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Tamikrest - Chama (2013)


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Una foto in bianco e nero di un viso di una giovane donna tuareg circondato da uno scialle nero e due occhi chiari profondissimi da cui è impossibile staccarsi, uno sguardo che racchiude in sé dolore, nostalgia e fierezza. E’ questa la bellissima copertina dell’ultimo album dei maliani Tamikrest, “Chatma” che in lingua tamashek vuol dire sorelle e rispecchia lo spirito della musica della band del Mali. Il disco è dedicato alle donne tuareg «sono il simbolo della libertà e della speranza, la base di un cambiamento verso un mondo migliore. Spesso stanno nell’oblio, all’ombra di conflitti, questo album rende loro onore». Il bel libretto che correda il cd contiene le traduzioni dei testi sia in francese che in inglese, permettendoci così di avere un’ampia comprensione delle canzoni. Ormai giunti al terzo album e con una consolidata fama, grazie anche ad un’intensa attività live, i Tamikrest continuano il loro sodalizio con Chris Eckman (Walkabouts, Dirtmusic) ancora una volta nel ruolo di produttore, e realizzano il loro album migliore, nel quale trovano compiutezza espressiva le diverse influenze che caratterizzano il loro percorso musicale: la tradizione musicale tuareg, il blues, il rock, la psichedelia, il funk... distorsioni.net/canali/dischi/…


Ascolta: album.link/i/679781665



noblogo.org/available/tamikres…


Tamikrest - Chama (2013)


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Una foto in bianco e nero di un viso di una giovane donna tuareg circondato da uno scialle nero e due occhi chiari profondissimi da cui è impossibile staccarsi, uno sguardo che racchiude in sé dolore, nostalgia e fierezza. E’ questa la bellissima copertina dell’ultimo album dei maliani Tamikrest, “Chatma” che in lingua tamashek vuol dire sorelle e rispecchia lo spirito della musica della band del Mali. Il disco è dedicato alle donne tuareg «sono il simbolo della libertà e della speranza, la base di un cambiamento verso un mondo migliore. Spesso stanno nell’oblio, all’ombra di conflitti, questo album rende loro onore». Il bel libretto che correda il cd contiene le traduzioni dei testi sia in francese che in inglese, permettendoci così di avere un’ampia comprensione delle canzoni. Ormai giunti al terzo album e con una consolidata fama, grazie anche ad un’intensa attività live, i Tamikrest continuano il loro sodalizio con Chris Eckman (Walkabouts, Dirtmusic) ancora una volta nel ruolo di produttore, e realizzano il loro album migliore, nel quale trovano compiutezza espressiva le diverse influenze che caratterizzano il loro percorso musicale: la tradizione musicale tuareg, il blues, il rock, la psichedelia, il funk... distorsioni.net/canali/dischi/…


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Arrestato in Colombia il narcotrafficante Federico Starnone, anche grazie alla rete anti-'Ndrangheta I-CAN di Interpol


Si tratta di un latitante 44enne, ricercato dalle autorità italiane per i reati di associazione a delinquere finalizzata al traffico internazionale di sostanze stupefacenti con le aggravanti connesse a due distinti tentativi di importazione di ingenti quantitativi di cocaina dal Sudamerica.

E' ritenuto legato alla 'Ndrangheta. E' stato catturato in un appartamento nel quartiere residenziale di Cali.

A carico di Starnone è stata già emessa una sentenza di condanna a 5 anni e mezzo per reati di droga. L'uomo è stato catturato dalla polizia colombiana mentre si trovava in un appartamento nel quartiere residenziale nel capoluogo del dipartimento Valle del Cauca.

Essenziale l'apporto del progetto INTERPOL Cooperation Against ‘Ndrangheta (I-CAN).

Si tratta di un'iniziativa lanciata dall'Italia e dall'INTERPOL nel gennaio 2020 per contrastare la minaccia globale rappresentata dalla ‘Ndrangheta, come noto un'organizzazione criminale transnazionale altamente organizzata e potente.

Finanziato dal Dipartimento della Pubblica Sicurezza italiano, il progetto mira a rafforzare la cooperazione internazionale tra forze di polizia sfruttando le capacità dell'INTERPOL di condividere intelligence, competenze e best practice, trasformando così le informazioni in arresti e smantellando le reti criminali.

