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Perché Washington manda in Israele un generale dei Marines


Il supporto militare di Washington a Tel Aviv continua a concretizzarsi, e non solo tramite l’invio di armi (con muniziono e altri equipaggiamenti che continuano comunque a fluire nella regione). Nelle scorse ore l’amministrazione Biden ha infatti diffuso

Il supporto militare di Washington a Tel Aviv continua a concretizzarsi, e non solo tramite l’invio di armi (con muniziono e altri equipaggiamenti che continuano comunque a fluire nella regione). Nelle scorse ore l’amministrazione Biden ha infatti diffuso la notizia dell’invio di una delegazione di ufficiali guidata da James Glynn, generale a tre stelle del US Marine Corps con esperienze di comando durante le operazioni militari contro lo Stato islamico negli scorsi anni.

Il compito di questo gruppo di ufficiali “con un’esperienza pertinente all’operazione che gli israeliani stanno conducendo” è “condividere il loro punto di vista e porre domande difficili, le stesse domande difficili che abbiamo posto alle nostre controparti israeliane fin dall’inizio” riferisce il capo delle comunicazioni strategiche del National Security Council John Kirby.

Quelle domande difficili sono un fattore determinante sia dal punto di vista tecnico — che riguarda il cosa si aspettano davanti i reparti israeliani che invaderanno la Striscia — sia dal punto di vista politico. Come gestire i combattimenti tra civili senza suscitare il clamore internazionale? Come evitare successivamente la ri-insorgenza di Hamas?

Glynn e i suoi uomini possono aiutare non a dare risposte definitive, ma a mettere a disposizione dei vertici delle Israeli Defence Forces, impegnati nella pianificazione dell’operazione di terra contro il gruppo palestinese responsabile dell’attacco del 7 ottobre, le proprie conoscenze e le proprie esperienze nel campo dell’urban warfare. La realizzazione di un’operazione militare terrestre nella Striscia, volta a sradicare Hamas, dev’essere preceduta da un attento lavoro di pianificazione infatti, per evitare di trasformarsi in uno scenario catastrofico come quello evocato dal generale David Petraeus.

Gli Stati Uniti hanno acquisito esperienza di combattimento in contesti urbani negli anni recenti grazie al supporto fornito ai gruppi di combattenti curdi e iracheni impegnati nella lotta contro il Califfato. In particolare, all’interno degli scontri per la liberazione delle città di Raqqa e di Mosul. E adesso gli ufficiali mandati in Terra Santa devono capire quale approccio Israele intenda utilizzare, domanda a cui non si ha ancora risposta. A certificarlo è stato lo stesso Joe Biden, che durante il suo discorso tenuto a Tel Aviv pochi giorni fa ha specificato che sia necessaria una “chiarezza negli obiettivi, e nel percorso da seguire al fine di raggiungerli”.

Le alternative sono due: la prima è quella di cercare di eliminare Hamas usando attacchi aerei chirurgici, combinati con interventi mirati da parte di truppe per operazioni speciali, esattamente come hanno fatto gli aerei da guerra americani e le truppe irachene e curde a Mosul. Altra opzione: entrare a Gaza con un contingente più massiccio composto da carri armati e fanteria, in uno scenario simile a quello della battaglia di Falluja del 2004.

Secondo gli ufficiali americani, entrambi gli approcci comporteranno gravi perdite. Ma ancora di più nel caso di un “approccio Falluja”. Al Pentagono si preferirebbe infatti che le operazioni si ispirassero a quelle condotte contro l’Is negli scorsi anni, così da prevenire al massimo tanto vittime militari quanto vittime civili.

Glynn ha guidato è stato vice comandante generale delle operazioni speciali dell’operazione “Inherent Resolve”, da luglio 2017 a luglio 2018. In quel periodo, l’Is (noto anche come Isis) si stava trasformando da organizzazione statuale che controllava una larga fetta di territorio nel Siriaq a forza ribelle insorgente.

“Una delle cose che abbiamo imparato è come tenere conto dei civili nello spazio di battaglia, e loro sono parte dello spazio di battaglia, e noi, in conformità con la legge di guerra, dobbiamo fare ciò che è necessario per proteggere quei civili” ha affermato il segretario alla difesa americano Lloyd J. Austin, che nel corso di una conversazione telefonica con il Ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant ha sottolineato l’importanza del “rispetto delle leggi della guerra” e della “protezione dei civili”.

Ma il coinvolgimento americano è solamente di tipo consultivo. Sia Washington che Tel Aviv rimarcano come gli Stati Uniti non stiano facendo pressioni di sorta sul governo presieduto da Benjamin Netanyahu, né tantomeno stiano prendendo decisioni in sua vece. Lo stesso Glynn tornerà in patria una volta assolto il suo compito, e non sarà presente sul terreno quando le truppe israeliane metteranno in atto l’operazione.


formiche.net/2023/10/syraq-gaz…



L’utilizzo e l’elaborazione dei numerosi dati disponibili presso le istituzioni scolastiche può permettere di individuare precocemente gli studenti e le studentesse a rischio di dispersione scolastica, al fine di realizzare azioni a sostegno dell’app…


Messina, cinque borse di studio per i corsisti under 32


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CINA. Rimosso il ministro della difesa


È il secondo, nel giro di pochi mesi, dopo Qing Gang, Ministro degli Affari Esteri, ad essere stato mandato via senza una motivazione ufficiale. L'articolo CINA. Rimosso il ministro della difesa proviene da Pagine Esteri. https://pagineesteri.it/2023/10

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Pagine Esteri, 24 ottobre 2023. Il Ministro cinese delle Difesa Li Shangfu è stato rimosso dal suo incarico.

Shangfu, nominato lo scorso marzo, non si vedeva in pubblico dal mese di agosto.

È il secondo ministro a perdere il lavoro negli ultimi mesi, dopo la cacciata dell’ex Ministro degli Esteri Qing Gang.

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Qing Gang, ex Ministro cinese degli Affari Esteri

Xi Jin Ping sta portando avanti una sorta di campagna di rafforzamento della sicurezza nazionale che sta causando sconvolgimenti ai livelli più alti di leadership del Paese.

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L'articolo CINA. Rimosso il ministro della difesa proviene da Pagine Esteri.



Honoré De Balzac – Il colonnello Chabert


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Gli europarlamentari che guidano il lavoro sulla legge europea sull’Intelligenza artificiale (IA) hanno diffuso una nuova versione delle disposizioni relative alla classificazione dei sistemi di intelligenza artificiale ad alto rischio, mantenendo l’approccio basato sui filtri nonostante un parere legale contrario....

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Washington Post: “Daria Dugina uccisa dai servizi di Kiev addestrati dalla CIA”


La figlia di Dugin e altri membri dell'esercito e dell'establishment russo sarebbero stati uccisi da attentati realizzati in Russia da agenti segreti ucraini addestrati dalla Cia L'articolo Washington Post: “Daria Dugina uccisa dai servizi di Kiev addest

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di Redazione

Pagine Esteri, 24 ottobre 2023 – La giornalista figlia dell’ideologo ultranazionalista russo Aleksandr Dugin, uccisa ad agosto dello scorso anno nei pressi di Mosca da una bomba piazzata nell’ auto sulla quale viaggiava, sarebbe stata vittima di un attentato organizzato da alcuni agenti segreti ucraini addestrati dalla Central Intelligence Agency.
Lo affermano alcuni “funzionari anonimi statunitensi e ucraini” citati dal quotidiano “Washington Post”, secondo cui proprio le spie addestrate dalla CIA sono impegnate sin dallo scorso anno in un sanguinoso “conflitto ombra” contro la Russia.

Le fonti citate dal quotidiano ricostruiscono così l’attentato contro la donna: i componenti della bomba sarebbero stati introdotti in Russia quattro settimane prima dell’attentato, all’interno di un compartimento segreto ricavato in un trasportino per gatti, su un’auto in cui viaggiavano una donna e la figlia 12enne. La donna prese casa nello stesso condominio della famiglia Dugin e sorvegliò i suoi componenti per alcuni giorni. L’ordigno avrebbe dovuto uccidere Dugin, che però salì su un’altra vettura.

