino i nomi e chiuse da cubi di cemento le strade di ingresso. Tutto comincia da una storia del 1949 nel Negev, quando alcuni soldati israeliani si trasferiscono tra le dune del deserto ossessionati dalla missione di scovare e uccidere gli arabi rimasti nella zona sud-occidentale. Giornate e chilometri passati a girare in tondo e a perlustrare il nulla, fino a quando qualcosa trovano. Qualcuno, anzi. I beduini del deserto. Tutti uccisi tranne una ragazza. La storia terribile di questa ragazza e la sua tragica fine si legheranno all’esistenza di una giovane donna di Ramallah che tenterà molti anni dopo di scoprire la verità su ciò che accadde 25 anni prima che lei nascesse. In una Palestina cambiata, ingabbiata dai checkpoint, divisa in zone e in abitanti di serie A, B, C, con diversi diritti, diverse possibilità e diversi documenti, la donna di Ramallah inizia un viaggio pericoloso, vincendo l’abitudinarietà e le sue paure, con una macchina a noleggio, una carta d’identità prestata da una collega e due cartine geografiche: Israele oggi, la Palestina ieri.
L’attenzione ossessiva ai dettagli è ciò che la spinge a muoversi, l’incapacità di definire i contorni, i limiti tra una cosa e l’altra, forse per sfuggire alla realtà globale e al dramma collettivo che la circonda, fatti, appunto, di limiti e limitazioni da rispettare rigorosamente per prevenire conseguenze spiacevoli. Ma lei non riesce bene a muoversi tra quei limiti, non controlla le sue emozioni, le sue ansie e preferisce chiudersi in una solitudine consuetudinaria, che la rassicura e non le crea difficoltà. Un giorno, ad esempio, riesce miracolosamente a raggiungere l’ufficio nonostante la zona fosse stata posta sotto coprifuoco dall’esercito israeliano: malgrado l’ansia e la paura la avvolgano, ha imparato che è fondamentale dimostrarsi calma e decisa e che è necessario, a volte, scavalcare muri e barriere. In ufficio un collega entra nella sua stanza e spalanca la finestra. È per evitare che i vetri esplodano: l’esercito ha avvertito che colpiranno e distruggeranno un edificio lì vicino, perché vi si sono barricati tre ragazzi. L’edificio esplode, il boato è spaventoso, i ragazzi muoiono, le pareti dell’ufficio tremano e una nuvola di polvere invade la sua stanza. L’unico dettaglio su cui riesce a soffermarsi è quella polvere e con calma e pazienza ripulisce tutto prima di rimettersi semplicemente a lavorare.
Il viaggio verso l’accampamento dei coloni nel Negev la porta su una strada conosciuta, che non percorre però da anni. Il tempo sufficiente per non riuscire più a riconoscere quei luoghi, cambiati, trasformati con la forza degli espropri e delle colonie, paesaggi stravolti, storie cancellate. La cartina palestinese riporta i nomi dei villaggi che esistevano prima del 1948, anno della Catastrofe palestinese, della nascita dello Stato ebraico. Tanti nomi. Conosce persone originarie di alcuni di quei villaggi tra Yafa e Askalan, di altri villaggi invece non sa nulla e mai nulla potrà sapere. Sulla cartina israeliana a inghiottirli tutti c’è una vastissima zona verde prima e un mare giallo e vuoto dopo, nient’altro. Di palestinese non è rimasto nulla. Né i nomi sui cartelli stradali né i cartelloni pubblicitari. Neanche i terreni sono più palestinesi. Gli insediamenti sono israeliani.
Al Museo di Storia dell’Esercito israeliano è possibile vedere le divise e le armi usate nel 1948 e seguire la storia cinematografica israeliana degli anni ’30-’40 che incoraggiava l’immigrazione ebraica. In una pellicola un gruppo di coloni costruisce strutture su una distesa prima desertica, ne nasce un insediamento e per festeggiarlo le persone si prendono per mano e ballano in cerchio. La donna di Ramallah riavvolge il nastro all’indietro e poi lo manda avanti: costruisce l’insediamento e poi lo smantella, lo ricostruisce e lo ri-smantella ancora, ancora e ancora.
Ormai vicino Gaza, sente da lontano il suono dei bombardamenti ma è un suono diverso da quello a cui è abituata, senza la polvere, senza il fragore: solo ciò che non sente e vede le fa comprendere quanto sia lontana da quello che le è familiare, da casa. Guarda da lontano Rafah, Gaza e tenta di riempirsene gli occhi, per spiegarlo a quei colleghi che da anni aspettano l’autorizzazione per poter rientrare.
I limiti da non superare, i confini stabiliti, il militare, il civile, l’accampamento, il campo fatto di lamiere e un pacchetto di gomme da masticare porteranno la donna di Ramallah a scoprire sul destino della ragazza beduina più di quanto avesse voluto.
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La minaccia Cbrn non va sottovalutata. La lezione dello Iai
La minaccia Cbrn (chimica, biologica, radiologica e nucleare) è di natura multidisciplinare e transnazionale per eccellenza. Questo il tema di fondo, sintetizzato dal presidente dell’Istituto affari internazionali, ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, nel corso della sua introduzione al workshop “Rischi e minacce Cbrn nel nuovo scenario internazionale”, tenutosi il 12 ottobre. “È quindi fondamentale valorizzare le numerose capacità sviluppate a livello nazionale – ha continuato il presidente – rappresentate all’evento dagli attori istituzionali presenti”.
L’ambasciatore ha inoltre ricordato il contributo dello Iai nel supportare la Difesa italiana nello sviluppo di significative “competenze che contribuiscono ad inserire il nostro Paese fra quelli di riferimento a livello europeo”.
Delle sfide legate ai rischi e alle minacce Cbrn sul nuovo scenario internazionale ha parlato anche il coordinatore cluster Cbrn e vice presidente dello Iai, Michele Nones. “Mi riferisco, in particolare, alle possibili conseguenze dei massicci bombardamenti aerei e terrestri di aree in cui sorgono centrali nucleari o sono presenti depositi o produzioni che comportano l’impiego di sostanze chimiche”, ha continuato, visto l’elevato rischio che tali strutture possano essere colpite, volontariamente o involontariamente, provocando potenziali contaminazioni di aree densamente popolate. Tale pericolo è stato reso evidente dalla guerra in Ucraina che, tra l’altro, ha sottolineato l’importanza di una sinergia tra operatori civili e militari nel settore Cbrn.
A questo proposito, la terza missione del Cluster è proprio quella di “favorire una maggiore attenzione dell’opinione pubblica e del mondo politico per il settore Cbrn e, quindi, una crescita del settore e del mercato della protezione, della prevenzione e della gestione di eventuali emergenze Cbrn”, ha sottolineato Nones.
L’attuale scenario internazionale necessita di “uno sforzo sempre maggiore per rafforzare le capacità esistenti di prevenzione e risposta” contro le minacce Cbrn, ha affermato il presidente di Enea Gilberto Dialuce. Tale impegno deve essere mirato a “prestarsi mutuo supporto fra stati, individuare nuove priorità di ricerca, ma anche per sviluppare tecnologie innovative” ha continuato Dialuce. Il presidente di Enea ha inoltre ricordato il ruolo di primo piano e i risultati tangibili della ricerca italiana, ottenuti anche grazie al contributo dello Iai. Nel rimarcare l’importanza di sostenere il ruolo italiano nella ricerca Cbrn, Dialuce ha evidenziato l’importanza delle nuove tecnologie anche per via della loro capacità di deterrenza. Infatti, secondo il presidente, “soltanto se dotate delle migliori e più innovative soluzioni tecnologiche, le istituzioni preposte possono attuare con efficacia i loro piani di prevenzione e risposta ad un evento Cbrn. Intelligenza artificiale, sistemi robotici, sensoristica avanzata e materiali innovativi sono solo alcune delle tecnologie emergenti su cui investire”.
Questi temi sono poi stati approfonditi nel corso del workshop dopo il saluto del presidente della Commissione Difesa Antonio Minardo.
Al primo panel, moderato dalla dottoressa Paola Tessari, ricercatrice dello Iai, sono intervenuti Ciro Carroccio dell’ufficio V° Disarmo e controllo armamenti, non proliferazione, armi chimiche della direzione generale Affari politici e sicurezza del ministero degli Affari esteri; il comandante Scuola di interforze di difesa Nbc, il generale Riccardo Fambrini; il direttore del master Protezione da eventi Cbrne dell’università di Roma Tor Vergata, il professore Andrea Malizia e il vice capo Dipartimento dei vigili del fuoco, del soccorso pubblico e della difesa civile, direttore generale per la Difesa civile e le politiche di protezione civile del ministero dell’Interno, il prefetto Clara Vaccaro.
Il secondo panel, moderato dal presidente della fondazione Safe, il dottor Andrea D’Angelo, ha trattato il tema delle risposte a livello tecnologico, operativo e istituzionale. Sono intervenuti alla discussione il comandante del 7° reggimento difesa Cbrn “Cremona”, il colonnello Marco Baleani; il responsabile divisione tecnologie fisiche per la sicurezza e la salute di Enea, il dottor Luigi De Dominicis; il direttore Attività tecniche scientifiche del Dipartimento della protezione civile, l’ingegnere Nazzareno Santilli e il direttore Ufficio contrasto rischio Nbcr dei vigili del fuoco, l’architetto Sergio Schiaroli.