Avviato a Reggio Calabria l'obiettivo principale del progetto è stato – da subito – quello di istituire un sistema globale di allerta precoce contro questo “nemico invisibile”. I-CAN opera attraverso una rete di paesi pilota, che inizialmente includevano Australia, Argentina, Brasile, Canada, Colombia, Francia, Germania, Italia, Svizzera, Stati Uniti e Uruguay, che si è espanso a 13, tra cui Austria, Belgio e Spagna.

Il progetto facilita operazioni coordinate transfrontaliere, come dimostrato dall'operazione globale del 2020 che ha portato all'arresto di sei latitanti legati alla 'Ndrangheta in Albania, Argentina e Costa Rica, con conseguente sequestro di 400 kg di cocaina e smantellamento del clan Bellocco. Le operazioni successive hanno continuato a dare risultati, tra cui l'arresto nel 2023 di un latitante di 16 anni, Edgardo Greco, in Francia, con il supporto di I-CAN.

Il progetto si è evoluto oltre la sua fase iniziale, con iniziative in corso tra cui la Conferenza I-CAN del 2022 a Roma, che ha riunito le forze dell'ordine di 14 paesi per definire una strategia unitaria contro la 'Ndrangheta, oggi considerata un'entità criminale “silenziosa e pervasiva” che si infiltra nelle economie legittime attraverso la corruzione e il riciclaggio di denaro.

Il successo del progetto si basa su una combinazione di condivisione di intelligence, coordinamento internazionale e utilizzo di strumenti analitici avanzati per esplorare dati provenienti da diverse fonti, consentendo indagini transnazionali. Il suo quadro continua a sostenere gli sforzi in corso, tra cui il progetto I-FORCE, incentrato sulla cooperazione regionale nell'Europa orientale e sudorientale.

#ndrangheta #ican #interpol #iforce


noblogo.org/cooperazione-inter…


Arrestato in Colombia il narcotrafficante Federico Starnone, anche grazie alla...


Arrestato in Colombia il narcotrafficante Federico Starnone, anche grazie alla rete anti-'Ndrangheta I-CAN di Interpol


Si tratta di un latitante 44enne, ricercato dalle autorità italiane per i reati di associazione a delinquere finalizzata al traffico internazionale di sostanze stupefacenti con le aggravanti connesse a due distinti tentativi di importazione di ingenti quantitativi di cocaina dal Sudamerica.

E' ritenuto legato alla 'Ndrangheta. E' stato catturato in un appartamento nel quartiere residenziale di Cali.

A carico di Starnone è stata già emessa una sentenza di condanna a 5 anni e mezzo per reati di droga. L'uomo è stato catturato dalla polizia colombiana mentre si trovava in un appartamento nel quartiere residenziale nel capoluogo del dipartimento Valle del Cauca.

Essenziale l'apporto del progetto INTERPOL Cooperation Against ‘Ndrangheta (I-CAN).

Si tratta di un'iniziativa lanciata dall'Italia e dall'INTERPOL nel gennaio 2020 per contrastare la minaccia globale rappresentata dalla ‘Ndrangheta, come noto un'organizzazione criminale transnazionale altamente organizzata e potente.

Finanziato dal Dipartimento della Pubblica Sicurezza italiano, il progetto mira a rafforzare la cooperazione internazionale tra forze di polizia sfruttando le capacità dell'INTERPOL di condividere intelligence, competenze e best practice, trasformando così le informazioni in arresti e smantellando le reti criminali.

Avviato a Reggio Calabria l'obiettivo principale del progetto è stato – da subito – quello di istituire un sistema globale di allerta precoce contro questo “nemico invisibile”. I-CAN opera attraverso una rete di paesi pilota, che inizialmente includevano Australia, Argentina, Brasile, Canada, Colombia, Francia, Germania, Italia, Svizzera, Stati Uniti e Uruguay, che si è espanso a 13, tra cui Austria, Belgio e Spagna.