L’operazione – scrive ancora il quotidiano statunitense – è stata pianificata dal Servizio di sicurezza interna ucraino (Sbu), ed è parte di una campagna di attentati e operazioni sotto copertura in cui rientrano anche gli attacchi al ponte di Crimea, a navi russe nel Mar Nero e al Cremlino.

Nell’ultimo decennio, l’Sbu e le altre agenzie di sicurezza ucraine «hanno forgiato nuovi legami con la Cia» scrive il WP, secondo il quale dal 2015 l’intelligence statunitense «ha speso decine di milioni di dollari» per trasformare i servizi segreti ucraini, all’epoca strutturati sul modello sovietico, in «potenti alleati contro Mosca». L’agenzia statunitense «ha fornito sistemi di sorveglianza, addestrato reclute in territorio ucraino, costruito nuovi quartieri generali per l’intelligence militare di Kiev e condiviso informazioni»

Il capillare coinvolgimento della Central Intelligence Agency statunitense nel conflitto tra Russia e Ucraina è già stato oggetto di altre rivelazioni da parte della stampa Usa: secondo “Newsweek“, ad esempio, la Cia sarebbe la vera coordinatrice delle operazioni belliche ucraine, occupandosi di ruoli cruciali che vanno dalla logistica “informale” delle armi alla segnalazione degli obiettivi da colpire sul campo.

Secondo il Washington Post, negli ultimi 20 mesi l’Sbu e la sua controparte militare, il Gru, «hanno compiuto decine di omicidi» di ufficiali, funzionari e figure pubbliche russi, oltre a sostenere e organizzare gruppi terroristici e di resistenza in Russia e nei territori occupati. Tra gli omicidi il quotidiano cita quello del comandante di un sottomarino russo ucciso mentre faceva jogging in un parco, un blogger nazionalista ucciso dall’esplosione di una bomba in un bar e un comandante ribelle ucciso da una donna che lo aveva accusato di stupro. Alcune di queste operazioni condotte dall’SBU, secondo i media statunitensi, avrebbero incontrato la contrarietà di Washington.

Le autorità ucraine per ora non commentano mentre quelle russe trovano una insperata conferma alle accuse lanciate nei mesi scorsi contro gli Stati Uniti. – Pagine Esteri

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ANALISI. Biden si rifiuta di parlare di cessate il fuoco anche se ciò potrebbe impedire una guerra regionale


È una negligenza strategica da parte della Casa Bianca dare carta bianca a Israele quando sa che potrebbe trascinare gli Stati Uniti in un conflitto più ampio, scrive Trita Parsi su Responsible Statecraft L'articolo ANALISI. Biden si rifiuta di parlare d

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di Trita Parsi* Responsible Statecraft

I terribili attacchi di Hamas lo scorso fine settimana e i successivi bombardamenti israeliani su Gaza hanno messo in agitazione il mondo intero. Oltre alle preoccupazioni per la sorte dei 2,2 milioni di palestinesi intrappolati a Gaza senza un posto dove fuggire, c’è anche il timore palpabile che il conflitto si trasformi in una guerra a livello regionale. Nessuno dei principali attori – con la possibile eccezione di Hamas – vuole o trae vantaggio da una guerra del genere, eppure tutte le parti agiscono in modo tale da aumentarne il rischio di giorno in giorno.

C’è poco che suggerisca che Israele o il primo ministro Benjamin Netanyahu cerchino di ampliare la guerra. Il caos in Israele e l’incapacità del suo governo non solo di prevenire l’attacco ma anche di gestirne le conseguenze sfidano l’idea che si stesse preparando o desiderasse una guerra più grande. Israele si troverebbe infatti in una situazione precaria se finisse in una guerra su due fronti con Hezbollah che attacca Israele da nord.

Non c’è nemmeno nulla che suggerisca che Hezbollah desideri una guerra con Israele, nonostante il Wall Street Journal abbia riferito che Hamas aveva coordinato l’attacco con Hezbollah e l’Iran. Solo Hamas ha attaccato Israele, e non vi è stato alcun attacco simultaneo o successivo su larga scala da parte del nord. Considerata la terribile situazione economica del Libano – che è al quarto anno di profonda crisi economica e politica, con un’inflazione al 350% e il 42% della popolazione totale alle prese con un’acuta insicurezza alimentare – una guerra con Israele rischierebbe di portare l’intera nazione a un punto di rottura. .

Allo stesso modo, non ci sono prove che Teheran trarrebbe beneficio da una guerra più ampia. Come mi ha detto un diplomatico europeo, “l’Iran preferisce un conflitto a bassa intensità con Israele, piuttosto che una guerra aperta”. Il regime di Teheran è appena sopravvissuto a una delle più grandi sfide al suo governo e sembra sollevato dal fatto che l’anniversario dell’uccisione di Mahsa Amini non abbia riacceso queste proteste su larga scala.

Anche la sua economia è in gravi difficoltà, e il suo obiettivo è stato principalmente quello di raggiungere un accordo di allentamento della tensione con Washington che garantirebbe il rilascio di fondi iraniani e l’allentamento dell’applicazione delle sanzioni statunitensi sulle vendite di petrolio iraniano. Invece di coordinare l’attacco con Hamas, Teheran è stata colta di sorpresa, secondo l’intelligence statunitense .

Teheran ha anche compiuto il passo insolito di inviare un messaggio a Israele attraverso le Nazioni Unite , sottolineando che cerca di evitare un’ulteriore escalation. Ha tuttavia avvertito che sarà costretto a intervenire se Israele continuerà a bombardare Gaza.

Se c’è qualche razionalità nella politica in Medio Oriente dell’amministrazione Biden, anch’essa si opporrà a un’ulteriore escalation dei combattimenti. Tra la guerra in Ucraina e una potenziale crisi con la Cina su Taiwan, l’amministrazione Biden semplicemente non può permettersi una guerra più ampia nella regione. L’attenzione dell’amministrazione – per quanto fuorviante – si è invece concentrata sulla garanzia di un accordo di normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita. La Casa Bianca è così ossessionata da questa idea che ha persino iniziato a considerare di offrire ai governanti sauditi un patto di sicurezza e una tecnologia di arricchimento nucleare. La guerra in Medio Oriente non è stata nell’agenda di Biden.

Infine, gli stati arabi della regione, dall’Egitto alla Siria all’Arabia Saudita, non hanno nulla da guadagnare e molto da perdere da una guerra più ampia. L’Egitto teme un massiccio afflusso di cittadini di Gaza nel Sinai che, secondo le parole di David Hearst, ha il “potenziale di spingere l’Egitto oltre il limite dopo un decennio di declino economico”. Il siriano Bashar al-Assad si è concentrato sulla normalizzazione delle relazioni con gli stati arabi sunniti e sul rientro nella Lega Araba, aspetto fondamentale sia per la sua riabilitazione politica che per la ricostruzione economica della Siria.

Il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman – che era sul punto di normalizzare le relazioni con Israele e gettare i palestinesi sotto l’autobus – si è sentito obbligato a rilanciare il profilo tradizionalmente filo-palestinese dell’Arabia Saudita data l’immensa rabbia del mondo arabo più ampio per il bombardamento di Gaza da parte di Israele. La sua telefonata di questa settimana con il presidente iraniano Ebrahim Raisi – la prima volta che i due hanno parlato – è stata almeno in parte motivata dal desiderio di non cedere la leadership su questo tema a Teheran.Sia un bagno di sangue a Gaza che una guerra più ampia complicheranno gravemente la sua ambizione di affermarsi come leader indiscusso del mondo arabo, dato il suo disprezzo per i palestinesi.

Nonostante i chiari interessi di quasi tutte le parti contrarie a una guerra regionale, tutte le parti si comportano in modo tale da rendere questa guerra sempre più probabile. Se l’invasione israeliana di Gaza si rivelasse efficace in termini di decimazione di Hamas, Hezbollah potrebbe sentirsi obbligato a intervenire – non necessariamente per salvare Hamas, ma per salvare se stesso.

Una campagna israeliana di successo contro Hamas sposterà gli equilibri nella regione, dando a Israele mani più libere per attaccare Hezbollah. Un attacco da nord da parte di Hezbollah potrebbe non salvare Hamas, poiché renderà troppo costoso per il governo Netanyahu estendere la guerra al Libano dopo la sconfitta di Hamas. Hezbollah potrebbe non essere in grado di impedire una vittoria israeliana, ma avrà un interesse impellente a trasformare la situazione in qualcosa di pirro.

