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Un’amica per Betelgeuse


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Betelgeuse è una supergigante rossa circa 100.000 volte più luminosa e oltre 400 milioni di volte più grande del Sole. È la decima stella più luminosa nel cielo notturno. Situata a circa 600 anni luce dalla Terra nella costellazione di Orione, è una stella la cui luminosità varia nel tempo. Stelle variabili, è così che le chiamano gli addetti ai lavori. Betelgeuse, in particolare, va incontro a complessi cicli di variazione di luminosità che sono impressi nella sua curva di luce e che si verificano su scale temporali differenti: un ciclo di variabilità che copre un periodo di poco più di un anno, 416 giorni per essere precisi, e un ciclo più lungo, di 2170 giorni. Uno di questi due cicli è dovuto alla pulsazione della stella. Si tratta di una variazione intrinseca della luminosità dovuta a successive espansioni e contrazioni degli strati superficiali della stella stessa – quello che gli astronomi chiamano modalità di pulsazione fondamentale, la cui durata dà indicazioni sullo stadio evolutivo nel quale si trova. La domanda è: quale dei due cicli costituisce la modalità fondamentale di Betelgeuse? E cosa ci dice circa la sua evoluzione?

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Illustrazione artistica che mostra Betelbuddy in orbita attorno a Betelgeuse. Crediti: Lucy Reading-Ikkanda/Simons Foundation

Se il ciclo di 2.170 giorni fosse dovuto alla pulsazione intrinseca della stella, ciò collocherebbe l’attuale stadio evolutivo di Betelgeuse in una fase avanzata della sua vita, il che significherebbe che la stella sarebbe pronta ad esplodere come supernova entro le prossime decine o centinaia di anni. Viceversa, se la modalità fondamentale è il ciclo di 416 giorni, la stella non sarebbe destinata ad esplodere se non fra centinaia di migliaia di anni.

Diversi studi suggeriscono che quest’ultima ipotesi sia quella più plausibile: per vedere esplodere la stella dovremmo dunque aspettare ancora a lungo. La domanda a questo punto è: a cosa è dovuto il periodo di variazione della luminosità di 2.170 giorni della stella? Un team di ricercatori guidati dal Flatiron Institute, negli Usa, pare abbia trovato la risposta: ad essere responsabile dello schema di luminosità – chiamato dagli addetti ai lavori periodo secondario lungo, Long secondary period (Lsp) in inglese – potrebbe essere la presenza di una stella compagna che le orbita attorno.

I ricercatori hanno chiamato questa ipotetica stella “Betelbuddy“, amica di Betelgeuse in italiano, e nel sistema agirebbe come uno spazzaneve: mentre orbita attorno a Betelgeuse lungo la nostra linea di vista, la stella – denominata formalmente Alpha Ori B – spazzerebbe via le polveri che la circondano, impedendogli di bloccare la luce in arrivo e facendo apparire ciclicamente Betelgeuse più luminosa.

Nello studio, accettato per la pubblicazione sulla rivista The Astrophysical Journal, i ricercatori hanno indagato diversi meccanismi e circostanze in grado di causare la variabilità a lungo termine della luminosità di Betelgeuse: celle convettive giganti, rotazione differenziale, magnetismo, e persino la presenza di una stella compagna.

Dopo aver combinato i dati di osservazioni dirette di Betelgeuse con modelli computerizzati avanzati che simulano l’attività della stella, il team ha concluso che l’esistenza di “Betelbuddy” è di gran lunga la spiegazione più probabile. Betelgeuse, dunque, potrebbe far parte di un sistema binario.

«Non ha funzionato nient’altro», dice Jared Goldberg, ricercatore al Flatiron Institute e primo autore dello studio. «Se non c’è Betelbuddy, allora significa che c’è qualcosa di molto più strano in atto, qualcosa di impossibile da spiegare con la fisica attuale».

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Infografica che descrive come Betelbuddy potrebbe influenzare la luminosità apparente di Betelgeuse. Crediti: Lucy Reading-Ikkanda/Simons Foundation

I ricercatori devono ancora stabilire cosa sia esattamente Betelbuddy, ma presumono che si tratti di una stella con una massa pari a quasi due volte quella del Sole, distante da Betelgeuse circa 1 miliardo e 300 milioni di chilometri.

«A parte i vincoli orbitali e di massa, è difficile dire cosa sia effettivamente la stella compagna» sottolinea Meridith Joyce, ricercatrice dell’Università del Wyoming, negli Usa, e co-autrice dello studio. «Una stella simile al Sole è il tipo di compagna più probabile, ma questa non è affatto una risposta definitiva. Un’ipotesi più esotica che personalmente mi piace» aggiunge a questo proposito la ricercatrice, «è che la compagna sia una stella di neutroni, ovvero il nucleo di una stella che è già esplosa come supernova. Se così fosse, potremmo ottenere delle evidenze con delle osservazioni in banda X, che però non abbiamo. Dovremmo dunque guardarci di nuovo».

Con il miglioramento della sensibilità degli strumenti dotati di potenti coronografi e di sistemi di ottica adattiva progettati per la ricerca di pianeti, concludono i ricercatori, possiamo essere ottimisti sul fatto che in futuro la stella compagna sarà rilevabile. Attualmente, dicono, la migliore possibilità di confermare o confutare la sua esistenza è mediante osservazioni radio-interferometriche mirate, ripetute e continue durante tutto il ciclo di variabilità a lungo termine.

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Concorso “A Gianni Rodari”, il tema è la Luna


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Crediti: Wikimedia Commons

Dopo il successo delle precedenti edizioni, l’Istituto nazionale di astrofisica rilancia il concorso “A Gianni Rodari, via Lattea, quaraquarinci” dedicato alle studentesse e agli studenti della scuola primaria e secondaria di primo grado, che possono partecipare sia in maniera individuale che per classi. L’iniziativa parte ufficialmente oggi, mercoledì 23 ottobre, in occasione dei 100 più 4 anni dalla nascita di Gianni Rodari, e sarà aperta fino alle ore 20 di lunedì 23 dicembre 2024.

Il concorso è a cura di Elena Zucca, Adamantia Paizis, Federica Duras, Anna Wolter e Giuliana Giobbi del Gruppo storie dell’Inaf, che dal 2020 si occupa della valorizzazione del patrimonio artistico e letterario dell’Ente e della creazione di nuovi progetti. Per l’edizione di quest’anno, le organizzatrici hanno selezionato un tema affascinante, misterioso e di grande attualità: partire dalle parole di Rodari per sviluppare un racconto, in prosa o in versi, sulla Luna. Di accattivante non c’è solo il tema: la sfida di quest’anno ruota intorno a un indovinello, da inventare e rendere parte integrante del componimento.

«Questo concorso è un’iniziativa molto creativa, non solo per chi partecipa ma anche per noi dell’organizzazione», dice Elena Zucca, «ogni anno è una bella prova pensare a un tema astronomico e a una nuova sfida in stile rodariano, che possano coinvolgere e appassionare le giovani menti».

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Locandina del Concorso Rodari. Crediti: E. Bussolati

I partecipanti potranno trovare ispirazione per le proprie opere attingendo al materiale sulla Luna scritto appositamente per il concorso ospitato nelle pagine di EduInaf e, novità di quest’anno, anche ascoltando le parole di due esperti del tema. Infatti, il 22 novembre, a partire dalle 15:30, il ricercatore dell’Inaf di Roma Federico Tosi e Meganne Christian, membro della riserva degli astronauti e astronaute dell’agenzia spaziale europea, parleranno della Luna e del futuro della sua esplorazione spaziale, offrendo spunti e stimolando la curiosità di chi accetterà di lanciarsi in questa sfida.

Tutti i dettagli, le istruzioni, il materiale per partecipare e le informazioni sulla diretta saranno disponibili su EduInaf a partire dal 23 ottobre. Come gli scorsi anni, le opere presentate in conformità con le richieste del bando saranno pubblicate al termine del concorso sulle pagine del magazine. Le opere saranno valutate da una giuria di esperti composta da Elena Zucca, Sandro Bardelli, Francesca Brunetti, Marco Castellani e Laura Paganini del Gruppo storie Inaf e da due membri esterni, ormai fedeli all’iniziativa sin dalla prima edizione: Emanuela Bussolati, autrice, illustratrice e ideatrice di libri e collane per bambini, e Cesare Sottocorno, docente e conoscitore dell’opera di Gianni Rodari. Per quanto riguarda i premi, ogni testo vincente si aggiudicherà un bellissimo libro (uno per opera) e un quaderno tascabile dedicato al Concorso Rodari (uno per autrice-autore dell’opera vincitrice).

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Giochi e sfide astronomiche sbarcano a Genova


Grafica ufficiale 2024. Crediti: Festival della Scienza
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La grafica ufficiale della 22esima edizione del Festival. Crediti: Festival della Scienza

Laboratori interattivi, spettacoli teatrali, conferenze e giochi anni ‘90: dal 24 ottobre al 3 novembre a Genova, raggi gamma, onde gravitazionali, stelle, pixel, buchi neri, e tante altre affascinanti curiosità scientifiche e astronomiche, saranno protagonisti degli eventi promossi dall’Istituto Nazionale di Astrofisica alla 22esima edizione del Festival della Scienza. Parola chiave “sfide”, per trasformare di nuovo la città di Genova nel cuore pulsante della divulgazione scientifica.

Il tema di quest’anno invita a riflettere sulle grandi domande scientifiche e le difficoltà da affrontare per svelare i misteri del cosmo. Grazie agli appuntamenti proposti dall’Inaf il Festival diventa un’occasione imperdibile per mettere in luce le sfide e le scoperte dell’astrofisica moderna. Tra gli eventi di punta di quest’anno vi segnaliamo i laboratori di astronomia proposti da Inaf per tutte le due settimane della kermesse. Con “A caccia di fotoni gamma: Gli eventi più violenti dell’Universo, il pubblico può viaggiare nel deserto di Atacama, in Cile, e alle Isole Canarie, dove è in costruzione il Cherenkov Telescope Array Observatory (CTAO), un imponente insieme di oltre 60 telescopi progettati per studiare i raggi gamma, particelle di altissima energia prodotte dalle esplosioni cosmiche più potenti.

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Il laboratorio sui raggi gamma e il Cherenkov Telescope Array Observatory (CTAO) propone viaggi nella realtà virtuale. Crediti: Inaf

Questo laboratorio interattivo, arricchito dalla realtà virtuale, permette ai visitatori di esplorare da vicino le sorgenti celesti che emettono fotoni gamma, “toccando con mano” modelli delle sorgenti cosmiche e partecipando a un gioco scientifico che riproduce il lavoro dei ricercatori: identificare la fonte cosmica responsabile dell’emissione dei raggi gamma. Il laboratorio, a cura di Indaco – Inaf per la Divulgazione di Astri e Cta Observatory, include anche l’affascinante esperienza del planetario gonfiabile, per poter osservare la volta celeste comodamente seduti a terra.

E ora, vi ricordate il pulcino virtuale del tamagotchi? Negli anni ’90 era una vera e propria mania…bene, togliete il pulcino, e metteteci protostelle, supernove e buchi neri. A Palazzo Ducale, sempre dal 24 ottobre al 3 novembre, il laboratorio “Astro-Tamagotchi”, ideato dal gruppo Play Inaf, invita bambini e adulti a partecipare a un’avventura cosmica dove è possibile assistere alla nascita e alla crescita di una stella, partendo da una nube di gas e polvere interstellare. I partecipanti devono prendersi cura della ”stella neonata”, guidandola attraverso le diverse fasi della sua evoluzione. Ogni fase di crescita è un’occasione per imparare divertendosi, in un contesto immersivo che unisce gioco e scienza, grazie al coding e alla realtà virtuale.

Anche “PIXEL – Picture (of) the Universe” è un laboratorio declinato come un gioco educativo, che esplora il concetto di risoluzione delle immagini astronomiche e che spiega come le immagini a bassa o alta risoluzione possono influenzare la nostra comprensione dell’universo. Allestito a Palazzo del Principe, e curato da Inaf in collaborazione con il Game Science Research Center, il laboratorio è un’occasione unica per sperimentare il processo di indagine scientifica e comprendere l’importanza del dettaglio nelle immagini celesti.

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La grafica in stile “steam punk” del laboratorio “Astro Tamagotchi” ideato dal gruppo Play Inaf. Crediti: Daniela Paoletti/Inaf

Per una serata diversa, magari tra stelle e musica, vi consigliamo lo spettacolo-conferenza “Donne in ascolto del cosmo: La rivoluzione multimessaggera in voci e musica”, previsto per il 26 ottobre alle 21.00 a Palazzo Ducale. Silvia Piranomonte dell’Inaf, e Pia Astone dell’Infn, tra le scienziate protagoniste della scoperta delle onde gravitazionali, saranno al centro della narrazione, accompagnata da immagini spettacolari dell’universo e dalla musica – una musica creata “sonificando” dati reali. Un’esperienza imperdibile unire scienza e arte. L’evento è stato ideato in collaborazione con Ego, lo European Gravitational Observatory, e l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare.

Andrà invece scena il 30 ottobre al Teatro della Tosse “Crazy Space. Viaggio improvvisato nello spazio spettacolo” con Debora Fedrigucci, Carlo Felici, Alessio Granato, Francesca Panessa (dell’Inaf) e Tiziano Storti: uno spettacolo che unisce divulgazione scientifica e improvvisazione teatrale. A bordo di un’astronave, una troupe guidata dalla “Capitana” esplorerà il Sistema Solare e la Via Lattea, arrivando fino a un misterioso pianeta extrasolare. Il viaggio è imprevedibile e interattivo: ogni tappa prevede un gioco d’improvvisazione in cui il pubblico è direttamente coinvolto, diventando parte della narrazione.

Se non siete ancora sazi di scienza, cosmo e missioni spaziali, vi proponiamo l’intero calendario di eventi e appuntamenti a tema astronomico nella sezione EduInaf dedicata al Festival.

Insomma, che si tratti di esplorare l’universo attraverso la realtà virtuale, coccolare una stella o ascoltare le voci dei nostri ricercatori e delle nostre ricercatrici, l’esperienza offerta è un invito a guardare il cielo con occhi nuovi.

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Tre famiglie di asteroidi all’origine delle meteoriti


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Dai dati dei satelliti militari statunitensi sappiamo che, in media, ogni due settimane un piccolo meteoroide dell’ordine di un metro di diametro cade nell’atmosfera terrestre. Questa tipologia di corpi sono per la stragrande maggioranza di natura rocciosa e, arrivando in atmosfera a velocità di circa 15-20 km/s, creano un’onda d’urto in cui l’aria viene compressa, riscaldata e ionizzata a spese dell’energia cinetica del meteoroide. Il plasma atmosferico ad alta temperatura riscalda e vaporizza la superficie del meteoroide che va incontro a un fenomeno di perdita di massa, noto come ablazione. A un certo punto, quando la pressione dell’onda d’urto supera la forza di coesione (in inglese strength) del corpo, si possono verificare una o più frammentazioni e ogni frammento macroscopico prosegue in modo indipendente la caduta verso il suolo continuando a perdere velocità. Quando i frammenti arrivano alla velocità di circa 3 km/s inizia la fase di volo buio e, sballottati dai venti della troposfera, cadono in un’area al suolo nota come area di dispersione (in inglese strewn field). I frammenti superstiti del meteoroide originario sono le meteoriti che possiamo ammirare nei musei. In nove casi questi piccoli meteoroidi sono stati scoperti con i telescopi adibiti alle survey degli asteroidi near-Earth (Nea) poche ore prima di collidere con la Terra, e hanno ricevuto una designazione asteroidale. Il primo caso è stato 2008 TC3 nell’ottobre 2008, associato alla meteorite Almahata Sitta, mentre uno degli ultimi è stato l’asteroide 2024 BX1, caduto nel gennaio 2024 e associato alla meteorite Ribbeck. Delle circa 70.000 meteoriti raccolte sulla terra, solo di una cinquantina si conosce l’orbita che aveva il meteoroide prima di cadere. Si tratta sempre di orbite di tipo asteroidale: non ci sono meteoriti associate a un’orbita cometaria.

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Rappresentazione artistica della collisione catastrofica fra due asteroidi della Fascia Principale, il meccanismo alla base della formazione delle famiglie di asteroidi. Crediti Nasa/Jpl.

Secondo il paradigma attuale, i meteoroidi genitori delle meteoriti si sono formati milioni di anni fa in seguito a collisioni tra gli asteroidi della Fascia Principale (che si trova nella regione di spazio compresa fra le orbite dei pianeti Marte e Giove), che hanno dato origine alle diverse famiglie di asteroidi: gruppi di corpi che hanno parametri orbitali e spettrali simili, e che con molta probabilità un tempo facevano parte dello stesso asteroide andato incontro a collisione catastrofica con un altro asteroide. In seguito, a causa delle risonanze orbitali di moto medio con Giove e dell’effetto Yarkovsky, i frammenti della collisione sono stati immessi su orbite di tipo Nea, che li hanno portati a cadere sulla Terra e a generare le meteoriti. Questa è la stessa origine che hanno avuto gli asteroidi near-Earth: i meteoroidi responsabili delle meteoriti sono i “fratellini minori” della popolazione dei Nea. In effetti, se si considera la distribuzione delle dimensioni, non c’è discontinuità fra i meteoroidi metrici e i Nea di dimensioni decimetriche o chilometriche. Provengono tutti dall’evoluzione collisionale della Fascia Principale. In generale, anche conoscendo l’orbita dei meteoroidi metrici, è difficile identificare con certezza quali siano le famiglie di asteroidi della Fascia Principale progenitori delle meteoriti, anche se circa un 25% dei meteoroidi genitori può avere un’origine collisionale direttamente dalla popolazione dei Nea. Il problema è che le orbite dei Nea sono caotiche, quindi propagando l’orbita del meteoroide indietro nel tempo si arriva a un punto in cui non si sa più da dove provenga l’asteroide. Questo determina il mistero sull’origine delle meteoriti: sappiamo che provengono dalla Fascia Principale, ma non conosciamo quali siano le famiglie di origine, anche per le categorie più numerose. Solamente per il 6 per cento delle circa 70.000 meteoriti è stato possibile identificare il corpo progenitore in base alla composizione chimica: parliamo delle acondriti provenienti da Luna, da Marte o dall’asteroide Vesta, uno dei più grandi della Fascia Principale. La fonte dell’altro 94% delle meteoriti, la maggior parte dei quali sono condriti ordinarie, è ancora non identificata.

Le condriti ordinarie sono divise in tre categorie distinte dal punto di vista chimico e mineralogico, in base al loro contenuto di ferro. Le condriti H (che sono il 42,5% delle condriti ordinarie) hanno la quantità più elevata di ferro, le condriti L (che rappresentano il 46,2%) hanno una quantità intermedia di ferro, mentre le condriti LL (che sono solo l’11,3%) hanno la quantità più bassa di ferro. Già da questa variazione della quantità di ferro è chiaro che le condriti ordinarie devono aver avuto origine almeno da tre corpi progenitori distinti, che hanno generato poi i gruppi H, L e LL. Tuttavia, c’è subito un enigma da risolvere, che deriva dall’incoerenza fra il numero di Nea con una certa composizione e quella delle condriti ordinarie. I Nea simili alle condriti di tipo L sono sette volte meno abbondanti delle loro controparti simili alle condriti LL, però – come abbiamo visto – le meteoriti del tipo condrite L sono un fattore 4,5 più abbondante delle condriti LL. Come si può conciliare questa apparente contraddizione? Alcune condriti di tipo L venivano associate all’asteroide (161) Athor, mentre la numerosa famiglia Flora, che si trova nella parte interna della fascia principale e ha un’età di circa 200 milioni di anni, è un buon candidato per essere l’origine delle condriti ordinarie di tipo LL. La probabile fonte delle condriti ordinarie di tipo H è invece il grande asteroide (6) Hebe (diametro 195 km), situato adiacente sia alla risonanza secolare ν6 con Saturno che alla risonanza di moto medio 3:1 con Giove, una condizione che permette il rapido trasferimento verso il Sole di eventuali frammenti da collisione.

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Differenza fra le famiglie di asteroidi nuove (alto) e vecchie (basso): le prime sono molto più ricche di polvere e meteoroidi metrici, mentre nelle seconde restano solo gli gli asteroidi chilometrici, che diventano NEA con tempi scala maggiore dei corpi più piccoli. Crediti: Nature, 2024.

Questo era lo stato della conoscenza recente, ma la ricerca va avanti e due team guidati da Miroslav Brož (Institute of Astronomy, Prague, Czech Republic) e Michael Marsset (Eso, Mit), hanno mostrato che la maggior parte delle condriti ordinarie hanno avuto origine da poche e giovani famiglie di asteroidi, il che significa che sono i frammenti di collisioni avvenute solo milioni o poche decine di milioni di anni fa. I due articoli sono strettamente intrecciati, anche i team si sovrappongono parzialmente, e sono stati pubblicati sullo stesso numero di Nature.

Il team di Brož ha iniziato considerando l’età di esposizione ai raggi cosmici delle meteoriti (cosmic-ray exposure o Cre) che, grosso modo, indica da quanto tempo il meteoroide si è staccato dal corpo genitore prima di collidere con la Terra, e confrontandola con le età delle famiglie asteroidali note nella Fascia Principale. Circa il 40% di tutte le condriti H hanno una Cre relativamente bassa, compresa nell’intervallo 5-8 milioni di anni. Questa giovane età (per una meteorite), indica una frammentazione molto recente. La famiglia di Karin, una parte della famiglia di Koronis, è l’unica famiglia nota ad avere un’età di 5,8 milioni di anni e cade in questo intervallo. Anche se questa questa famiglia può spiegare una parte delle condriti ordinarie di tipo H, difficilmente può spiegare le età delle condriti ordinarie più antiche e abbondanti che cadono nel range 7-8 milioni di anni. Andando alla ricerca di altre possibili famiglie di asteroidi per giustificare la Cre più elevata delle H i ricercatori hanno identificato tre cluster di asteroidi sempre all’interno della famiglia di Koronis con un’età di 7,6 milioni di anni, un valore adeguato per spiegare le H più vecchie. La famiglia di Karin e Koronis2 hanno l’inclinazione orbitale giusta (circa 2,1°), per spiegare le bande di polvere scoperte dal satellite infrarosso Iras nel 1983. Molto probabilmente queste bande di polvere sono state create in seguito alla formazione recente delle due famiglie e la presenza di polvere e meteoroidi è coerente con la giovane età stimata in base alla dispersione degli elementi orbitali. Per determinare se il numero di questi corpi di dimensioni metriche supera il numero di corpi presenti nelle più grandi famiglie di tipo S presenti nella Fascia Principale (Agnia, Eunomia, Flora, Gefion, Juno, Koronis, Massalia, Maria, Merxia, Nysa e Phocaea), è stato utilizzato un modello collisionale con un approccio statistico del tipo Monte Carlo, per estrapolare la frequenza delle dimensioni fino a un metro di diametro, quello tipico dei meteoroidi associati alle meteoriti. Con il modello è stata riprodotta l’evoluzione orbitale delle famiglie di asteroidi di tipo S (tenendo conto delle perturbazioni gravitazionali dei pianeti, degli asteroidi maggiori e dell’effetto Yarkowsky) e si è trovato che le famiglie di Karin e Koronis2 sono in grado di fornire un numero di meteoroidi metrici che possono colpire la Terra che è un fattore 10 superiore alle altre famiglie. L’abbondanza dei meteoroidi metrici risulta maggiore del numero totale di Nea di dimensioni metriche provenienti dalle famiglie Vesta e Flora, in accordo con le statistiche sulla caduta di meteoriti. In sostanza, dalle simulazioni risulta che solo le famiglie più recenti, con età non superiore a 40 milioni di anni, e generate dalla distruzione di asteroidi con almeno 30 km di diametro possono dare un effettivo contributo alla popolazione di asteroidi metrici e quindi alle meteoriti. Le famiglie più vecchie si sono già impoverite della popolazione più piccola e numerosa e possono contribuire solo con i frammenti maggiori che però sono pochi e quindi (per nostra fortuna), cadono raramente sulla Terra. Per Nea di dimensioni chilometriche, le famiglie Phocaea, Juno e Flora sono di gran lunga le principali fonti di asteroidi di tipo H, L e LL, rispettivamente. Per dimensioni metriche, le famiglie Karin (H), Koronis2 (H), Massalia2 (L) e Flora (LL) sono di gran lunga le principali fonti di meteoriti di tipo H, L e LL. Da dove esce la famiglia Massalia2? Questa domanda ci porta al secondo articolo.

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Un confronto fra i NEA di tipo S e le meteoriti. Le popolazioni simulate con il modello hanno una composizione che concorda con quanto osservato, sia per i NEA di tipo S, sia per le meteoriti. Crediti: Broz et al., Nature 2024.