LIVE. GAZA/ISRAELE. Giorno 9. 10mila soldati israeliani attaccheranno Gaza city. Una tendopoli in Egitto per gli sfollati
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della redazione
(foto Wafa/APAimages)
Pagine Esteri, 15 ottobre 2023 – Almeno 300 palestinesi, in maggioranza donne e bambini, sono stati uccisi ieri dalle bombe sganciate dall’aviazione israeliana ovunque su Gaza. Lo riferisce questa mattina il ministero della sanità di Gaza che ha aggiornato a 2.228 il numero dei morti nei bombardamenti israeliani, in gran parte civili. La scorsa notte non ci sono stati lanci di razzi da Gaza, questa mattina le sirene sono entrate in azione in Galilea, nel nord di Israele, non è chiaro se per un falso allarme o per l’arrivo effettivo di un razzo a lungo raggio. Ieri Hamas ha sparato decine di razzi verso il sud di Israele.
L’offensiva di terra israeliana prevista nella notte non è scattata perché, scrivono i giornali locali, le cattive condizioni del tempo non permettono l’impiego di aerei e droni a copertura delle truppe di terra. In queste ore si moltiplicano le indiscrezioni giornalistiche. 10.000 soldati israeliani saranno impiegati per prendere il controllo di Gaza city ed uccidere Yahya Sinwar, il capo di Hamas a Gaza, e i suoi uomini. Lo scrive il New York Times citando fonti delle forze armate israeliane. Il giornale aggiunge che Israele occuperà il nord del territorio palestinese per un periodo non precisato di tempo. Un dirigente di Hamas ha replicato, sempre sulle pagine del giornale statunitense, che i combattenti del movimento islamico sorprenderanno i soldati israeliani grazie a una rete di gallerie sotterranee.
Secondo il noto giornalista investigativo statunitense Seymour Hersh, gli Usa spingerebbero sul Qatar per finanziare l’allestimento di una enorme tendopoli nel Sinai destinata ad accogliere centinaia di migliaia di sfollati da Gaza. Non è chiaro se l’Egitto abbia dato il suo assenso a questo piano.
Al di là delle indiscrezioni giornalistiche, le forze armate israeliane continuano a prepararsi all’offensiva di terra dopo l’attacco compiuto il 7 ottobre da Hamas in cui sono stati uccisi oltre 1300 israeliani e altri 130 sono stati fatti prigionieri e portati a Gaza. Di pari passo prosegue lo sfollamento di decine di migliaia di civili palestinesi intimato da Israele. Dal nord si dirigono a sud nel timore di combattimenti che si prevedono altrettanto pesanti e sanguinosi dei raid aerei che in una settimana hanno fatto circa 2300 morti e migliaia di feriti, in gran parte civili. Tanti però rifiutano di partire. In particolare, il personale medico di tre ospedali. L’Organizzazione Mondiale della Sanità è tornata a ribadire che costringere migliaia di pazienti, spesso in condizioni critiche, a lasciare il nord di Gaza per andare a sud potrebbe equivalere alla loro condanna a morte.
Intanto l’Iran avverte che potrebbe intervenire nel conflitto. Il ministro degli Esteri Hossein Amir-Abdollahian ha incontrato sabato a Beirut l’inviato delle Nazioni Unite in Medio Oriente Tor Wennesland, hanno riferito fonti diplomatiche citate dal sito Axios. Avrebbe detto che l’Iran non vuole che il conflitto si trasformi in una guerra regionale e vuole cercare di aiutare nel rilascio dei civili tenuti in ostaggio da Hamas a Gaza. Ma ha anche sottolineato che Teheran ha le sue linee rosse: se Israele attuerà l’offensiva di terra a Gaza, l’Iran dovrà rispondere.
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La separazione delle carriere è la madre delle riforme della giustizia
Mercoledì alla Camera dei deputati abbiamo lanciato un appello e una raccolta firme, che trovate sul sito della Fondazione Luigi Einaudi, a favore della separazione delle carriere dei magistrati, tra giudici e Pm. Una riforma costituzionale necessaria per equilibrare il nostro sistema giustizia, per garantire l’effettiva parità tra accusa e difesa nel processo, e una battaglia di civiltà. Abbiamo promosso questa iniziativa indipendentemente dalle proposte di legge già depositate in Parlamento, perché pensiamo sia importante mantenere alta l’attenzione sul tema e arrivare a una rapida approvazione.
E abbiamo da subito raccolto adesioni in modo trasversale. Nella sala stampa della Camera dei deputati erano presenti insieme a noi il nuovo presidente dell’Unione camere penali, Francesco Petrelli, Enrico Costa di Azione, Roberto Giachetti di Italia Viva, Raffaele Nevi di Forza Italia, Stefano Maullu di Fratelli d’Italia, e il presidente della Fondazione Unione Camere Penali, Beniamino Migliucci. Tutti convinti sostenitori dell’importanza di questa riforma.
Per noi la questione centrale a favore della separazione delle carriere non è l’enorme potere di questo o di quel Pm, ma la totale irresponsabilità dello stesso nel sistema giudiziario italiano che non vede eguali in nessun altro Paese europeo. Oggi pensiamo sia indispensabile avere un doppio Csm, uno per i giudici e uno per la pubblica accusa. In uno Stato liberal-democratico il magistrato non deve essere il sacerdote dell’etica pubblica, ma deve limitarsi ad applicare correttamente le leggi.
Chiariamo, nessun Pm deve essere controllato dall’esecutivo, infatti quella dei magistrati controllati dal Ministero della Giustizia è una bufala, una strumentalizzazione che arriva da una certa parte di magistratura militante che ogni volta che viene messa sul tavolo questa riforma si attiva per farla fallire. Il primo a dire che, pur separando le carriere dei magistrati, nessuno vuole mettere in discussione l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, è stato proprio il ministro Carlo Nordio.
A chi ci chiede quando sia il momento giusto per arrivare a questa riforma, noi rispondiamo “ieri”. Separare le carriere dei magistrati rappresenterebbe il completamento logico e cronologico del percorso di riforma iniziato nel 1989 con il nuovo Codice di Procedura Penale di Giuliano Vassalli, che ha segnato il passaggio dal rito inquisitorio al rito accusatorio, e proseguito dieci anni dopo con la riforma dell’art. 111 della Costituzione, che vede il giudice terzo. Oggi manca proprio quest’ultimo step, ci auguriamo che il Parlamento non si lasci sfuggire questa occasione.
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La guerra subita
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Israele: «Via dal nord di Gaza». Palestinesi: «No a una seconda Nakba»
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di Michele Giorgio
(questo articolo è stato pubblicato in origine dal quotidiano Il Manifesto)
Pagine Esteri, 14 ottobre 2023 -«Lasciate le vostre case, è per la vostra sicurezza, tornerete quando ve lo comunicheremo». Queste parole dei soldati israeliani sono stampate nella memoria dei profughi palestinesi del 1948, ancora in vita, che hanno vissuto in prima persona la Nakba, la catastrofe, l’esodo dalle proprie case nel territorio che sarebbe diventato lo Stato di Israele. Una fuga dalla guerra che sarebbe terminata solo in un campo profughi a Gaza, in Cisgiordania o nei paesi arabi. Alle loro case non sono mai più tornati. E quelle parole sono stampate oggi sui volantini piovuti dall’alto giovedì e venerdì tra le case, quelle ancora in piedi, e tra la gente di Beit Lahiya, Beit Hanoun, Jabaliya, Sudaniyeh, Gaza city e tutti gli altri centri abitati a nord del Wadi Gaza, più o meno al centro della Striscia. Soltanto 24 ore di tempo hanno dato i comandi israeliani a un milione e centomila palestinesi che vivono in quella metà di Gaza. 24 ore per dire addio a tutto ciò che si è costruito e vissuto, alla propria casa anche se povera come è povera la vita di quasi tutti nella Striscia.
Safwat Mohammad, 54 anni, è figlio di una coppia di profughi. E’ nato e cresciuto nel campo di Jabaliya. Ma non è povero, possiede un’auto, un appartamento spazioso in un quartiere settentrionale di Gaza city e uno stipendio per vivere tranquillo. Eppure, come migliaia di palestinesi ieri è stato preso dal panico e si è unito a coloro che andavano a sud. «Mi piange il cuore. Amo la mia casa, non volevo abbandonarla. Tra qualche giorno però potrebbe essere un mucchio di macerie e io devo salvare la mia famiglia. Sono certo che Israele attaccherà via terra per distruggere tutto quello che c’è a nord di Gaza city» ci diceva ieri mentre in auto si dirigeva a Deir al Balah. Il figlio Tareq ha una patologia cardiaca seria. «Ho passato ore a cercare il fluidificante del sangue di cui ha bisogno. A Gaza scarseggia l’acqua e mancano il carburante, l’elettricità e le medicine». Safwat teme di sapere cosa accadrà in futuro. «Israele – dice sconsolato – ci vuole affamare e provocare una nuova Nakba, ci spinge verso l’Egitto». Nei volantini sganciati su centri abitati palestinesi oltre all’ultimatum è indicata un’area dove dirigersi all’estremo sud, sul confine con l’Egitto.