Il coinvolgimento di Hezbollah, a sua volta, porterà l’Iran molto più direttamente nel conflitto. Pur dichiarando la sua opposizione a una guerra più ampia, il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian ha avvertito che, a meno che Israele non interrompa i suoi attacchi, la guerra si allargherà e che Israele subirà “un enorme terremoto”.

Con l’Iran e Hezbollah coinvolti nel conflitto, l’amministrazione Biden sarà sottoposta a un’enorme pressione per intervenire militarmente, nonostante il chiaro interesse degli Stati Uniti a restarne fuori. Finora c’è poco nella condotta di Biden che suggerisca che, in questo scenario, egli darà priorità all’interesse strategico a lungo termine dell’America rispetto a ciò che è politicamente conveniente per lui nell’immediato.

L’intervento militare diretto americano a Gaza, o contro Hezbollah e l’Iran, è quasi certo che genererà gravi attacchi contro le truppe e gli interessi statunitensi in tutto il Medio Oriente da parte di gruppi armati sostenuti da Teheran. Le milizie in Iraq e Yemen hanno già lanciato severi avvertimenti riguardo ad una risposta su più fronti a qualsiasi intervento americano.

La Casa Bianca è ben consapevole di questi rischi di escalation. In un incontro all’inizio di quest’anno tra due alti funzionari americani e un rappresentante di alto livello del governo iraniano, uno degli americani ha avvertito Teheran che se avesse arricchito l’uranio al 90% di purezza, gli Stati Uniti avrebbero colpito militarmente l’Iran. Senza battere ciglio, il funzionario iraniano ha risposto che l’Iran avrebbe risposto immediatamente distruggendo quattordici basi americane nella regione facendo piovere su di loro migliaia di razzi entro 24 ore.

È in questo contesto che il rifiuto dell’Amministrazione Biden di chiedere una riduzione della tensione e un cessate il fuoco – o di fare praticamente pressione su Israele affinché eserciti il ​​suo diritto a difendersi entro i confini del diritto internazionale – è così problematico.

Non è solo la bancarotta morale della Casa Bianca di Biden a ostacolare gli sforzi per porre fine alla crisi (scioccanti email interne hanno rivelato che ai funzionari del Dipartimento di Stato è stato proibito di usare termini come allentamento dell’escalation, cessate il fuoco, fine dello spargimento di sangue e ripristinare la calma). Non si tratta del palese disprezzo per la vita umana mostrato dalla Casa Bianca quando il suo portavoce attacca i legislatori democratici che sostengono un cessate il fuoco e li definisce “ ripugnanti ”.

È anche una negligenza strategica quella di dare a Israele carta bianca per agire come desidera pur conoscendo e comprendendo l’enorme rischio che le azioni sfrenate di Israele a Gaza possano trascinare Washington in una guerra regionale più ampia che non serve né gli interessi degli Stati Uniti né Israele. La combinazione di avvertimenti a Hezbollah e all’Iran di mostrare moderazione, mentre non si chiede alcuna moderazione a Israele, può essere politicamente conveniente per Biden, ma è probabile che crei proprio lo scenario da incubo che Biden presumibilmente cerca di evitare.

Come ha affermato Ben Rhodes della Casa Bianca di Obama nel suo podcast la scorsa settimana, consigliare moderazione e invitare “a seguire le leggi della guerra, non significa mostrare una mancanza di rispetto per ciò che Israele ha attraversato. Al contrario, è un po’ quello che vorrei che qualcuno avesse fatto per gli Stati Uniti dopo l’11 settembre”.

Ma Biden non sta solo dando cattivi consigli a Israele. Sta dando a Israele un cattivo consiglio che rischia di far uccidere migliaia di americani in un’altra guerra insensata e prevenibile in Medio Oriente. Se gli manca l’umanità per chiedere un cessate il fuoco per impedire l’uccisione di migliaia di palestinesi, almeno non dovrebbe abdicare alla sua responsabilità di presidente degli Stati Uniti di tenere gli americani fuori dalla zona di sterminio.

*Trita Parsi è cofondatore e vicepresidente esecutivo del Quincy Institute for Responsible Statecraft.

L’articolo originale in lingua inglese può essere consultato questo link:

responsiblestatecraft.org/bide…

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ELEZIONI ARGENTINA. Milei non sfonda ma l’estrema destra può ancora vincere


Si aggiudica la tornata elettorale il Ministro dell'Economia, nonostante il 130% d'inflazione nel Paese. Il candidato ultraliberista chiama tutti a raccolta per il sostegno al ballottaggio. L'articolo ELEZIONI ARGENTINA. Milei non sfonda ma l’estrema des

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di Massimo D’Angelo –

Pagine Esteri, 24 ottobre 2023. Alla fine, il candidato ultraliberista di estrema destra, Javier Milei, non è riuscito a vincere al primo turno delle elezioni presidenziali argentine del 22 ottobre, contrariamente alle aspettative o alle preoccupazioni di molti. Non solo, Milei non è neppure riuscito a ottenere il primo posto. Infatti, nessuno dei candidati è riuscito a superare il quaranta percento dei voti, quindi si procederà al ballottaggio. Inaspettatamente però l’attuale ministro delle Finanze Sergio Massa, a capo della coalizione progressista peronista, ha sconfitto il suo avversario. Massa ha vinto il primo turno delle elezioni argentine con il 36,7% dei voti e sfiderà l’ultraconservatore Javier Milei (30%) per la presidenza. La conservatrice Patricia Bullrich (23,8%) è stata sconfitta, con un’affluenza del 74% dell’elettorato.

La prima sorpresa è stato appunto il rovesciamento totale dei risultati delle primarie di agosto, quando Milei era arrivato al primo posto con il 30 percento, Bullrich seconda con il 28,27 e Massa ultimo con il 27,27 percento dei voti. I risultati di domenica scorsa dimostrano fondamentalmente due cose: innanzitutto, le folli promesse elettorali di Milei possono aver avuto l’effetto non tanto di galvanizzare gli indecisi, quanto quello di spaventare gli elettori e le elettrici: Milei ha perso voti, rispetto alle primarie, tanto al nord (dove ci sono le regioni più povere del paese) quanto al sud, da tempo feudo della famiglia Kirchner e del Partito Giustizialista.

Un altro dato interessante che è emerso è la persistente forza del peronismo nel paese: in effetti, il partito è riuscito a recuperare voti praticamente ovunque: delle 24 province argentine, Sergio Massa ha recuperato sensibilmente dappertutto, con la sola eccezione della piccola provincia di Catamarca al confine settentrionale con il Cile. Diversamente, la conservatrice Bullrich ha perso consenso in tutte le province del paese. Secondo l’analista politica Di Marco, che scrive per uno dei quotidiani più letti in Argentina, il conservatore La Nación, il peronismo si conferma ancora una volta la principale religione del paese. Dall’altra parte, secondo il quotidiano progressista Página 12, a premiare la coalizione di governo è stata la profonda conoscenza delle periferie, l’attenzione – diversamente da quanto fatto dal governo conservatore di Macri – verso i segmenti più svantaggiati della popolazione.

La vittoria di Sergio Massa, l’attuale Ministro dell’Economia di un paese con un’inflazione al 130 percento, mette in evidenza il notevole potere del peronismo o dell’apparato, come viene comunemente definito dagli argentini. Tuttavia, questo successo rappresenta anche la principale sfida del candidato progressista. Il peronismo, che oggi è evoluto nell’attuale Kirchnerismo, ha governato il paese per sedici degli ultimi venti anni. Sebbene abbia contribuito al recupero di un paese devastato dalla crisi economica del 2001, è stato spesso oggetto di critiche per il suo potere sconfinato e le accuse di corruzione. La persecuzione giudiziaria subita dalla leader e attuale vicepresidente, Cristina Kirchner, unita alla sua retorica spesso incendiaria, ha alimentato la polarizzazione politica. Milei, dunque, avrà gioco facile a chiamare a raccolta tutti coloro che nel paese non si riconoscono nel kirchnerismo e nel peronismo. Questo è quello che ha iniziato a fare già nelle primissime ore dopo la chiusura dei seggi e quando si era ormai certi di andare al ballottaggio. L’appello agli elettori di Bullrich potrebbe certamente far presa.