Il team di Marsset si è concentrato sull’origine delle condriti ordinarie di tipo L. Studi sulle micrometeoriti presenti nei calcari del medio Ordoviciano e i crateri da impatto sulla Terra indicano che il nostro pianeta ha subito un massiccio bombardamento di condriti ordinarie di tipo L circa 466 milioni di anni fa. Viene logico supporre che questo evento sia dovuto alla frammentazione di un grande asteroide nella Fascia Principale, e ancora oggi i frammenti di questa collisione sono dominanti perché le condriti L sono le più abbondanti. Per identificare l’asteroide genitore delle condriti L, il team ha condotto osservazioni spettroscopiche per tutte le principali famiglie di asteroidi di tipo S presenti nella Fascia Principale. Gli spettri medi di ciascuna famiglia di asteroidi sono stati de-arrossati utilizzando una funzione di arrossamento empirica per tenere conto dello space weatering, ossia dell’invecchiamento della superficie dovuto all’esposizione al bombardamento di micrometeoroidi, raggi cosmici e alla radiazione UV e X solare.

I risultati hanno confermato quanto già si conosceva sulla mineralogia delle famiglie di tipo S. In particolare, è stato confermato che le famiglie Merxia, Agnia, Maria e Koronis hanno una mineralogia molto simile alle condriti di tipo H, Gefion alle condriti di tipo L, mentre Juno sembra essere intermedia tra L e LL, infine Flora ed Eunomia corrispondono meglio a una mineralogia di tipo condrite LL. Ci sono, tuttavia, due notevoli eccezioni rispetto agli studi precedenti: le famiglie Phocaea e Massalia. Il membro più grande della famiglia Phocaea, l’asteroide (25) Phocaea, è coerente con la composizione delle condriti LL e, molto probabilmente, si tratta di un intruso in una famiglia dominata dal tipo H. Al contrario, il membro più grande della famiglia Massalia, l’asteroide (20) Massalia (145 km di diametro), come composizione rientra nel picco della distribuzione delle condriti di tipo H. Tuttavia, l’analisi degli spettri rivela che i membri minori della famiglia hanno una composizione coerente con le condriti L. La scoperta di piccoli asteroidi della famiglia Massalia con una composizione simile alle condriti di tipo L li rende il candidato principale a essere la sorgente di queste meteoriti. Questa famiglia infatti è vicino alla risonanza secolare ν6 e alla risonanza di moto medio 3:1 con Giove, due risonanze molto efficaci nel portare asteroidi verso il Sistema Solare interno. L’identificazione di Massalia2 come fonte delle condriti di tipo L e l’associazione della famiglia con la banda di polvere scoperta da Iras con inclinazione di 1,4° risolve l’enigma sulle abbondanze asteroide-meteorite che abbiamo visto nel caso delle condriti di tipo L e LL. L’apparente contraddizione è spiegata dal fatto che Massalia2 è più giovane e ha un’abbondanza di meteoroidi metrici maggiore rispetto alla famiglia di Flora, quindi i meteoroidi di tipo L sono maggiori degli LL e di conseguenza lo sono le meteoriti, mentre i Nea più grandi provengono in ugual modo da Massalia e Flora. Quanto detto è confermato analizzando numericamente l’evoluzione della famiglia di Massalia: il team ha trovato un’età di circa 450 milioni di anni, in accordo con le ricerche precedenti. Tuttavia, la presenza della banda di polvere con inclinazione di 1,4° ci dice che (20) Massalia deve avere subito una seconda collisione più recente che le simulazioni pongono a circa 40 milioni di anni fa, in accordo con l’esposizione ai raggi cosmici delle condriti di tipo L. Se il risultato è corretto, su (20) Massalia ci si aspetta di trovare due grandi bacini da impatto, ognuno responsabile di una famiglia, in modo analogo a quello che è stato trovato su (4) Vesta. A quando una missione spaziale verso questo intrigante asteroide?

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Vado al massimo: siamo all’apice del ciclo solare


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La scorsa settimana la Nasa, la National Oceanic and Atmospheric Administration (Noaa) e l’International Solar Cycle Prediction Panel hanno annunciato che il Sole ha raggiunto il periodo di massimo solare, che potrebbe continuare anche il prossimo anno.

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Immagini del Solar Dynamics Observatory della Nasa che confrontano il Sole durante un periodo di minimo dell’attività (dicembre 2019), con l’attuale periodo di massimo (maggio 2024). Le immagini sulla riga superiore, in luce visibile, mostrano l’aumento delle macchie solari con l’intensificarsi dell’attività magnetica; mentre le due immagini sulla riga in basso, ottenute alle frequenze dell’ultravioletto estremo, mostrano le regioni attive sulla superficie del Sole, anch’esse in aumento durante il massimo. Crediti: NASA/SDO

Per capire di cosa stiamo parlando, vi basterà guardare le immagini qui a fianco. Le due viste del Sole sulla sinistra sono state scattate nel dicembre 2019, quando il Sole si trovava al minimo del proprio ciclo di attività, mentre le due sulla destra sono state scattate a maggio di quest’anno, al massimo dell’attività. Le prime due immagini del Sole, quelle sul pannello più alto, sono state scattate dal Solar Dynamics Observatory della Nasa, e mostrano l’aumento nel numero di macchie solari al variare dell’attività solare, uno dei metodi che gli scienziati usano per tracciare proprio il progredire del ciclo solare. Anche le seconde due viste del Sole, nel pannello più in basso, sono state scattate dalla sonda della Nasa, ma questa volta usando un filtro che lascia passare le frequenze dell’ultravioletto estremo, attraverso le quali si possono vedere le regioni in attività sulla superficie della nostra stella. La vista, in questo caso, già dice tutto su quale sia la differenza fra il minimo e il massimo.

Ma torniamo un attimo indietro, e vediamo cos’è e quanto dura il ciclo di attività del Sole.

Si tratta di un ciclo naturale originato dal variare dell’attività magnetica del Sole attraversa. Circa ogni 11 anni, al culmine del ciclo solare – coincidente con il culmine dell’attività magnetica del Sole – i poli magnetici del Sole si invertono e il Sole passa da uno stato di calma a uno stato attivo e tempestoso. Sulla Terra sarebbe come se i poli Nord e Sud si scambiassero di posto ogni decennio. La Nasa e il Noaa, per determinare e prevedere l’andamento del ciclo solare tengono traccia delle macchie solari. Tornando alle prime due immagini, le macchie solari sono quelle zone scure sulla superficie del Sole (visibili nel primo pannello, in alto a destra). Sono regioni più fredde che nascono quando si verifica una concentrazione di linee di campo magnetico. Le macchie solari sono la componente visibile delle regioni attive, cioè quelle aree in cui il campo magnetico è particolarmente intenso e complesso e dal quale scaturiscono le eruzioni solari.

«Durante il massimo solare, il numero di macchie solari e quindi l’attività solare aumentano», spiega Jamie Favors, direttore del programma meteorologico spaziale presso la sede centrale della Nasa a Washington. «Questo aumento dell’attività offre un’entusiasmante opportunità di conoscere la nostra stella più vicina, ma provoca anche effetti reali sulla Terra e in tutto il nostro Sistema solare».

Ebbene sì, l’attività magnetica del Sole si ripercuote nello spazio – quello che in gergo viene definito space weather – e può influenzare i satelliti e gli astronauti nello spazio, nonché i sistemi di comunicazione e navigazione (come radio e Gps) e le reti elettriche sulla Terra. Quando il Sole è più attivo, gli eventi meteorologici spaziali sono più frequenti. Per citarne uno, negli ultimi mesi c’è stato un aumento della visibilità delle aurore e a impatti su satelliti e infrastrutture.

Nel maggio 2024, una raffica di grandi brillamenti solari e di espulsioni di massa coronale ha lanciato nubi di particelle cariche e campi magnetici verso la Terra, creando la tempesta geomagnetica più forte degli ultimi vent’anni – e forse una delle più forti aurore degli ultimi 500 anni. Tuttavia, non è detto che il picco di questo ciclo solare sia già stato raggiunto, anzi, gli scienziati non saranno in grado di determinare l’esatto picco di questo periodo di massimo solare per molti mesi, poiché l’unico modo per identificarlo è osservare un declino costante dell’attività solare dopo il picco. Quello che si sa, per ora, è che negli ultimi due anni il Sole si trova in una fase attiva, osservabile chiaramente nel numero di macchie solari sempre elevato. Secondo le previsioni, questa fase di massimo durerà ancora un anno circa, dopodiché il Sole entrerà in una fase di declino, e giungerà al minimo.

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Infografica sullo space weather realizzata dal progetto Sorvegliati spaziali dell’Inaf. Crediti: Inaf, Sorvegliati spaziali

«L’attuale Ciclo Solare è stato e continua a essere una sorpresa: si pensava che sarebbe stato di intensità media e simile al ciclo precedente, invece ha superato le aspettative. Il fatto che le luci aurorali si siano manifestate per ben quattro volte in Italia a partire da novembre 2023 ne è stato testimone e ci ricorda quanto siamo connessi a tale attività», dice a Media Inaf Daria Guidetti, ideatrice e coordinatrice del progetto Sorvegliati spaziali dell’Inaf. «Le aurore ne sono le manifestazioni belle, ma poi possono esserci anche effetti meno piacevoli provocati da flussi elevati di particelle solari e radiazione elettromagnetica entrambi di alta energia: disturbi e/o danni alla strumentazione dei satelliti, rischi per gli astronauti, interruzioni nelle comunicazioni radio e del sistema Gps. Effetti spiacevoli possono esserci anche a terra, per esempio a causa di correnti elettriche indotte in grado di danneggiare i trasformatori di alta tensione che a loro volta possono causare interruzioni nella distribuzione dell’energia elettrica. Sorvegliati spaziali ha recentemente ampliato il suo team e, oltre ai bollettini solari quotidiani e mensili che già forniamo, stiamo preparando un nuovo prodotto dedicato proprio a sensibilizzare il pubblico sulle attività solari e sulle conseguenze pratiche nella vita di tutti i giorni. Stay tuned».

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Pianeta roccioso in orbita attorno a una nana bianca


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Rappresentazione artistica di pianeta roccioso in orbita attorno a una nana bianca. Crediti: W. M. Keck Observatory/Adam Makarenko

Magari arrivare alla sua età in quello stato… Quante volte lo abbiamo pensato, incontrando persone lucidissime e in perfetta forma nonostante gli anni. Lo stesso potrebbe dire ora la Terra osservando a quattromila anni luce da noi, in direzione della costellazione del Sagittario, il pianeta roccioso Kmt-2020-Blg-0414Lb: quanto di più vicino sia mai stato scoperto a ciò che potrebbe essere il nostro pianeta fra otto miliardi di anni.

Di massa analoga a quella della Terra, molti miliardi di anni fa questo lontano mondo si trovava infatti in orbita attorno a una stella simile al Sole. Stella andata poi incontro alla sorte che accomuna tutti gli astri di massa analoga: esaurito il suo combustibile nucleare, è diventata una nana bianca. Non senza però attraversare prima una fase breve e concitata da gigante rossa, che l’ha vista espandersi in modo esagerato fino a lambire, se non addirittura superare, un’orbita corrispondente a quella della Terra. Ecco dunque la buona notizia: nonostante questi trascorsi tumultuosi e potenzialmente fatali, il pianeta è ancora lì. E questo dà qualche speranza anche al nostro, di pianeta, che fra qualche miliardo di anni si troverà inevitabilmente ad affrontare un’odissea simile.

La scoperta, guidata dalle università californiane di San Diego e Berkeley e pubblicata a fine settembre su Nature Astronomy, ha richiesto parecchio impegno e l’aiuto di una piccola lente gravitazionale. Anzi, il pianeta stesso e la sua stella (nome in codice, Kmt-2020-Blg-0414L), che si trovano a circa quattromila anni luce da noi, hanno fatto da “lente”, ingrandendo e distorcendo la luce di un’altra stella sulla sfondo, a circa 25mila anni luce. Ed è stato proprio questo fenomeno d’ingrandimento – detto evento di microlensing – ad aver tradito la nana bianca e il suo mondo sopravvissuto, svelandone la presenza, nel 2020, a una rete coreana di telescopi: osservando l’effetto indotto sulla luce proveniente dalla stella più remota, è emerso che attorno alla nana bianca in primo piano c’erano in orbita almeno due corpi, uno dei quali – il protagonista della nostra storia, appunto – di massa pari ad appena 1.6 volte quella della Terra.

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Il lontano sistema planetario, situato vicino al rigonfiamento al centro della nostra galassia, ha attirato l’attenzione degli astronomi nel 2020, quando transitando davanti a una stella sullo sfondo l’ha ingrandita di un fattore 1000 (pannello b) rispetto a come appare nelle osservazioni precedenti (a) e successive (c). Nel corso dell’evento di microlensing, la gravità del sistema ha agito come una lente, focalizzando e amplificando la luce della stella di fondo. Crediti: Ogle, Cfht, Keck Observatory

Già in passato, va detto, erano stati osservati, attorno a nane bianche, oggetti sopravvissuti alla fase di gigante rossa. Ma erano mondi molto più grandi e presumibilmente distanti, giganti gassosi come Giove e Saturno. Oppure frammenti di mondi che furono, come le 65 nubi di detriti planetari viste attorno alla stella Wd1054-226, o il planetesimo scoperto da astronome e astronomi dell’Inaf nel 2019. Questo descritto ora su Nature Astronomy è invece in assoluto primo potenziale mondo roccioso osservato in orbita attorno a una nana bianca.

Va detto che, se anche il pianeta è sopravvissuto, lo stesso non si può certo dire per eventuali forme di vita un tempo lì presenti, viste le condizioni estreme alle quali è stato sottoposto. A questo proposito il primo autore dello studio, Keming Zhang della Uc San Diego, osserva però che se la Terra, tra qualche miliardo di anni, dovesse essere inghiottita durante la fase di gigante rossa del Sole, l’umanità potrebbe magari trovare rifugio in alcune delle lune del Sistema solare esterno, in particolare Europa, Callisto, Ganimede o Encelado.

«Quando il Sole diventerà una gigante rossa, la zona abitabile si sposterà intorno all’orbita di Giove e Saturno e molte di queste lune diventeranno pianeti oceano», prevede Zhang. «Penso che, in questo caso, l’umanità potrebbe migrare lì».

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Guarda l’animazione sul canale YouTube dell’’Università di Berkeley:

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Nuove frontiere dell’ingegneria medica sulla Iss


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Quattro bioreattori “Tissue Orb” brevettati all’interno di un hardware per il volo spaziale. Questa configurazione sarà lanciata nello spazio e installata nella Stazione spaziale internazionale durante il primo esperimento di volo nel febbraio 2025. Crediti: Tammy T. Chang

L’ingegneria tissutale e la rigenerazione degli organi sono il futuro della pratica chirurgica. In particolare, la generazione di nuovi tessuti a partire da cellule staminali pluripotenti potrebbe, in alcuni casi, diventare una soluzione alternativa al trapianto o consentire l’impianto di organi ingegnerizzati ex vivo. Questo il riassunto di quanto scrive, a proposito del proprio lavoro di ricerca, Tammy T. Chang, professoressa di chirurgia al Chang Laboratory for Liver Tissue Engineering della University of California, San Francisco. In questi giorni, all’American College of Surgeons Clinical Congress 2024, Chang sta presentando il progetto di nuovi test di laboratorio che potrebbero segnare una svolta nel settore. Il laboratorio in questione, però, non è il suo, ma quello della Stazione spaziale internazionale (International Space Station, Iss), in cui Chang e il suo gruppo intendono sfruttare la microgravità far crescere nuove cellule epatiche superando alcuni limiti imposti dai laboratori terrestri.

«I nostri risultati indicano che le condizioni di microgravità consentono lo sviluppo di tessuti epatici con una migliore differenziazione e funzionalità rispetto a quelli coltivati sulla Terra», dice Chang. «Questo rappresenta un passo fondamentale verso la creazione di impianti di tessuto epatico praticabili che potrebbero servire come alternativa o aggiunta ai trapianti di fegato tradizionali».

Gli esperimenti di autoassemblaggio di tessuto epatico già condotti da Chang in microgravità, così come quelli che verranno portati nella Iss, utilizzano cellule staminali pluripotenti indotte (induced pluripotent stem cells, ipsc). Queste cellule si creano a partire da cellule umane normali riprogrammate per agire come cellule staminali embrionali. Significa che le ipsc possono trasformarsi in molti tipi diversi di cellule. Nel caso specifico, queste cellule sono state fatte crescere in tessuti epatici in microgravità che funzionano come un fegato più piccolo e più semplice. A differenza dei metodi di ingegneria tissutale sulla Terra, che si basano su matrici esogene o piastre di coltura, la microgravità consente alle cellule di fluttuare liberamente e di organizzarsi in modo naturale, dando vita a tessuti fisiologicamente più accurati. Non solo, l’uso di matrici artificiali per fornire una struttura su cui far crescere le cellule porta con sé dei lati negativi, perché l’introduzione di materiali esterni può alterare la funzione cellulare.

Per far crescere queste cellule in microgravità sulla Iss, il team di Chang ha sviluppato un bioreattore ad hoc, chiamato “Tissue Orb”, progettato proprio per facilitare l’autoassemblaggio dei tessuti nell’ambiente senza peso dello spazio. Il bioreattore è dotato di un vaso sanguigno artificiale e di uno scambio automatico di fluidi, per simulare il naturale processo di flusso sanguigno dei tessuti umani.

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Immagine a immunofluorescenza di un organoide epatico derivato da cellule staminali pluripotenti indotte (ipsc) umane e sviluppato nel bioreattore “Tissue Orb”. Crediti: Tammy T. Chang

Una volta generati i nuovi tessuti epatici nello spazio, però, come si possono riportare in maniera sicura e senza alterarli sulla Terra? Anche su questo, ci sono degli avanzamenti.

Il bioreattore ideato dal team di ricerca include anche un metodo di crioconservazione innovativo per trasportare in modo sicuro i tessuti ingegnerizzati dallo spazio alla Terra. Si chiama superraffreddamento isocoro, e funziona mantenendo i tessuti al di sotto della temperatura di congelamento senza danneggiarli, prolungandone la durata di conservazione e potenzialmente applicabile anche a interi organi.

«Il nostro obiettivo è sviluppare tecniche di conservazione robuste che ci permettano di riportare i tessuti funzionali sulla Terra, dove potranno essere utilizzati per una serie di applicazioni biomediche, tra cui la modellazione di malattie, la sperimentazione di farmaci e, infine, l’impianto terapeutico», conclude Chang. Il lancio dell’esperimento spaziale del Laboratorio Chang è previsto per il febbraio 2025. Sentiremo sicuramente parlare degli esiti di questi esperimenti.

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Marte scolpito da ghiacci e venti


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La regione di Marte nota come Australe Scopuli, nella regione polare meridionale di Marte. L’area delineata dal riquadro bianco più grande è quella ripresa dalla High Resolution Stereo Camera a bordo dell’orbiter Mars Express dell’Esa il 2 aprile 2024, mentre il riquadro bianco più piccolo mostra la parte di superficie presenatta nel nuovo set di immagini. Crediti: Nasa/Mgs/Mola Science Team

Uno sguardo più ravvicinato su Marte e i suoi “terreni criptici”. Questo è quanto ci ha recentemente regalato l’orbiter Mars Express dell’Esa scattando immagini del Pianeta rosso con la sua High Resolution Stereo Camera (Hrsc) di bordo. Le formazioni di ghiaccio e polvere osservate nella regione polare ci offrono una finestra su un mondo tanto diverso quanto simile alla Terra, in cui il ghiaccio e il vento continuano a scolpire paesaggi suggestivi e affascinanti.

La superficie polare di Marte è coperta da calotte stagionali composte principalmente da ghiaccio di anidride carbonica, con una piccola parte di ghiaccio d’acqua. Durante l’inverno, questo ghiaccio si accumula, coprendo ampie zone del pianeta, mentre con l’arrivo della primavera sublima – passa direttamente da solido a gas senza diventare liquido – liberando grandi quantità di gas nell’atmosfera marziana. Questo ciclo di gelo e disgelo, particolarmente pronunciato nelle regioni polari, modella il terreno e crea formazioni di grande interesse scientifico.

Le immagini catturate dalla sonda mostrano depositi stratificati di ghiaccio con quantità variabili di polvere intrappolata all’interno e un terreno più liscio e uniforme sulla destra. Tuttavia, al centro della scena emergono aree scure e particolarmente curiose, dal comportamento stagionale finora poco conosciuto. Con l’arrivo della primavera, infatti, gli strati di ghiaccio invernale si sciolgono parzialmente, facendo emergere tratti di superficie marziana in contrasto netto con il paesaggio circostante. Originariamente soprannominate “terreno criptico”, queste zone per molti anni hanno intrigato i ricercatori, che non riuscivano a capire il motivo per cui fossero molto più scure rispetto al resto della calotta glaciale.

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Immagine della superficie di Marte. Una serie di strati chiari e scuri esposti sul fianco di una ripida scogliera si snoda dal centro a sinistra dell’immagine fino al centro in basso. La parte inferiore sinistra e destra dell’immagine è liscia e ondulata. Al centro dell’immagine domina un motivo a chiazze di poligoni scuri di forma irregolare, i cui bordi sono ricchi di ghiaccio brillante. Crediti: Esa/Dlr/Fu Berlin

Uno degli aspetti più caratteristici delle nuove immagini è la presenza di terreni poligonali. I poligoni, visibili anche in altre aree di Marte, ricordano le formazioni periglaciali nelle regioni artiche e antartiche del nostro pianeta. Su Marte, invece, questi poligoni si formano attraverso cicli ripetuti di congelamento e disgelo del terreno nel corso di diversi anni o addirittura secoli: lo studio di questo processo aiuta i ricercatori a decifrare la storia climatica e geologica del pianeta.

Le immagini ad alta risoluzione fornite dal Trace Gas Orbiter dell’Esa, ad esempio, mostrano magnificamente la presenza di ghiaccio persistente ai bordi dei poligoni all’interno e intorno a un cratere da impatto, in una fredda mattina di primavera.Oltre a raccontare la storia del ghiaccio marziano, queste formazioni suggeriscono la presenza di ghiaccio d’acqua nel sottosuolo di Marte: ciò è particolarmente importante per comprendere l’evoluzione del pianeta e la possibilità che vi siano stati ambienti abitabili in passato.

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Questa immagine mostra un terreno poligonale sfrangiato dal gelo in una fredda mattina di primavera alle medie latitudini meridionali di Marte, osservato dallo strumento Cassis (Colour and Stereo Surface Imaging System) del Trace Gas Orbiter di ExoMars, dell’Esa. I poligoni si formano a causa di ripetuti cicli di gelo e disgelo. Crediti: Esa/Tgo/Cassis

Un’altra sorprendente peculiarità mostrata dalle immagini è la presenza di depositi a forma di “ventaglio”, che si formano quando la luce del Sole penetra nel ghiaccio traslucido di anidride carbonica all’inizio della primavera marziana. Il calore del Sole provoca la sublimazione del ghiaccio alla base, intrappolando gas sotto la superficie. Quando la pressione aumenta, il ghiaccio si spacca, rilasciando getti di gas che portano con sé polvere scura, la quale viene poi modellata dai venti prevalenti. Questo fenomeno, che avviene solo dopo l’inverno marziano, dà origine a depositi scuri visibili in superficie. Col tempo, la polvere scura assorbe più calore rispetto al ghiaccio circostante, più luminoso e riflettente, riscalda il ghiaccio su cui è depositata e i suoi grani scuri affondano gradualmente nello strato ghiacciato, accelerando la sublimazione e creando nuovi “ventagli luminosi” – le cui dimensioni variano da decine a diverse centinaia di metri – che vanno a sostituirsi a quelli più scuri iniziali.

Ma il contributo di Mars Express non si limita alla sola regione polare: la sonda ha esplorato vaste aree del pianeta, mappando crateri, vulcani, canali fluviali e antiche pozze di lava. Con una suite di strumenti avanzati, tra cui la Hrsc, la missione ha fornito una panoramica completa della geologia marziana e ha contribuito a risolvere numerosi enigmi sulla sua atmosfera e composizione. Inoltre, la longevità delle missioni spaziali come Mars Express, in orbita attorno al Pianeta rosso dal 2003, consente agli scienziati di osservare come le stagioni influenzino continuamente la superficie del pianeta e quali siano i processi dinamici che lo modellano nel corso degli anni: due aspetti fondamentali per la pianificazione di future missioni di esplorazione marziane.