A Deir al Balah e Khan Yunis, in giornata sono arrivate altre migliaia di palestinesi con automobili, autocarri, carretti tirati da cavalli e taxi. Quelli meno fortunati senza soldi per pagare un taxi con il serbatoio abbastanza pieno, ieri sera erano ancora in marcia su strade con voragini, distrutte dalle bombe, con i figli piccoli in braccio, con valigie e borse, una bottiglia d’acqua un po’ di abiti e niente più. Quanti si siano messi in cammino dopo l’ultimatum israeliano non è possibile quantificarlo. Dagli altoparlanti delle moschee sono stati lanciati appelli a restare a casa, a non «fare il gioco del nemico. Tenetevi stretti alle vostre abitazioni. Tenetevi stretta la vostra terra». Agenti della polizia e militanti di Hamas inizialmente hanno provato a bloccare il fiume umano, alla fine parecchi sono partiti per il sud. I bombardamenti che fino a ieri sera avevano fatto 1799 morti e migliaia di feriti tra i palestinesi di Gaza lasciano immaginare una campagna militare di terra persino più sanguinosa e distruttiva di quella aerea. E la popolazione è terrorizzata. Ha lasciato la sua abitazione anche Jacopo Intini, capoprogetto della ong italiana Ciss. «Dopo l’ultimatum – diceva ieri Intini – abbiamo percepito che non eravamo più al sicuro e ci siamo spostati in una scuola delle Nazioni unite nel sud della Striscia. Come tutti quelli che sono con noi, facciamo i conti con una situazione terribile, ai limiti della dignità umana. Non c’è cibo, acqua, elettricità, non ci sono materassi e nel frattempo arrivano altre famiglie». Lapidario l’analista Talal Okal: «Come fecero nel 1948, quando gli israeliani scacciarono gli abitanti dalla Palestina storica lanciando barili di esplosivo sulle loro teste, oggi Israele sta ripetendo la stessa cosa davanti agli occhi del mondo e alle telecamere in diretta».
Il giornalista Ahmed Dremly in un messaggio audio dice che «Questo è il momento più sanguinoso, gli israeliani stanno bombardando intere unità abitative, edifici alti, come le torri palestinesi, che ospitavano 82 famiglie prima che fossero completamente rase al suolo. Quelle famiglie ora non hanno case. Dove dovrebbero andare? Come giornalista sono paralizzato. Niente internet, niente elettricità, laptop guasti, connessione interrotta…Dov’è l’Occidente? Dove sono i diritti umani che predicano? Dov’è il diritto internazionale? Dov’è l’Onu? Questo è un genocidio e dovrebbe essere fermato immediatamente. Non sono sicuro che resterò qui più a lungo, questo potrebbe essere il mio ultimo messaggio».
Tanti palestinesi restano nelle loro abitazioni nel nord di Gaza. Non sanno dove andare, non hanno i mezzi per spostarsi. Più di tutto hanno deciso di non piegarsi a una intimazione che prelude, lo pensano tutti a Gaza, alla distruzione della parte settentrionale della Striscia. «Sono sopravvissuto sino ad oggi, non so perché ma sono sopravvissuto – diceva ieri ai giornalisti Jamil Abu Samadana – al nemico (israeliano), all’America, all’Europa e al mondo dico che il popolo palestinese non sarà sconfitto». Pensano «che ci sarà un altro sfollamento o che potremmo scappare in Egitto. Sciocchezze», ha aggiunto prima di andare all’obitorio dell’ospedale Shifa per identificare i parenti morti in un bombardamento. Contro lo sfollamento forzato in 24 ore intimato da Israele si è proclamato anche il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen che però ieri ha incontrato ad Amman il Segretario di stato Antony Blinken tra la rabbia e lo sgomento della sua gente che negli Stati uniti vede il paese che di fatto ha dato il via libera alla durissima ritorsione israeliana contro Gaza per l’attacco compiuto il 7 ottobre da Hamas che ha ucciso 1400 israeliani.
Le Nazioni unite, l’Oms, le ong internazionali e varie organizzazioni umanitarie hanno condannato l’ultimatum lanciato da Israele, sottolineando gli effetti devastanti che lo sfollamento avrebbe per un milione di civili. Israele ha reagito puntando il dito contro l’Onu. A sera, mentre proseguivano i bombardamenti aerei, il ministero israeliano delle telecomunicazioni ha annunciato che sarebbe stata tagliata ogni connessione internet a Gaza. Agli operatori di Medici senza Frontiere è stato ordinato di lasciare gli ospedali in cui lavorano. L’offensiva di terra poco prima della mezzanotte appariva imminente.
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Thierry Breton, Elon Musk e il DSA
10 ottobre 2023. Negli uffici di Twitter arriva una lettera indirizzata a Elon Musk, firmata dal commissario europeo Thierry Breton.
È sintetica e va dritta al punto: “dopo gli attacchi di Hamas contro Israele, abbiamo notizia del fatto che la piattaforma X sia usata per disseminare contenuti illegali e disinformazioni in UE.”
La lettera ricorda a Elon Musk che in UE è da pochissimo entrato in vigore il famigerato Digital Services Act, che prevede alcuni specifici obblighi verso le piattaforme come X.
Musk è chiamato a fare tre cose, e in fretta:
- Essere trasparente nel definire quali contenuti sono permessi o meno sul social
- Essere veloce, diligente e obiettivo nel rimuovere i contenuti che sono segnalati dalle autorità rilevanti
- Adottare misure tecniche e organizzative adeguate per mitigare il rischio di diffusione di contenuti illegali o falsi, come ad esempio vecchie immagini spacciate per nuove
In modo molto teatreale, Thierry Breton ha pubblicato la lettera anche su X, a cui Elon Musk ha prontamente risposto in modo impeccabile:
In effetti, gli algoritmi e le politiche di X sono open source e trasparenti, chiunque può capire come funziona il social sia dal punto di vista organizzativo che tecnico.
Che vuole allora la Commissione Europea da Musk? Per capirlo bisogna capire il Digital Services Act. Ne ho parlato in modo approfondito qui, ma ripercorriamo insieme i punti essenziali per poi passare a un commento personale su quello che sta succedendo.
I punti salienti del DSA
Il Digital Services Act è un regolamento proposto dalla Commissione UE a fine 2020 e fa parte del “pacchetto digitale” europeo. Da molti è stato annunciato come la risposta salvifica alla disinformazione e all’illegalità online, secondo il motto: “quello che è illegale offline deve essere illegale online”.
LIVE. GAZA/ISRAELE. Giorno 8. Sono 1900 i palestinesi uccisi in una settimana. 120 gli israeliani prigionieri a Gaza
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della redazione
Pagine Esteri, 14 ottobre 2023 – Questa mattina il ministero della sanità di Gaza ha comunicato che 256 palestinesi sono stati uccisi e 1.788 feriti nella sola giornata di ieri dai bombardamenti aerei israeliani. Tra le vittime anche 20 bambini. Da parte sua Israele ha aggiornato a circa 1400 i morti dell’attacco israeliano di una settimana fa e indicato ufficialmente in 120 i cittadini israeliani prigionieri a Gaza.
Non è partita l’offensiva di terra ma nella notte unità dell’esercito israeliano hanno condotto “missioni locali” all’interno di Gaza, in un caso per recuperare i corpi di dispersi. L’attacco potrebbe però scattare in qualsiasi momento dopo l’ultimatum a lasciare entro 24 ore le loro case che Israele ha lanciato giovedì notte ad oltre un milione e centomila palestinesi che vivono nel nord della Striscia di Gaza. Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ha di nuovo chiesto allo Stato ebraico di revocare l’ultimatum per le conseguenze che ha per i civili palestinesi.
Al momento non è chiaro quanti hanno abbandonato le loro abitazioni. Decine di migliaia l’hanno fatto. Ma tanti altri no perché non hanno i mezzi per farlo o perché dichiarano di non voler sottostare alle intimazioni dell’esercito israeliano. Contro lo sfollamento si dichiara anche il presidente palestinese Mahmoud Abbas. Pesa, inoltre, il problema del trasporto degli ammalati e dei feriti più gravi ora in ospedale in un territorio devastato dai raid aerei senza elettricità e carburante per il blocco totale proclamato da Israele e in cui ora scarseggia l’acqua potabile. Medici senza fontiere, che opera nell’ospedale Al Awda a nord di Gaza, ha condannato con forza l’ultimatum giunto da Israele,
Proseguono intanto i lanci di razzi da Gaza verso il sud e il centro di Israele e si teme una escalation in Cisgiordania dove nella notte sono stati arrestati militanti e dirigenti di Hamas. Ieri, nel Giorno di Rabbia gli spari di soldati e coloni israeliani hanno ucciso 16 palestinesi. Pagine Esteri
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Come figli amati
Lo Spirito ci fa chiamare il Signore, il Creatore di ogni cosa, l’Onnipotente: "papà". Questo infatti significa "abbà" in aramaico. Per questo lo Spirito di adozione, con questa grande e disinvolta familiarità con il Signore, ci toglie la paura di Dio.