È importante sottolineare che Massa non è un alleato incondizionato di Cristina Kirchner e nel corso degli anni è riuscito a mantenere una certa distanza da lei. In effetti, la sua scelta come principale candidato è stata vista come un punto di convergenza tra le diverse fazioni del Partido Justicialista peronista, sia quelle più vicine a Kirchner che quelle a lei più ostili. Inoltre, secondo alcuni analisti, ci sono due considerazioni principali che potrebbero facilitare il suo successo. In primo luogo, ci sono i voti dell’estrema sinistra che si è presentata con due candidati indipendenti al primo turno e che è improbabile possano sostenere le proposte di Milei. Questi voti rappresentano circa due milioni e mezzo di elettori. In secondo luogo, secondo l’analista Alfredo Serrano Mancilla del Centro Estratégico Latinoamericano de Geopolítica (CELAG), quando un candidato subisce una sconfitta come quella vissuta da Milei al primo turno, è difficile che riesca a cambiare la narrativa della sua campagna elettorale e a recuperare terreno.

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N. 192/2023 LE TRE NEWS DI OGGI: Come rivela il quotidiano Irish Independent, le patenti di guida di migliaia di automobilisti a cui sono stati rimossi i veicoli per conto della Guardia di Finanza sono state lasciate alla mercé degli hacker in una grave violazione dei dati. Oltre mezzo milione di documenti svelati includono dettagli...


In Cina e Asia – Wang Yi atteso negli Usa per preparare l’incontro tra Biden e Xi


In Cina e Asia – Wang Yi atteso negli Usa per preparare l’incontro tra Biden e Xi usa
I titoli di oggi:

Wang Yi atteso negli Usa per preparare l'incontro tra Biden e Xi
La Cina è pronta a dominare il deep sea mining?

L' "altra metà del Cielo" nella famiglia tradizionale di Xi
Cina, censurato un libro sui fallimenti dell’ultimo imperatore Ming

Giappone, il premier promette misure economiche per combattere l’inflazione
Contro spionaggio e minacce alla sicurezza: la Cina prende di mira le aziende private
Cina e Bhutan verso una distensione dei rapporti “il prima possibile”

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LIVE. GAZA/ISRAELE. Giorno 18. 400 raid aerei su Gaza nelle ultime 24 ore


Un'altra notte di bombardamenti su Gaza con centinaia di vittime nelle ultime 24 ore. Il presidente francese Macron arriva in Israele. Incontrerà Netanyahu e Abu Mazen L'articolo LIVE. GAZA/ISRAELE. Giorno 18. 400 raid aerei su Gaza nelle ultime 24 ore p

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della redazione –

Pagine Esteri, 24 ottobre 2023. I bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza sono continuati anche questa notte. Centinaia di vittime sono state segnalate nelle ultime 24 ore. Al momento i palestinesi uccisi nella Striscia sono più di 5.000.

Gli attacchi israeliani hanno ucciso anche altri 6 membri delle Nazioni Unite, portando il totale delle vittime ONU a 35. Si stima che circa 500 persone siano bloccate a Gaza sotto le macerie, alcune ancora vive, ma i bombardamenti continui e il numero elevato di richieste di aiuto non consente alle squadre di soccorso di intervenire.

È salito, intanto, a 96 il numero dei palestinesi uccisi in Cisgiordania da quando, il 7 ottobre, Hamas ha attaccato Israele, causando 1.400 vittime.

Il presidente francese Emmanuel Macron è arrivato questa mattina in Israele. Oltre al premier Benjamin Netanyahu e al presidente israeliano Isaac Herzog, ai quali ha espresso solidarietà, incontrerà anche il leader dell’Autorità Nazionale Palestinese Abu Mazen. Sono 28 i cittadini francesi uccisi da Hamas e 7 risultano dispersi. Macron incontrerà anche le famiglie degli ostaggi.

I due ostaggi che sono stati rilasciati ieri da Hamas, sono arrivati questa mattina, attraverso l’Egitto, dalle proprie famiglie.

Nella giornata di ieri razzi e missili anticarro sono stati lanciati da Hezbollah verso Israele, che a sua volta ha risposto colpendo in Libano. Missili libanesi sono stati intercettati sulla città di Haifa. Il presidente israeliano Isaac Herzog ha dichiarato che il Libano “sta giocando con il fuoco”.

Le forze armate israeliane hanno comunicato questa mattina di aver colpito 400 obiettivi nelle ultime 24 ore all’interno di Gaza, tra i quali varie moschee.

L’Emiro del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani ha chiesto questa mattina un immediato cessate il fuoco, aggiungendo che Israele non può avere il via libera incondizionato per “continuare a commettere atrocità illegali” come i bombardamenti, lo sfollamento forzato della popolazione, l’embargo di acqua, cibo e medicine.

Alcuni ospedali di Gaza sono rimasti al buio. I medici e gli infermieri soccorrono i feriti alla luce di torce e cellulari.

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Taiwan: Xi vara un piano d’integrazione che sa di inglobamento


Taiwan: Xi vara un piano d’integrazione che sa di inglobamento taiwan
Il mondo si concentra quasi esclusivamente sulle esercitazioni militari e le manovre di jet e navi sullo Stretto, ma c'è molto di più. Il Partito comunista non ha ancora abbandonato l'idea di una possibile "riunificazione" ("unificazione", secondo Taipei) pacifica. Qualche settimana fa, il Comitato centrale del Partito comunista cinese e il Consiglio di Stato hanno pubblicato congiuntamente un documento di pianificazione contenente 21 punti specifici per trasformare la provincia del Fujian in una zona dimostrativa per lo “sviluppo integrato” con Taiwan.

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Il commerciante di indirizzi fa causa alla DPA tedesca per impedire l'accesso ai file da parte della Noyb noyb ha chiesto all'autorità dell'Assia l'accesso al fascicolo della denuncia di Acxiom. Il commerciante di indirizzi ha presentato un'ingiunzione provvisoria contro l'autorità Acxiom Header


noyb.eu/it/address-trader-sues…



Il commissario risponderà finalmente alle domande sul ChatControl? È all'ordine del giorno della commissione Libe il 25.

A novembre si terrà una sessione speciale sulla privacy con rappresentanti della Corte di giustizia europea e della CEDU.

@Privacy Pride



Abbiamo ricevuto oggi una lettera del Consiglio Politico del Partito "Unione delle Forze di Sinistra - per il Nuovo Socialismo" sulla persecuzione che colpisce


di Paolo Ferrero - La considerazione avanzata dal presidente della Nazioni Unite Antonio Guterres al vertice egiziano quando ha detto che “la sola realisti


Argentina: al primo turno il turboliberista Milei solo secondo


In Argentina il centrosinistra si impone sul turboliberista di estrema destra Javier Milei. Il secondo turno però si annuncia tutto in salita L'articolo Argentina: al primo turno il turboliberista Milei solo secondo proviene da Pagine Esteri. https://pa

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di Redazione

Pagine Esteri, 23 ottobre 2023 – Per conoscere il nome del futuro presidente dell’Argentina bisognerà attendere il ballottaggio del 19 novembre. Ma contrariamente ai pronostici sarà il candidato del centrosinistra Sergio Massa l’uomo “da battere”. L’attuale ministro dell’Economia ha infatti ottenuto il 36,7 per cento dei voti, staccando di quasi sette punti percentuali l’economista di estrema destra e turbo liberista Javier Milei, che pure aveva vinto le cosiddette “primarie” di agosto.
Le forze che sostengono l’attuale governo riunite nella coalizione Unión por la Patria, a partire dai peronisti progressisti, tirano un sospiro di sollievo di fronte alla ventilata ipotesi di un boom dell’estrema destra già al primo turno. Massa, che alle primarie di agosto aveva ottenuto poco più di 5,2 milioni di voti, ieri ne la portati a casa oltre 9,6 milioni.

Ma la corsa verso il ballottaggio si presenta tutta in salita perché il leader della destra radicale potrebbe convincere la maggior parte dell’elettorato che ieri ha votato per la candidata arrivata in terza posizione con il 23,8% – la rappresentante della destra moderata Patricia Bullrich – a scegliere lui. La coalizione di sinistra si è invece fermata al 2,7%.