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Vista prospettica obliqua di una porzione della regione polare meridionale Australe Scopuli di Marte. Presenta una serie di forme periglaciali, tra cui strati esposti di ghiaccio e polvere (che attraversano l’immagine dal basso a sinistra verso destra), una miscela di ventagli luminosi e scuri (nella metà superiore dell’immagine e soprattutto verso sinistra) e un terreno scuro modellato (appena visibile sul bordo superiore dell’immagine). Crediti: Esa/Dlr/Fu Berlin

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Avanzano i preparativi verso Apophis


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La missione europea Ramses (illustrazione). Crediti: Ohb Italia

Sull’onda del successo del lancio del 7 ottobre scorso della missione Hera, la prima missione europea rivolta agli asteroidi, si guarda già con decisione al prossimo obiettivo.

Il 13 aprile 2029, l’asteroide di 375 metri Apophis passerà a circa 32mila chilometri dalla superficie terrestre, a meno di un decimo della distanza tra la Terra e la Luna. Questo evento estremamente raro attirerà l’attenzione di tutto il mondo e offrirà un’opportunità di ricerca unica nell’ambito scientifico e in quello di difesa planetaria.

Un veicolo spaziale in sorvolo ravvicinato su Apophis potrebbe svelare molte informazioni sulla composizione e la struttura dell’asteroide, e capire come un asteroide risponde alle forze esterne, proprietà fondamentale per aiutarci a mandare fuori orbita un asteroide pericoloso in una rotta di collisione con la Terra.

Con questo intento dovrebbe essere lanciata nel 2028 la missione europea Ramses (Rapid Apophis Mission for Space Safety), in modo da arrivare nei dintorni di Apophis in tempo per studiare l’asteroide nel suo passaggio ravvicinato alla Terra. Una missione di sicurezza planetaria che deve essere messa a punto nei prossimi tre anni e verso la quale ci si muove già a passo spedito.

«Forti del lancio di Hera avvenuto il 7 ottobre da Cape Canaveral con SpaceX, adesso ci concentriamo sulla partenza di una nuova avventura: la missione Ramses, che andrà a incontrare l’asteroide Apophis nel 2029», spiega Monica Lazzarin dell’Università di Padova, principal investigator di Ramses, che ha presentato ufficialmente la missione a Milano in occasione del 75° Congresso internazionale aeronautico (Iac), in corso questa settimana, a cui partecipano oltre ottomila addetti al settore spazio, tra istituzioni scientifiche e industrie.

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Da sinistra: Patrick Michel (principal investigator della missione Hera dell’Esa), Roberto Aceti (amministratore delegato di Ohb Italia), Josef Aschbacher (direttore generale dell’Esa), Monica Lazzarin (principal investigator della missione Ramses dell’Esa) e Franco Ongaro (capo del Coordinamento Spazio nel gruppo Leonardo). Crediti: Esa

«Ieri è stata presentata al meeting Iac la missione Ramses ed è stato formalmente siglato l’accordo tra Esa e Ohb Italia grazie al finanziamento dell’Agenzia spaziale italiana, che in questa missione è attualmente il principale finanziatore», dice Lazzarin, sottolineando l’impegno concreto delle agenzie spaziali in attesa della decisione definitiva, che avverrà nel 2025, quando l’Agenzia spaziale europea (Esa) interrogherà il Consiglio ministeriale riguardo alla possibilità di approvazione e di finanziamento della missione. Ramses rappresenterebbe infatti un’ulteriore operazione di difesa planetaria all’interno del programma di sicurezza spaziale dell’Agenzia. Nel frattempo infatti gli Stati membri dell’Esa hanno approvato l’uso dei fondi dell’Agenzia esistenti per iniziare i lavori preparatori della fase 1 di consolidamento e implementazione preventiva della missione. Questo lavoro garantirà la possibilità di mettere a punto la missione entro le tempistiche rigorosamente stabilite, qualora la missione Ramses riceva pieno sostegno da parte del Consiglio ministeriale. I fondi sono stati messi a disposizione tramite i programmi di Tecnologia di supporto generale e di sicurezza spaziale, entrambi tra l’Esa e l’industria.

A sottolineare un intento già molto più che teorico, il direttore generale dell’Esa Josef Aschbacher e l’amministratore delegato di Ohb Italia Roberto Aceti hanno firmato un contratto del valore di 63 milioni di euro che decreta un impegno concreto all’avvio dei lavori sulla missione. La firma è avvenuta ieri, giovedì 17 ottobre a Milano, sempre durante Iac 2024. Questi fondi saranno utilizzati per avviare il processo di approvvigionamento di alcune apparecchiature critiche o di lunga durata, nonché per finalizzare la progettazione complessiva del veicolo spaziale, considerando le opportunità di cooperazione internazionale attualmente in discussione.

«Le operazioni preparatorie devono essere molto rapide perché tutto deve essere pronto entro tre anni, e si tratta quindi di un importante banco di prova anche per capire quanto velocemente siamo in grado di preparare una missione per andare a incontrare un oggetto pericoloso. La fase preliminare degli accordi con l’industria è già stata avviata proprio per accelerare il processo, con il pieno accordo delle delegazioni dei vari stati membri dell’Esa, in vista della presa in carico definitiva della missione – come ci auguriamo – in occasione delle prossime Ministeriali Esa nel 2025», conclude Lazzarin.

Guarda su MediaInaf Tv l‘intervista a Paolo Martino (Esa) su Ramses:

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Hubble domina il tempo di R Aquarii


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Quando il Telescopio spaziale Hubble ci ha messo per la prima volta gli occhi sopra era il 1990. In quella occasione, l’immagine che ci ha restituito mostrava i dettagli interni del sistema. La vista che ci regala adesso, frutto di osservazioni condotte dal 2014 al 2023, mette in luce la sua rapida e drammatica evoluzione; immortalando uno fenomeni più affascianti dell’universo. Il sistema in questione è R Aquarii, l’evento cosmico immortalato: una nova, un’impressionante esplosione paragonabile a quella prodotta dalle bombe a idrogeno.

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Il sistema binario R Aquarii durante una nova. L’immagine è stata acquisita dal telescopio spaziale Hubble. Crediti: Nasa, Esa, Matthias Stute, Margarita Karovska, Davide De Martin (Esa/Hubble), Mahdi Zamani (Esa/Hubble)

R Aquarii è un sistema binario di stelle situato a circa 700 anni luce di distanza dalla Terra. È una delle binarie più vicine note per “sparare” nello spazio grandi quantità di materia stellare a oltre un milione e mezzo di km all’ora: una velocità che permetterebbe di coprire la distanza Terra-Luna in soli 16 minuti. Appartenente a una classe di stelle doppie chiamate binarie simbiotiche, il sistema è costituito da una gigante rossa – una stella vecchia e pulsante, 400 volte più grande e mille volte più luminosa del Sole – e da una nana bianca – una stella piccola, densa e molto compatta; ciò che resta di una stella simile al Sole dopo aver perso i suoi strati esterni. Sebbene le due stelle siano compagne, il rapporto che intercorre tra i due è però tutt’altro che idilliaco. In un inquietante atto di cannibalismo stellare, la nana bianca sottrae infatti materia alla compagna più grande, che si accumula sulla superficie della nana bianca stessa. Con il progredire dell’accumulo, questa materia può raggiungere valori di temperatura e densità tali da innescare potenti esplosioni termonucleari, la cui energia alimenta l’espulsione di plasma dalla nana bianca sotto forma di getti, filamenti, e deboli nebulose. Gli astronomi chiamano queste esplosioni – che si ripetono ciclicamente finché tutta la materia della stella compagna non sarà consumata – novae.

La portata di questi fenomeni è straordinaria: il materiale eiettato nello spazio può essere tracciato fino a 400 miliardi di chilometri di distanza, ovvero 24 volte il diametro del Sistema solare. Le immagini catturate recentemente da Hubble mostrano proprio una di queste esplosioni. Si vede chiaramente il plasma emergere dal sistema binario come un geyser in flussi contorti e spiralizzati dalla forza dell’esplosione. Incanalati verso l’alto e verso l’esterno dai forti campi magnetici presenti, i filamenti di plasma brillano di luce visibile perché energizzati dalla potente esplosione.

Come dicevamo in apertura, il telescopio Hubble ha messo gli occhi su R Aquarii in diverse occasioni dal 2014 al 2023. Utilizzando cinque istantanee catturate durante le osservazioni, il team di Hubble ha creato un timelapse – lo trovate qui in basso – che permette di visualizzare la rapida e drammatica evoluzione della stella binaria e della nebulosa circostante a seguito dell’esplosione. Oltre al plasma spiraleggiante espulso verso l’esterno dalla nova, il breve video mostra il cambiamento di luminosità del sistema a causa delle forti pulsazioni nella stella gigante rossa. Le osservazioni di sorgenti variabili come R Aquarii, commenta il team, evidenziano il valore delle osservazioni ottiche ad alta risoluzione di Hubble nell’ambito dell’astronomia del dominio del tempo.

Guarda il timelapse dell’evoluzione di R Aquarii sul canale YouTube dell’Esa:

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Pareva una nana bruna, invece erano due


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Le nane brune sono state per decenni l’anello mancante tra i pianeti e le stelle: si ipotizzava esistessero, ma nessuno le aveva mai osservate. Troppo grandi per essere considerati pianeti e troppo piccoli per essere vere e proprie stelle, questi ipotetici corpi furono chiamati inizialmente stelle nere o stelle infrarosse. Successivamente, nel 1975, l’astrofisica Jill C. Tarter le ribattezzò “nane brune”. Il nome è un po’ fuorviante: una nana bruna appare infatti rossa, non marrone, ma il nome “nana rossa” era già stato preso per descrivere stelle con meno della metà della massa del Sole. La ricerca intensiva di questi corpi iniziò negli anni ’80, ma fu solo negli anni ‘90 che gli astronomi trovarono la prima prova indiscussa della loro esistenza, scoprendo il capostipite di questa classe di oggetti celesti: Gliese 229B.

Scoperta nelle immagini del telescopio da 1,5 metri dell’Osservatorio di Palomar nel 1994 e confermata dal telescopio spaziale Hubble nel 1995, Gliese 229B è leggermente più piccola di Giove, ma dieci volte più calda e circa 70 volte più massiccia. Inoltre, è legata gravitazionalmente alla nana rossa Gliese 229A, dalla quale dista più di sei miliardi di chilometri. Da quando è stata scoperta, la “stella fallita” – come vengono anche chiamati questi oggetti – è stata ampiamente studiata. Ciò nonostante, sul suo conto esiste ancora un mistero legato alla luminosità dell’oggetto: è infatti troppo flebile per essere così massiccio.

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Illustrazione artistica che mostra le due nane brune recentemente scoperte, Gliese 229Ba e Gliese 229Bb. I ricercatori sono riusciti a risolvere distintamente i due corpi celesti grazie alle indagini condotte utilizzando due diversi strumenti installati presso l’Osservatorio di Paranal dell’Eso. Crediti: K. Miller, R. Hurt (Caltech/Ipac)

Un team di ricercatori guidato dal Caltech ha ora risolto il dilemma: quella che fino a oggi si credeva fosse un solo oggetto celeste in realtà è un sistema costituito due nane brune compagne, dal peso di 38 e 34 masse gioviane, che orbitano l’una intorno all’altra ogni 12 giorni. Close binary: è così che gli addetti ai lavori chiamano in gergo questi sistemi.

«Gliese 229B è stata considerata l’emblema delle nane brune», sottolinea Jerry Xuan, ricercatore al California Institute of Tecnology e primo autore dello studio, pubblicato ieri su Nature, che riporta i risultati della scoperta. «Finora non siamo stati in grado di risolvere oggetti così ravvicinati. Ora sappiamo che ci siamo sempre sbagliati sulla sua natura: non è una nana bruna, ma sono due».

«La scoperta che Gliese 229B è una binaria non solo risolve le incongruenze osservate tra la sua massa e la luminosità, ma approfondisce notevolmente la nostra comprensione delle nane brune, oggetti che si trovano a metà strada tra le stelle e i pianeti giganti», aggiunge Dimitri Mawet, ricercatore al Jpl e co-autore della pubblicazione.

Per risolvere i due oggetti, i ricercatori hanno utilizzato due strumenti diversi, entrambi installati all’Osservatorio Paranal dell’Eso, in Cile. Il primo è lo strumento Gravity, un interferometro che combina la luce dei quattro telescopi che formano il Very Large Telescope, una struttura di punta per l’astronomia da terra. Lo strumento fornisce immagini con una risoluzione di quattro milli-arcosecondi e può misurare le posizioni e i movimenti di stelle e altri oggetti celesti con una precisione di alcune decine di micro-arcosecondi. Il suo utilizzo è stato fondamentale per risolvere spazialmente i due oggetti. L’altro strumento è Crires+, uno spettrografo ad alta risoluzione, che ha permesso di rilevare le firme spettrali distinte dei due oggetti celesti.

Le osservazioni, condotte dai ricercatori nell’arco di sei mesi, hanno permesso di calcolare che la coppia di nane brune, ora chiamate Gliese 229Ba e Gliese 229Bb, orbitano l’una intorno all’altra ogni 12 giorni. La distanza che le separa è di circa 6 milioni di chilometri, 16 volte la distanza che separa la Terra dalla Luna. Insieme, orbitano intorno a nana rossa Gliese 229A ogni 250 anni.

«Questa è la scoperta più interessante e affascinante degli ultimi decenni nel campo dell’astrofisica sub-stellare», dice Rebecca Oppenheimer, astrofisica all’American Museum of Natural History, co-autrice della pubblicazione e componente del team che nel 1995 scoprì Gliese 229B. «Questi due mondi che si orbitano a vicenda hanno un raggio inferiore a quello di Giove», aggiunge la ricercatrice. «Se nel Sistema solare avessimo qualcosa di simile, sembrerebbero piuttosto strani».

La domanda alla quale vogliono rispondere adesso i ricercatori riguarda la formazione di simili coppie di nane brune. Una possibilità è che si formino dalla frammentazione in due pezzi del disco di materia che circonda le stelle in formazione. Le due parti potrebbero fungere da semi di nane brune che, una volta formate, si legherebbero gravitazionalmente dopo un incontro ravvicinato.

«Il fatto che la prima nana bruna conosciuta sia un sistema binario di nane brune è di buon auspicio per gli sforzi in corso volti a trovarne altre», conclude Xuan.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “The cool brown dwarf Gliese 229 B is a close binary” di Jerry W. Xuan, A. Mérand, W. Thompson, Y. Zhang, S. Lacour, D. Blakely, D. Mawet, R. Oppenheimer, J. Kammerer, K. Batygin, A. Sanghi, J. Wang, J.-B. Ruffio, M. C. Liu, H. Knutson, W. Brandner, A. Burgasser, E. Rickman, R. Bowens-Rubin, M. Salama, W. Balmer, S. Blunt, G. Bourdarot, P. Caselli, G. Chauvin, R. Davies, A. Drescher, A. Eckart, F. Eisenhauer, M. Fabricius, H. Feuchtgruber, G. Finger, N. M. Förster Schreiber, P. Garcia, R. Genzel, S. Gillessen, S. Grant, M. Hartl, F. Haußmann, T. Henning, S. Hinkley, S. F. Hönig, M. Horrobin, M. Houllé, M. Janson, P. Kervella, Q. Kral, L. Kreidberg, J.-B. Le Bouquin, D. Lutz, F. Mang, G.-D. Marleau, F. Millour, N. More, M. Nowak, T. Ott, G. Otten, T. Paumard, S. Rabien, C. Rau, D. C. Ribeiro, M. Sadun Bordoni, J. Sauter, J. Shangguan, T. T. Shimizu, C. Sykes, A. Soulain, S. Spezzano, C. Straubmeier, T. Stolker, E. Sturm, M. Subroweit, L. J. Tacconi, E. F. van Dishoeck, A. Vigan, F. Widmann, E. Wieprecht, T. O. Winterhalder e J. Woillez


Alla ricerca di esopianeti terrestri con atmosfera


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Gli astronomi dell’Università di Chicago hanno sperimentato un metodo più semplice e preciso per determinare se gli esopianeti hanno o meno un’atmosfera, un passo avanti per saperne di più sulla potenziale abitabilità di pianeti lontani. Qui una rappresentazione artistica di come potrebbe apparire l’esopianeta terrestre Gj 1132 b. Crediti: Nasa, Esa, Robert L. Hurt (Ipac)

Uno dei principali obiettivi della ricerca astronomica è quello di trovare esopianeti adatti a ospitare la vita. Ci sono diversi fattori che sono essenziali per l’abitabilità planetaria, tra cui la presenza di un’atmosfera: uno strato gassoso che isola il pianeta e ne regola la temperatura. Sulla Terra, ad esempio, l’atmosfera ridistribuisce il calore del Sole intorno al pianeta, mantenendolo un luogo temperato e adatto alla vita.

Tuttavia, non è facile capire se un pianeta lontano possieda o meno un’atmosfera, poiché anche se ci piacerebbe non è possibile osservare direttamente esopianeti terrestri. Ciò che si fa è mettere insieme diversi indizi, come le fluttuazioni della luce quando il pianeta si muove intorno alla sua stella. Sono stati trovati molti esopianeti rocciosi simili al nostro, ma nessuno di cui si possa dire con certezza che abbia un’atmosfera. La scoperta di questi pianeti permetterà di capire come si formano e si mantengono le atmosfere, in modo da poter prevedere meglio quali pianeti potrebbero essere abitabili.

Uno studio condotto da Qiao Xue, dottoranda dell’Università di Chicago, e dal gruppo di Jacob Bean, ha applicato un nuovo metodo per determinare se gli esopianeti abbiano o meno un’atmosfera, dimostrando che è più semplice ed efficiente di quelli precedenti. La nuova tecnica, se applicata a un maggior numero di pianeti, ha il potenziale per aiutarci a conoscere meglio i modelli di formazione dell’atmosfera.

Il metodo è stato originariamente proposto nel 2019 da una collaborazione tra Bean e Megan Mansfield dell’Università dell’Arizona. L’approccio utilizza la differenza di temperatura misurata nel momento in cui è più calda e quella calcolata quanto teoricamente dovrebbe essere più calda.

Poiché le atmosfere disperdono il calore intorno all’intera superficie dei pianeti, riducono la temperatura del lato più caldo del pianeta (quello rivolto direttamente verso la stella). Gli scienziati hanno ipotizzato che se la temperatura effettiva di un esopianeta non è così calda come potrebbe esserlo in teoria, possiamo presumere che abbia un’atmosfera che svolge questa funzione di termoregolazione.

Tuttavia, fino a oggi mancavano strumenti sufficientemente precisi e sensibili per fornire letture accurate di queste temperature. Mentre ora con il telescopio spaziale James Webb è possibile ottenere con grande accuratezza le temperature dei pianeti misurando l’intensità dell’energia che emettono.

Quando gli esopianeti passano davanti ai loro soli, oscurano parte della luce della stella, provocando una leggera diminuzione della luminosità misurata della stella. Quando il pianeta appare quasi dietro la stella rispetto ai nostri dispositivi di osservazione, possiamo catturare la massima luminosità del sistema, cioè la stella non oscurata combinata con la luce emessa dal pianeta. Nel momento in cui il pianeta passa dietro la stella rispetto alla nostra visuale, possiamo registrare la luce emessa dalla sola stella. Sottraendo questa misura di luce da quella della luce della stella combinata con quella del pianeta, si può dedurre la luminosità – e quindi la temperatura – del pianeta.

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Animazione che mostra le fluttuazioni della quantità di luce osservata emessa dal sistema mentre l’esopianeta orbita intorno alla stella. Crediti: Nasa

In questo modo, Xue ha concluso che il primo pianeta a cui ha applicato il nuovo metodo, Gj1132 b, non ha un’atmosfera: la temperatura misurata del pianeta è troppo vicina alla temperatura massima calcolata per far pensare a una componente termoregolatrice del pianeta. «Non è quindi un candidato adatto alla vita», dichiara l’autrice. «Quando esamineremo un insieme di dati sufficientemente ampio, come faremo quest’anno con il telescopio spaziale James Webb, speriamo di trovare tendenze che ci aiutino a capire meglio la formazione dell’atmosfera e ciò che rende i pianeti abitabili».

Il nuovo metodo non è l’unico modo per determinare se un esopianeta abbia o meno un’atmosfera, ma è un metodo più semplice e affidabile per cercare pianeti lontani con atmosfera. Xue ha spiegato che è meno soggetto a falsi negativi e positivi rispetto all’altra tecnica. «L’altra tecnica, che misura la luce che filtra attraverso l’atmosfera del pianeta, è più impegnativa perché può essere confusa dall’attività della stella e dalla presenza di nubi», asserisce Bean.

Se gli scienziati riusciranno a capire cosa dà origine alle atmosfere dei pianeti, sarà più facile escludere i pianeti inabitabili nella ricerca di esopianeti in grado di ospitare la vita. «Questo studio è stato entusiasmante perché finalmente ho avuto la possibilità di lavorare con pianeti rocciosi, che sono il sogno di ogni scienziato di esopianeti perché hanno un grande potenziale di vita», conclude Xue. «Ora non vedo l’ora di vedere cosa succederà».

Per saperne di più:

  • Leggi su Astrophysical Journal Letters l’articolo “Jwst Thermal Emission of the Terrestrial Exoplanet GJ 1132b” di Qiao Xue, Jacob L. Bean, Michael Zhang, Alexandra Mahajan, Jegug Ih, Jason D. Eastman, Jonathan Lunine, Megan Weiner Mansfield, Brandon Park Coy, Eliza M.-R. Kempton, Daniel Koll ed Edwin Kite


A Sara Lucatello il premio Columbus per la scienza


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Sara Lucatello durante la cerimonia di premiazione

Lo scorso 12 ottobre si è svolta la cerimonia di conferimento dei premi “Columbus” promossi dal Rotary Club Firenze Est. Un riconoscimento dal duplice connotato: celebrare la scoperta dell’America e premiare personalità che in ogni campo abbiano dimostrato lo stesso spirito di “costruttori di civiltà” che animava il grande navigatore genovese. E che quest’anno è stato assegnato all’archeologo e storico dell’arte Salvatore Settis per la cultura, al leader del gruppo Colorobbia Marco Bitossi per l’impresa e, per la scienza, a Sara Lucatello, astrofisica all’Inaf di Padova e presidente della European Astronomical Society.

“Il lavoro di Sara Lucatello”, recita la motivazione del riconoscimento a Lucatello, “fortemente motivato all’avanzare la nostra conoscenza dell’universo e al progresso della società, preservando lo spazio esterno e promuovendone uno sviluppo pacifico, responsabile e sostenibile per l’umanità e le generazioni future, è allineato ai valori essenziali del Rotary, giustificando l’attribuzione del premio Columbus 2024 per la scienza”.



Si salvi chi può dal getto di M87


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La galassia M87 con il getto relativistico prodotto dal buco nero centrale. Il getto si estende per oltre tremila anni luce. Crediti: Nasa, Esa, Stsci, A. Lessing (Stanford University), M. Shara (Amnh); Acknowledgment: E. Baltz (Stanford University); Image Processing: J. DePasquale (Stsci)

Le stelle esploderebbero più frequentemente in prossimità del getto di M87, galassia ellittica che troneggia nell’Ammasso della Vergine. Gli “scoppi” di cui stiamo parlando sono le cosiddette novae, ovvero esplosioni termonucleari che accadono sulla superficie di una nana bianca che accresce idrogeno da una stella compagna – tipicamente una gigante rossa – in un sistema binario. Quando l’idrogeno proveniente dalla stella gigante supera una certa temperatura critica, si innesca una vera e propria reazione nucleare che sparpaglia nel mezzo circostante gli strati più esterni della nana bianca. Quest’ultima non viene disintegrata dall’esplosione ma sopravvive, pronta per rifornirsi nuovamente di gas dalla stella compagna. Il sistema binario produrrà dunque ciclicamente delle esplosioni, che si manifestano nel firmamento come una variazione della luminosità della stella. E così astri minuti, che erano dapprima invisibili, improvvisamente si palesano, prima di celarsi nuovamente alla vista nell’arco di qualche giorno. Il getto di cui parliamo è invece una gigantesca struttura prodotta dal buco nero al centro di M87 – proprio lui, quello della prima immagine dell’orizzonte degli eventi. Costituito da particelle che si muovono a velocità prossime a quella della luce, il getto di M87 si estende per circa tremila anni luce ed è stato immortalato in diverse bande dello spettro elettromagnetico.