La paura di Dio o degli dèi o del destino ha sempre contraddistinto l’umanità. Ed anche spesso la chiesa stessa. Invece, in Gesù Cristo non dobbiamo più avere paura di Dio, tantomeno quindi dei potentati politici o religiosi che siano. #Amore, #FigliDiDio
I palestinesi sono principalmente vittime di se stessi
È l’ora di accorgersi che i palestinesi non sono vittime altro che di se stessi. Se potranno continuare sulla loro strada, proseguiranno come Al Qaida e Isis fino nel cuore dell’Occidente. È ora di cambiare: questa è una guerra fondamentale che deve battere il terrorismo, può invadere il mondo se non viene fermato in Israele. Deve finire l’illusione pietistica che i palestinesi siano le vittime di Israele: è vero il contrario. Israele è l’aggredito. Ogni offerta di pace è stata rifiutata. Occorre ristabilire la verità storica contro le bugie che inondano l’opinione pubblica. Chi descrive i palestinesi, specie quelli di Gaza, come vittime dell’oppressione, nega la prima di tutte le verità storiche: Gaza vive sotto il tallone di Hamas indisturbata dal 2005, non è occupata, il livello di vita della sua popolazione, che si è moltiplicata fino a 2 milioni da poche centinaia di migliaia, è pari a quello medio alta del mondo arabo. La reclusione che lamenta è solo dovuta a motivi di sicurezza. La povertà, al cinismo e alla corruzione della sua leadership. Anche il West Bank è stato liberato dalla presenza ebraica negli anni ’90, il 98% della sua popolazione vive governata solo dall’Anp, lo stato definitivo per l’istituzionalizzazione del governo di Abu Mazen attende un accordo che i palestinesi hanno sempre rifiutato. Così stabiliscono anche le risoluzioni dell’Onu: è falso che esista una «occupazione illegale».
Non c’era nessuno stato nei territori che Israele dovette occupare con la Guerra del ’67 e che erano illegalmente occupati dalla Giordania. Nessuno stato palestinese, mai esistito. Gaza è una storia a parte, passata dalle mani degli egiziani a Israele suo malgrado. Ma nei secoli, dal 140 dC hanno lottato per vivervi le comunità ebraiche poi espulse nel 1919 dagli ottomani, e definitivamente eliminate dagli arabi negli anni ’20. Oggi lamenta di essere una prigione a cielo aperto: ma i movimenti limitati sono dovuti alle aggressioni terroristiche. Pure, Israele ha sempre lasciato che Gaza venisse rifornita, finanziata, curata. Le molte guerre di aggressione di Hamas sono state sottovalutate, e lo sgombero del 2005 è stato un errore, si dice. Ma adesso dopo le mostruosità e le 1.300 creature inermi uccise bestialmente, Israele deve riaffermare il diritto alla vita della popolazione.
L’accusa più corrente è quella di colpire per vendetta i civili di Gaza. Non è vero. Hamas disloca missili e centri di comando in aeree densamente popolate, moschee, ospedali, scuole. Ogni civile colpito è per Hamas uno strumento di propaganda. Israele cerca di contenere il numero di innocenti colpiti, usa gli avvertimenti preventivi. Ma se non destruttura Hamas, con quelle armi, quegli uomini si produrranno continue ripetizioni del lancio di missili e delle atrocità. Questo non è possibile. Israele ha spesso fermato operazioni perché erano stati individuati bambini nell’area. Invece, Hamas vede nei bambini un punto debole con cui fiaccare il nemico. Stavolta tanti bambini sono stati rapiti. E anche decapitati. Non c’è confronto nel cercare di annichilire la leadership che fa della sua popolazione lo scudo umano del terrore e il sistematico sgozzamento di civili. Nel 2009 dopo una delle guerre di Gaza il giudice Goldstone compilò, incaricato dall’Onu, un’inchiesta sui crimini compiuti: prima accusò Israele, per poi denunciare quanto Hamas approfitta dei suoi cittadini facendone scudi umani.
La base teorica dell’odio palestinese è generale: Abu Mazen ha detto che gli ebrei non appartengono al Medio Oriente, ma sono colonizzatori europei, e che Hitler li ha perseguitati per la loro ignominia. Si chiama antisemitismo, delegittimazione. L’intera storia della presenza ebraica in Israele, a volte viene vista erroneamente come una presenza coloniale nella Palestina occupata: ma sono i palestinesi i recenti immigrati da Siria ed Egitto. La storia: il popolo ebraico ha la sua origine, la sua terra e la cultura della Bibbia, dal 1.600 aC. Gerusalemme è diventata capitale del regno di Israele nel 1.000 aC. Il Tempio è stato distrutto prima dai babilonesi, poi dai Romani nel 70 dC. Sulle sue rovine si costruì prima una basilica, poi la moschea. Ma nonostante i tentativi di cancellarla, c’è una massiccia evidenza storica, letteraria, archeologica dei secoli in cui gli ebrei sono rimasti attaccati a Gerusalemme nonostante le dominazioni greche, romane, dei mamelucchi, degli ottomani, e poi degli inglesi che sostituirono i turchi con il mandato britannico stabilito dalla Lega delle Nazioni. È proprio la decolonizzazione che riconsegna agli ebrei la loro terra, mentre cresce il movimento sionista, con la dichiarazione Balfour del 1917 che disegna «una casa nazionale» molto maggiore del territorio che Israele riceverà dall’Onu del 1948, e poi gli accordi di Sanremo, che nella legalità internazionale mandano avanti la creazione dello Stato ebraico. Il terrorismo arabo filonazista era già molto fiorente mentre nessuno stato palestinese è mai esistito. I leader arabi stessi includono quest’area nella Grande Siria e i palestinesi aumentarono di numero solo quando gli ebrei si misero al lavoro in una terra abbandonata e incolta. Più del 90% di quelli che si dichiarano oggi palestinesi giunsero con le migrazioni.
L’intenzione di Israele di condividere l’area con il mondo arabo è stata rifiutata: ma la Giudea e la Samaria, il West Bank, non sono mai state parte di nessuna Palestina, termine coniato dai Romani per cancellare la presenza ebraica. Erano illegalmente occupate dalla Giordania dal 1950 e nessuno ha mai protestato. Dal ’67 sono l’epicentro di una rivendicazione che parla di un’illegalità inesistente. La loro conquista è dovuta a una risposta a un attacco giordano e le risoluzioni Onu non assumono affatto che siano lo stato palestinese, ma asseriscono che la loro appartenenza è legata a una trattativa. La trattativa, sin da Oslo, si è sempre conclusa con un nettissimo rifiuto da parte palestinese: Arafat a Camp David nel 2000, cui seguì l’Intifada e poi Abu Mazen ad Annapolis nel 2007. Lo scopo era e resta quello dell’eliminazione di Israele, che Hamas ha trasferito nel campo religioso-ideologico. «Due Stati per due popoli» è stato anche per Fatah un cavallo di Troia, specie quando lo strumento del terrorismo diviene arma di sterminio di massa: durante la seconda Intifada fra il 2000 e il 2003 quasi 2mila ebrei furono uccisi sui bus, per strada. La politica dell’Anp è quella di non condannare mai il terrorismo, anzi di fornire ai terroristi un vitalizio ogni volta che vengono catturati o alle famiglie se muoiono. Il premier Ariel Sharon si immaginò un futuro di amicizia dando a Gaza aiuti, strutture agricole e industriali. Jihad Islamica e Hamas ne hanno fatto la punta di diamante di una strategia di attacco contro Israele e contro l’Occidente.
Oggi non c’è modo di immaginare un futuro avendo vicino Hamas che viola tutti i diritti umani e ordina di uccidere gli ebrei. Ogni giorno i terroristi agiscono sul territorio israeliano nonostante Israele si sia sempre preso cura dei suoi malati, dei bimbi, persino della moglie di Ismail Hanye. Non c’è mai stato accanimento sulla Striscia, i soldi degli aiuti, l’acqua, il gas, le medicine, la benzina sono state forniti in quantità. Ma Israele deve poter contare sul consenso del mondo quando cerca di cancellare il mostro che minaccia tutti noi.
L'articolo I palestinesi sono principalmente vittime di se stessi proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Etiopia, crisi umanitaria dimenticata in Tigray & ingiustizia legittimata dall’ ingerenza occidentale.
Arrivata la condanna di 40 organizzazioni per la mancata estensione del mandato per l’ Etiopia della commissione investigativa ICREE – International Commission of Human Rights Experts on Ethiopia, da parte dell’UNHRC e l’abbandono dell’indagine sui diritti umani in Etiopia delle Nazioni Unite.