Se finora Milei ha indicato come suo nemico giurato la classe politica in quanto tale, all’insegna dello slogan “casta o libertà”, oggi punta a “mettere una volta per sempre fine al peronismo”, più precisamente al dominio della famiglia politica legata agli ex presidenti Nestor e Cristina Kirchner, obiettivo che potrebbe mobilitare una parte importante dell’elettorato di centrodestra.
L’Argentina vive la crisi economica più grave degli ultimi decenni ed è alle prese con un’inflazione giunta al 138%, che ha provocato un generalizzato aumento della povertà che interessa ormai il 40% della popolazione. Il risentimento popolare nei confronti del governo attuale è quindi molto diffuso e spesso sceglie i toni esasperati e “antisistema” del candidato dell’estrema destra, che promette di dollarizzare l’economia del paese, di abbassare le tasse e di dare una stretta all’immigrazione.
“Due terzi degli argentini hanno votato per il cambiamento, per un’alternativa a questo governo di delinquenti che vogliono ipotecare il nostro futuro”, ha detto Milei.
Occorrerà vedere se l’ex ministra della Sicurezza del governo dell’ex presidente Mauricio Macri darà una esplicita indicazione di voto per il “Bolsonaro argentino”. Comunque dopo il risultato del primo turno Bullrich ha immediatamente ricordato che non «sarà mai complice del populismo e delle mafie che hanno distrutto il Paese», il che lascia intendere una convergenza con “La Libertad Avanza” di Javier Milei.
Dall’abbraccio potrebbe però smarcarsi l’ala più moderata del centrodestra, quella rappresentata dall’Unione Civica Radicale, che fa riferimento al sindaco uscente di Buenos Aires, Horacio Larreta e che potrebbe preferire l’ipotesi di un «governo di unità nazionale dei migliori» citata da Massa.
Durante la campagna elettorale Milei e i suoi hanno esasperato i toni, suscitando allarme anche in alcuni ambienti non certo progressisti. L’ideologo di “La libertad avanza”, Alberto Bebegas Lynch, ha ad esempio alluso ad una possibile rottura dei rapporti con il Vaticano, ennesima presa di posizione contro un pontefice definito spesso “comunista”.
Invece Lilia Lemoine, accesa sostenitrice di Milei, ha rilanciato le posizioni anti abortiste del candidato alla presidenza con parole che hanno irritato molti elettori: se le madri possono “uccidere” i loro figli, i padri possono rinunciare alla paternità, ha detto.
Un’altra incognita è legata all’entità della partecipazione al secondo turno da parte di un elettorato sempre più scettico e disilluso. In Argentina il voto è obbligatorio e chi non ottempera rischia una multa, ma ieri alle urne sono andati solo il 74% degli aventi diritto, l’affluenza più bassa dalle presidenziali del 1983, quando si votò per la prima volta dopo la fine della dittatura militare fascista imposta nel 1976. – Pagine Esteri

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Via libera dal Consiglio dei Ministri al disegno di legge di promozione delle zone montane che disciplina, tra l'altro, una serie di agevolazioni per i docenti che prestano servizio presso le scuole di montagna.

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Le vittime civili non sono tutte uguali


Nella primavera del 1999, sotto il comando della Nato, ma senza il via libera dell’Onu, l’Italia mosse guerra alla Repubblica Federale Jugoslava di Serbia e Montenegro con l’obiettivo dichiarato di detronizzare il presidente Slobodan Milosevic. Capo del g

Nella primavera del 1999, sotto il comando della Nato, ma senza il via libera dell’Onu, l’Italia mosse guerra alla Repubblica Federale Jugoslava di Serbia e Montenegro con l’obiettivo dichiarato di detronizzare il presidente Slobodan Milosevic. Capo del governo era il post comunista Massimo D’Alema, cui Francesco Cossiga non smise mai di ricordare che i bombardamenti italiani sulla città di Belgrado provocarono “535 morti civili tra vecchi, donne e bambini”. Non lo faceva solo per il gusto della provocazione, Cossiga. Lo faceva per ricondurre a verità l’ipocrisia di una guerra ribattezzata “operazione di difesa integrata”. Lo faceva per realismo, dunque. Per ricordare, cioè, che, al netto dei contorcimenti lessicali politicamente corretti, la guerra è uno strumento della politica e la politica ha a che fare con la vita e con la morte. Anche con la morte dei civili.

Morti civili, in guerra, ci sono sempre stati. L’apice fu raggiunto nel 1945 con la distruzione della città tedesca di Dresda per mezzo di bombe al fosforo (135mila vittime) e con le atomiche sganciate sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki (250mila vittime). Morti civili, in guerra, ci sono sempre stati, ma con il progresso della civiltà il loro numero è vertiginosamente aumentato: le democrazie faticano a giustificare la morte dei propri soldati mandati a combattere sul campo, preferendo di conseguenza fiaccare il nemico decimandone dall’alto il morale e la popolazione possibilmente grazie all’uso di droni, che consentono di non mettere a repentaglio neanche la vita di un pilota.

Danni collaterali, li chiamano spesso. E si tratta, chiaramente, di un’ipocrisia. Ipocrisia svelata, quando ci sono, dalle immagini video. La stessa ipocrisia che, come era solito denunciare ancora una volta Francesco Cossiga, ci induce da tempo a qualificare “operazioni di pace” quelle che a tutti gli effetti sono operazioni di guerra. Una questione di pudore, ma anche un grande equivoco: come se il fine della guerra fosse la guerra in sè piuttosto che la pace.

E allora, questo o quello per noi pari sono? I bambini israeliani sgozzati dai carnefici di Hamas sono pari ai bambini palestinesi morti sotto i bombardamenti israeliani? No, no davvero. E negarlo non è ipocrisia, è semplicemente realismo; quel realismo caro a Francesco Cossiga. È realismo dire che i bambini sgozzati da Hamas sono un orrore di cui nessun soldato israeliano sarebbe capace. È realismo dire che semmai fossero stati scoperti fatti analoghi a parti invertite questo avrebbe rappresentato un’onta irreparabile per lo Stato (democratico) di Israele. È realismo dire che uccidendo i civili israeliani Hamas non può illudersi di battere Israele, mentre uccidendo civili palestinesi Israele può illudersi di battere Hamas. È realismo dire che i morti civili fanno tutti orrore, ma i morti per mano israeliana fanno meno orrore degli altri perché, parafrasando la celebre battuta del presidente statunitense Roosevelt riferita al dittatore nicaraguense Somoza, “può essere che Israele sia un bastardo, ma è il nostro bastardo”. Affermazione brutale, così traducibile: può darsi che Israele stia abusando della forza, ma Israele è una democrazia filo occidentale che uccide i civili per difendersi, mentre Hamas è un’organizzazione terroristica che uccide i civili per distruggere Israele e insidiare l’Occidente. Perciò noi, piaccia o non piaccia, non possiamo far altro che stare con Israele. È una questione di realismo, direbbe Cossiga.

Formiche.net

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Tunisia: ong rifiutano finanziamenti da “donatori filoisraeliani”


Alcune Ong tunisine hanno deciso di rifiutare i fondi provenienti da donatori occidentali che sostengono Israele. Massicce manifestazioni per la Palestina in tutto il paese L'articolo Tunisia: ong rifiutano finanziamenti da “donatori filoisraeliani” prov

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di Redazione

Pagine Esteri, 23 ottobre 2023 – Alcune organizzazioni non governative della Tunisia hanno deciso di boicottare i propri finanziatori occidentali che si sono schierati con Israele. Ad esempio “I Watch”, una Ong tunisina che combatte la corruzione e si batte per la trasparenza nella pubblica amministrazione, ha deciso di rifiutare da ora in avanti fondi provenienti dagli Stati Uniti dopo che Washington ha annunciato l’invio di armi a Israele e ha posto il veto su una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che prevedeva una pausa umanitaria dei bombardamenti su Gaza per permettere l’invio massiccio di aiuti umanitari alla popolazione palestinese.
Altre importanti ong progressiste e di sinistra – ad esempio OSAE, FTDES e Cartographie Citoyenne – stanno invece boicottando la fondazione tedesca “Rosa Luxemburg” a causa di una “retorica sui due stati per due popoli” accusata di mettere sullo stesso piano le responsabilità israeliane e palestinesi e di non tener conto del fatto che l’occupazione e l’apartheid impediscono la nascita di uno stato palestinese. In generale molte ong tunisine denunciano “il doppio standard” dei Paesi occidentali in merito al conflitto in Medio Oriente.