Ma cosa c’entrano le esplosioni stellari con un getto di particelle relativistiche che si estende per miliardi di chilometri? Ce lo dicono gli autori di uno studio pubblicato a fine settembre su The Astrophysical Journal. Il team di ricercatori, guidato da Alec Lessing della Stanford University, in California, ha monitorato per nove mesi le novae apparse in M87. Accorgendosi che il numero di esplosioni osservate in prossimità del getto è due volte superiore a quel che si riscontra nel resto della galassia. Sembrerebbe dunque che il getto favorisca in qualche misterioso modo le esplosioni stellari. La scoperta è stata compiuta utilizzando il telescopio spaziale Hubble che, a differenza dei telescopi sulla Terra, riesce distinguere le novae anche nelle vicinanze del brillante centro della galassia.

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Illustrazione che mostra, in basso, un sistema binario costituito da una nana bianca che riceve gas da una stella compagna, innescando una nova. In alto viene rappresentato il getto prodotto dal buco nero al centro di M87. Crediti: Nasa, Esa, J. Olmsted (Stsci)

«Non sappiamo cosa stia succedendo, ma è un risultato molto entusiasmante. Significa che c’è qualcosa che manca nella nostra comprensione di come i getti prodotti dai buchi neri interagiscono con il mezzo circostante», dice Lessing. Il fatto che il numero di eventi in prossimità del getto sia due volte superiore a quel che si osserva nel resto della galassia può voler dire due cose: o che i sistemi binari che generano novae sono due volte più numerosi che altrove o che nei sistemi stellari vicino al getto le esplosioni sono due volte più frequenti. «C’è qualcosa che il getto sta facendo ai sistemi stellari che vagano nelle vicinanze. Forse il getto in qualche modo spinge l’idrogeno, ovvero il carburante dell’esplosione, sulle nane bianche, in modo che eruttino più spesso», aggiunge il primo autore. «Ma non è chiaro se si tratti di una vera e propria spinta. Potrebbe essere l’effetto della pressione esercitata dalla radiazione prodotta dal getto. Se l’idrogeno viene riversato più rapidamente, le esplosioni pure accadono più velocemente. Qualcosa potrebbe raddoppiare il trasferimento di massa sulle nane bianche vicino al getto». I ricercatori stanno esplorando anche uno scenario alternativo, secondo il quale il getto sta scaldando la stella compagna della nana bianca, facendo in modo che essa riversi più idrogeno su di essa. Sembrerebbe però che questo processo non sia sufficiente per spiegare la frequenza di novae osservata.

Gli autori della ricerca non sono stati i primi a notare che fenomeni inusuali accadono nei pressi del buco nero di M87. Fin dai primi anni ’90, praticamente tutte le volte che Hubble scrutava questa regione venivano registrate una o più novae. All’epoca però era stata osservata solo una piccola regione di M87 e dunque non era possibile confrontare quel che stava accadendo nei pressi del getto con ciò che avveniva lontano da esso. «Non ci è voluto chissà cosa. Abbiamo fatto la scoperta semplicemente guardando le immagini. Nella sorpresa generale, la nostra analisi statistica dei dati ha confermato ciò che si vedeva chiaramente», conclude Michael Shara, secondo autore della scoperta. Le immagini parlano chiaro, insomma. Per il resto, si tratta di un bel rompicapo che per ora rimane senza risposta.

Per saperne di più:

Guarda il video della Nasa:

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Urano per due: Hubble e New Horizons insieme


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Urano visto dal telescopio spaziale Hubble (a sinistra) e dalla sonda New Horizons (a destra). Crediti: Nasa, Esa, StScI, Samantha Hasler (Mit), Amy Simon (Nasa-Gsfc), New Horizons Planetary Science Theme Team; Joseph DePasquale (StScI), Joseph Olmsted (StScI)

Gli astronomi hanno usato Urano come banco di prova per pianeti simili al di fuori del Sistema solare, confrontando le immagini ad alta risoluzione di Hubble con la vista ben più distante della sonda New Horizons. Questa prospettiva combinata aiuterà gli scienziati a capire meglio cosa aspettarsi dall’acquisizione di immagini di pianeti intorno ad altre stelle con i futuri telescopi. «Mentre ci aspettavamo che Urano apparisse in modo diverso in ciascun filtro delle osservazioni, abbiamo scoperto che in realtà è più debole di quanto previsto nei dati di New Horizons, ripresi da un punto di vista diverso», dichiara Samantha Hasler del Massachusetts Institute of Technology di Cambridge.

L’imaging diretto è una tecnica fondamentale per conoscere la potenziale abitabilità di un pianeta e offre nuovi indizi sull’origine e la formazione del Sistema solare. Gli astronomi utilizzano sia l’imaging diretto che la spettroscopia per raccogliere la luce del pianeta osservato e confrontarne la luminosità a diverse lunghezze d’onda. Tuttavia, l’imaging degli esopianeti è un processo notoriamente difficile perché sono molto lontani. Nelle immagini appaiono come semplici puntini e quindi non è possibile distinguerne i dettagli come nelle viste ravvicinate dei mondi in orbita attorno al Sole. Inoltre, i ricercatori possono osservare direttamente gli esopianeti solo nelle “fasi parziali”, ossia quando solo una parte del pianeta, per metà illuminato dalla sua stella, è visibile dalla nostra posizione. Come avviene per la Luna e le fasi lunari, insomma.

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In questa immagine, due forme tridimensionali (in alto) di Urano sono confrontate con le viste reali del pianeta dal telescopio spaziale Hubble (in basso a sinistra) e dalla sonda New Horizon (in basso a destra). Il confronto tra le immagini ad alta risoluzione di Hubble e quelle più piccole di New Horizons offre una prospettiva combinata che aiuterà i ricercatori a capire cosa aspettarsi durante l’acquisizione di immagini di pianeti intorno ad altre stelle con osservatori futuri. Crediti: Nasa, Esa, StScI, Samantha Hasler (Mit), Amy Simon (Nasa-Gsfc), New Horizons Planetary Science Theme Team; Joseph DePasquale (StScI), Joseph Olmsted (StScI)

Urano è un bersaglio ideale come test per comprendere le future osservazioni a distanza di esopianeti da parte di altri telescopi per varie ragioni. Innanzitutto, molti esopianeti conosciuti sono anche giganti gassosi, proprio come Urano. Inoltre, al momento delle osservazioni New Horizons si trovava sul lato opposto di Urano, a 6,5 miliardi di chilometri di distanza, permettendo di studiare la sua mezzaluna crepuscolare, cosa che non è possibile fare dalla Terra. Ovviamente, a quella distanza, l’immagine di Urano scattata da New Horizons si è rivelata costituita solo da alcuni pixel.

D’altra parte Hubble, con la sua alta risoluzione e nella sua orbita terrestre bassa a 1,7 miliardi di chilometri di distanza da Urano, è stato in grado di vedere le caratteristiche atmosferiche come le nubi e le tempeste sul lato giorno del mondo gassoso.

I pianeti giganti gassosi del Sistema solare hanno atmosfere dinamiche e variabili, con una copertura nuvolosa che cambia. Quanto è comune questo fenomeno tra gli esopianeti? Conoscendo da Hubble i dettagli di come apparivano le nubi su Urano, i ricercatori sono in grado di verificare ciò che può essere interpretato dai dati di New Horizons. Nel caso di Urano, sia Hubble che New Horizons hanno visto che la luminosità non variava con la rotazione del pianeta, il che indica che le caratteristiche delle nubi non cambiavano con la rotazione del pianeta.

Tuttavia, l’importanza del rilevamento da parte di New Horizons ha a che fare con il modo in cui il pianeta riflette la luce in una fase diversa da quella che Hubble, o altri osservatori sulla Terra o nelle vicinanze, possono vedere. New Horizons ha dimostrato che gli esopianeti possono apparire più deboli del previsto ad angoli di fase parziali ed elevati e che l’atmosfera riflette la luce in modo diverso in una fase parziale.

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Questa illustrazione mostra la sonda New Horizons della Nasa del Sistema solare dal profondo della Fascia di Kuiper. New Horizons attualmente si trova a una distanza stimata di oltre 5 miliardi di chilometri dalla Terra. La sonda si trovava a 6,5 miliardi di chilometri di distanza da Urano quando lo ha osservato. Crediti: Nasa, Esa, Christian Nieves (StScI), Ralf Crawford (StScI), Greg Bacon (StScI)

La Nasa ha in cantiere due importanti osservatori per studiare le atmosfere degli esopianeti e valutare la loro potenziale abitabilità. «Questi importanti studi di New Horizons su Urano, da un punto di vista non osservabile con altri mezzi, si aggiungono al tesoro di nuove conoscenze scientifiche della missione e, come molte altre serie di dati ottenuti durante la missione, hanno fornito nuove sorprendenti intuizioni sui mondi del nostro sistema solare», aggiunge Alan Stern, del Southwest Research Institute.

Il telescopio spaziale Nancy Grace Roman della Nasa, il cui lancio è previsto per il 2027, utilizzerà un coronografo per bloccare la luce di una stella e vedere direttamente gli esopianeti giganti gassosi. L’Osservatorio dei mondi abitabili della Nasa, in fase iniziale di progettazione, sarà il primo telescopio progettato specificamente per cercare biofirme atmosferiche su pianeti rocciosi di dimensioni terrestri in orbita attorno ad altre stelle. «Studiare come punti di riferimento conosciuti, come Urano, appaiono nelle immagini a distanza, può aiutarci ad avere aspettative più solide quando ci prepariamo per queste missioni future», conclude Hasler. «E questo sarà fondamentale per il nostro successo».

I risultati di Urano saranno presentati al 56° meeting annuale dell’American Astronomical Society Division for Planetary Sciences, a Boise, Idaho.



Ecco le prime pagine dell’atlante cosmico di Euclid


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È solo l’un per cento della grande mappa del cosmo che il satellite Euclid è intento a costruire, eppure sta già strabiliando la comunità di ricerca coinvolta in questa imponente impresa. Il primo mosaico celeste rilasciato dalla missione dell’Agenzia spaziale europea (Esa) copre 132 gradi quadrati, pari a oltre 500 volte l’area della luna piena nel cielo, per un totale di 208 gigapixel.

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Mosaico di 260 osservazioni realizzate da Euclid tra il 25 marzo e l’8 aprile 2024. Crediti: Esa/Euclid/Euclid Consortium/Nasa, Cea Paris-Saclay, image processing by J.-C. Cuillandre, E. Bertin, G. Anselmi. CC BY-SA 3.0 IGO

La nuova immagine, pubblicata oggi dall’Esa in occasione dell’International Astronautical Congress in corso a Milano, combina osservazioni ottenute tra il 25 marzo e l’8 aprile di quest’anno con i due strumenti di bordo, il Visible Instrument (Vis) e il Near Infrared Spectrometer Photometer (Nisp). Vi fanno capolino circa cento milioni di sorgenti astronomiche, tra galassie – distanti decine, centinaia e migliaia di milioni di anni luce – e stelle appartenenti alla nostra galassia, la Via Lattea. Circa 14 milioni delle galassie visibili in questo mosaico saranno utilizzate per studiare l’effetto di lente gravitazionale causato dall’invisibile materia oscura interposta tra le galassie e noi che le osserviamo, la quale ne amplifica e distorce leggermente le immagini.

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Zoom su una porzione del primo mosaico rilasciato dalla missione Euclid. A destra è visibile l’ammasso di galassie Abell 3381 come una specie di “filo di perle”. Crediti: Esa/Euclid/Euclid Consortium/Nasa, Cea Paris-Saclay, image processing by J.-C. Cuillandre, E. Bertin, G. Anselmi. CC BY-SA 3.0 IGO

In primo piano, si possono distinguere molte stelle della nostra galassia grazie alla caratteristica forma a sei punte introdotta dalle ottiche del telescopio. Spicca inoltre una fioca nebulosità diffusa di colore bluastro, anch’essa di natura galattica: si tratta di nubi di gas e polveri interstellari dette anche “cirri galattici” per l’aspetto che ricorda quello dei cirri presenti nell’atmosfera terrestre.

Una serie di zoom progressivi, da 3 fino a 600 ingrandimenti, illustrano lo straordinario grado di dettaglio presente nei dati raccolti da Euclid. La missione è infatti in grado di immortalare al contempo la struttura su grande scala dell’Universo, puntellata di ammassi di galassie – come Abell 3381, a oltre 600 milioni di anni luce di distanza, ritratto in uno degli ingrandimenti – ma anche di catturare le caratteristiche di singole galassie, presentate negli ingrandimenti più profondi.

«Questo primo, grande mosaico di una regione di cielo ottenuto cucendo insieme più di 260 puntamenti di Euclid è davvero una pietra miliare: è la prima volta che si è ottenuta e che viene mostrata l’immagine di un’area così grande di cielo, con una simile profondità, osservata in queste bande e con questa qualità», commenta Roberto Scaramella dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) di Roma, responsabile del team che si occupa della survey condotta da Euclid. «Questo ci mostra come il cielo sia ricco di diverse galassie, da quelle belle e vicine fino a quelle piuttosto piccole, deboli e lontane che possiamo vedere ingrandendo l’immagine. Sono queste ultime, le galassie a grandi distanze, l’obiettivo principale degli studi cosmologici di Euclid. Tuttavia, come si può facilmente vedere, l’enorme quantità di dati e la loro grande varietà e qualità consentiranno alla maggior parte dei campi dell’astronomia di fare enormi progressi grazie a Euclid».

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Immagine di Euclid dell’ammasso di galassie Abell 3381, la cui luce ha viaggiato per circa 678 milioni di anni luce prima di raggiungerci. Questo zoom è stato ottenuto con un ingrandimento di 12 volte dal mosaico di osservazioni. Crediti: Esa/Euclid/Euclid Consortium/Nasa, Cea Paris-Saclay, image processing by J.-C. Cuillandre, E. Bertin, G. Anselmi. CC BY-SA 3.0 IGO

Il mosaico pubblicato oggi è solo un assaggio delle potenzialità di Euclid. Dall’inizio della campagna scientifica lo scorso febbraio, la missione ha già completato il 12% della survey. La prossima tappa è prevista per marzo 2025, con la pubblicazione di una prima porzione dei dati, pari a 53 gradi quadrati, che includerà anche un’anteprima degli Euclid Deep Field, regioni del cielo dedicate alle osservazioni più profonde. Il primo anno di dati per l’analisi cosmologica, invece, sarà reso pubblico nel 2026.

L’Italia è fortemente coinvolta nella missione, con l’Agenzia spaziale italiana, l’Inaf, l’Istituto nazionale di fisica nucleare e numerosi atenei italiani. All’Inaf in particolare spetta l’importante compito di coordinare il segmento di terra scientifico di Euclid, ovvero il complesso sistema di pianificazione, elaborazione e riduzione dell’immensa mole di dati raccolti dalla sonda.

«Abbiamo già nelle nostre mani circa 2000 gradi quadrati, più di dieci volte l’area mostrata in questa immagine» aggiunge Andrea Zacchei dell’Inaf di Trieste, manager del segmento di terra scientifico di Euclid. «Tutti gli istituti coinvolti nel segmento di terra che coordino stanno lavorando intensamente per estrarre le informazioni allo scopo di creare la più grande e dettagliata mappa tridimensionale del nostro Universo. Ovviamente facciamo tutto ciò con algoritmi dedicati sempre più complessi ma ogni volta che mi soffermo a guardare una di queste immagini sono semplicemente colpito dalla loro bellezza».

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Una serie di zoom progressivi, da 3 a 600 ingrandimenti, per esplorare in dettaglio la nuova immagine di Euclid, dalla struttura cosmica su grande scala a quella delle singole galassie. Crediti: Esa/Euclid/Euclid Consortium/Nasa, Cea Paris-Saclay, image processing by J.-C. Cuillandre, E. Bertin, G. Anselmi. CC BY-SA 3.0 IGO

Nel corso di sei anni, Euclid osserverà miliardi di galassie a distanze cosmiche disparate, per sondare gli ultimi dieci miliardi di anni di storia dell’Universo. Misurando la forma, la distanza e il moto delle galassie, la missione costruirà la più grande mappa 3D del cosmo, studiando gli effetti della materia oscura e dell’energia oscura sulla materia ordinaria per cercare di comprendere la natura di queste misteriose, invisibili componenti che permeano l’Universo.

La comunità Euclid italiana ha deciso di dedicare questa anteprima della survey alla memoria di Bianca Garilli, astronoma dell’Inaf recentemente scomparsa. Coinvolta in Euclid sin dalle primissime fasi della proposta, in particolare per quanto riguarda lo strumento Nisp e la realizzazione del software per il trattamento dei dati spettroscopici, ha lasciato un’eredità di conoscenza e competenze sulla missione che ha permesso al suo gruppo di lavoro di fornire un contributo fondamentale alla preparazione delle pipeline del segmento di terra.

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Immagine di Euclid delle galassie interagenti Eso 364-G035 e G036, la cui luce ha viaggiato per 420 milioni di anni luce prima di raggiungerci. A destra, alcune galassie dell’ammasso Abell 3381. Questo zoom è stato ottenuto con un ingrandimento di 150 volte dal mosaico. Crediti: Esa/Euclid/Euclid Consortium/Nasa, Cea Paris-Saclay, image processing by J.-C. Cuillandre, E. Bertin, G. Anselmi. CC BY-SA 3.0 IGO

«Il contributo di Bianca è stato importantissimo per dimostrare la fattibilità, tecnica e scientifica, della parte più complessa del progetto Euclid, quella della survey spettroscopica», nota Marco Scodeggio dell’Inaf di Milano. «A questo ha fatto seguito la sua partecipazione nella definizione delle prestazioni richieste sia per gli strumenti a bordo di Euclid, sia per il software che stiamo utilizzando per analizzare i dati prodotti da quegli strumenti. Sentiremo tutti la mancanza della sua spinta costante a fare le cose un po’ meglio di quanto noi avremmo accettato come un livello “buono abbastanza”».

La comunità Euclid italiana ha subito una grande perdita e sentirà a lungo la mancanza della sua capacità di analisi e del suo importante senso critico.

Il mosaico celeste di Euclid illustrato da Massimo Meneghetti su MediaInaf Tv:

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Go, Europa Clipper! Go!


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Il decollo del razzo Falcon Heavy di SpaceX che trasporta la navicella spaziale Europa Clipper. Il lancio è avvenuto dalla rampa 39A del Kennedy Space Center della Nasa, in Florida, alle 12:06 ora locale di lunedì 14 ottobre 2024. Crediti: Nasa/Kim Shiflett

We have liftoff! Go, Europa Clipper. Sono le parole con cui il Jet Propulsion Laboratory della Nasa annuncia il successo del lancio di Europa Clipper, la prima missione della Nasa ad esplorare un mondo oceanico diverso dalla Terra: la luna gioviana Europa.

Europa Clipper è la più grande navicella spaziale che la Nasa abbia mai costruito per una missione planetaria. Il suo obiettivo è studiare in dettaglio Europa, l’unica luna di Giove a nascondere sotto la sua superficie ghiacciata un enorme oceano sotterraneo; un mondo sommerso che potrebbe avere le condizioni per sostenere la vita. Il viaggio di Europa Clipper verso la sua meta è iniziato ieri, lunedì 14 ottobre, alle 12:06 ora locale, le 18:06 qui in Italia. Il lancio è avvenuto dalla rampa di 39A del Kennedy Space Center della Nasa a Houston, in Florida (Usa).

Spinta dai 27 motori Merlin del Falcon Heavy di SpaceX – per questo lancio utilizzato nella sua “veste” interamente sacrificabile, non c’è stato cioè alcun riciclo di booster – Europa Clipper è stata portata rapidamente verso il cielo, trovandosi in pochi istanti lontano dallo spazioporto. Dopo la separazione dello stadio primario del razzo, la navicella ha continuato il suo volo spinta dal secondo stadio, i cui motori hanno fornito l’energia necessaria per sfuggire alla gravità terrestre. Circa un’ora dopo il lancio, la carenatura del carico utile del razzo si è aperta, svelando finalmente Europa Clipper. Una volta completata questa fase, la sonda si è separata anche dal secondo stadio e ha aperto i pannelli solari – i più grandi mai utilizzati per una missione interplanetaria – iniziando il viaggio di circa sei anni verso Giove e la sua luna, spinta esclusivamente dal suo modulo di propulsione.

Leaving our water world, to explore another @EuropaClipper launched from @NASAKennedy at 12:06pm ET (16:06 UTC) on a @SpaceX Falcon Heavy, beginning a 1.8-billion-mile journey to explore the mysteries of Europa, Jupiter’s ocean moon. pic.twitter.com/IQ7uRSviMb

— NASA (@NASA) October 14, 2024

«Siamo entusiasti di inviare Europa Clipper alla scoperta di un mondo oceanico potenzialmente abitabile, grazie ai nostri colleghi e partner che hanno lavorato duramente per arrivare fino questo giorno», dice Laurie Leshin, direttrice del Jet Propulsion Laboratory della Nasa. «Sebbene lanciare una missione per cui si è lavorato per anni sia sempre dolceamaro, sappiamo che questo eccezionale team e questa straordinaria navicella spaziale amplieranno la nostra conoscenza del Sistema solare e ispireranno future esplorazioni»

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Il team della missione Europa Clipper festeggia il lancio di Europa Clipper dalla Mission Support Area del centro di controllo missione al Jet Propulsion Laboratory della Nasa. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech

Europa Clipper raggiungerà il sistema di Giove nell’aprile del 2030, compiendo due assist gravitazionali. La prima manovra di assist sarà offerta da Marte, verso cui la sonda è diretta, arrivando a una distanza compresa tra 480 e 950 chilometri dalla superficie. A questo punto la sonda si dirigerà di nuovo verso la Terra, arrivando a circa tremila chilometri dal nostro pianeta. Grazie a queste manovre, Europa Clipper raggiungerà la velocità necessaria per arrivare a destinazione. Una volta raggiunto il pianeta, la sonda accenderà i motori e si inserirà in orbita attorno corpo celeste. Da quel momento in poi, e per circa un anno, la navicella spaziale modificherà la sua traiettoria orbita dopo orbita, preparandosi per il primo sorvolo di Europa. Durante i suoi quattro anni di missione primaria, Europa Clipper sorvolerà Europa ben 49 volte e da angolazioni diverse, in modo da mappare quasi l’intera superficie. Durante ogni sorvolo, la suite di strumenti scientifici a bordo – nove in tutto – effettuerà misurazioni e raccoglierà immagini utili agli scienziati per determinare se sotto la superficie ghiacciata della luna ci siano condizioni tali da poter ospitare la vita. La scienza che farà la missione include la raccolta di misurazioni dell’oceano interno, la mappatura della composizione chimica e della geologia della superficie, la ricerca di pennacchi di vapore acqueo che potrebbero fuoriuscire dalla sua crosta ghiacciata. Se Europa Clipper dovesse stabilire che la luna gioviana è abitabile, ciò potrebbe significare che nel Sistema solare e oltre ci sono più mondi abitabili di quanto si pensi.

Bill Nelson, amministratore della Nasa, ha commentato così il successo del lancio della missione: «Congratulazioni al team di Europa Clipper per aver reso possibile questo primo viaggio verso un mondo oceanico oltre la Terra. La Nasa è leader mondiale nell’esplorazione e nella scoperta, e la missione Europa Clipper non fa eccezione. Esplorando l’ignoto, Europa Clipper ci aiuterà a comprendere meglio se esiste il potenziale per la vita non solo all’interno del Sistema solare, ma anche tra i miliardi di lune e pianeti oltre il nostro Sole».

Per saperne di più:

Rivedi il lancio di Europa Clipper sul canale YouTube del Jpl della Nasa:

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Una dieta a base di asteroidi


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L’alimentazione degli astronauti impegnati nelle future missioni spaziali a lungo termine potrebbe essere a base di asteroidi. Secondo un nuovo studio condotto da un team di ricerca della Western University, la trasformazione batterica della materia organica di asteroide come Bennu potrebbe fornire tanto cibo da sfamare i futuri esploratori dello spazio per moltissimi anni. Crediti: Illustrazione artistica creata con Adobe AI

Con i programmi spaziali Artemis e Mars Exploration la Nasa punta rispettivamente a stabilire la presenza umana sostenibile sulla Luna e a inviare un equipaggio su Marte entro il 2030. Trattandosi di missioni spaziali a lungo termine, durante questi viaggi gli astronauti e le astronaute che saranno ingaggiati dovranno affrontare diverse sfide. Una di queste sfide riguarda la disponibilità di cibo. Un requisito essenziale per l’esplorazione spaziale a lungo termine è infatti l’indipendenza dall’utilizzo di alimenti provenienti da missioni di rifornimento sulla Terra. Per superare questo problema, diverse agenzie spaziali stanno già sviluppando strategie alternative. La coltivazione di cibo e l’allevamento di animali nello spazio, come pure la produzione di biomassa commestibile a partire dalla plastica, sono alcune strategie. Questi approcci, tuttavia, richiedono inizialmente un notevole apporto di materie prime dalla Terra e potrebbero richiedere comunque rifornimenti periodici. C’è però un’alternativa che permetterebbe di diventare completamente indipendenti dalla Terra per il cibo. A proporla è un team di ricercatori della Western University e prevede di… mangiare asteroidi. No, non intendiamo letteralmente. L’idea fonda le sue basi sulla metodica di produzione di biomassa commestibile ​​a partire da batteri che “mangiano” la plastica. In questo caso, però, le materie prime non sono le plastiche, ma la materia organica presente negli asteroidi. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista International Journal of Astrobiology.