La segnalazione di Tigrai TV
Mercoledì 4 ottobre non c’è stata la volontà politica da parte dell’ Europa e degli USA di rinnovare il mandato alla commissione di esperti di diritti umani ONU per l’Etiopia. L’ennesimo abuso da parte “occidentale” di non rispettare il “mai più”.
Approfondimenti:
- Etiopia, USA ed Europa hanno già scelto le sorti per la giustizia e le vittime della guerra genocida in Tigray
- Etiopia, 10 mesi di abusi e violenze dopo la tregua mentre sta per scadere la giustizia per le 800.000 vittime in Tigray
- Etiopia, a quasi un anno di cessate il fuoco, gli esperti ONU mettono in guardia da abusi e violazioni in atto, inclusi crimini di guerra e contro l’umanità.
Le organizzazioni sottolineano il ruolo fondamentale svolto dall’ICHREE come unico organismo internazionale indipendente che indaga sulle gravi violazioni dei diritti umani in Etiopia, tra cui la fame armata, gli abusi e le diffuse violazioni dei diritti umani.
Condannano l’inazione dell’UNHRC come una “grave inadempienza ai doveri e un disprezzo per la continua sofferenza di civili innocenti nel Tigray, Oromia, Amhara e in altre regioni dell’Etiopia”.
Italia: la diaspora del Tigray sul ruolo dell’ICHREE [intervista Radio Ondarossa]
Giovedì 5 ottobre viene rilasciato il REPORT dell’ OMS – Organizzazione Mondiale della Sanità che riporta la catastrofica situazione degli ospedali e delle strutture in Tigray, dopo 2 anni di guerra dai risvolti genocidi e quasi 1 anni di tregua.
Oggi, dopo 3 anni è l’86% delle strutture sanitarie risultano devastate, in una regione che ha quasi 7 milioni di persone (tra civili, rifugiati eritrei e più di 1 milione di sfollati tigrini). C’è ancora grossa carenza di materiale igienico sanitario e medicinali. Link al REPORT
L’unico ospedale risultato essere rimasto miracolosamente attivo anche durante i 2 anni di guerra e che ha ricevuto recentemente un finanziamento di 6 milioni di euro è Kidane Mihret della missione salesiana di Adwa. L’ospedale attualmente fornisce servizi medici a oltre 70.000 persone, compresi gli sfollati interni.
Lo stesso giorno Reuters comunica che USAID ha ripreso le attività di fornitura di supporto alimentare umanitario ai rifugiati in Etiopia. A giugno 2023 USAID aveva sospeso tali attività sulla pelle di 20 milioni di persone dipendenti dal suoi aiuto. Nell’anno fiscale 2022, l’USAID ha sborsato quasi 1,5 miliardi di dollari in assistenza umanitaria all’Etiopia, la maggior parte dei quali aiuti alimentari.
Anche WFP – World Food Programm ha sospeso le sue attività per lo scandalo della diversione del materiale alimentare. Nel saccheggio, in questo crimine sono stati accusati e implicati alti funzionari di governo e dell’ esercito etiope.
Giovedì 5 ottobre 2023: sono passati esattamente 190 giorni da quando WFP e USAID hanno sospeso la fornitura alimentare umanitaria per 5,6 milioni di persone nello stato regionale del Tigray.
Lunedì 9 ottobre 2023 il WFP Ethiopia rilancia la notizia della ripresa attività del WFP per il sostegno dei rifugiati in Etiopia. Dal comunicato ufficiale si legge:
“Circa 35.000 persone fuggite dal Sudan in Etiopia negli ultimi sei mesi necessitano urgentemente di assistenza alimentare, mentre l’Etiopia ospita anche altri 850.000 rifugiati, provenienti principalmente dalla Somalia, dal Sud Sudan e dall’Eritrea. Le distribuzioni del WFP riprenderanno nelle regioni di Somalia, Gambella, Benishangul Gumuz, Oromia, SNNP e Afar, fornendo ai rifugiati cereali, legumi, olio vegetale e sale. Alcuni riceveranno parte del loro diritto sotto forma di assistenza in denaro. “
Tigray non pervenuto, giustamente, visto che si parla di rifugiati e non di sfollati interni, IDP, più di 1 milione di persone di origine tigrina che causa guerra sono stati costretti a scappare dalle proprie case e trovare salvezza altrove. Oggi la maggior parte occupano edifici scolastici, per cui si è creato anche un cortocircuito con i milioni di ragazzi e studenti che dovrebbero tronare a scuola.
Gli sfollati vengono schedati: mercato dei dati biometrici
USAID per prevenire il furto e la diversione di cibo. per le persone bisognose, prevede di implementare la raccolta di dati biometrici (impronte digitali, scansione del’liride…) per poter dare accesso ai servizi come conto corrente e pagamenti. La raccolta di dati biometrici vengono grazie ad aziende terze che mettono a disposizione la tecnologia alle agenzie umanitarie.
L’Etiopia è solo uno dei tanti Paesi in giro per il mondo e soggetto a crisi umanitarie in cui le agenzie umanitarie risultano utilizzare la raccolta di di dati biometrici.
Qui si apre un nuovo capitolo sulla società globalizzata sorvegliata con implicazioni e rischi per le persone profilate (migranti, richiedenti asilo, rifugiati…), diritti digitali e grossi interessi.
Approfondimenti:
- Gli Stati Uniti si rivolgono alla biometria per prevenire il furto di aiuti umanitari in Etiopia
- Tecnologie per il controllo delle frontiere in Italia – identificazione, riconoscimento facciale e finanziamenti europei
- Rafforzare le frontiere esterne dell’UE – Frontex
- Identità digitale, Migranti e Rifugiati: IL CASO ITALIANO
- IrisGuard biometrics to support Ethiopia’s G2C payments, financial inclusion
- AccessNow – Iris scanning of refugees is disproportionate and dangerous – What’s happening behind IrisGuard’s closed doors?
Oggi, ottobre 2023, ci sono ancora 80.000 rifugiati del Tigray nel vicino Sudan, persone scappate fin dai primi istanti di guerra dal 4 novmebre 2020. Dopo 3 anni sono ancora in cerca di normalità, sopravvivendo in campi di accoglienza in un Paese che oggi è devastato dal’lennesima guerra. Save The Children recentemente ha indicato che sono 19 milioni di bambini sudanesi a non poter andare a scuola a causa della devastazione dopo 6 mesi dall’inizio del conflitto che sta ancora imperversando.
Martedì 10 ottobre 2023 Alice Wairimu Nderitu, Sottosegretario Generale e Consigliere Speciale delle Nazioni Unite per la Prevenzione del Genocidio, ha lanciato un avvertimento sull’aumento del rischio di genocidio e di atrocità correlate in Etiopia. Ciò avviene mentre i conflitti violenti si intensificano in varie regioni del paese, tra cui Amhara e Oromia.
Ha sottolineato che l’accordo raggiunto un anno fa sulla cessazione delle ostilità nella regione del Tigray è in gran parte fallito, sottolineando la necessità di un’azione internazionale.
Alice Wairimu Nderitu ha dichiarato che:
“La sofferenza dei civili non dovrebbe essere normalizzata o accettata, e la prevenzione deve essere la priorità attraverso un’azione coordinata”
Ha anche fatto riferimento ai suoi precedenti avvertimenti negli ultimi tre anni e a un rapporto di settembre della Commissione internazionale di esperti sui diritti umani sull’Etiopia. Nderitu ha chiesto la fine immediata delle violazioni di ampia portata commesse da tutte le parti a partire da novembre 2020.
Venerdì 13 ottobre 2023 l’ ICHREE pubblica il rapporto finale prima della conclusione del suo mandato e invita alla vigilanza internazionale sul conflitto in Etiopia.
Citazione di quanto riporta Addis Standard sulle dichiarazioni dei membri della commissione ONU di esperti di diritto umanitario in Etiopia.
“Nel rapporto pubblicato al termine della 54a sessione del Consiglio per i diritti umani, la commissione ha implicato le forze federali etiopi, le truppe eritree e le milizie regionali alleate in sistematiche uccisioni di massa, diffusi stupri e riduzione in schiavitù sessuale di donne e ragazze, fame forzata, sfollamento e detenzioni arbitrarie di civili.Ha accusato le forze del Tigray di portare avanti la propria campagna di omicidi, violenza sessuale, saccheggi e distruzione in quella che il presidente della commissione Mohamed Chande Othman ha descritto come “una scala sconcertante e una continuità di violenza” contro i civili coinvolti nel fuoco incrociato.
Pur sottolineando che i suoi risultati sono probabilmente solo la punta dell’iceberg, la commissione ha affermato di non avere tempo o risorse sufficienti per prendere una decisione su potenziali genocidi o crimini di sterminio. Ma Othman ha sottolineato la necessità vitale di indagini più approfondite per stabilire i fatti e le responsabilità legali.
Con il suo mandato terminato dopo la presentazione di oggi, la commissione ha lanciato un severo avvertimento che la strada verso la giustizia non deve finire qui. Ha espresso grave preoccupazione per la continua presenza delle forze eritree nel Tigray, affermando che le loro violazioni sia prima che dopo i recenti accordi di cessate il fuoco sottolineano come l’impunità generi ulteriori atrocità.