Lo scorso 18 ottobre almeno ventimila persone hanno manifestato nel centro di Tunisi contro i bombardamenti israeliani su Gaza ed esprimere solidarietà al popolo palestinese. Grandi manifestazioni si sono svolte in contemporanea anche a Sfax, Gafsa e Medenine.

La presa di posizione delle ong tunisine contro alcuni dei loro finanziatori internazionali avviene in un contesto in cui il regime di Tunisi guidato dal presidente Saied prova a varare una stretta legislativa contro le organizzazioni non governative per sottoporle ad un crescente controllo. – Pagine Esteri

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Dic 13
Dua renkontiĝo
Mer 14:30 - 16:00
Verda Majorano
Jus antaŭ la Zamenhofa Tago, aŭ Tago de la Esperanto-libro, kiu okazos la 15-a de decembro. Ni babilos pri libroj!


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Resilienza delle infrastrutture critiche, così la Nato si prepara alla sfida. Parla Peronaci


Lo sguardo della Nato di fronte alle sfide del futuro intende essere davvero a 360°, estendendosi non solo all’aspetto geografico, ma anche di altri ambiti strategici, a partire dalla protezione delle strutture alla base del benessere e della stabilità de

Lo sguardo della Nato di fronte alle sfide del futuro intende essere davvero a 360°, estendendosi non solo all’aspetto geografico, ma anche di altri ambiti strategici, a partire dalla protezione delle strutture alla base del benessere e della stabilità delle società, tra cui spiccano le infrastrutture strategiche. Sul tema, Airpress ha intervistato il rappresentante permanente d’Italia presso il Consiglio atlantico, Marco Peronaci.

Ambasciatore, spesso si sente parlare di “resilienza” dei sistemi, che devono essere in grado di assorbire gli shock senza venirne travolti. Come declina la Nato questo concetto?

Per comprendere la portata e la rilevanza della “resilienza” in ambito Nato è necessario innanzitutto fare chiarezza sul concetto stesso di resilienza: un termine che da oltre un decennio si è diffuso anche in Italia divenendo parte del linguaggio comune, ma il cui uso ha ampliato sia il ventaglio dei settori in cui la parola è utilizzata, dall’originario ambito tecnologico (la proprietà dei materiali di resistere agli urti senza spezzarsi) alla psicologia, ai settori sociale, economico e politico, sia le sfumature del significato stesso di resilienza, che talvolta ha perso concretezza.

Concretezza e operatività che, invece, sono centrali nel concetto di resilienza per la Nato e per gli Alleati. Radicata nell’articolo 3 del Trattato dell’Atlantico del Nord, ossia dall’istituzione dell’Alleanza Atlantica nel 1948, la resilienza assume una funzione essenziale per l’Alleanza, tanto in tempo di pace come in caso di crisi o di conflitto: ossia, la capacità dei singoli Alleati e collettiva di essere preparati e, ove necessario, resistere, rispondere e riprendersi rapidamente da gravi shock, siano essi causati da disastri naturali, interruzioni delle infrastrutture critiche o attacchi ibridi o armati.

In che modo, allora, agisce la Nato di fronte a queste minacce?

Rispetto a questa essenziale esigenza di protezione delle nostre società da eventi dirompenti, l’evoluzione del contesto di sicurezza, delle attività della Nato e il sempre maggiore controllo privato anziché governativo delle infrastrutture critiche hanno indotto l’Alleanza al progressivo consolidamento di una vera e propria dottrina della resilienza. I Vertici Nato di Varsavia nel 2016, Bruxelles nel 2021, Madrid del 2022 e infine Vilnius nel 2023 hanno sviluppato e rafforzato la resilienza quale fattore abilitante per l’efficace raggiungimento di ciascuna delle tre funzioni essenziali dell’Alleanza Atlantica: deterrenza e difesa, prevenzione e gestione dei conflitti, sicurezza cooperativa. E, di conseguenza, anche per l’efficacia della sua postura. Se volessimo semplificare, sarebbe possibile immaginare la resilienza quale la “prima linea” di deterrenza e difesa dell’intera Alleanza Atlantica.

Quali sono le principali minacce all’orizzonte?

La pandemia e le conseguenze globali dell’aggressione russa contro l’Ucraina in primis, le crisi energetica e di sicurezza alimentare, hanno reso evidenti e concreti nella percezione pubblica le vulnerabilità dei sistemi socioeconomici e, con esse, gli enormi rischi e costi causati da simili shock, che potrebbero accadere anche nel futuro, rendendo al contempo ancora più nitida la necessità di prevenzione e preparazione.

Qual è stata, allora, la risposta della Nato?

A fronte delle minacce e delle sfide globali la “Nato del futuro” descritta dal nuovo Concetto strategico del 2022 ha ampliato il campo dei settori le cui vulnerabilità possono avere effetti, diretti o indiretti, sulla sicurezza collettiva e da cui dipende l’efficacia dell’Alleanza. Ne sono esempi concreti le catene di approvvigionamento, le infrastrutture critiche, le materie rare, ma anche l’esposizione alla disinformazione e gli attacchi ibridi e cyber. Un allargamento concettuale e pratico che, è bene precisarlo, rimane comunque ancorato ai principi del Trattato di Washington che attribuiscono alla responsabilità nazionale la traduzione pratica della difesa rispetto alle nuove e vecchie minacce.

Cioè?

Per esempio, nel caso italiano così come della maggior parte degli Alleati, ricadono in numerosi ambiti nelle competenze dell’Unione europea, rendendo pertanto la cooperazione tra Nato e Ue una necessità strategica e, al contempo, un’opportunità per sinergie nell’indirizzo delle risorse finanziare comunitarie, ad esempio in ambiti quali mobilità, energia e infrastrutture.

Quali sono, in questo senso, le priorità d’azione dell’Alleanza?

Ricomprendendo l’intero spettro delle minacce, la Nato ha identificato per la resilienza la necessità di assicurare tre funzioni essenziali (continuità di governo; continuità dei servizi essenziali; sostegno civile al settore militare) suddivise in sette esigenze di base (continuità di governo e dei servizi pubblici critici; forniture energetiche; capacità di gestire efficacemente i movimenti incontrollati di persone; risorse alimentari e idriche; capacità di gestire gravi crisi sanitarie; sistemi di comunicazione civile; sistemi di trasporto civile).

Quando si parla di resilienza dei sistemi, un argomento centrale del tema è la protezione delle cosiddette infrastrutture critiche…

È un settore di crescente rilevanza, anche nel quadro della cooperazione con il settore privato e industriale. Trattandosi di strutture-chiave per la fornitura di servizi essenziali ai cittadini tanto quanto alle Forze armate: cavi sottomarini, oleodotti e gasdotti necessitano di particolare prevenzione e protezione. Secondo stime Nato, le infrastrutture sottomarine trasportano ogni giorno circa dieci trilioni di dollari in valore, inclusi i vitali approvvigionamenti energetici, mentre il 95% dei flussi globali di dati è trasmesso attraverso cavi sottomarini. Non a caso, a seguito del sabotaggio del gasdotto Nord Stream, la Nato ha creato una Cellula di coordinamento per le infrastrutture critiche sottomarine. E proprio in questi giorni è al centro dell’attenzione il Balticconnector, che collega Finlandia ed Estonia. È evidente che la geografia italiana, nel cuore del Mediterraneo, rende tale dimensione della resilienza cruciale per il nostro Paese.

Quali sono, in questo senso, le iniziative della Nato

Come detto, in ambito Nato, la resilienza ha una natura molto concreta. Prova ne è che, dopo aver concordato gli obiettivi collettivi al Vertice di Vilnius del luglio 2023 gli Alleati, Italia compresa, sono chiamati ad adottare i propri Obiettivi di resilienza e Piani di attuazione nazionale, dando ulteriore concretezza agli impegni assunti in ambito Nato. In definitiva, il concetto di resilienza per la Nato è strettamente connesso a quello di vulnerabilità, ma affrontare le proprie vulnerabilità significa anche cogliere l’opportunità di rafforzare le nostre società per affrontare più serenamente il futuro e le sfide, tanto più se possiamo farlo collettivamente nel quadro di riferimento securitario e valoriale euro-atlantico cui apparteniamo. Di resilienza discuteranno i Senior Policy Officer dei Paesi dell’Alleanza il prossimo 7 novembre.