«Per l’esplorazione dello spazio profondo siamo sempre legati alla Terra» sottolinea Eric Pilles, ricercatore alla Western University e primo autore della pubblicazione. «Se si vuole davvero andare lontano, l’unico modo per farlo è produrre cibo nello spazio. E se non si vogliono portare in missione fonti di carbonio, il che significherebbe imbarcare grandi quantità di cibo liofilizzato, è necessario un metodo per poter utilizzare ciò che si trova nello spazio. Gli asteroidi si trovano là, il che significa che c’è molto carbonio».

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Immagine che mostra il bioreattore, un apparato per la crescita di microorganismi in condizioni controllate, presente nei laboratori della Western University. Crediti: Western Communications

Le attuali tecnologie che permettono di ottenere cibo dalla plastica sfruttano la pirolisi. Si tratta di un processo di decomposizione termica della materia; una sorta di cottura senza ossigeno. La scissione delle molecole alle alte temperature produce sostanzialmente tre prodotti, uno dei quali, l’olio di pirolisi, se trasferito all’interno di un bioreattore, può essere convertito in biomassa commestibile a opera di alcune specie batteriche.

Diversi studi hanno già valutato la possibilità di applicare la stessa metodologia alla materia organica insolubile presente nelle meteoriti, in particolare alla materia organica delle condriti carbonacee, meteoriti ricche di carbonio per loro natura. In tutti questi casi, è stata dimostrata in laboratorio la capacità di alcune comunità di batteri di utilizzare la materia organica meteorica come fonte di carbonio, metabolizzarla e convertirla direttamente in biomassa.

Il quesito che si sono posti Eric Pilles e colleghi nel loro studio è: qual è la potenziale resa alimentare di questo processo? Detto in altri termini, quanto cibo si potrebbe ottenere dalla trasformazione batterica della materia organica presente in un asteroide? E ancora, data la massa di un asteroide, ad esempio Bennu, per quanto tempo potremmo soddisfare la richiesta di cibo degli astronauti?

Per rispondere a questa domanda i ricercatori si sono serviti di diverse formula matematiche, utilizzando come base di partenza per i loro calcoli l’abbondanza di idrocarburi alifatici presenti nel meteorite di Murchison, un pezzo di asteroide caduto in Australia oltre 50 anni fa. Risolvendo queste formule matematiche, gli scienziati hanno prima determinato la massa della materia organica presente nel meteorite. Hanno poi valutato la quantità di massa estraibile per la produzione alimentare e di questa hanno calcolato la biomassa che è teoricamente possibile ottenere dalla trasformazione operata dai batteri “mangia-plastica”. I risultati ottenuti sono stati infine utilizzati per determinare sia la quantità di biomassa commestibile estraibile da Bennu, l’asteroide bersaglio della missione di ritorno del campione Osiris-Rex, in questo caso usato come modello, sia il numero di anni di sostentamento che l’asteroide sarebbe in grado di fornire agli astronauti, supponendo che venga mantenuta la dieta standard della Nasa di 2500 calorie al giorno.

Ebbene, considerata la massa di Bennu – pari a circa 77 milioni di tonnellate – e considerando uno scenario in cui sia possibile estrarre tutta la materia organica insolubile presente nell’asteroide, secondo i calcoli dei ricercatori la quantità di cibo ottenibile è impressionante.

Questo studio è un esercizio matematico che esplora la potenziale resa alimentare che potrebbe essere prodotta sfruttando i batteri “mangia-plastica”, scrivono i ricercatori. Utilizziamo l’abbondanza di idrocarburi alifatici nel meteorite di Murchison per determinare quanto cibo potrebbe teoricamente essere estraibile da un asteroide. I nostri risultati suggeriscono che, se tutta la materia organica insolubile di Bennu venisse estratta, la quantità di cibo ottenibile sarebbe compresa tra le mille e le seimila tonnellate. Una quantità che fornirebbe da 500 milioni a 10 miliardi di calorie, sufficienti a supportare la vita di un astronauta per un periodo compreso tra 600 e 17mila anni.

Sulla base di questi risultati, l’approccio di utilizzare il carbonio degli asteroidi come fonte di cibo per gli esseri umani che esploreranno il Sistema solare sembra promettente, anche se c’è ancora molto lavoro da fare.

Dal punto di vista sperimentale, sottolineano i ricercatori, bisognerà pensare a degli esperimenti di laboratorio in cui a essere dato in pasto ai batteri sia una roccia analoga per composizione e struttura alla materia organica asteroidale, ad esempio il cherogene, suggeriscono gli autori. Bisognerà poi valutare la tossicità di questa biomassa per l’essere umano e testarne la resa proteica. E ancora, bisognerà testare il funzionamento di un bioreattore nello spazio usando pezzi di asteroidi e ripetere i test sulla tossicità per gli esseri umani. Dal punto di vista pratico, poi, bisognerà esaminare le questioni legate all’estrazione della materia organica dagli asteroidi e il suo trasporto nell’insediamento spaziale per la conversione in biomassa. Se tutte queste future linee di ricerca dessero risultati promettenti, concludono, asteroidi selezionati potrebbero fornire le materie prime – composti organici e acqua – necessarie per creare una filiera alimentare extraterrestre.

Per saperne di più:



Sardinia Radio Telescope e Seti, ecco i primi risultati


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In occasione del Congresso internazionale di astronautica (Iac) in corso a Milano fino al 18 ottobre, la collaborazione tra l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e il progetto Breakthrough Listen presenta i primi risultati scientifici ottenuti con le osservazioni dedicate al programma Seti (Search for extraterrestrial intelligence) effettuate con il Sardinia Radio Telescope (Srt) dell’Inaf in Sardegna. Lo studio, in cui sono state investigate nuove frequenze di osservazione, è stato condotto a partire dal 2022 da un team di quattro giovani studenti di Cagliari e Bologna.

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Crediti: Danielle Futselaar / Breakthrough Listen

Con la sua parabola di 64 metri di diametro, il Sardinia Radio Telescope è uno dei dieci radiotelescopi più grandi del pianeta posizionandosi, inoltre, tra i più performanti e tecnologicamente avanzati in quanto in grado di ricevere un ampio spettro di frequenze radio, da 300 MHz a 116 GHz. Caratteristiche che lo rendono ideale anche per la ricerca di vita intelligente. Da qui la nascita di una specifica partnership tra Inaf e Breakthrough Listen, che ha portato alle prime osservazioni, effettuate durante il 2021.

Il team che nel 2022 ha analizzato questi dati è composto da Lorenzo Manunza, Monica Mulas, Luca Pizzuto e Alice Vendrame, quattro studenti delle università di Cagliari e di Bologna che nell’estate di due anni fa, sotto la supervisione degli esperti Inaf Andrea Melis e Maura Pilia e di alcuni colleghi americani, hanno condotto uno studio – il primo congiunto tra Inaf e Breakthrough Listen – intitolato “The First High Frequency Technosignature Search Survey with the Sardinia Radio Telescope”, sottomesso alla rivista Acta Astronautica.

Il contributo del radiotelescopio italiano è stato quello di osservare a particolari frequenze – in banda C (6,5 GHz) e in banda K (18 GHz) – la regione centrale della nostra Via Lattea, in cui si concentra una grande quantità di stelle e relativi sistemi planetari, oltre a 72 stelle designate come “sorgenti di interesse” dalla missione Tess (Transiting Exoplanet Survey Satellite) della Nasa.

«Ci sono buone ragioni per pensare che un ingegnere extraterrestre possa conoscere e utilizzare la tecnologia radio, ma non possiamo fare ipotesi sulle frequenze a cui potrebbe farlo», spiega Lorenzo Manunza, primo autore del nuovo articolo. «Ecco perché è fondamentale che copriamo quanti più canali radio possibile utilizzando una gamma quanto più variegata di strutture osservative».

«Il Breakthrough Listen ha precedentemente pubblicato i risultati delle osservazioni di target Tess e del Centro galattico utilizzando altri telescopi», ricorda il project scientist responsabile delle relazioni internazionali di Breakthrough Listen Vishal Gajjar, coautore del nuovo studio. «Le nuove osservazioni Srt sono complementari, coprono alcune delle frequenze precedentemente scansionate, ma si estendono anche a nuove parti dello spettro radio, attorno ai 18 GHz».

Con sede presso l’Università di Oxford, le ricercatrici e i ricercatori che lavorano al progetto Breakthrough Listen hanno l’obiettivo di portare avanti la più massiccia ricerca di “tecno-firme” – o segnali di vita intelligente nell’universo – mai condotta prima. Strutture in tutto il mondo collaborano al progetto, tra cui molti dei più potenti radiotelescopi, nonché osservatori all’avanguardia che operano in altre regioni dello spettro elettromagnetico. L’obiettivo è esaminare un milione di stelle vicine, l’intero piano galattico e cento galassie circostanti.

«È emozionante vedere le ricerche di tecno-firme espandersi a nuove strutture ed è fantastico che i ricercatori all’inizio della loro carriera abbiano l’opportunità di lavorare sulle importanti sfide scientifiche e ingegneristiche per rendere queste ricerche una realtà», osserva Karen Perez, ricercatrice che lavora con Breakthrough Listen presso la Columbia University. Perez, anche lei co-autrice della pubblicazione, ha guidato l’analisi dei dati del Centro galattico osservati con Srt, ed ha fatto da mentore formando gli studenti italiani grazie proprio alla sua esperienza come ex stagista estiva Breakthrough Listen.

«La ricerca di intelligenza extraterrestre fornisce notevoli ritorni scientifici», aggiunge l’astrofisica dell’Inaf di Cagliari Maura Pilia, co-autrice dell’articolo nonché responsabile scientifica dei tirocinanti Seti presso Srt. «Ma oltre ad aiutarci a rispondere alla profonda domanda: ‘Siamo soli?’, possiamo utilizzare gli stessi set di dati per fare scienza ausiliaria quasi gratuitamente. Ciò potrebbe includere ricerche di sorgenti radio transitorie come i lampi radio veloci, così come studi di esopianeti, che non sono stati sufficientemente esplorati a queste alte frequenze radio fino a oggi».

«Nonostante non siano stati rilevati segnali extraterrestri confermati nelle nuove osservazioni», conclude il coordinatore Srt Seti e coautore dello studio, Andrea Melis, dell’Inaf di Cagliari, «Srt sta contribuendo a ridurre le incertezze sulla potenza che dovrebbero avere eventuali trasmettitori extraterrestri per poterci raggiungere nelle frequenze finora osservate. I risultati saranno un prezioso contributo alla letteratura scientifica».

L’interesse internazionale per il programma Seti sta indubbiamente crescendo. Solo pochi giorni fa si è concluso a Cagliari il terzo Seti Italy Workshop 2024, che ha riunito oltre cento ricercatori da tutto il mondo compresi i vertici di Inaf, Breakthrough Listen e Seti Institute. Ora, anche al Congresso internazionale di astronautica sarà dedicata un’intera giornata alla ricerca di intelligenza extraterrestre.

Per saperne di più:

  • Leggi il preprint dell’articolo “The First High Frequency Technosignature Search Survey with the Sardinia Radio Telescope”, di Lorenzo Manunza, Alice Vendrame, Luca Pizzuto, Monica Mulas, Karen I. Perez, Vishal Gajjar, Andrea Melis, Maura Pilia, Delphine Perrodin, Giambattista Aresu, Marta Burgay, Alessandro Cabras, Giuseppe Carboni, Silvia Casu, Tiziana Coiana, Alessandro Corongiu, Steve Croft, Elise Egron, Owen A. Johnson, Adelaide Ladu, Matt Lebofsky, Francesca Loi, David MacMahon, Emilio Molinari, Matteo Murgia, Alberto Pellizzoni, Tonino Pisanu, Antonio Poddighe, Erika Rea, Andrew Siemion, Paolo Soletta, Matteo Trudu e Valentina Vacca

Astronomia - Gruppo Forum ha ricondiviso questo.


In queste serate si può provare ad osservare la #cometa C/2023 A3 (Tsuchinshan-ATLAS).

Purtroppo il cielo è velato in questi giorni in #Romagna, ma qualcuno è riuscito a fotografarla o ad osservarla con un #binocolo, e chi si è trovato in una zona col cielo sereno riferisce di averla vista ad occhio nudo con una lunga coda.

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@astronomia

#astronomia #astrofili #faenza #scienza #divulgazione #divulgazionescientifica #scienze #italia #space #astronomy #starparty

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in reply to Gruppo Astrofili Faenza APS

In ogni caso è meglio non avere troppe aspettative per evitare delusioni, soprattutto per chi osserva ad occhio nudo, tenendo anche conto che la cometa si sta allontanando dal Sole e dalla Terra, e col passare dei giorni diventerà sempre meno luminosa. Col binocolo (consigliati 8x40, 10x50 o 7x50) o con un piccolo telescopio, sarà un bell'oggetto da osservare per tutto il mese di ottobre 2024.

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in reply to Gruppo Astrofili Faenza APS

Per chi fotografa o osserva con binocolo o telescopio il 15 ottobre sarà vicina all'ammasso globulare M5 e alla cometa 13P/Olbers (quest'ultima è molto debole e alla portata di astrofotografi esperti)

Per trovarla la sera, potete usare questa mappa, oppure una apposita app come Stellarium.

Meteo permettendo, potrete osservare la cometa con noi al Parco delle Ginestre domenica 20 (osservazione pubblica) e martedì 22 ottobre (Binocular Classroom su prenotazione), seguiranno dettagli.

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Bianca Garilli: il ricordo del gruppo Cosmos


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Bianca Garilli, 10/10/1959 – 30/09/2024

Bianca non è più con noi. Comunque si provi a rigirare la notizia, quel che ne rimane è un enorme vuoto, sia dal lato umano che da quello lavorativo. I tanti progetti ai quali avevamo partecipato sono oggi orfani della sua presenza, del suo essere partecipe in un modo mai banale e tranquillo, con un impegno totale, quasi viscerale. Da sempre sostenitrice del concetto di survey, in contrasto con lo studio di singoli oggetti, magari affascinanti ma poco rappresentativi della varietà reale presente nell’universo, ha sviluppato nel corso degli anni un concetto sempre più evoluto di progetto astronomico. In questo modello, sviluppo strumentale, pianificazione e gestione delle osservazioni, raccolta e analisi dei dati si integrano in un processo unico e coordinato. E così siamo passati dalla realizzazione dello spettrografo Vimos alle molte survey spettroscopiche che ne hanno sfruttato al meglio le capacità (includendo i progetti Vvds, zCosmos, Vuds, Vipers, Vandels), per arrivare poi al progetto Euclid, senza dubbio la sfida più grande e complessa di tutte.

Come gruppo abbiamo partecipato assieme a lei a questi grandi progetti, e stiamo contribuendo a gettare le basi per la partecipazione a progetti futuri di altrettanto valore e risonanza, come la realizzazione degli spettrografi Moons e Mosaic, o la progettazione del telescopio Wst. E la spinta concreta che ha portato a queste partecipazioni è pressoché sempre arrivata da lei, dal suo entusiasmo, dal suo abbracciare un progetto con grande grinta e partecipazione totale, e anche dalla sua capacità di scegliere progetti vincenti, o comunque di rendere vincenti i progetti a cui ha partecipato.

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Bianca Garilli. Crediti: Marco Scodeggio/Inaf Iasf Milano

Lavorare con lei non è sempre stato facile, perché l’impegno richiesto era sempre massimo, e le interazioni a volte arrivavano molto vicine al litigio, se non alle sfuriate il cui riverbero faceva eco lungo il corridoio dell’istituto. Ma era un modo di operare alimentato dalla passione, dal desiderio di spingere tutti a dare il meglio di se stessi, senza rancore o musi lunghi ad appesantire l’aria nei momenti seguenti. Ed un po’ alimentato anche dalla sua notevole capacità di trovare sempre “il baco”, fosse questo nascosto in un pezzo di software, nel piano logico di realizzazione di un progetto, o in una qualche analisi scientifica portata avanti all’interno del gruppo, e dalla sua “ostinazione” nel volerlo far notare.

E il fatto di essere qui oggi a vivere questo momento come un vero gruppo, e non solo un insieme di persone che casualmente si trovano a lavorare nello stesso piano di un edificio a Lambrate (il quartiere di Milano, non la stazione ferroviaria…), credo possa essere considerato come una delle eredità importanti che Bianca lascia dietro di se. Certo, dover essere qui a parlare di eredità, per quanto positiva questa possa essere, mette una infinita tristezza. Ma abbiamo la certezza che in futuro, quando ripenseremo ai momenti trascorsi assieme, saremo felici di portare un pezzetto di quella eredità dentro di noi.

Per il gruppo Cosmos Iasf-Milano: Marco Scodeggio, Adriana Gargiulo, Chiara Mancini, Dario Bottini, Eleonora Villa, Giustina Vietri, Letizia Cassarà, Manuela Melina, Marco Fumana, Mari Polletta, Melita Carbone, Micol Rossati, Paolo Franzetti e Susanna Bisogni



L’anno dell’intelligenza artificiale


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Dall’alto, i due vincitori del Nobel per la fisica e i tre del Nobel per la chimica 2024. Crediti: Nobel Prize Outreach

Come ogni anno all’inizio di ottobre la comunità scientifica ha assistito trepidante all’annuncio dei vincitori dei premi Nobel, il riconoscimento più prestigioso per ricercatori e ricercatrici di tutto il mondo. Nelle settimane precedenti si erano susseguite le ipotesi non solo su chi potessero essere i vincitori, ma quali scoperte e quali area della fisica, della chimica e della ricerca medica venissero premiate dall’Accademia delle scienze di Svezia. Come ogni anno le previsioni sono state smentite e, un po’ a sorpresa, i premi per la fisica e la chimica che normalmente seguono percorsi indipendenti hanno avuto un unico protagonista comune: l’intelligenza artificiale.

Il Nobel per la fisica 2024 è stato consegnato a John J. Hopfield e Geoffrey E. Hinton, che negli anni ‘80 hanno sviluppato alcuni strumenti matematici che sono alla base dei moderni algoritmi di intelligenza artificiale. Il Nobel per la chimica è stato invece assegnato a tre scienziati – David Baker, Demis Hassabis e John Jumper – per i loro contributi agli studi della struttura delle proteine. In particolare, Hassabis e Jumper hanno sviluppato un algoritmo basato sull’intelligenza artificiale che consente di ricostruire la struttura di una proteina a partire dagli amminoacidi che la compongono.

La ricerca sui fondamenti dell’intelligenza artificiale è per sua natura interdisciplinare, con rimandi sia alla matematica a all’informatica, che alla biologia e alla fisica. Nell’insignire John J. Hopfield e Geoffrey E. Hinton del premio Nobel per la fisica il comitato ha voluto sottolineare la somiglianza tra il loro lavoro teorico nel simulare l’apprendimento automatico e alcuni sistemi fisici complessi, come per esempio i materiali magnetici. Anche se alcuni di questi algoritmi sono stati ormai sorpassati, il campo dell’intelligenza artificiale continua a ispirarsi a quello della fisica teorica. Per esempio, il recente algoritmo Stable Diffusion, utilizzato per generare immagini realistiche, si basa sulla stessa matematica che descrive il processo di diffusione in termodinamica. Queste somiglianze si estendono oltre il piano matematico: sia in fisica che nello studio dell’intelligenza artificiale i ricercatori descrivono fenomeni complessi a partire da modelli semplificati sfruttando eleganti basi matematiche.

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Astronauta a cavallo. Immagine generata con NightCafe Studio in Stable Diffusion XL mode (1.0) Stable Diffusion. Crediti: VulcanSphere/Wikimedia Commons

Gli algoritmi sviluppati da pionieri come Geoffrey E. Hinton hanno dato lo slancio al moderno boom dell’apprendimento automatico. L’intelligenza artificiale, infatti, oramai ci circonda e contribuisce non solo a migliorare le raccomandazioni sul prossimo film da guardare, ma anche a predire eventi climatici estremi o migliorare la diagnostica medica. Non è dunque un’esagerazione sostenere che il Nobel per la fisica di quest’anno onora chi ha posto le basi teoriche di una delle scoperte che più hanno rivoluzionato la nostra vita quotidiana.

In ambito scientifico, l’applicazione finora più spettacolare dell’intelligenza artificiale è la predizione della struttura tridimensionale delle proteine, che quest’anno è stata consacrata con il Nobel per la chimica a Hassabis e Jumper. Le proteine sono le molecole alla base della vita e sono formate da unità semplici: gli amminoacidi. Esistono solo venti amminoacidi in natura, ma questi mattoncini della vita possono essere combinati in un numero pressoché infinito di proteine con forme diverse. La forme delle proteine ne determina la funzione, e quindi l’importanza biologica. Per più di cinquant’anni è stato però molto difficile predire su basi teoriche la struttura tridimensionale delle proteine a partire dalla loro sequenza di amminoacidi. La soluzione a questo problema ha richiesto uno sforzo da parte di tutta la comunità scientifica. Ogni due anni, a partire dal 1994, i chimici hanno pubblicato una lista di proteine la cui struttura, determinata tramite esperimenti di laboratorio, viene mantenuta segreta a tutti, inclusi gli organizzatori della sfida. Più di cento gruppi si sfidano cercando di predire su base teorica nella maniera più precisa possibile la struttura corretta. I ricercatori del Google Lab Deep Mind, combinando conoscenze di biologia, neuroscienze e informatica, vinsero la sfida nel 2018 e nel 2020 con il programma AlphaFold, raggiungendo una precisione molto più alta che in precedenza e paragonabile a quella ottenuta in laboratorio.

Da questo risultato possiamo fare alcune riflessioni. La soluzione al problema scientifico è stata raggiunta fornendo a una vasta comunità gli strumenti per contribuire a risolverlo. Per far questo è stato definito un unico campione di dati pubblico su cui lavorare e un metodo unico per verificare i risultati. Questo approccio ha consentito anche a gruppi esterni al mondo della chimica e della biologia, come i ricercatori di Google, di contribuire trovando soluzioni innovative.

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Germano Sacco (sx) e Francesco Belfiore (dx) dell’Inaf di Arcetri, autori di questo commento, sono impegnati – insieme a Laura Magrini, Lorenzo Pino e Francesco Zibetti (tutti dell’Inaf di Arcetri) – nel progetto Malspec (Machine learning for spectroscopy), finanziato con un techno grant Inaf per lo sviluppo di un software basato sull’intelligenza artificiale per l’analisi dei dati spettroscopici in astronomia

Anche nell’ambito dell’astrofisica, l’intelligenza artificiale sta cambiando il modo di fare ricerca. La marea di dati prodotti dai grandi telescopi, che aumenterà esponenzialmente nel vicino futuro, richiede l’utilizzo di algoritmi di intelligenza artificiale per essere analizzata in maniera rapida ed efficace. L’intelligenza artificiale ci aiuterà a stimare più accuratamente i parametri cosmologici, a trovare oggetti rarissimi in cielo, o a caratterizzare l’atmosfera dei pianeti extrasolari. La complessità dei dati rende inoltre difficile per i ricercatori trovare le relazioni fondamentali, aprendo quindi la possibilità che l’intelligenza artificiale trovi nuova fisica, che vada oltre le ipotesi attualmente formulate dai ricercatori. Dobbiamo ammettere, però, che l’astrofisica è ancora agli albori di questa rivoluzione. L’astrofisica non ha ancora avuto il suo “momento AlphaFold” ed è difficile speculare in che modo esso potrebbe avvenire in futuro.

Sia il premio Nobel per la fisica che quello per la chimica premiano, oltre che l’intelligenza artificiale, anche la capacità – molto umana – di collegare discipline sostanzialmente diverse. Nel primo caso si usa la fisica per capire il funzionamento del cervello e per sviluppare nuovi algoritmi, nel secondo si usa l’informatica e le conoscenze di chimica per risolvere problemi di base della biologia. Forse la lezione più importante per la comunità astronomica è che, per sfruttare appieno le potenzialità di queste nuove tecnologie, sarà necessario rendere i dati raccolti da grandi telescopi a terra e nello spazio ancora più facilmente accessibili e lavorare in sinergia con esperti di altre discipline per risolvere insieme i grandi misteri dell’universo.