L’esperta della Commissione Radhika Coomaraswamy ha affermato che le speranze di responsabilità interna sono “estremamente remote”, lasciando le vittime alla disperata ricerca di un’azione regionale e internazionale. Il collega esperto Steven Ratner ha definito un duro colpo per le vittime il fatto che il lavoro della commissione sia stato interrotto prematuramente, sottolineando che “è essenziale che questo lavoro continui”.
Othman ha esortato la comunità internazionale a non dimenticare le vittime del conflitto. Ha chiesto un monitoraggio rafforzato delle condizioni sul campo e una giurisdizione universale per i procedimenti giudiziari all’estero. Considerando il rischio allarmante di ulteriori crimini se lasciato senza controllo, la commissione ha affermato che il suo rapporto finale non deve essere l’ultima parola. Giustizia e responsabilità sono vitali per una pace sostenibile, ha sottolineato Othman.
La bozza di mozione per estendere la Commissione internazionale di esperti sui diritti umani sull’Etiopia non è stata rinnovata ed è scaduta il 4 ottobre, nonostante i ripetuti appelli delle principali organizzazioni per i diritti umani di tutto il mondo che ne chiedevano l’estensione.
Nelle settimane precedenti a questa scadenza, i membri della Commissione hanno lanciato l’allarme sull’alto rischio di continue atrocità in assenza di indagini indipendenti sulle violazioni dei diritti umani in corso nel paese. Hanno espresso profonda preoccupazione per il rischio di ulteriori crimini contro i civili dato il clima instabile in Etiopia.
I gruppi internazionali per i diritti umani hanno sottolineato la necessità vitale che il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite utilizzi il suo mandato per aiutare a prevenire le violazioni dei diritti e rispondere a emergenze come quelle ampiamente documentate nell’ultimo rapporto della Commissione.”
Mentre l’ICHREE pubblica il suo ultimo REPORT continuano abusi, violenze ed occupazione in Tigray.
E’ indiscrezione di questi giorni di ottobre che tramite un servizio di Tigrai TV che ha intervistato sfollati interni nati ad Humera, area del Tigray occidentale ed ospitati oggi nei campi di accoglienza ad Adwa e dintorni, hanno recentemente denunciato attività di pulizia demografica: registrazione da parte di ONG che li registrano cambiandone i luoghi di nascita. Motivazioni e nomi di queste realtà per ora risultano ingoti, ma per giustizia e trasparenza bisognerebbe che qualcuno debba indagare ed approfondire.
Approfondimento:
Etiopia, la pulizia etnica persiste nonostante la tregua in Tigray
Mentre il resto del mondo rincorre l’ennesima guerra, l’ennesima crisi umanitaria per volontà politiche e per interessi e nuove risorse dei signori della guerra, non bisognerebbe dimenticare quelle recentemente passate, ma che hanno prodotto conseguenze per cui ci sono ancora milioni di persone disperate che stanno cercando di sopravvivere in ogni modo.
Trasparenza e giustizia sono le colonne portanti per stabilità e pace, tutto il resto è solo rumore.
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EmenDare
Saggio che il governo chieda alla propria maggioranza di non presentare un diluvio di emendamenti, ma sarà il governo stesso a dovere fare emenda dell’imprudenza commessa. Le guerre attutiscono i rumori attorno ai bilanci pubblici, ma non riparano squilibri che ne provocano la fragilità. Anzi.
Lunedì il governo presenterà alla Commissione europea il Documento programmatico di bilancio (Dpb). In pratica la bozza di legge di bilancio. Quella sia l’occasione per emendare le previsioni fatte nella Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza, subito apparse acrobatiche e in fretta divenute immaginarie. Far quadrare i conti per finta porta male. Il governo, in particolare il ministro dell’Economia, decanta la ‘prudenza’ dei conti abbozzati, ma questa è in relazione alle pretese di altri ministri e della maggioranza, mentre non lo è in relazione alla realtà. Se ci fosse il «significativo allentamento della disciplina di bilancio rispetto agli obiettivi precedenti», paventato da una agenzia di rating (Fitch), il risultato non sarebbe avere più soldi da spendere, ma buttarne di più nel costo del debito pubblico.
Il governo ha ragione nel chiedere che il testo, una volta presentato, non sia saccheggiato dagli emendamenti. Una riforma istituzionale seria e stabilizzatrice sarebbe quella di considerare inemendabile la legge di bilancio: rende credibili i conti, consegna al governo un’arma potente e non espropria il Parlamento delle sue funzioni, semplicemente traduce una bocciatura della legge di bilancio in una bocciatura del governo in carica. Come è del tutto ragionevole che sia. E sarebbe un bene anche per le opposizioni che – anziché essere scatenate nell’assalto alla spesa, deresponsabilizzate del saldo e sospinte verso lo scassamento – sarebbero indotte alla presentazione di leggi di bilancio alternative. Diverse nei contenuti, ma non negli equilibri complessivi.
Epperò tocca al governo e alla maggioranza schiodare quel che serve affinché la crescita della ricchezza non sia irragionevolmente frenata. Se i redditi sono mediamente saliti (nel 2022) del 5% e la capacità di spesa effettiva si è ridotta dell’1,6% è perché l’inflazione ha mangiato gli aumenti, mentre il lievitare dei prezzi erode la capacità di risparmio. Non serve a nulla lamentarsi per i tassi d’interesse, se non ci si accorge che il contemporaneo salire dei profitti d’impresa segnala difetti strutturali nella concorrenza. Qui siamo ancora fermi a evitare che ci sia sulle spiagge, mentre i taxi sono oramai una barzelletta.
Neanche serve dire (giustamente) che la leva demografica rende ardita ogni riforma non restrittiva delle pensioni (in realtà basta la Fornero, come il governo ora ammette, sebbene con un linguaggio non comprensibile a quelli cui promise di incenerirla), salvo poi continuare a giocherellare con le ‘quote’. 103 l’ultima moda. Mentre pensare di ‘limare’ le pensioni più alte è illegittimo laddove si pensi all’adeguamento asimmetrico all’inflazione ed è irragionevole se si colpiscono pensioni basate sui contributi versati, favorendo quelle senza contributi versati a sufficienza.
Infine, come ha giustamente detto il ministro Giorgetti: non si tema il confronto con la Commissione europea, si temano i mercati. Le imprudenze si pagano subito e in contanti, non con le procedure d’infrazione. L’ambito europeo, come si è ampiamente dimostrato, è una condizione protettiva, non ostativa. E, a tal proposito, quanto ancora deve durare la commedia orrida del Meccanismo europeo di stabilità? Non chiuderla facendo quel che tutti sanno dovere essere fatto – ovvero ratificare la riforma (perché il Mes c’è di già, non lo si introduce) – significa mostrare dei governanti che hanno paura di sé stessi e di quel che dissero. E no, non rende né più credibili né più forti.
Riforme e lavoro sodo sull’uso dei fondi europei. Questo è l’interesse dell’Italia. Governare non significa ‘dare’, nel senso di distribuire bonus o favori. Questo, semmai, è da emendare.
La Ragione
L'articolo EmenDare proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Ministero dell'Istruzione
#NoiSiamoLeScuole questa settimana racconta l’Istituto alberghiero e agrario Turi di Matera, che sarà una delle 212 nuove scuole costruite grazie al PNRR.Telegram
Oggi al 38° Convegno di Capri dei Giovani Imprenditori Confindustria, interviene il Ministro Giuseppe Valditara.
Potete seguire il suo intervento dalle ore 16.20 su ▶️ https://giovanimprenditori.
GAZA/ISRAELE. Giorno 5: A Gaza sotto le bombe si spegne anche la centrale elettrica
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AGGIORNAMENTO ORE 19.30
Per un falso allarme scattato contemporaneamente in decine di località israeliane era stata data comunicazione, come da cartina, di un massiccio attacco con droni e razzi dal Libano. I sistemi di sorveglianza israeliani avevano rilevato dozzine di droni e razzi lanciati dal Libano verso Israele e 15-20 parapendisti. Il tutto, hanno dichiarato le autorità israeliane, per colpa di un problema con i sistemi di rilevamento.
AGGIORNAMENTO ORE 17
Sarebbero stati coloni israeliani a colpire i tre palestinesi uccisi a colpi d’arma da fuoco nel villaggio di Qusra i Cisgiordania. Lo riferisce il ministro della sanità dell’Anp. Un video dell’incidente mostra uomini mascherati che sparano nel villaggio.
AGGIORNAMENTO ORE 16.15
Secondo una fonte interna al partito Likud di Netanyahu, è stato raggiunto un accordo tra il primo ministro Benjamin Netanyahu e il leader del partito di Unità Nazionale, Benny Gantz, sulla formazione di un governo di emergenza.
Di fatto è un governo per la guerra a Gaza. È stato concordato che Netanyahu, il ministro della Difesa Gallant e Gantz faranno parte di un gabinetto di guerra. Gadi Eizenkot, membro del partito di Gantz ed ex capo di stato maggiore, e il ministro degli Affari strategici Ron Dermer fungeranno da osservatori. Il partito di Gantz avrà cinque ministri nel governo senza portafoglio.