E per quanto riguarda l’Italia?

Il nostro Paese è già al lavoro per fare la sua parte, in stretto raccordo con la Nato. A giorni si terrà a Roma una riunione bilaterale di alto livello con funzionari Nato proprio sulla resilienza. Occorrerà operare con oculatezza, in coerenza con il nostro profilo di rischio nazionale e dando conseguente priorità a settori maggiormente esposti ai rischi, inclusi i servizi critici, le catene di approvvigionamento sostenibili e diversificate, le infrastrutture critiche. Sarà inoltre fondamentale evitare nuove dipendenze, siano esse legate alla dimensione energetica o tecnologica ovvero alla disponibilità di materie rare.


formiche.net/2023/10/nato-resi…


in reply to Fulvio Malfatto

Grazie! come faccio ad aggiornare le info nell'elenco globale? Riporta ancora i vecchi dati ed una versione obsoleta, mentre ho reinstallato ex novo con l'ultima versione. Grazie
in reply to Fmal @privato

@fmal @Fulvio Malfatto non puoi farci niente perché non dipende da te: solitamente c'è bisogno di un po' di tempo, dove l'espressione un po' va intesa come un tempo non precisamente definito e che dipende soprattutto dalla frequenza con cui il sistema di rilevamento raccoglie i dati... 😁
in reply to Fulvio Malfatto

Lo immaginavo, grazie per la conferma, era solo per essere sicuro di avere installato correttamente.


Ecco come Russia e Cina si preparano alle guerre del futuro. Report Isw


Nei loro progetti di revisione dell’ordine internazionale, tanto la Russi quanto la Cina assegnano un ruolo fondamentale all’utilizzo del proprio strumento militare, il cui impiego viene considerato come necessario per il raggiungimento dei propri obietti

Nei loro progetti di revisione dell’ordine internazionale, tanto la Russi quanto la Cina assegnano un ruolo fondamentale all’utilizzo del proprio strumento militare, il cui impiego viene considerato come necessario per il raggiungimento dei propri obiettivi. Proprio per questo entrambi i Paesi portano avanti progetti di modernizzazione delle proprie forze armate con l’intento di farle trovare pronte alle sfide belliche del futuro. I diversi approcci seguiti in questo senso da Mosca e da Pechino sono stati oggetto di uno studio dell’Institute for the Study of War, che ha da poco pubblicato un report al riguardo.

L’esercito russo e quello cinese provengono da due storie differenti, hanno differenti punti di forza e di debolezza, così come differenti priorità. Entrambi però vedono nel raggiungimento della dominance all’interno del processo di decision-making la chiave dei conflitti futuri, dominance che può essere raggiunta attraverso una combinazione di potenziamento del proprio apparato decisionale e di deterioramento di quello avversario.

L’approccio russo di Mosca si incentra sul concetto di “superiorità gestionale”, caratterizzato da una maggiore velocità e da una maggiore qualità nel proprio processo decisionale, al fine di costringere l’avversario a compiere scelte come “reazioni” alle azioni delle proprie forze armate, limitandone quindi la libertà d’azione. Dal più alto livello di grand strategy al più immediato e semplice movimento tattico sul campo di battaglia. In contrapposizione con la dottrina occidentale: mentre gli Stati Uniti e la Nato in generale tendono a concepire separatamente le operazioni cinetiche e quelle di informative, in Russia le due dimensioni sono profondamente intrecciate (secondo i dettami dell’hybrid warfare).

Tuttavia, l’esperienza in Ucraina ha dimostrato come le carenze delle forze armate russe nelle dimensioni dell’addestramento, del personale e della leadership non permettano al Cremlino di raggiungere la strategic dominance desiderata. Mosca non è stata in grado di sfruttare la preziosa esperienza siriana (dove le sue truppe si sono cimentate in operazioni di combattimento reale) per avviare un processo di aggiustamento della propria struttura militare, facendo sì che permanessero al suo interno problematiche preesistenti capaci di inficiare futuri trasformazioni dello strumento militare russo.

Per Pechino, la situazione è diversa. Il percorso di modernizzazione militare cinese è di più largo respiro rispetto a quello russo, e si articola intorno a tre principali direttrici: ideologia, addestramento e nuove tecnologie. Puntando su queste tre dimensioni, l’Esercito popolare di liberazione intende raggiungere una superiorità “sistemica” rispetto all’avversario americano, ancora troppo ancorato alla logica dei domain. Grazie all’indottrinamento dei soldati garantito dalla presenza dei commissari politici e ai processi di informatization e di intelligentization (nel primo caso integrazione di sistemi informatici nelle strutture e nei sistemi d’arma, dell’Intelligenza artificiale nel secondo), entro il 2049 la leadership cinese mira a ottenere la parità, o addirittura la superiorità, rispetto all’avversario americano.

Al contrario della Russia, la Cina non si impegna in un’operazione militare dal 1979, e questa carenza di esperienza diretta pesa sull’apparato bellico di Pechino, poiché non permette di mettere alla prova in una situazione reale gli sviluppi teorici conseguiti. Per sopperire a questa carenza, l’Esercito popolare di liberazione ricorre in modo sempre più estensivo a simulazioni videoludiche, che però non possono assolutamente sostituire la complessità di un vero campo di battaglia.

Cosa devono dunque fare gli Stati Uniti per rimanere la potenza militare egemone? Secondo gli esperti dell’Isw, è fondamentale puntare sulle proprie peculiarità rispetto agli avversari. Peculiarità che spaziano dall’aspetto del personale (né la Russia né la Cina dispongono di una classe di non-commisioned officer, intercapedine fondamentale nel sistema di command and control) a quello economico (il relativo controllo sulla supply chain mondiale rispetto ai due Paesi avversari). Puntare su queste leve potrebbe rivelarsi la mossa giusta per mantenere la superiorità rispetto agli avversari nelle guerre die decenni a venire.


formiche.net/2023/10/isw-repor…



Crosetto in Libano, la presenza italiana è un fattore di pacificazione


Lavorare affinché il domani sia meglio dell’oggi, impegnandosi affinché il conflitto, che nessuno vuole, non si estenda ulteriormente. È questo il cuore del messaggio lanciato dal ministro della Difesa, Guido Crosetto, nel corso della sua visita al contin

Lavorare affinché il domani sia meglio dell’oggi, impegnandosi affinché il conflitto, che nessuno vuole, non si estenda ulteriormente. È questo il cuore del messaggio lanciato dal ministro della Difesa, Guido Crosetto, nel corso della sua visita al contingente italiano in Libano, parte della missione Unifil delle Nazioni Unite. Attualmente, i militari italiani dell’operazione Leonte XXXIV, strutturati sulla base della brigata meccanizzata Granatieri di Sardegna, sono presenti nella base militare di Shama, nel sud del Libano, parte dello sforzo Onu per assicurare la stabilità del volatile confine con Israele. La complessità dello scenario è stata dimostrata dal missile, deviato, che ha colpito senza nessuna conseguenza il quartier generale della missione Unifil a Naqoura, undici chilometri più a sud rispetto alla base italiana.

Nessuno vuole un’escalation

Come ricordato dallo stesso ministro, la sua visita in Libano segue quelle in Arabia Saudita e in Qatar, oltre ai viaggi del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in Egitto e in Israele (dov’è stato anche il ministro degli Esteri, Antonio Tajani), “perché l’Italia sta cercando di giocare un ruolo per evitare un’escalation, per non tornare a una guerra tra Islam e Occidente, tra mondo arabo e occidentale. Non lo vogliamo noi, non lo vogliono i Paesi arabi, non lo vuole nessuno”. Per il ministro, infatti, lo scopo e il lavoro dell’impegno italiano nella regione è quello di “buttare acqua sul fuoco”, contrastando chi invece vorrebbe infiammare il Medio Oriente “cancellando dalle cartine geografiche Israele e la civiltà occidentale”. Il ministro, però, ha sottolineato come questo tentativo sia avversato tanto dai Paesi occidentali, quanto dagli stessi Paesi arabi. “È una situazione difficile, e tutti stiamo lavorando perché si trovi una soluzione, la meno pesante e più accettabile possibile, distinguendo il destino del popolo palestinese da quello dei terroristi di Hamas”. Su un punto, ha infatti precisato Crosetto, “ci troviamo tutti d’accordo, un conto e Hamas, che è un’organizzazione terroristica che come unico scopo la distruzione di Israele, un altro è il destino del popolo palestinese, che è tutt’altra cosa”.