Le prove di una esoluna vulcanica su Wasp-49 b


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Questa rappresentazione artistica raffigura una potenziale luna vulcanica tra l’esopianeta Wasp-49 b, a sinistra, e la sua stella madre. Nuove evidenze indicano che una massiccia nube di sodio osservata vicino a Wasp-49 b non è prodotta né dal pianeta né dalla stella, e hanno spinto i ricercatori a chiedersi se la sua origine potrebbe essere una esoluna. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech

Una nuova ricerca condotta dal Jet Propulsion Laboratory (Jpl) della Nasa rivela quella che sembra essere a tutti gli effetti l’evidenza di una luna rocciosa e vulcanica in orbita attorno a un esopianeta distante 635 anni luce dalla Terra. L’indizio più importante è una nube di sodio che, secondo i risultati, è vicina ma leggermente sfasata rispetto all’esopianeta, un gigante gassoso delle dimensioni di Saturno chiamato Wasp-49 b, anche se saranno necessarie ulteriori ricerche per confermare il comportamento della nube. Ma i presupposti ci sono, visto che all’interno del Sistema solare un fenomeno simile è associato alla luna vulcanica di Giove, Io.

Sebbene non sia mai stata confermata la presenza di esolune (lune di pianeti al di fuori del nostro sistema solare), sono stati identificati diversi candidati. È probabile che questi compagni planetari non siano stati individuati perché troppo piccoli e poco luminosi per essere rilevati dai telescopi attuali.

La nube di sodio intorno a Wasp-49 b è stata rilevata per la prima volta nel 2017, attirando l’attenzione di Apurva Oza, all’epoca ricercatore post-dottorato presso il Jpl e ora scienziato del Caltech. Oza ha trascorso anni a studiare come le esolune potrebbero essere rilevate attraverso la loro attività vulcanica. Per esempio, Io – il corpo vulcanicamente più attivo del Sistema solare – emette costantemente anidride solforosa, sodio, potassio e altri gas che possono formare vaste nubi intorno a Giove, fino a mille volte il raggio del pianeta gigante. È plausibile che gli astronomi che osservano un altro sistema stellare riescano a rilevare una nube di gas come quella di Io, anche se la luna stessa è troppo piccola per essere vista.

Sia Wasp-49 b che la sua stella sono composti principalmente da idrogeno ed elio, con tracce di sodio. Nessuno dei due contiene abbastanza sodio da giustificare la nube, che sembra provenire da una sorgente che produce circa 100mila chilogrammi di sodio al secondo. Anche se la stella o il pianeta potessero produrre così tanto sodio, non è chiaro quale meccanismo potrebbe espellerlo nello spazio.

La sorgente potrebbe essere una esoluna vulcanica? Oza e i suoi colleghi hanno cercato di rispondere a questa domanda. Il lavoro si è rivelato subito impegnativo perché, da una distanza così grande, la stella, il pianeta e la nube spesso si sovrappongono, lungo la linea di vista. Il team ha quindi dovuto osservare il sistema nel tempo.

Come dettagliato in un nuovo studio pubblicato su Astrophysical Journal Letters, i ricercatori hanno trovato diversi elementi che suggeriscono che la nube è creata da un corpo separato in orbita attorno al pianeta, anche se sono necessarie ulteriori ricerche per confermare il comportamento della nube. Per esempio, due volte le loro osservazioni hanno indicato che la nube aumentava improvvisamente di dimensioni, come se fosse rifornita di carburante, quando non si trovava vicino al pianeta.

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Una nuova ricerca condotta dalla Nasa suggerisce che la nube di sodio osservata intorno all’esopianeta Wasp-49 b potrebbe essere creata da una luna vulcanica, raffigurata qui. A sostegno di questa ipotesi, la luna vulcanica di Giove, Io, produce una nube simile. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech

Hanno anche osservato la nube muoversi più velocemente del pianeta, in un modo che sembrerebbe impossibile se non fosse generata da un altro corpo che si muove indipendentemente e più velocemente del pianeta stesso. «Pensiamo che questa sia una prova davvero fondamentale», riferisce Oza. «La nube si muove nella direzione opposta a quella che la fisica ci dice dovrebbe prendere se facesse parte dell’atmosfera del pianeta».

Sebbene queste osservazioni abbiano incuriosito il team, i ricercatori affermano che avrebbero bisogno di osservare il sistema più a lungo per essere sicuri dell’orbita e della struttura della nube.

Per una parte del lavoro, i ricercatori hanno utilizzato il Very Large Telescope dell’European Southern Observatory in Cile. Con questi dati Julia Seidel, coautrice dello studio che lavora all’Osservatorio, ha stabilito che la nube si trova sopra l’atmosfera del pianeta, proprio come la nube di gas che Io produce intorno a Giove.

Hanno inoltre utilizzato un modello al computer per illustrare lo scenario dell’esoluna e confrontarlo con i dati. L’esopianeta Wasp-49 b orbita intorno alla stella ogni 2,8 giorni con una regolarità paragonabile a quella di un orologio, ma la nube è apparsa e scomparsa dietro la stella o dietro il pianeta a intervalli apparentemente irregolari. Utilizzando il loro modello, hanno dimostrato che una luna con un’orbita di otto ore intorno al pianeta potrebbe spiegare il movimento e l’attività della nube, compreso il modo in cui a volte sembrava muoversi davanti al pianeta e non sembrava essere associata a una particolare regione del pianeta.

«L’evidenza è molto convincente: qualcosa di diverso dal pianeta e dalla stella sta producendo questa nube», dichiara Rosaly Lopes, geologa planetaria del Jpl, coautrice dello studio insieme a Oza. «Individuare una esoluna sarebbe davvero straordinario e, grazie a Io, sappiamo che un’esoluna vulcanica può esistere».

Sulla Terra, i vulcani sono spinti dal calore del nucleo lasciato dalla formazione del pianeta. I vulcani di Io, invece, sono guidati dalla gravità di Giove, che “stringe” la luna quando si avvicina al pianeta e riduce la sua “presa” quando la luna si allontana. Questa flessione riscalda l’interno della piccola luna, portando a un processo chiamato vulcanismo mareale.

Se Wasp-49 b ha una luna di dimensioni simili a quelle della Terra, Oza e il team stimano che la rapida perdita di massa, combinata con la compressione esercitata dalla gravità del pianeta, ne provocherà alla fine la disintegrazione. «Se c’è davvero una luna, avrà una fine molto distruttiva», conclude Oza.

Per saperne di più:

  • Leggi su Astrophysical Journal Letters l’articolo “Redshifted Sodium Transient near Exoplanet Transit” di Apurva V. Oza, Julia V. Seidel, H. Jens Hoeijmakers, Athira Unni, Aurora Y. Kesseli, Carl A. Schmidt, Thirupathi Sivarani, Aaron Bello-Arufe, Andrea Gebek, Moritz Meyer zu Westram


Tutti in gita all’Isola delle stelle


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Locandina del CodyTrip alle Canarie. Crediti: codemooc.org

CodyTrip – il format delle gite scolastiche online che ogni anno coinvolge oltre 50mila partecipanti, ideato e condotto da Alessandro Bogliolo dell’Università di Urbino “Carlo Bo” – sta per sbarcare, con la collaborazione dell’Istituto nazionale di astrofisica, alle Canarie. La meta del viaggio che si terrà il 22 e 23 ottobre è San Miguel de La Palma, un’isola vulcanica sulla cui vetta si trova l’Osservatorio del Roque de Los Muchachos, uno dei migliori posti al mondo per l’osservazione astronomica del cielo, disseminato di cupole che ospitano tra i più potenti telescopi del pianeta. Tra questi, il Telescopio nazionale Galileo (Tng) dell’Inaf, diretto da Adriano Ghedina, il più importante strumento ottico della comunità astronomica italiana.

«Questo è il quarto CodyTrip che vede la partecipazione di Inaf, il primo di questo anno scolastico», commenta Bogliolo a Media Inaf. «In passato abbiamo portato decine di migliaia di persone in gita. Ora stiamo per partire per questa nuova avventura, che ci porterà più lontano, sul tetto dell’Isola delle stelle, dove insieme ai ricercatori e alle ricercatrici di Inaf conosceremo – e faremo conoscere a tante scuole e famiglie italiane – alcuni tra i più importanti telescopi al mondo».

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Alessandro Bogliolo e Adriano Ghedina al Tng, durante un sopralluogo in preparazione del CodyTrip. Crediti: Inaf/Tng/A. Bogliolo

«Si partirà la mattina di martedì 22 ottobre direttamente dal Centro visite del Roque de Los Muchachos. Poi, insieme a Gloria Andreuzzi di Inaf, visiteremo il Telescopio nazionale Galileo, il Gran Telescopio Canarias e i due telescopi Cherenkov di Magic», commenta Maura Sandri, principal investigator della proposta che ha ricevuto un grant per contribuire alla realizzazione di questo CodyTrip. «Dopo un pomeriggio trascorso a quota più bassa, con guide naturalistiche ed esperti che ci porteranno a scoprire la storia geologica dell’isola, alla sera torneremo in vetta per osservare – sempre in diretta – il cielo notturno. In questa occasione, in via del tutto eccezionale, i partecipanti potranno decidere dove puntare il Tng, scegliendo tra galassie, nebulose e ammassi stellari».

«L’obiettivo di queste iniziative, rivolte alle scuole di ogni ordine e grado, è quello di contribuire a disseminare la conoscenza e – nel caso dei luoghi dell’astrofisica – la passione per la scienza in generale e l’astronomia in particolare», aggiunge Sandri. «I CodyTrip rappresentano uno strumento molto potente per farlo, perché sono facilmente fruibili da tutti, senza barriere d’accesso di tipo economico o amministrativo, e riescono a raggiungere contemporaneamente migliaia di partecipanti, che possono interagire attivamente con le guide grazie a tecnologie digitali appositamente progettate da Digit».

Ricordiamo infine che questo CodyTrip rientra tra le iniziative della Europe Code Week – un’iniziativa promossa dalla Commissione europea per diffondere, soprattutto fra i più giovani, l’alfabetizzazione digitale – che quest’anno si aprirà il 14 ottobre e terminerà il 27 ottobre.

Il programma completo della gita online è riportato sulla pagina web dedicata, dove sono indicate anche le modalità di partecipazione. Il CodyTrip alle Canarie è organizzato da Digit srl, spinoff dell’Università di Urbino, in collaborazione con l’Università di Urbino, Giunti Scuola e Inaf.

Per saperne di più:

Guarda il webinar di presentazione del CodyTrip:

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Sotto i cieli lontani


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Graziano Chiaro, “Sotto i cieli lontani. Alla ricerca di civiltà extraterrestri”, Mondadori 2024, 116 pagine, 10 euro

Quando ho visto per la prima volta la sua copertina, sono rimasta colpita dal sottile schizzo riportato sotto al titolo: quello che mi è sembrato un albero, realizzato con tratto quasi infantile, su uno sfondo nero come il buio dello spazio profondo. Ho capito dopo che era di Charles Darwin, quello schizzo. Si tratta di un diagramma che rappresenta la varietà e l’evoluzione della vita sulla Terra a partire da un antenato comune. Il celebre naturalista lo tratteggiò nel 1837 su un taccuino, ritrovato un paio d’anni fa. Uno schizzo che aiutò a ispirare la sua teoria dell’evoluzione, che più di 20 anni dopo sarebbe diventata una teoria centrale nel suo lavoro rivoluzionario sull’origine delle specie. Ho quindi scoperto che è anche il simbolo della collana Scienza e Filosofia di Mondadori: simbolo della conoscenza, in un’avventura i cui ingredienti fondamentali sono lo spirito critico, l’apertura mentale e la capacità di indagare il mondo oltre l’apparenza. Di questa collana fa parte Sotto i cieli lontanidi Graziano Chiaro, e quel simbolo, sulla copertina, sta proprio bene, perché parla della ricerca della conoscenza e della vita.

Il saggio è fresco di stampa, uscito nelle librerie a settembre 2024. Sebbene sia un’opera breve (un centinaio di pagine che si leggono tutto d’un fiato, in poche ore), è densa di contenuti e riesce a combinare con efficacia la semplicità di un linguaggio scorrevole con la competenza scientifica di chi fa ricerca sul campo. L’autore è infatti ricercatore all’Istituto nazionale di astrofisica, impegnato da anni nel progetto SetiSearch for Extraterrestrial Intelligence, che ha ripreso vigore recentemente con il Breakthrough Listen– e nel suo libro conduce il lettore attraverso le affascinanti questioni legate alla ricerca di civiltà extraterrestri.

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Graziano Chiaro, astrofisico dell’Inaf di Milano e autore del libro “Sotto i cieli lontani”, edito da Mondadori. Crediti: G. Chiaro

Chiaro offre una panoramica completa e attuale delle ricerche nel campo del Seti, esplorando sia gli aspetti teorici che le metodologie utilizzate per cercare segni di vita intelligente oltre il nostro pianeta, compreso il Meti (Messaging to Extra-Terrestrial Intelligence, il Seti attivo). La passione dell’autore per l’argomento emerge chiaramente in ogni pagina e spinge il lettore a riflettere sul nostro posto nell’universo (dopo averlo portato a conoscenza delle migliaia di esopianeti a oggi conosciuti e dei vari tentativi compiuti per cercare i cosiddetti tecnosegnali), sulle difficoltà nel cercare altre forma di vita intelligente e sulle possibilità che si aprono nel trovarla, fino alla creazione del Post Detection Hub. Allo stesso tempo, Chiaro non alimenta facili illusioni: mantiene un approccio realistico e cauto, sottolineando le sfide e le incertezze che accompagnano questa affascinante sfida.

La narrazione è fluida, con un ritmo che cattura l’attenzione anche di chi non ha una formazione scientifica. Ogni capitolo offre spunti interessanti, dagli interrogativi su cosa significhi realmente “vita” o “intelligenza” all’analisi dei segnali radio e degli esopianeti potenzialmente abitabili.

In conclusione, Sotto i cieli lontani è una lettura veloce e stimolante, che apre a tanti possibili approfondimenti. È il libro ideale per chi è curioso di conoscere meglio l’affascinante mondo della ricerca della vita extraterrestre che, come diceva Carl Sagan e ricorda più volte l’autore, richiede necessariamente pazienza. Pazienza che verrà in ogni caso ripagata, perché «ogni cosa che verremo a sapere affinerà sempre di più quel poco che conosciamo, avvicinandoci comunque e in ogni caso alla verità».



Oasi d’ordine nel caos del problema dei tre corpi


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Nato a Bergamo nel 1989 da genitori salernitani, Alessandro Trani si è laureato a Milano, alla Bicocca, ha conseguito il dottorato in astrofisica alla Sissa di Trieste, poi è stato in Giappone per cinque anni, lavorando a Tokyo e a Okinawa. Da due anni è al Niels Bohr Institute, in Danimarca, come Marie-Curie fellow. Oltre all’astrofisica, le sue passioni sono la musica (suona la batteria) e la botanica (coltiva piante tropicali). Non ha mai visto la serie “Il problema dei tre corpi”. Crediti: Chris Tiede/Niels Bohr Institute

È uno fra i problemi irrisolvibili più celebri, quello dei tre corpi. Reso nei mesi scorsi ancor più popolare dall’omonima serie andata in onda su Netflix, e prima ancora dalla serie televisiva cinese Sān tǐ, tratta a sua volta dal romanzo fantascientifico del 2006 di Liu Cixin Il problema dei tre corpi. Ora i risultati di uno studio guidato da Alessandro Alberto Trani, astrofisico trentacinquenne nato a Bergamo e attualmente ricercatore in Danimarca al Niels Bohr Institute, consentono di compiere un importante passo avanti nella comprensione di alcuni suoi aspetti, individuando traiettorie regolari nello spazio delle fasi che ne riducono la caoticità – seppure non la complessità.

Lo studio è stato condotto seguendo un approccio numerico, e in particolare simulando con Tsunami – un codice sviluppato dallo stesso Trani mentre si trovava all’Università di Tokyo – milioni di interazioni fra tre corpi aventi masse paragonabili. Va infatti premesso che sistemi come quello in cui ci troviamo noi, il Sistema solare, pur essendo addirittura a n-corpi si comportano, almeno per intervalli di tempo relativamente contenuti, in modo abbastanza prevedibile: avendo due corpi – Giove e soprattutto il Sole – di massa molto superiore agli altri, si può assumere che i restanti abbiano una massa trascurabile, e che seguano dunque un moto ellittico attorno al centro di massa. Un’approssimazione accettabile, nota come problema dei tre corpi ristretto. Quando invece le tre masse sono paragonabili non c’è soluzione. Eppure anche in questa generale assenza di soluzioni – dice lo studio di Trani e colleghi – emergono alcune regolarità.

«La teoria afferma che quando tre oggetti si incontrano, la loro interazione evolve in modo caotico, senza regolarità e in modo completamente avulso dal punto di partenza. Ma milioni di simulazioni», spiega infatti Trani, «dimostrano che in questo caos ci sono intervalli – “isole di regolarità” – che dipendono direttamente dal modo in cui i tre oggetti sono posizionati l’uno rispetto all’altro al momento dell’incontro, nonché dalla loro velocità e dall’angolo di avvicinamento».

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Crediti: A. Trani et al., A&A, 2024

Nelle simulazioni eseguite con Tsunami i tre corpi hanno masse pari a 15, 17.5 e 12.5 volte la massa del Sole, con i primi due che formano un sistema binario, in orbita reciproca a 5 unità astronomiche di distanza, e il terzo che fa il suo ingresso nel sistema da una distanza di 100 unità astronomiche. I due parametri iniziali fatti variare nel corso delle simulazioni, come mostra l’immagine qui sopra, sono la fase del sistema binario, da 0 a 360 gradi, e l’angolo di avvicinamento del terzo oggetto, da 0 a 90 gradi.

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Uno dei milioni di esiti lo potete vedere avviando l‘animazione. All’inizio la binaria è formata dalla coppia verde-arancione, poi l’ingresso dell’intruso blu rende il sistema caotico, sancendo l’inizio al problema dei tre corpi, e dopo circa 120 anni di danza caotica il corpo verde viene espulso dal sistema, dove la nuova coppia rimasta è formata, questa volta, dai corpi arancione e blu.

Questo è solo uno degli innumerevoli possibili esiti. Nell’immagine qui sotto sono raccolti tutti gli esiti simulati. In orizzontale la fase iniziale della binaria, in verticale l’angolo di ingresso dell’intruso e nell’area interna, appunto, gli esiti, rappresentati da milioni di punti con il colore della particella espulsa – in rosso se è stata quella da 12.5 masse solari, in blu quella da 15 e in verde quella da 17.5. Ciò che subito salta agli occhi è che i punti colorati non sono distribuiti in modo del tutto caotico: alcune forme emergono in modo molto netto. Sono quelle che Trani chiama “isole di regolarità”.

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Crediti: A. Trani et al., A&A, 2024

«Se il problema dei tre corpi fosse puramente caotico», spiega il ricercatore, «vedremmo solo un miscuglio caotico di punti, con tutti e tre i possibili esiti che si mescolano senza alcun ordine distinguibile. Invece, da questo mare caotico emergono “isole” regolari, dove il sistema si comporta in modo prevedibile, portando a risultati uniformi – e dunque a colori uniformi».

È un risultato molto promettente per compiere un passo avanti nella comprensione del problema dei tre corpi, ma che al tempo stesso complica la faccenda: a differenza del caos puro, che perlomeno si può stimare con metodi statistici, questo strano caos intervallato da regolarità finisce per rendere i calcoli ancora più complessi.

«La nostra sfida ora è imparare a fondere i metodi statistici con i calcoli numerici, che offrono un’elevata precisione quando il sistema si comporta in modo regolare», dice Trani. «In questo senso, i miei risultati ci hanno riportato al punto di partenza, ma allo stesso tempo offrono la speranza di un livello di comprensione completamente nuovo nel lungo periodo».

Per comprendere meglio cosa, vi state chiedendo? Per esempio le onde gravitazionali, in particolare quelle prodotte da interazioni fra tre buchi neri che s’incontrano. Quanto al problema del sistema nel quale è ambientata la serie su Netflix, «da quel ho capito», dice Trani, che non l’ha mai vista, «si tratta di un sistema stellare con tre stelle e un pianeta, che viene regolarmente sottoposto a sviluppi caotici. Un sistema del genere è in realtà meglio definito come un problema dei quattro corpi. Ma comunque lo si definisca, secondo le mie simulazioni l’esito più probabile è che il pianeta venga rapidamente distrutto da una delle tre stelle. In breve tempo», sorride il ricercatore, «si ricondurrebbe dunque al problema dei tre corpi».

Per saperne di più:



Astronomia - Gruppo Forum ha ricondiviso questo.


Stanotte si prevede intensa #auroraboreale, ed è già stata avvistata all'altezza di Praga e Francoforte. Si vedrà anche da noi?

Ricordiamo che questa sera dalle 20:30 ci troviamo in sede, in Via Zauli Naldi 2 a Faenza. Se ci sarà qualcosa lo potremo vedere insieme! Male che vada vedremo la Luna, Saturno e altri oggetti celesti con binocoli e telescopi.

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@astronomia

#astronomia #aurora #astrofili #faenza #romagna #astrofili #space #spazio #scienza #divulgazione

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Così Marte diventò invivibile


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Marte oggi è un mondo inospitale per la vita come la conosciamo, ma miliardi di anni fa le cose potrebbero essere state molto diverse. Molteplici evidenze scientifiche suggeriscono infatti che in un lontano passato il pianeta potrebbe aver avuto acqua liquida in superficie, un’atmosfera più densa, un clima caldo e umido e un’intensa attività geologica e geotermica: un mix di caratteristiche che ne avrebbero fatto un mondo abitabile.

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Illustrazione artistica che mostra come sarebbe potuto apparire Marte miliardi di anni fa. Crediti: Nasa/The Lunar and Planetary Institute

La domanda che si pongono tutt’ora gli scienziati è: se davvero il pianeta era un tempo un mondo ospitale, come ha fatto a perdere le sue caratteristiche di abitabilità? Una risposta arriva ora grazie alle misurazioni effettuate Curiosity.

Utilizzato gli strumenti a bordo del rover della Nasa, un team di ricercatori del Goddard Space Flight Center ha misurato la composizione isotopica di alcuni minerali ricchi di carbonio e ossigeno trovati nel cratere Gale, ottenendo nuove indicazioni su come sia cambiato l’antico clima del pianeta, e con esso anche l’abitabilità. I risultati dello studio sono pubblicati nei Proceedings of the National Academy of Sciences.

Negli studi di paleoclimatologia, gli scienziati sono interessati alle analisi dei carbonati per la loro comprovata capacità di fungere da registri climatici. Questi minerali, infatti, possono conservare le firme degli ambienti in cui si sono formati, fornendo informazioni sul clima presente. Le firme in questione sono le composizioni isotopiche del carbonio e dell’ossigeno, i principali elementi chimici di cui sono costituiti i carbonati. Misurando le abbondanze di questi isotopi (varianti di uno stesso elemento chimico che differiscono solo per il numero di neutroni nel nucleo), gli scienziati possono ottenere preziose informazioni sulla temperatura, sulla composizione dell’acqua e dell’atmosfera presenti in una specifica epoca.

Su Marte i carbonati sono stati individuati in più punti da Curiosity. Le più alte abbondanze rilevate fino a oggi sono state registrate in quattro siti di perforazione all’interno del cratere Gale: Mary Anning, Bardou, Tapo Caparo (TC) e Ubajara (UB), suggerendo che questi minerali siano una componente significativa della stratigrafia di Marte. Data la loro importanza paleoclimatica, la suite di strumenti che costituiscono il Sample Analysis at Mars (Sam) – il più grande dei dieci strumenti scientifici a bordo di Curiosity – ha analizzato le composizioni isotopiche del carbonio e dell’ossigeno dei carbonati in questi siti, trovando un’insolita abbondanza di isotopi pesanti dei due elementi: il carbonio-13 e l’ossigeno-18.

Nello studio in questione, Davide G. Burtt, ricercatore al Goddard Space Flight Center della Nasa, e il suo team riportano questi dati, suggerendo due probabili processi per spiegare gli arricchimenti degli isotopi. Processi che sono direttamente collegati al cambiamento del clima dell’antico Marte.

I processi proposti dai ricercatori sono ladistillazione di Rayleigh guidata dall’evaporazione e la precipitazione criogenica. Nel primo scenario i carbonati si sarebbero formati per evaporazione in seguito al susseguirsi di cicli umido-secco. Nel secondo, invece, si sarebbero formati per precipitazione e concentrazione degli isotopi in condizioni molto fredde, in grado di formare ghiaccio.