AGGIORNAMENTO ORE 15.47
Finito il carburante, si è spenta l’unica centrale elettrica di Gaza.
Raggiunto un accordo sul governo di unità nazionale in Israele. I media israeliani informano che il primo ministro Benjamin Netanyahu e il leader del partito di unità nazionale, Benny Gantz hanno trovato un’intesa.
Tre palestinesi sono stati uccisi nella Cisgiordania occupata, a sud di Nablus.
AGGIORNAMENTO ORE 12.50
L’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA) ha riferito che nove membri del suo staff sono stati uccisi in attacchi aerei israeliani di rappresaglia su Gaza a partire da sabato.
Secondol”UNRWA gli attacchi hanno ucciso il personale delle Nazioni Unite mentre si trovava nelle proprie case. 18 scuole dell’UNRWA, trasformate in rifugi, sono state danneggiate dai bombardamenti, così come il quartier generale dell’Agenzia, a Gaza City.
L’esercito israeliano ha fatto sapere di non avere informazioni che confermino la storia, diffusa ampiamente nel mondo e sulle prime pagine di alcuni dei principali quotidiani italiani, secondo cui Hamas avrebbe decapitato decine di bambini israeliani. A svelarlo l‘agenzia di stampa turca ANADOLU, che ha chiesto all’esercito di confermare ciò che era stato detto sul canale televisivo israeliano i24NEWS. La portavoce dell’esercito ha risposto “Abbiamo visto la notizia ma non abbiamo alcun dettaglio o conferma su questa storia“. Hamas e le brigate al-Qassam, in un comunicato avevano smentito categoricamente la notizia, accusando la stampa occidentale di fare disinformazione.
AGGIORNAMENTO ORE 11.50
Sale a 1.055 il numero dei morti palestinesi per i bombardamenti sulla Striscia di Gaza.
Israele ha richiamato 300.000 riservisti.
Pagine Esteri, 11 ottobre 2023. Si continuano a recuperare corpi, in Israele e il bilancio delle vittime dell’attacco improvviso di Hamas, sabato 7 ottobre, è salito a 1.200 persone. Parenti e amici di coloro che risultano attualmente dispersi, attendono di sapere se i propri cari sono stati uccisi oppure sono a Gaza come ostaggi. In una struttura militare sono stati allineati decine di corpi, per permetterne l’identificazione. L’esercito israeliano, che ha ammassato centinaia di migliaia di truppe al confine con Gaza, è pronto a lanciare un’offensiva di terra.
→ GLI EVENTI DEL QUARTO GIORNO
Non si sono mai fermati i bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza e continuano anche oggi, per il quinto giorno consecutivo. Sono stati uccisi 950 palestinesi tra cui almeno 260 bambini. Interi quartieri sono stati rasi al suolo, colpiti campi profughi e mercati, scuole, università, ospedali, moschee e ambulanze. Sono almeno 6 i giornalisti uccisi. La situazione umanitaria è catastrofica: Israele ha ordinato l’assedio totale della Striscia e non possono entrare aiuti umanitari, farmaci, acqua. L’unico possibile passaggio per i cittadini di Gaza, il valico di Rafah al confine con l’Egitto, è stato prima chiuso e smantellato dall’Egitto stesso, per “ragioni di sicurezza”, poi bombardato dall’aeronautica israeliana, mentre centinaia di palestinesi erano in attesa, nel tentativo di lasciare Gaza. Anche il porto è stato bombardato, non ci sono vie di fuga. La centrale elettrica interna alla Striscia, secondo il presidente dell’Autorità energetica palestinese Thafer Melhem, potrebbe spegnersi completamente entro 10-12 ore, a causa dell’embargo di carburante e lasciare così 2 milioni e 300mila persone completamente al buio e senza elettricità.
SCARICA IL DOSSIER → PALESTINA-ISRAELE. LE RAGIONI DEL CONFLITTO
Sono rimasti inascoltati gli appelli dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, dell’ONU e delle ONG per aprire un corridoio umanitario che porti a Gaza medicine, alimenti e acqua.
Hamas ieri ha continuato a sparare razzi su Israele, colpendo soprattutto Ashqelon, a sud di Israele, senza fare vittime.
Leggeri scambi di fuoco, tra Israele e Hezbollah in Libano si sono registrati ieri, dopo l’uccisione da parte di Israele di 4 membri del partito libanese. In serata un razzo partito dalla Siria è finito in un’area nel Golan, la zona occupata da Israele nel 1967, senza fare danni.
Nella Cisgiordania occupata si sono tenute manifestazioni a sostegno della popolazione palestinese di Gaza. Al momento sono 23 i palestinesi, soprattutto giovani, uccisi in Cisgiordania da Israele. Secondo The Times of Israel, il Ministro israeliano della sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, sta acquistando 10.000 pistole da distribuire ai coloni e agli israeliani residenti nelle città abitate anche da cittadini arabi.
L’Unione Europea ha deciso ieri, a maggioranza dei leader dei Paesi che ne fanno parte, di non sospendere gli aiuti economici ai palestinesi. Al contrario, dopo l’Austria, anche la Svezia e la Danimarca hanno deciso di sospendere gli aiuti.
LEGGI → ISRAELE-GAZA: IL MONDO SI DIVIDE
Gli Stati Uniti hanno inviato una potentissima portaerei in supporto a Israele che era già la potenza armata più temibile dell’area. Un primo carico di munizioni USA sarebbe già stato consegnato.
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha commentato negativamente l’invio, da parte degli Stati Uniti, della portaerei che dovrà rimanere nella regione a sostegno di Israele, dichiarando che non potrà far altro che portare altra violenza e altre stragi.
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L'articolo GAZA/ISRAELE. Giorno 5: A Gaza sotto le bombe si spegne anche la centrale elettrica proviene da Pagine Esteri.
Parigi, Berlino e Londra: vietato manifestare per la Palestina
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di Marco Santopadre
Pagine Esteri, 13 ottobre 2023 – Manifestare a sostegno dei diritti del popolo palestinese sta incredibilmente diventando un atto che in alcuni paesi europei può essere considerato addirittura un reato.
I governi di Francia, Germania e Regno Unito, in particolare, hanno varato in queste ore delle misure dirette a impedire le manifestazioni pubbliche di solidarietà con la causa palestinese e a colpire addirittura la libera espressione di opinioni critiche nei confronti di Israele.
Scontri a Parigi, vietata ogni manifestazione per la Palestina
La Francia è il paese che ha imposto finora il divieto più draconiano. Il ministro dell’Interno francese Gérald Darmanin, ha proibito ogni genere di manifestazione contro l’assedio e i bombardamenti israeliani che, mentre scriviamo, hanno già causato la morte di 1600 persone nella Striscia di Gaza. Darmanin ha comunicato la misura ai prefetti di tutto il Paese attraverso un telegramma, nel quale sono contenute le “rigide consegne” da applicare.
Le associazioni di solidarietà, i partiti di sinistra e le comunità palestinesi e arabe hanno però deciso di infrangere il divieto e scendere comunque in piazza. A Parigi ieri alcune migliaia di persone si sono radunate in Place de la République sfidando il divieto ma sono state attaccate dalle forze dell’ordine in tenuta antisommossa che hanno tentato, senza successo, di disperdere i presenti usando manganelli, cannoni ad acqua e gas lacrimogeni. Nella capitale francese la polizia ha effettuato dieci fermi. Manifestazioni più piccole si sono tenute ieri anche a Tolosa, Nimes, Bordeaux, Nantes e altre località.
Già lunedì scorso gli agenti avevano caricato e disperso circa 150 persone che si erano radunate in piazza a Lione per protestare contro l’occupazione della Palestina.
Il governo francese non sembra volersi limitare a impedire le manifestazioni pacifiche, violando uno dei principi basilari della sua stessa costituzione. Darmanin ha annunciato infatti che il Nuovo Partito Anticapitalista (NPA), una formazione di sinistra radicale, è oggetto di un’indagine in quanto accusato di “favoreggiamento del terrorismo” a causa di una dichiarazione diffusa dalla sua segreteria in cui si esprime solidarietà alla resistenza palestinese. Anche la France Insoumise, il principale movimento d’opposizione di sinistra del paese, è oggetto di un tentativo di linciaggio politico e mediatico perché i suoi principali esponenti, pur condannando l’azione di Hamas e l’uccisione di numerosi civili israeliani, si rifiutano di definire “terroristica” l’organizzazione palestinese.
Inoltre il Ministero degli Interni ha annunciato l’apertura di un iter che dovrebbe portare allo scioglimento e alla chiusura di alcune associazioni e organizzazioni che accusa di apologia dell’antisemitismo o del terrorismo, citando in particolare la sigla “Palestine Vaincrà”, legato alla sinistra palestinese, già oggetto di provvedimenti persecutori negli anni scorsi.
Come se non bastasse il ministro ha affermato che i cittadini stranieri autori di eventuali reati legati alla propaganda filopalestinese «devono vedersi sistematicamente revocato il permesso di soggiorno ed essere espulsi».