Il ruolo di Unifil

Il conflitto a Israele, tuttavia, se da un lato ha costretto il contingente Unifil a misure di sicurezza più stringenti, non ha ridotto l’impegno e il lavoro dei Caschi blu presenti. Del resto, come annota lo stesso Crosetto “le scaramucce tra Hamas e Israele non sono mai terminate, in questo momento si sono intensificate e i nostri militari devono proteggersi. Tuttavia, il loro ruolo e semmai ancora più importante, dal momento che “fanno vedere che tutto il mondo crede nella Pace di questa parte di globo”. La missione Unifil, infatti “non è Nato, non è bilaterale, ma Onu. Ci sono 49 nazioni che hanno i loro militari qui e il cui scopo e preservare la pace” del Libano e tra il Paese e il suo vicino meridionale. Diventa, ha proseguito il ministro “ancora più fondamentale e importante preservare questa presenza”. In questo momento, però, è anche importante ricordare come i militari presenti sono lì in veste di “portatori di pace, sicurezza e dialogo” con “regole di ingaggio diverse rispetto a quelle dei contingenti in Afghanistan” e non sono “pronti per combattere, come successo per altre zone in altri tempi”.

L’importanza della presenza italiana

In tutto questo scenario, il nostro Paese può giocare un ruolo importante, grazie soprattutto al suo impegno per missioni come Unifil e alla sua costante presenza nella regione. Come sottolineato da Crosetto “l’Italia riesce ad avere un dialogo anche con alcune parti del mondo tra le più difficili” grazie al “rispetto di cui godono le istituzioni italiane, frutto non delle persone che le interpretano pro tempore, ma delle migliaia di soldati che con il loro atteggiamento e il loro modo di supportare le popolazioni hanno fatto guadagnare stima al loro Paese, oltre che a loro stessi”.


formiche.net/2023/10/crosetto-…



#NotiziePerLaScuola

È disponibile il nuovo numero della newsletter del Ministero dell’Istruzione e del Merito.

🔶Il MIM alla quarantesima assemblea ANCI a Genova. Dal 24 al 26 ottobre con uno spazio informativo e pubblicazioni aggiornate.



📣 Dal 24 al 26 ottobre, presso la Fiera di Genova, è in programma la 40ª edizione dell’Assemblea nazionale dell’ANCI, l’Associazione Nazionale Comuni Italiani.
“Tre colori sul cuore”, è il titolo dell’iniziativa di quest’anno.


LIVE. GAZA/ISRAELE. Giorno 17. Si intensificano i bombardamenti sulla Striscia. Evacuate aree israeliane al confine con il Libano


Secondo il Ministero della Sanità palestinese, i bombardamenti delle ultime 24 ore hanno ucciso più di 400 persone nella Striscia di Gaza. Israele ha comunicato di aver colpito 320 obiettivi, per eliminare possibili minacce durante l'invasione di terra L

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della redazione –

Pagine Esteri, 23 ottobre 2023. Secondo il Ministero della Sanità palestinese, i bombardamenti israeliani delle ultime 24 ore hanno ucciso più di 400 persone nella Striscia di Gaza. Durante la notte appena trascorsa gli attacchi aerei sono stati particolarmente numerosi, soprattutto sul campo profughi di Jabalia dove, secondo la protezione civile di Gaza, sono state uccise 30 persone. Jabalia è il più grande degli otto campi profughi della Striscia di Gaza. Il bilancio totale delle vittime nella Striscia è salito, secondo il Ministero della Salute, a 4.651.

Le autorità israeliane hanno comunicato di aver colpito, nelle ultime 24 ore, 320 obiettivi militari a Gaza, per eliminare le possibili minacce che i soldati potrebbero trovare durante l’invasione di terra, che si sta annunciando come imminente ormai da giorni.

La situazione degli ospedali è sempre più disperata. I medici di diverse strutture hanno fatto sapere di non avere i mezzi per affrontare l’enorme numero di feriti, tra i quali moltissimi bambini, che riportano ferite gravi e ustioni permanenti. Nel nord della Striscia l’ospedale indonesiano ha comunicato che non potranno più essere effettuati interventi chirurgici se non arriverà presto del carburante. Israele continua ad ordinare l’evacuazione delle strutture ospedaliere.

Nella notte l’esercito israeliano ha fatto irruzione nel campo profughi di Jalazone, vicino Ramallah, uccidendo due palestinesi. Le incursioni israeliane sono avvenute in diversi luoghi della Cisgiordania occupata, portando all’arresto di decine di palestinesi a Betlemme, Ramallah, Jenin, Nablus e in altre zone.

Secondo le autorità palestinesi dall’attacco di Hamas dello scorso 7 ottobre, che ha causato la morte di più di 1.400 israeliani, sono stati arrestati in Cisgiordania circa 1.200 palestinesi.

È terminata ieri l’evacuazione di 14 aree israeliane vicine al confine con il Libano, dove continua lo scambio a fuoco tra esercito ed Hezbollah.

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In Cina e Asia – Avviate indagini sulla Foxconn: possibile impatto su Taiwan e Usa


In Cina e Asia – Avviate indagini sulla Foxconn: possibile impatto su Taiwan e Usa 9930821
I titoli di oggi:

-Cina, indagini sulla Foxconn: possibile impatto su Taiwan e Usa
-Collisioni tra navi filippine e cinesi nel Mar cinese meridionale
-Summit Usa-Ue, la Cina tra i temi più discussi del vertice
-Pechino studia le sanzioni Usa contro la Russia negli scenari sull'invasione di Taiwan
-Nato, la relazione Cina-Russia è un "rischio per la sicurezza dell'Artico"
-La Cina estende le restrizioni all'esportazione di grafite
-Sicurezza alimentare, la Cina apre alla coltivazione di nuove varietà OGM di mais e soia
-Indonesia, Prabowo sceglie il figlio di Widodo come candidato alla vicepresidenza
-Corea del Sud, a un anno dalla strage di Itaewon ancora dubbi sui festeggiamenti di Halloween 2023

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N. 191/2023 LE TRE NEWS DI OGGI: Questa settimana, il governo dello Yukon ha pubblicato nuove norme che aumentano i poteri del RCMP. Prima dell’entrata in vigore della legge sulle persone scomparse, la polizia non poteva obbligare qualcuno o un’organizzazione a rilasciare informazioni personali su una persona scomparsa. Ora la legge consente esattamente questo. “Credo...


Alla moschea di Taipei, solidarietà con il popolo palestinese


Alla moschea di Taipei, solidarietà con il popolo palestinese 9929588
L'iniziativa dal basso. Il governo di Taiwan schierato con decisione con Tel Aviv. Gli organizzatori: "Hamas non rappresenta tutti i musulmani, né tutti i palestinesi". Il racconto da Taipei

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Quanto impegno e quanto costo comporta un’istanza di Mastodon?


Il Fediverso è un'alternativa aperta, gratuita e non commerciale alle piattaforme convenzionali. Ma i server devono essere pagati, i post moderati e la tecnologia deve essere mantenuta in funzione. Quanto costa effettivamente e quanto tempo dedicano gli o

Riportiamo l’articolo di Markus Reuter, pubblicato il 15 ottobre 2023 su Netzpolitik Il Fediverso è un’alternativa aperta, gratuita e non commerciale alle piattaforme convenzionali. Ma i server devono essere pagati, i post moderati e la tecnologia deve essere mantenuta in funzione. Quanto costa effettivamente e quanto tempo dedicano gli operatori alle loro istanze Mastodon? Da quando Elon Musk ha...

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Il Fediverso è un’alternativa aperta, gratuita e non commerciale alle piattaforme convenzionali. Ma i server devono essere pagati, i post moderati e la tecnologia deve essere mantenuta in funzione. Quanto costa effettivamente e quanto tempo dedicano gli operatori alle loro istanze Mastodon?

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