«Questi meccanismi di formazione rappresentano due diversi regimi climatici che possono presentare diversi scenari di abitabilità», sottolinea Jennifer Stern, ricercatrice al Goddard Space Flight Center e co-autrice della pubblicazione. «Il ciclo umido-secco indicherebbe l’alternanza tra ambienti più abitabili e meno abitabili, mentre le temperature criogeniche alle medie latitudini di Marte indicherebbero un ambiente meno abitabile, in cui la maggior parte dell’acqua è bloccata nel ghiaccio e dunque non è disponibile per la chimica o la biologia, e quella disponibile è estremamente salata»

Secondo i ricercatori, tuttavia, nessuno di questi meccanismi spiega da solo le composizioni isotopiche dei carbonati presenti nei quattro siti analizzati da Curiosity. L’ipotesi è dunque che a essere responsabile degli arricchimenti isotopici sia una combinazione dei due processi.

«Il fatto che i valori degli isotopi pesanti del carbonio e dell’ossigeno siano significativamente più alti di quelli misurati sulla Terra, nonché i più alti misurati su Marte, indica che un processo o più processi diversi siano stati portati all’estremo», aggiunge Burtt. «Sebbene l’evaporazione possa causare cambiamenti significativi degli isotopi dell’ossigeno sulla Terra, le variazioni misurate in questo studio sono state da due a tre volte maggiori. Ciò significa due cose: o che c’era un grado estremo di evaporazione che ha prodotto l’arricchimento degli isotopi; o che questi isotopi sono stati preservati. Qualsiasi processo che avrebbe potuto creato isotopi più leggeri deve essere dunque stato di entità significativamente inferiore».

«I valori degli isotopi nei carbonati indicano quantità estreme di evaporazione, suggerendo che si sono probabilmente formati in condizioni climatiche che potevano supportare solo acqua liquida transitoria», conclude Burtt. «I campioni non sono coerenti con un ambiente in cui erano presenti condizioni adatte alla vita (biosfera) sulla superficie dell’antico Marte, sebbene ciò non escluda la possibilità dell’esistenza di una biosfera sotterranea o di una biosfera di superficie che si è formata ed è svanita prima che si formassero questi carbonati».

Per saperne di più:

  • Leggi su Proceedings of the National Academy of Sciences l’articolo “Highly enriched carbon and oxygen isotopes in carbonate-derived CO2 at Gale crater, Mars” diDavid G. Burtt, Jennifer C. Stern, Christopher R. Webster, Amy E. Hofmann, Heather B. Franz, Brad Sutter, Michael T. Thorpe, Edwin S. Kite, Jennifer L. Eigenbrode, Alexander A. Pavlov, Christopher H. House, Benjamin M. Tutolo, David J. Des Marais, Elizabeth B. Rampe, Amy C. McAdam e Charles A. Malespin


Olimpiadi di astronomia: un bronzo a Katmandu


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La squadra italiana sul palco al momento della premiazione. Da sinistra: Andrea Zihan Wang, Nicola Bortoluzzi, Luca Di Maria, Matteo Dolcin e Giuseppe Cateniello. Crediti: Giulia Iafrate/Inaf

Si sono concluse oggi a Katmandu, in Nepal, le Olimpiadi internazionali di astronomia e astrofisica (Ioaa). Erano presenti 79 partecipanti da 19 nazioni, tra cui l’Italia, alla sua prima partecipazione. Alle Ioaa Junior, in particolare, hanno partecipato 79 studenti di 21 squadre provenienti da 19 paesi: Bangladesh, Bulgaria, Canada, Cina, Colombia, Emirati Arabi Uniti, Estonia, Grecia, India, Italia, Lituania, Malesia, Nepal, Repubblica Ceca, Romania, Sri Lanka, Svezia, Tailandia e Ucraina. La squadra italiana era composta da cinque ragazzi: Nicola Bortoluzzi (liceo “Galilei – Tiziano” di Belluno), Giuseppe Cateniello (Iiss “P. Mazzone” di Roccella Jonica, in provincia di Reggio Calabria), Luca Di Maria (liceo “E. Fermi” di Arona, in provincia di Novara), Matteo Dolcin (liceo “A. Zanelli” di Reggio Emilia) e Andrea Zihan Wang (liceo “P. Frisi” di Monza), accompagnati da chi vi scrive e da Marco Citossi, entrambi dell’Inaf di Trieste, che in veste di team leader hanno seguito i ragazzi per tutti i nove giorni delle Olimpiadi, e da Andrea Cusimano, del liceo “T. Levi Civita” di Roma, in qualità di osservatore.

Prima di vedere com’è andata, va ricordato che esistono attualmente, nel mondo, due olimpiadi internazionali di astronomia: le International Astronomy Olympiad (Iao) e, appunto, le International Olympiad on Astronomy and Astrophysics (Ioaa). Le Iao nascono nel 1996 su iniziativa della Euro-Asian Astronomical Society e l’organizzazione, con sede in Russia, fa capo a Michael G. Gavrilov. Le Ioaa nascono nel 2007 su iniziativa di Thailandia e Indonesia e l’attuale presidente è un indiano, Aniket Sule. L’Italia ha partecipato alle Iao dal 2004 al 2023. Negli ultimi anni le Iao hanno però visto una drastica riduzione dei paesi partecipanti, a cui ha contribuito la crisi Ucraina: l’edizione 2023, tornata in presenza dopo due edizioni online causa Covid, ha registrato un minimo storico nel numero dei paesi partecipanti. Quest’anno inoltre era prevista un’edizione in Bangladesh, paese attualmente considerato non del tutto sicuro dalla Farnesina. Di fronte a questa situazione, il comitato organizzatore delle Olimpiadi italiane di astronomia, assieme al Ministero dell’istruzione e del merito, ha optato per la partecipazione alle Ioaa.

Le Ioaa organizzano ogni anno due eventi separati, in località e periodi differenti: uno per gli studenti con età tra 16 e 20 anni, purché non ancora iscritti all’università, e l’altro, denominato Ioaa Junior, per studenti di età inferiore a 16 anni. Il Comitato organizzatore ha deciso di iscrivere, come prima esperienza italiana alle Ioaa, una squadra alle Ioaa Junior che si sono svolte nei giorni scorsi a Katmandu. Quest’anno quindi la squadra italiana ha un’età media assai più bassa di ogni altra precedente edizione.

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Medagliere dell‘edizione 2024 delle Ioaa

Il medagliere, rispetto agli anni passati, per la squadra azzurra potrebbe sembrare scarso, però sia i ragazzi che i team leader erano consapevoli che il livello richiesto nelle Ioaa è superiore rispetto alle Iao. Dopo questa prima partecipazione esplorativa, il comitato organizzatore opererà in modo da fornire nelle prossime edizioni una preparazione dei ragazzi maggiormente mirata agli argomenti richiesti nella prova teorica e osservativa delle Ioaa. La medaglia di bronzo, assegnata a Luca Di Maria, rende quindi soddisfatti tutti i componenti della squadra.

«L’organizzazione tecnico-scientifica è stata elevatissima», dice Marco Citossi, «soprattutto per quanto riguarda la piattaforma telematica, che ha reso molto più agevole il lavoro di noi team leader che dobbiamo occuparci della traduzione e valutazione degli esercizi. I ragazzi hanno affrontato tutte le sfide con determinazione e successo. Lo spirito di gruppo e la solidarietà che si sono sviluppati non solo all’interno della nostra squadra, ma anche con studenti di altri paesi, sono stati davvero straordinari. Vederli collaborare, condividere idee e passioni, e stringere amicizie che superano ogni confine culturale, ci conferma quanto la scienza e l’astronomia possano unire le persone. Questa esperienza ha arricchito non solo le loro conoscenze, ma anche il loro spirito, creando legami che dureranno nel tempo».

I ragazzi sono rimasti estremamente affascinati dal Nepal, un paese così distante dal loro comune modo di vivere. Questa esperienza unica ha permesso loro di immergersi in una cultura ricca e diversa, scoprendo tradizioni millenarie e paesaggi mozzafiato. Hanno potuto condividere la loro passione per l’astronomia con coetanei provenienti da tutto il mondo, stringendo amicizie che superano ogni confine geografico. Hanno potuto apprezzare, oltre alla cultura, il cibo (soprattutto il momo, piatto di ravioli speziati con pollo o verdure), la spontaneità e la cordialità dei nepalesi e la visita ai numerosi templi della città, alcuni abitati da simpatiche scimmie. Un po’ meno il traffico super caotico, le strade polverose e la tradizione locale di far volare gli aquiloni… che in pochi sono riusciti a far volare.

A breve, con la pubblicazione del bando per il 2025, prenderà il via la 23esima edizione dei Campionati italiani di astronomia, a cui possono partecipare studentesse e studenti delle scuole italiane frequentanti il terzo anno della scuola secondaria di primo grado e i cinque anni della scuola secondaria di secondo grado. Ulteriori informazioni su www.campionatiastronomia.it.

Guarda il trailer delle Ioaa Junior sul canale YouTube della Nepal Astronomical Society:

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Una Rosetta per il compleanno di NoirLab


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La Nebulosa Rosetta immortalata dalla Dark Energy Camera (DeCam) installata al telescopio Víctor M. Blanco dell’Osservatorio di Cerro Tololo in Cile. L’immagine da 570 milioni di pixel è stata pubblicata per celebrare il quinto anniversario del NoirLab. Crediti: Ctio/NoirLab/Doe/Nsf/Aura.

Una spettacolare immagine della Nebulosa Rosetta – che a circa cinquemila anni luce di distanza sembra sbocciare direttamente dal mezzo interstellare – è stata scelta per celebrare, lo scorso 1° ottobre, il quinto anniversario del NoirLab (National Optical-Infrared Astronomy Research Laboratory), il programma statunitense della National Science Foundation che gestisce gli osservatori Gemini, Kitt Peak, Cerro Tololo, Vera Rubin e il Community Science and Data Center.

Questa enorme fotografia da 570 megapixel è stata catturata dalla Dark Energy Camera (DeCam) installata al telescopio da 4 metri Víctor M. Blanco nell’Osservatorio di Cerro Tololo in Cile, che fa parte della Dark Energy Survey che studia la dinamica dell’espansione dell’universo nel visibile e nel vicino infrarosso.

Situata nella costellazione dell’Unicorno, la Nebulosa Rosetta occupa circa 1,3 gradi di cielo, più o meno la larghezza di un dito indice tenuto a distanza del braccio teso (per fare un paragone, la ben nota Nebulosa di Orione si estende per un grado di cielo). Sebbene la Nebulosa Rosetta abbia un diametro di centotrenta anni luce, dunque oltre cinque volte più grande della Nebulosa di Orione, le loro dimensioni apparenti sono simili, essendo la prima quattro volte più distante.

L’immagine racchiude moltissimi dettagli. Guardando oltre ai “petali” della nebulosa, spicca una vistosa assenza di gas al suo centro. Le responsabili di questa cavità sono le stelle più massicce di Ngc 2244, l’ammasso stellare aperto alimentato dalla nebulosa. Ngc 2244 è nato circa due milioni di anni fa, dopo che i gas della nebulosa si sono accumulati in zone di maggiore densità a causa della reciproca attrazione gravitazionale. Alla fine di questo processo, si sono generate stelle massicce che producono venti stellari abbastanza potenti da aprire un varco nel cuore della nebulosa.

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Gli osservatori presenti e futuri del NoirLab. Crediti: NoirLab/Nsf/Aura/P. Marenfeld

Le stelle massicce di Ngc 2244 emettono anche radiazioni ultraviolette, che ionizzano l’idrogeno gassoso circostante e illuminano la nebulosa con una serie di colori molto brillanti. Le nubi rosse sono regioni di emissione H-alfa dovute ad atomi di idrogeno eccitati che emettono luce nelle lunghezze d’onda del rosso. Lungo le pareti della cavità, più vicine alle stelle massicce centrali, la radiazione è abbastanza intensa da ionizzare l’ossigeno, generando brillamenti nei toni dell’oro e del giallo. Infine, lungo i bordi dei petali della “rosetta” ci sono vaporosi inviluppi di colore rosa intenso che brillano grazie alla luce emessa dal silicio ionizzato.

Intorno al nucleo cavo della nebulosa c’è poi una serie di nubi scure soprannominate “Tronchi d’elefante” per via della loro forma caratteristica. Queste strutture sono opache a causa della polvere e delimitano il confine tra il guscio caldo di idrogeno ionizzato e l’ambiente circostante di idrogeno più freddo. Una di queste strutture caratteristiche più scure è il “Tronco della chiave”, il cui capo simile a un artiglio è visibile in alto a destra dell’ammasso centrale. A differenza delle strutture tipiche dei Pilastri della Creazione, che si ergono come colonne verticali, il “manico” della chiave inglese ha un’insolita forma a spirale che traccia il campo magnetico della nebulosa.

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Nei riquadri, alcune caratteristiche interessanti della Nebulosa Rosetta. Il cerchio tratteggiato evidenzia l’ammasso stellare centrale della nebulosa, Ngc 2244. La macchia vaporosa al centro di Ngc 2244 è il giovane oggetto stellare (Yso) Rosette HH1 (1), composto da stelle nella fase iniziale della loro evoluzione, che spesso presentano caratteristiche come getti, flussi bipolari, dischi protoplanetari e altri indicatori della nascita di una nuova stella. Intorno al nucleo cavo della nebulosa ci sono le nubi scure soprannominate “Tronchi d’elefante” (2, 4). Uno di questi elementi scuri è il Tronco di chiave (3). Crediti: Ctio/NoirLab/Doe/Nsf/Aura.

Meno evidenti ma altrettanto interessanti sono le forme globulari scure, rotonde o a forma di goccia. Questi minuscoli blob di polvere, che punteggiano in centinaia l’intera Nebulosa Rosetta, sono alcune volte più massicci di Giove e potrebbero ospitare nane brune e pianeti al loro interno.

Come tutte le rose, anche la Nebulosa Rosetta è destinata a sfiorire, quando la radiazione delle giovani e calde stelle dell’ammasso Ngc 2244 avrà dissipato i gas della nebulosa. Non a breve però, ma tra circa dieci milioni di anni.

Guarda il video sul sito YouTube di NoirLab:

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Forme di vita in rocce vecchie due miliardi di anni


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Il complesso igneo del Bushveld (Bic), Sudafrica. Questa immagine mostra un affioramento molto studiato in cui si osservano strati bianchi e neri quasi orizzontali costituito da strati di roccia ignea a forma di bacino. Si è formato in un periodo di circa un milione di anni, dopo il quale sembra essere cambiato minimamente. Crediti: Y. Suzuki

Nelle profondità della Terra c’è qualcosa di antico e vivo. Nascosti nella crosta terrestre, all’interno di una frattura sigillata nella roccia, alcuni antichissimi microbi hanno vissuto in isolamento per due miliardi di anni. Sono organismi minuscoli e resistenti che sembrano vivere la vita a un ritmo più lento, evolvendosi a malapena nel corso di ere geologiche, offrendoci così la possibilità di sbirciare indietro nel tempo.

A scovarli è stato un team di ricerca guidato dall’Università di Tokyo che ha analizzato alcuni campioni di roccia, recuperati a circa 15 metri di profondità nel complesso del Bushveld, in Sudafrica, nel cuore di una delle più grandi formazioni ignee stratificate del mondo, conosciuta per i suoi ricchi depositi di minerali preziosi, inclusa la maggior parte del platino estratto globalmente.

Le rocce analizzate nello studio, pubblicato la settimana scorsa su Microbial Ecology, provengono da una vasta formazione geologica che si estende per 66mila chilometri quadrati. Grazie alla stabilità geologica della zona, i microbi al loro interno si sono preservati per due miliardi di anni, protetti e isolati dal resto del mondo in fessure sigillate dall’argilla.

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Colonizzazione microbica esistente nelle vene riempite di minerali in rocce ignee di 2 miliardi di anni fa del complesso igneo del Bushveld, Sudafrica. (A) Immagini con ingrandimento di 1000 volte di microsfere fluorescenti e (B) cellule microbiche colorate con Sybr Green. Crediti: Microbial Ecology

A confermare che le cellule microbiche studiate non hanno subito contaminazioni esterne è stata un’innovativa combinazione di rtre tecniche di imaging: spettroscopia a infrarossi, microscopia elettronica e microscopioa a fluorescenza. Colorando il Dna delle cellule microbiche e utilizzando la spettroscopia a infrarossi per analizzare le proteine presenti nei microbi e nell’argilla circostante, i ricercatori hanno potuto confermare che i microrganismi erano vivi e indigeni: nativi, dunque, del campione di roccia, e non il risultato di contaminazioni avvenute durante il processo di perforazione o di analisi.

«Non sapevamo che le rocce di 2 miliardi di anni fa potessero essere abitabili. Finora, il più antico strato geologico in cui erano stati trovati microrganismi viventi era un deposito di 100 milioni di anni fa sotto il fondo dell’oceano. Questa è una scoperta davvero emozionante», dice Yohey Suzuki dell’Università di Tokyo, autore principale dello studio. Il nuovo ritrovamento rappresenta, quindi, un balzo temporale impressionante, un vero e proprio salto indietro nel tempo geologico. I microrganismi appena scoperti vivono al ritmo lentissimo imposto dalle condizioni estreme in cui si trovano, offrendo una rara opportunità di esplorare il passato più lontano della vita sul nostro pianeta. «Studiando il Dna e i genomi di microbi come questi», continua Suzuki, «potremmo essere in grado di comprendere l’evoluzione della vita primordiale sulla Terra».

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Campione diroccia con fratture aperte. Questa immagine è stata scattata in loco quando il campione di carota è stato lavato, fiammato e poi fratturato. Il carotaggio, lungo 30 centimetri e con un diametro di 85 millimetri, è stato riportato in Giappone per ulteriori studi. Crediti: Y. Suzuki

Sulla Terra e non solo. Questa scoperta potrebbe anche rivelarsi cruciale per l’astrobiologia, lo studio della vita extraterrestre. Rocce simili a quelle del complesso del Bushveld potrebbero esistere su altri pianeti, e Marte è uno fra i candidati principali: il Pianeta rosso ha un passato geologico che include vulcani e attività magmatica, condizioni che potrebbero aver creato ambienti simili a quelli che hanno ospitato la prima vita microbica sulla Terra.

«Il rover Perseverance della Nasa sta raccogliendo, per poi portarli sulla Terra, campioni di rocce marziane che hanno un’età geologica simile a quelle studiate in Sudafrica», ricorda Suzuki. «Trovare vita microbica in campioni terrestri di due miliardi di anni fa ed essere in grado di confermarne accuratamente l’autenticità mi rende entusiasta riguardo a ciò che potremmo essere in grado di trovare nei campioni provenienti da Marte».

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Rebels-25, la più antica galassia rotante l MEDIA INAF


Rebels-25, la più antica galassia rotante l MEDIA INAF


"Immortalata dalle antenne di Alma, è la galassia simile alla Via Lattea più distante osservata finora. Una galassia a disco che appare ordinata come le galassie attuali nonostante la stiamo vedendo com’era quando l'universo aveva solo 700 milioni di anni: un fatto sorprendente perché, secondo le attuali conoscenze sulla formazione delle galassie, ci si aspetta che le galassie più precoci appaiano più caotiche."




Seti e Inaf s’incontrano a Cagliari


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La locandina del meeting

Dal momento stesso in cui l’umanità ha cominciato a guardare il cielo, la domanda delle domande è sempre stata se ci fosse “qualcuno là fuori”, ma per migliaia di anni si sono potute fare solo congetture di tipo logico e filosofico. Tuttavia, servono prove. La ricerca di intelligenza extraterrestre (Search for Extra Terrestrial Intelligence, Seti) venne sviluppata in modo strutturato a partire dagli anni ’60 grazie all’intuizione di Frank Drake e Carl Sagan, due visionari astrofisici statunitensi che fondarono, nel 1984, un istituto di ricerca dedicato a questo scopo e chiamato, appunto, Seti Institute, con sede a Mountain View, in California.

Dopo trent’anni di tentativi infruttuosi per la ricerca di vita intelligente al di fuori della Terra, sembrava che queste ricerche fossero in declino. Invece Seti ha saputo rinnovarsi, ricreando interesse in tutta la comunità scientifica proprio grazie ai grandi progressi tecnologici che ha contribuito a sviluppare e ai finanziamenti che è riuscito ad attrarre.

A dimostrazione del rinnovato interesse verso la ricerca di quelle che in gergo vengono chiamate “tecnofirme”, ecco ora arrivare il Seti Inaf-Italy Workshop 2024, il terzo congresso italiano organizzato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) dedicato all’intelligenza extraterrestre, che si svolgerà quest’anno giovedì 10 e venerdì 11 ottobre 2024 al Teatro Doglio di Cagliari. I primi due incontri del “Seti italiano” si erano svolti a Roma nel 2017 e nel 2019 sotto l’egida della presidenza di Nichi D’Amico, cui verrà tributato un affettuoso ricordo. L’edizione 2024 ha un’impronta più marcatamente internazionale ed è stata ancor più fortemente supportata dalla Direzione scientifica dell’Inaf.

Saranno infatti presenti, fra i tanti, Bill Diamond, presidente e amministratore del Seti Institute, Michael Garrett, direttore del Jodrell Bank Centre for Astrophysics di Manchester, e Andrew Siemion, direttore del Berkeley SetiResearch Center, di cui fanno parte anche Steve Croft e Vishal Gajjar. Dal lato Italia interverranno sul tema tanti ricercatori e ricercatrici dell’Inaf, oltre al presidente Roberto Ragazzoni e al direttore scientifico Filippo Zerbi. Citare tutti sarebbe impossibile, meglio consultare il programma sul sito dedicato. L’aspetto umanistico e l’impatto sul nostro immaginario verrà affrontato anche dalla poliedrica artista Daniela De Paulis, autrice di “A sign in space”, un progetto artistico e comunicativo internazionale che a oggi, dopo oltre un anno dal lancio, continua a far discutere.

Nel corso del meeting verranno discusse le condizioni fisiche e chimiche idonee per la nascita e lo sviluppo della vita, in particolare quelle che possono portare a una società intelligente e tecnologica in grado di rilasciare firme elettromagnetiche nello spazio, come fa oggi l’umanità. Le tecniche di osservazione Seti saranno affrontate tenendo in considerazione lo stato dell’arte della tecnologia disponibile. Saranno presenti, per spiegare come vengono prima realizzate e poi analizzate le osservazioni in ambito Seti, molti degli studenti che negli ultimi anni si sono avvicendati nei mesi estivi all’Inaf di Cagliari per mettere a punto algoritmi e tecniche osservative.

Grazie, infatti, allo sviluppo di telescopi all’avanguardia con nuove ottiche e nuovi ricevitori, supercomputer, algoritmi di apprendimento automatico, filtri anti-interferenze e una lunga serie di migliorie tecnologiche, oggi possiamo contare su strumenti davvero raffinati per la ricerca di vita extraterrestre. E siamo in grado di scoprire con sempre maggiore frequenza una quantità considerevole di pianeti extrasolari adatti a ospitare acqua liquida e dunque, potenzialmente, la vita.

Va comunque sottolineato che il programma Seti non è alla ricerca di traccianti, molecole organiche e “mattoni della vita”: quella che interessa finanziatori e studiosi è l’intelligenza evoluta, legata o meno che sia alla volontà di comunicare: se la scoperta di batteri incastonati in qualche roccia marziana o sotto un oceano ghiacciato di Titano sarebbe di per sé una notizia a dir poco storica, trovare prove di civiltà extraterrestri evolute e capaci di utilizzare le onde elettromagnetiche per comunicare rappresenterebbe, come ricordò in più di un’occasione anche Nichi d’Amico, un salto enormemente più profondo per l’umanità. Le implicazioni della scoperta di un’altra intelligenza sono inimmaginabili. Captare un segnale intelligente ci porterebbe molte più domande che certezze, ma la sola prova dell’esistenza di un’altra civiltà cambierebbe per sempre tutte le nostre convinzioni sulla centralità non tanto della Terra quanto, soprattutto, della nostra intelligenza nell’ordine cosmico.

L’evoluzione della ricerca in questo campo è stata notevole: basti pensare che il primo degli oltre settemila esopianeti registrati finora è stato scoperto e confermato solo nel 1995 ed è valso il premio Nobel a Michel Mayor e Didier Queloz. Oggi possiamo quindi puntare i nostri più potenti strumenti verso sorgenti potenzialmente interessanti, come stelle vicine, per cui i tempi, le risorse e – si spera – i risultati nei prossimi anni saranno estremamente ottimizzati. Grazie a questi progressi, il programma Seti è oggi considerato un campo di ricerca in forte crescita in astronomia e, in questo contesto, l’Italia gioca un ruolo da protagonista grazie alla rete di quattro grandi radiotelescopi dell’Inafsparsi tra Emilia Romagna, Sicilia e Sardegna. Le antenne di Medicina e Croce del Nord (Bologna), il radiotelescopio di Noto (Siracusa) e il Sardinia Radio Telescope di San Basilio (Cagliari) sono infatti in grado di lavorare sia individualmente che in coordinamento alla ricerca di segnali alieni. Pochi paesi al mondo possono vantare un simile potenziale.