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La Germania contro Hamas, ma non solo
Apparentemente, il governo tedesco – formato da socialdemocratici, verdi e liberali – sembra per ora voler proibire esclusivamente le manifestazioni affini al movimento islamista palestinese Hamas, ma l’applicazione di questa misura viene già applicata in maniera relativamente indiscriminata.
La polizia di Berlino ha infatti già vietato due manifestazioni previste mercoledì a sostegno dei diritti del popolo palestinese nella capitale perché «avrebbero rappresentato una minaccia per la sicurezza e l’ordine pubblico».
Comunque mercoledì a Berlino sono scese in piazza alcune migliaia di persone contro la quale si è scagliata la polizia mobilitata in forze, che ha realizzato 140 fermi e ha denunciato 13 persone per diversi reati. I manifestanti si sono radunati soprattutto nel quartiere di Neukoelln che, insieme a quello di Kreuzberg, ospita una notevole comunità araba e turca.
Anche in Germania, come in Francia, l’esecutivo intende sciogliere alcune associazioni e organizzazioni propalestinesi. Lo stesso cancelliere Olaf Scholz, nel corso di un intervento al Bundestag, ha annunciato l’intenzione di sciogliere l’associazione Samidoun, accusata di aver festeggiato a Berlino l’attacco di Hamas contro Israele. In realtà la “rete di solidarietà con i prigionieri palestinesi” Samidoun è stata fondata nel 2011 da alcuni membri del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), un partito della sinistra marxista palestinese che è inserito nelle liste nere dell’Unione Europea ma le cui attività finora non erano state bandite in Germania.
Scholz ha aggiunto che chiunque bruci le bandiere di Israele commette un reato e verrà punito.
Kissinger: la Germania ha sbagliato ad accettare troppi immigrati
Sulla vicenda interviene dagli Stati Uniti l’ex segretario di stato americano Henry Kissinger, che in un’intervista concessa all’emittente televisiva “Welt Tv”, commentando le manifestazioni filopalestinesi verificatesi nei giorni scorsi in numerose grandi città europee, ha affermato che la Germania ha compiuto un «grave errore» accogliendo per anni un numero eccessivo di migranti appartenenti a «culture, fedi religiose e idee» troppo diverse rispetto a quelle del paese e dell’UE nel suo complesso. La «accoglienza eccessiva», ha affermato il centenario ex segretario di Stato, nato in Germania ma fuggito negli USA nel 1938 per sottrarsi al nazismo, a sua avviso «ha creato un gruppo di pressione in ogni Paese” che ha praticato per anni politiche migratorie poco caute.
Anche in Austria, la polizia di Vienna ha vietato una manifestazione pro-palestinese, motivando la decisione con lo slogan “Dal fiume al mare” usato per pubblicizzare la protesta, ritenuto un appello alla violenza. «Fondamentalmente è questo: “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”, uno slogan dell’Olp adottato da Hamas» ha spiegato il capo della polizia della capitale austriaca, Gerhard Puerstl.
Londra: anche sventolare la bandiera palestinese potrebbe essere vietato
Anche il governo conservatore del Regno Unito ha impresso un giro di vite alla libertà di espressione e manifestazione. Nei giorni scorsi si sono già svolte alcune manifestazioni a favore della Palestina sia a Londra sia in altre città ma il ministro dell’Interno Suella Braverman ha esortato la polizia ad essere inflessibile nei confronti di comportamenti e slogan ritenuti inaccettabili e a valutare se sventolare la bandiera palestinese possa essere considerato un reato assimilabile all’esaltazione del terrorismo.
Braverman ha inviato una lettera ai capi della polizia britannica per sottolineare che «non sono solo i simboli e i canti espliciti pro-Hamas a destare preoccupazione», ed ha invitato le forze di sicurezza a valutare se i canti o i simboli esposti possano essere intesi come «espressione di un atteggiamento violento». Quattro persone sono già state arrestate nel corso di una manifestazione organizzata a Manchester. – Pagine Esteri
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Quali scenari per la Nato? Il futuro transatlantico ai Security and defence days
In uno scenario internazionale in continuo mutamento è fondamentale riflettere sul ruolo attuale e futuro della Nato, sulla postura dell’Unione europea, e in modo più ampio, comprendere lo stato delle relazioni transatlantiche. Analogamente, è essenziale analizzare le sfide che attendono l’Alleanza e l’Unione, dalle minacce ibride a quelle convenzionali.
Di questi temi si occuperà la terza edizione dei Security and defence days, iniziativa della Fondazione De Gasperi, organizzata con il Wilfried Martens Centre for European Studies, in collaborazione con la Nato Public diplomacy division e Regione Lombardia che si svolgerà il 17 e 18 ottobre 2023 a Roma.
L’evento, parte del progetto Defense and security days: Nato in an evolving global strategic scenario, riunirà decisori europei e italiani, esperti, professionisti, rappresentanti di istituzioni internazionali e stakeholder privati.
Il primo panel, moderato dal direttore di Formiche e Airpress, Flavia Giacobbe, si occuperà di chiarire le prospettive strategiche della Nato dopo il vertice di Vilnius trattando fianco est, fianco sud e quadro geostrategico globale. Per approfondire le decisioni prese dall’Alleanza atlantica al vertice di Vilnius interverranno il Presidente della commissione politiche dell’Unione europea del Senato, l’ambasciatore e senatore Giulio Terzi di Sant’Agata; il senatore Marco Dreosto, membro della commissione Affari esteri e Difesa e l’Head engagement section della Nato public diplomacy division, il dottor Nicola de Santis.
Durante il secondo panel, il Rappresentante permanente d’Italia presso la Nato, l’ambasciatore Marco Peronaci; il Senior advisor del segretario generale della Difesa direzione nazionale armamenti, il contrammiraglio Pietro Alighieri; il Presidente di Fincantieri, il Generale Claudio Graziano e il ceo di Fastweb, il dottor Walter Renna, tratteranno il tema delle minacce convenzionali e ibride e il ruolo dell’industria italiana ed europea.
Durante il secondo giorno dell’evento, il tema postura dell’Unione europea nello scenario globale verrà trattato dal panel moderato dal responsabile Desk geopolitca della Fondazione De Gasperi, il dottore Mattia Caniglia. Prenderanno parte alla discussione la giornalista del Sole 24, la dottoressa Sissi Bellomo; il Capo III reparto – politica militare dello Stato maggiore della Difesa, l’ammiraglio Gianfranco Annunziata e il vice presidente di ELT Group, l’ingegnere Sergio Jesi.
Inoltre, il Presidente del consiglio accademico del Wilfried Martens Centre for European Studies, già Segretario Generale del Parlamento Europeo, il dottor Klaus Welle, parlerà della complementarità tra Nato e Eu e delle sfide e prospettive comuni.
L’evento si concluderà con l’intervento del ministro degli Affari esteri, l’onorevole Antonio Tajani.
Conferenza stampa: Carriere, una firma per separarle
Giuseppe Benedetto, President Fondazione Luigi Einaudi
Francesco Petrelli, President Unione Camere Penali
Enrico Costa, Azione
Roberto Giachetti, Italia Viva
Simonetta Matone, Lega
Stefano Maullu, Fratelli d’Italia
Beniamino Migliucci, President Fondazione Unione delle Camere Penali
Raffaele Nevi, Forza Italia
Modera
Andrea Cangini, Segretario generale FLE
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Marino Bruschini reshared this.
0ut1°°k
in reply to Poliversity - Università ricerca e giornalismo • • •rag. Gustavino Bevilacqua
in reply to 0ut1°°k • • •@outlook
C'è gente, come Zecharias, che RISCHIA LA PELLE per fare il giornalista, e magari non gli va molto a genio far sapere i suoi affari personali a sconosciuti dei quali non si trovano molte tracce in giro.
Se qualcunә riesce a dimostrare che Jeff Brown non è uno delle tante Wanna Marchi della rete, che cerca solo polli da mungere… sarà una buona notizia.
macfranc
in reply to rag. Gustavino Bevilacqua • • •Dài @GustavinoBevilacqua conosci troppo bene il fediverso per capire che non è questo il punto! Se hai bisogno di sicurezza, non devi cercare la "fiducia" di nessuno, ma devi solo avere il "controllo"!
Se vuoi usare l'istanza di un altro, il minimo che devi (Minimo che DEVI) fare è iscriverti con protonmail e collegarti con TOR project.
L'ottimale è crearti una tua istanza e comunicare solo con sistemi crittati (matrix, signal, session, etc)
@outlook @poliversity @giornalismo
macfranc
in reply to macfranc • • •@GustavinoBevilacqua aggiungo infine che nessuno deve
> dimostrare che Jeff Brown non è uno delle tante Wanna Marchi della rete, che cerca solo polli da mungere… sarà una buona notizia.
Questo è indifferente, così come lo è il fatto che sia o non sia un giornalista (per me è un "editore di fatto" e si posiziona nell'intervallo tra Wikileaks ed Elon Musk!): quello che conta è chi sei tu, utente che ti iscrivi là dentro...
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