Il Sardinia Radio Telescope, in particolare, è entrato da qualche anno a pieno titolo nel progetto Breakthrough Listen, che dal 2015 ha dedicato cento milioni di dollari a osservazioni Seti con i migliori telescopi in circolazione: Green Bank Telescope e Lick Observatory negli Stati Uniti, Parkes in Australia, il nuovissimo MeerKat in Sudafrica e, dal 2021, la parabola sarda. Proprio gli studi effettuati da Srt saranno oggetto di una press release internazionale che verrà distribuita il prossimo 15 ottobre, in concomitanza con l’avvio dei lavori, a Milano, dello Iac 2024 – il Congresso internazionale di astronautica.

Grazie alla collaborazione fra Breakthrough Listen e Inaf, nata dall’ostinazione e dalla visione dell’ingegnere elettronico dell’Inaf di Cagliari Andrea Melis, l’Italia si è ritagliata uno spazio importante in questo settore dell’astrofisica di frontiera, e l’appuntamento di giovedì e venerdì in Sardegna ne è la dimostrazione. D’altra parte, come hanno affermato Cocconi e Morrison nel 1959, “la probabilità di successo è difficile da stimare, ma se non cerchiamo mai la possibilità di successo sarà zero”.

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Prima mappa globale della corona solare


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I campi magnetici svolgono un ruolo chiave nella struttura, dinamica ed evoluzione di molti corpi celesti. Ad esempio, il campo magnetico della nostra stella – il cui motore è il moto del plasma nei diversi strati che la compongono, la cosiddetta dinamo solare – è fondamentale nel determinare il suo “ritmo circadiano” undecennale di attività, ma anche nel produrre espulsioni coronali di massa e brillamenti solari, eiezioni di plasma in grado di provocare sulla Terra tempeste geomagnetiche. In questi due ultimi casi, in particolare, un ruolo chiave lo gioca il campo magnetico della corona solare, lo strato più esterno dell’atmosfera del Sole. Il campo magnetico coronale è infatti la fonte di energia che riscalda il plasma nella corona ed è alla base delle eruzioni solari.

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Rappresentazione della corona solare osservata alle lunghezze d’onda dell’ultravioletto estremo (in bianco e nero) e, sovrapposte su di essa, delle mappe del campo magnetico coronale globale misurate in momenti diversi. Crediti: Zihao Yang

Un team di ricercatori guidato dal National Center for Atmospheric Research, negli Usa, è ora riuscito a misurare per la prima volta questo campo magnetico a livello globale, producendo dettagliate mappe 2D. Lo studio, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Science, apre una nuova era dell’osservazione del Sole.

«La mancanza di una mappatura globale del campo magnetico coronale ha rappresentato una grande lacuna nello studio del Sole», spiega Zihao Yang, ricercatore all’Università di Pechino, in Cina, e primo autore dello studio. «Questa ricerca ci aiuta a colmare la lacuna, migliorando la nostra comprensione dei campi magnetici coronali, che sono una fonte di energia per le tempeste solari, fenomeni che possono avere un impatto sulla Terra».

Per effettuare le misure del campo magnetico coronale, i ricercatori hanno condotto osservazioni della corona solare con l’Upgraded Coronal Multi-channel Polarimeter (Ucomp). Si tratta di un coronografo, uno strumento che utilizza un disco per bloccare la luce solare, rendendo più facile osservare la corona. Lo strumento è in grado di registrare le linee di emissione coronale nel visibile e nel vicino infrarosso, registrando uno spettro per ogni pixel del suo campo di vista e fornendo dati di imaging spettrale a tutte le latitudini. I ricercatori hanno condotto le osservazioni del Sole dal 19 febbraio al 29 ottobre 2022, coprendo un periodo di circa 253 giorni.

I dati ottenuti sono stati sufficienti per ricavare mappe di densità del plasma, di propagazione delle onde magnetoidrodinamiche e di velocità di fase delle onde della corona solare globale. L’uso di questi dati combinati alla sismologia coronale 2D, una tecnica di studio del plasma coronale, ha permesso ai ricercatori di creare 114 magnetogrammi coronali riportanti la forza e la direzione del campo magnetico, la combinazione delle quali ha prodotto la prima mappa bidimensionale globale della corona solare.

È stato così possibile ottenere le misure del campo magnetico coronale su un periodo di 8 mesi, effettuando indagini con una cadenza media di una volta ogni due giorni, sottolineano i ricercatori. Da queste misurazioni sono state poi prodotte mappe del campo magnetico coronale a tutte le latitudini, a diverse altitudini e su più rotazioni solari, scoprendo che le intensità del campo magnetico passavano da valori inferiori a uno fino a circa venti gauss.

Il prossimo obiettivo dei ricercatori è di migliorare i modelli coronali esistenti attraverso la creazione di mappe 3D. La terza dimensione del campo magnetico è infatti di particolare importanza per comprendere come la corona venga energizzata prima di un’eruzione solare. Per farlo, utilizzeranno strumenti e tecniche diverse, in grado di misurare tutte le torsioni e gli intrecci tridimensionali del campo magnetico coronale.

«Dato che il magnetismo coronale è la forza che espelle massa della nostra stella nel Sistema solare, dobbiamo studiarlo in 3D, contemporaneamente in tutta la corona», dice Sarah Gibson, ricercatrice al National Center for Atmospheric Research e co-autrice della pubblicazione. «Il lavoro di Yang rappresenta un enorme passo avanti nella nostra comprensione di come il campo magnetico coronale globale del Sole cambi di giorno in giorno. Ciò è fondamentale per implementare le possibilità di prevedere e prepararci meglio alle tempeste solari, che rappresentano un pericolo sempre maggiore per le nostre vite, sempre più dipendenti dalla tecnologia sulla Terra».

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Il campo magnetico di Mercurio in trenta minuti


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Come la Terra, anche Mercurio ha un campo magnetico, anche se, a livello del suolo, è cento volte più debole del nostro. Questo campo magnetico crea una bolla nello spazio – la magnetosfera – che funge da cuscinetto al flusso continuo di particelle provenienti dal Sole. Poiché Mercurio orbita molto vicino al Sole, l’interazione del vento solare con la magnetosfera e con la superficie del pianeta è assai più intensa che sulla Terra. Esplorare la dinamica di questa bolla e le proprietà delle particelle contenute al suo interno è uno degli obiettivi principali della missione BepiColombo.

BepiColombo arriverà a Mercurio nel 2026, sfruttando dei sorvoli intorno alla Terra, a Venere e allo stesso Mercurio per regolare la sua velocità e traiettoria, in modo da consentirne l’inserimento in orbita intorno al pianeta, dove la sonda si separerà e schiererà i suoi due moduli orbitanti: il Mercury Planetary Orbiter (Mpo), guidato dall’Esa, e il Mercury Magnetospheric Orbiter (Mmo), guidato dalla Jaxa. I due moduli viaggeranno lungo orbite complementari per raccogliere le misure necessarie a tracciare un quadro completo dell’ambiente dinamico di Mercurio.

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La magnetosfera di Mercurio, con le linee di campo magnetico compresse sul lato verso il Sole e che si estendono in una coda sul lato notturno. Crediti: Esa

I flyby – sei in tutto su Mercurio, quattro dei quali già avvenuti, l’ultimo il mese scorso – consentono inoltre di raccogliere informazioni uniche su regioni del pianeta che non sarebbero direttamente accessibili dall’orbita. Durante il passaggio del 19 giugno 2023, il terzo dei sei flyby, Lina Hadid, ex ricercatrice dell’Esa, ora al Laboratoire de Physique des Plasmas dell’Osservatorio di Parigi, ha utilizzato la serie di strumenti Mercury Plasma Particle Experiment (Mppe), attivi su Mmo, per creare in un brevissimo periodo di tempo un’immagine eccezionale del paesaggio magnetico del pianeta.

«Questi sorvoli sono veloci, abbiamo attraversato la magnetosfera di Mercurio in circa 30 minuti, passando dal tramonto all’alba, con il punto di massimo avvicinamento a soli 235 km sopra la superficie del pianeta», ricorda Hadid. «Abbiamo campionato il tipo di particelle, quanto sono calde e come si muovono».

Combinando le misure di BepiColombo con la modellazione digitale, Hadid e i suoi colleghi hanno potuto tracciare un quadro delle varie caratteristiche che si incontrano nella magnetosfera, determinando l’origine delle particelle rilevate in base al loro moto. «Abbiamo osservato strutture previste, come il bow shock tra il vento solare che scorre liberamente e la magnetosfera, e siamo anche passati attraverso i “corni” che fiancheggiano la distesa di plasma, una regione gassosa più calda, densa e caricata elettricamente che sgorga come una coda in direzione opposta al Sole. Ma abbiamo anche avuto alcune sorprese».

Hadid è co-principal investigator di Mppe e responsabile di uno dei suoi strumenti, l’analizzatore dello spettro di massa. E ha lavorato con il responsabile precedente, Dominique Delcourt, all’articolo che presenta i risultati, pubblicato giovedì scorso su Nature Astronomy.

«Abbiamo rilevato un cosiddetto strato limite a bassa latitudine definito da una regione di plasma turbolento al bordo della magnetosfera, qui abbiamo osservato particelle con una gamma molto più ampia di energie, mai vista prima su Mercurio. Tutto questo grazie alla sensibilità dell’Msa, il Mass Spectrum Analyser progettato appositamente per il complesso ambiente di Mercurio», dice Delcourt. «BepiColombo sarà in grado di determinare la composizione ionica della magnetosfera di Mercurio in modo più dettagliato che mai».

«Abbiamo anche osservato ioni energetici caldi vicino al piano equatoriale e a bassa latitudine, intrappolati nella magnetosfera», aggiunge Hadid,«e pensiamo che l’unico modo per spiegarlo sia l’azione di una corrente ad anello – un anello parziale o completo – ma è un’ipotesi molto dibattuta».

Una corrente ad anello (ring current, in inglese) è una corrente elettrica trasportata da particelle cariche intrappolate nella magnetosfera. La Terra ha una corrente ad anello di cui conosciamo bene le caratteristiche, situata a decine di migliaia di chilometri dalla sua superficie. Su Mercurio è meno chiaro come le particelle possano rimanere intrappolate entro poche centinaia di chilometri dal pianeta, specialmente quando la magnetosfera è schiacciata contro la superficie del pianeta. Questo dubbio sarà probabilmente risolto una volta che Mpo ed Mmo raccoglieranno dati a tempo pieno.

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Simulazione dell’ambiente magnetico di Mercurio

Hadid e colleghi hanno anche osservato l’interazione diretta della sonda spaziale con il plasma circostante. Quando la sonda è riscaldata dal Sole, non può rilevare gli ioni pesanti più freddi perché essa stessa si carica elettricamente e li respinge. Ma mentre la sonda si muove attraverso l’ombra notturna del pianeta, la carica è diverso e improvvisamente un mare di ioni di plasma freddi diventa visibile. È stato così possibile rilevare, per esempio, ioni di ossigeno, sodio e potassio, che sono stati probabilmente espulsi dalla superficie del pianeta da impatti di micro-meteoriti o attraverso interazioni con il vento solare.

«È come se improvvisamente stessimo guardando la composizione superficiale “esplosa” in 3D attraverso l’atmosfera molto fine del pianeta, la sua esosfera», spiega Dominique. «È emozionante cominciare a vedere le correlazioni tra la superficie del pianeta e il plasma dell’ambiente circostante».

«Le osservazioni sottolineano quanto sia importante che i due orbiter e i loro strumenti costruiscano un quadro completo di come l’ambiente magnetico e plasmatico cambi nel tempo e nello spazio. Siamo impazienti di vedere come BepiColombo cambierà la nostra comprensione delle magnetosfere planetarie», conclude Geraint Jones, project scientist di BepiColombo all’Esa

Nel frattempo, gli scienziati stanno già analizzando i dati raccolti durante il quarto flyby di Mercurio, mentre ci si prepara agli ultimi due, previsti il primo dicembre 2024 e l’otto gennaio 2025.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Mercury’s plasma environment after BepiColombo’s third flyby”, di Lina Z. Hadid, Dominique Delcourt, Yuki Harada, Mathias Rojo, Sae Aizawa, Yoshifumi Saito, Nicolas André, Austin N. Glass, Jim M. Raines, Shoichiro Yokota, Markus Fränz, Bruno Katra, Christophe Verdeil, Björn Fiethe, Francois Leblanc, Ronan Modolo, Dominique Fontaine, Norbert Krupp, Harald Krüger, Frédéric Leblanc, Henning Fischer, Jean-Jacques Berthelier, Jean-André Sauvaud, Go Murakami e Shoya Matsuda


Starlink, emissioni dalla seconda generazione


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Starlink V2 Mini di SpaceX in atresa di essere lanciati. Crediti: SpaceX

Osservazioni effettuate lo scorso anno con il radiotelescopio Lofar (Low Frequency Array) – il più grande radiotelescopio a bassa frequenza sulla Terra, sviluppato da Astron (Netherlands Institute for Radio Astronomy) e operato in collaborazione con altri nove paesi europei – hanno dimostrato che i satelliti Starlink di prima generazione emettono involontariamente onde radio che possono ostacolare le osservazioni astronomiche. Ora nuove osservazioni, sempre con Lofar, hanno dimostrato che anche i satelliti Starlink di seconda generazione “V2-mini” purtroppo non sono da meno.

Negli ultimi anni, il numero di satelliti lanciati in orbita terrestre bassa (Leo) è salito alle stelle, grazie soprattutto alla rapida commercializzazione dello spazio e ai progressi della tecnologia satellitare. Dal 2019, aziende come SpaceX e OneWeb hanno lanciato migliaia di satelliti, soprattutto per le telecomunicazioni. Si prevede che entro la fine del decennio il numero di satelliti in orbita potrebbe superare le 100mila unità. Contestualmente, l’aumento delle emissioni di onde radio dai satelliti in orbita terrestre bassa solleva serie preoccupazioni per il futuro della ricerca astronomica.

Quest’ultimo studio, pubblicato su Astronomy & Astrophysics, è stato condotto utilizzando due lunghe sessioni di osservazione con Lofar, il 19 luglio 2024, coprendo le frequenze radio sopra e sotto la banda di trasmissione FM utilizzata dalle stazioni tipiche delle radio di casa (tra 10 e 88 MHz e tra 110 e 188 MHz). Durante queste osservazioni, il team ha rilevato radiazioni elettromagnetiche indesiderate (Uemr) da quasi tutti i satelliti Starlink osservati, compresi quelli di prima e seconda generazione.

«Con Lofar abbiamo avviato un programma di monitoraggio delle emissioni indesiderate dei satelliti appartenenti a diverse costellazioni e le nostre osservazioni mostrano che i satelliti Starlink di seconda generazione presentano emissioni più forti ed emettono su una gamma più ampia di frequenze radio, rispetto ai satelliti di prima generazione», spiega Cees Bassa dell’Astron, autore principale dello studio.

L’analisi ha infatti rivelato che questi nuovi satelliti emettono onde radio fino a 32 volte più luminose rispetto alla prima generazione, con livelli potenzialmente superiori alle soglie di interferenza stabilite a livello internazionale per le emissioni e agli standard di compatibilità elettromagnetica terrestre ancora più rilassati.

«Rispetto alle più deboli sorgenti astrofisiche che osserviamo con Lofar, le Uemr dei satelliti Starlink sono 10 milioni di volte più luminose. Questa differenza è simile a quella tra le stelle più deboli visibili a occhio nudo rispetto alla luminosità della Luna piena. Poiché SpaceX sta lanciando circa 40 satelliti Starlink di seconda generazione ogni settimana, questo problema sta diventando sempre più grave», aggiunge Bassa.

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Il video mostra il cielo radio sopra Lofar, alla lunghezza d’onda di 5 metri. A sinistra sono mostrati i dati reali, con le sorgenti radio più luminose. A destra si vedono i dati con la sottrazione del valore medio dei pixel, che evidenzia le variazioni di luminosità. A questa lunghezza d’onda radio vediamo scintillazione dove le sorgenti variano nel tempo, come stelle che brillano di notte. I satelliti Starlink sono visti come sorgenti che si muovono nel cielo, corrispondenti alle previsioni degli elementi orbitali disponibili al pubblico (segni rossi). Crediti: Astron

La ricerca evidenzia la necessità di norme più severe sulle Uemr satellitari per preservare la qualità delle osservazioni radioastronomiche. «L’umanità si sta chiaramente avvicinando a un punto di inflessione in cui dobbiamo agire per preservare il nostro cielo come finestra per esplorare l’universo dalla Terra. Le compagnie satellitari non sono interessate a produrre queste radiazioni indesiderate, quindi ridurle al minimo dovrebbe essere una priorità delle loro politiche spaziali sostenibili», afferma Federico Di Vruno dell’Osservatorio Ska. «Starlink non è l’unico grande attore in Leo, ma ha la possibilità di stabilire uno standard in questo campo».

I ricercatori sottolineano che se da un lato i satelliti di seconda generazione sono stati progettati per migliorare la connettività e fornire servizi di comunicazione, dall’altro le emissioni radio indesiderate rappresentano una minaccia crescente per l’integrità delle osservazioni astronomiche. Poiché le conseguenze di tali interferenze diventano sempre più evidenti, la collaborazione tra le aziende satellitari, le agenzie di regolamentazione e la comunità astronomica è essenziale per elaborare strategie di mitigazione efficaci.

Nei Paesi Bassi, uno dei Paesi più densamente popolati d’Europa, Astron gestisce Lofar. Questo è possibile solo grazie al supporto normativo delle agenzie locali, provinciali e nazionali. «Da quando Lofar è stato avviato, più di un decennio fa – quando ci fu detto che presto avremmo avuto difficoltà ad osservare a causa delle interferenze radio – con il sostegno normativo e una collaborazione produttiva con l’industria, sono state fatte complessivamente oltre 1000 mitigazioni individuali in collaborazione con decine di gruppi, aziende, infrastrutture, agenzie e individui in tutto il paese», afferma Jessica Dempsey, direttore generale e scientifico di Astron. «E questo rapporto non è unilaterale. Queste tecniche intelligenti per trovare segnali deboli nell’universo hanno restituito progressi tecnologici all’industria e alla società – dal Gps al WiFi. Non solo coesistiamo, ma prosperiamo insieme. Abbiamo le soluzioni per questa simbiosi anche nello spazio: c’è solo bisogno che le autorità di regolamentazione ci sostengano e che l’industria ci venga incontro. Senza mitigazioni, molto presto le uniche costellazioni che vedremo saranno quelle create dall’uomo».

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Iniziato il viaggio di Hera: destinazione asteroide


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La missione europea di difesa planetaria è partita oggi, 7 ottobre 2024, alle 16:52 ora italiana, da Cape Canaveral, con un razzo Falcon 9 di SpaceX. Crediti: Esa

È decollata oggi la sonda Hera dell’Agenzia spaziale europea (Esa), con obiettivo l’asteroide Dimorphos, che raggiungerà nel dicembre 2026. Hera fa seguito alla missione Dart della Nasa, che nel settembre del 2022 aveva impattato, deviandone l’orbita, contro Dimorphos, la piccola luna orbitante di un sistema di asteroidi binari noto come Didymos. Allora a catturare le immagini fu il cubesat LiciaCube dell’Agenzia spaziale italiana (Asi), realizzato da Argotec, che scattò oltre 600 immagini dell’impatto. Hera cercherà quindi la prova definitiva del sistema di difesa planetario da attuare qualora la Terra dovesse essere in pericolo di collisione con un asteroide. A bordo di Hera molta scienza e tecnologia italiana grazie ai contributi gestiti dall’Asi.

«Sono passati due anni da quando abbiamo ricevuto a Terra le sensazionali immagini del nostro satellite LiciaCube che ha documentato», ricorda Teodoro Valente, presidente dell’Agenzia spaziale italiana, «l’impatto della sonda della Nasa Dart su un asteroide. Immagini che ci hanno permesso di studiare e verificare una nuova strategia di protezione planetaria in caso di pericolo derivante da asteroidi e altri oggetti. Oggi il satellite dell’Esa, Hera inizia il suo viaggio sempre verso la stessa destinazione per analizzare ancor più da vicino ciò che è accaduto a Dimorphos, colpito allora e deviato nella sua orbita intorno a Didymos. La strategia della caccia agli asteroidi potenzialmente pericolosi si rafforza con questo importante contributo dell’Europa, con l’Italia e l’Asi in prima linea, verso il consolidamento della tecnica scelta per essere utilizzata nel caso in cui dovesse essere rilevato un corpo minore in rotta di collisione con il nostro pianeta. La partecipazione italiana alla missione è frutto, ancora una volta, di una collaborazione virtuosa tra scienza e tecnologia che fa confermare il nostro paese ai vertici in questo campo e che fornirà all’Europa una capacità elevata che le permetterà di essere al passo in ambito internazionale».

We have a mission!!#HeraMission‘s solar arrays have deployed and its batteries are charging. The satellite is in good health and the first commands have been confirmed on board. pic.twitter.com/ChckwCmNw9

— ESA Operations (@esaoperations) October 7, 2024

Hera rilascerà anche due cubesats per eseguire osservazioni ravvicinate di supporto. Uno dei due, chiamato Milani, realizzato in Italia dalla Tayvak, effettuerà osservazioni multispettrali di superficie, mentre l’altro, Juventas, effettuerà per la prima volta rilevamenti radar dell’interno di un asteroide. Sulla sonda l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) è inoltre responsabile dello strumento Vista (Volatile In Situ Thermogravimeter Analyser), un sensore per l’analisi dell’ambiente di polveri del sistema Didymos-Dimorphos a bordo di Milani. Lo studio della polvere attorno a Didymos è fondamentale per capire la coesione di questi corpi celesti nell’ottica di poterli deviare da orbite potenzialmente pericolose.

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La consegna del cubesat Milani, lo scorso marzo, presso l’azienda Tyvak International Srl a Torino. Da sinistra: Andrea Longobardo (Inaf Iaps, team Vista), Diego Scaccabarozzi (Politecnico di Milano), Emiliano Zampetti (Cnr), Ian Carnelli (project manager della missione Hera), Ernesto Palomba (Inaf Iaps, responsabile scientifico dello strumento Vista), Fabrizio Dirri (Inaf Iaps, team Vista), Chiara Gisellu (Inaf Iaps, team Vista). Crediti: C. Gisellu

«Sono molto emozionato nel vedere coronato un sogno iniziato quasi venti anni fa con innocenti idee discusse durante i caffè e poi proseguite con i successivi studi di strumentazione miniaturizzata per l’Agenzia spaziale europea», dice da Cape Canaveral Ernesto Palomba, ricercatore Inaf e responsabile scientifico dello strumento Vista. «Ora sono qui con il mio team in euforica attesa di vedere arrivare i primi dati da Didymos tra qualche mese, che ci permetteranno di capire in dettaglio la situazione di questo sistema di asteroidi e delle loro polveri sollevate dopo l’impatto della missione Dart. Le informazioni che otterremo saranno fondamentali per capire la coesione di questi corpi celesti, nell’ottica di poterli deviare da orbite potenzialmente pericolose».

Oltre alle attività su Vista, l’Inaf collabora attivamente con altri due strumenti a bordo della missione: lo spettrometro Aspect e la termocamera a infrarossi Tiri. Per la parte industriale, inoltre, la Thales Alenia Space ha realizzato importanti equipaggiamenti, tra cui il transponder nello spazio profondo, costruito in Italia negli stabilimenti di Roma e L’Aquila, che consentirà una solida comunicazione con la stazione di terra. Anche Leonardo ha dato il suo apporto fornendo i pannelli fotovoltaici che alimenteranno la sonda. Realizzati nello stabilimento di Nerviano, in provincia di Milano, sono composti da due ali con tre pannelli ciascuna per un totale di circa 14 metri quadrati e oltre 1600 celle, ognuna grande quasi il doppio di una carta di credito. Inoltre Ohb-Italia è coinvolta nella realizzazione di importanti sistemi di bordo quali il sistema di potenza elettrica, mentre la propulsione è stata assegnata ad Avio. Tsd Space, una Pmi con sede a Napoli, ha infine realizzato la Spacecraft Monitoring Camera (Smc) di Hera.

Il lancio di Hera è avvenuto alle 16:52 ora italiana dalla rampa Slc-40 di Cape Canaveral utilizzando un vettore Falcon 9 della società americana SpaceX.

Fonte: comunicato stampa Asi

Per saperne di più sulla missione Hera, guarda il servizio video su MediaInaf Tv:

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