Il progetto facilita operazioni coordinate transfrontaliere, come dimostrato dall'operazione globale del 2020 che ha portato all'arresto di sei latitanti legati alla 'Ndrangheta in Albania, Argentina e Costa Rica, con conseguente sequestro di 400 kg di cocaina e smantellamento del clan Bellocco. Le operazioni successive hanno continuato a dare risultati, tra cui l'arresto nel 2023 di un latitante di 16 anni, Edgardo Greco, in Francia, con il supporto di I-CAN.

Il progetto si è evoluto oltre la sua fase iniziale, con iniziative in corso tra cui la Conferenza I-CAN del 2022 a Roma, che ha riunito le forze dell'ordine di 14 paesi per definire una strategia unitaria contro la 'Ndrangheta, oggi considerata un'entità criminale “silenziosa e pervasiva” che si infiltra nelle economie legittime attraverso la corruzione e il riciclaggio di denaro.

Il successo del progetto si basa su una combinazione di condivisione di intelligence, coordinamento internazionale e utilizzo di strumenti analitici avanzati per esplorare dati provenienti da diverse fonti, consentendo indagini transnazionali. Il suo quadro continua a sostenere gli sforzi in corso, tra cui il progetto I-FORCE, incentrato sulla cooperazione regionale nell'Europa orientale e sudorientale.

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Segui il blog e interagisci con i suoi post nel fediverso. Scopri dove trovarci:l.devol.it/@CoopIntdiPoliziaTutti i contenuti sono CC BY-NC-SA (creativecommons.org/licenses/b…)Le immagini se non diversamente indicato sono di pubblico dominio.



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Un Viaggio tra Sogni e Memorie: Visions of Mana


Se c’è una cosa che “Visions of Mana” riesce a fare con maestria, è farci sognare. Dopo quasi due decenni dall’uscita di “Dawn of Mana” su PlayStation 2, il quinto capitolo della serie principale ci riporta nel mondo incantato di Mana. Eppure, nonostante la lunga attesa, “Visions of Mana” non si limita a cavalcare l’onda della nostalgia; si reinventa, ci sorprende e, soprattutto, ci emoziona.

L’Albero e la Dea: un Eterno Ritorno


Nel cuore della storia, come da tradizione, troviamo l’Albero del Mana e la sua rappresentante divina, la Dea del Mana. Sono simboli immutabili di vita e speranza, minacciati da un male che si insinua come una crepa nella quiete di un quadro idilliaco. Ciò che rende speciale “Visions of Mana” è il modo in cui rielabora questa formula consolidata. Non è solo una lotta tra bene e male, ma un viaggio nei legami tra i personaggi, tra passato e presente, tra sogno e realtà.

Una foresta incantata illuminata da luci soffuse.

Mentre i protagonisti affrontano sfide titaniche, si percepisce un senso di vulnerabilità. Non sono eroi invincibili; sono esseri umani (o quasi), con dubbi e paure. Questo aggiunge una profondità emotiva che raramente si vede in giochi di ruolo tradizionali.

Arte e Atmosfera: Dipingere un Sogno


“Visions of Mana” è, senza mezzi termini, un capolavoro visivo. Ogni ambiente sembra uscito da un libro di fiabe dipinto a mano, con colori che esplodono in mille sfumature. Passeggiare nei boschi luminosi o tra le rovine immerse nella nebbia è un piacere per gli occhi, ma anche per l’anima. Ti senti davvero trasportato in un altro mondo, uno dove la bellezza non è solo estetica, ma parte integrante dell’esperienza narrativa.

Cammino lentamente tra gli alberi, avvolto in una luce dorata che sembra quasi magica. Le foglie danzano al vento, e ogni passo mi porta più vicino al cuore del Mana.

Il design dei personaggi è altrettanto ispirato. Ogni protagonista ha un’identità visiva che racconta una storia: dal giovane idealista con il mantello consunto, alla guerriera dagli occhi fieri e il passato tormentato. Si percepisce una cura quasi maniacale nei dettagli, dal ricamo sui vestiti alle espressioni facciali nei momenti più intensi.

E poi c’è la musica. Ah, la musica! Un misto di melodie orchestrali e brani più intimi che ti entrano dentro e non ti lasciano più. Ogni nota sembra progettata per amplificare l’emozione di una scena, sia essa una battaglia epica o un momento di riflessione silenziosa. Non posso fare a meno di ricordare un momento specifico: un tramonto infuocato, il protagonista che guarda l’orizzonte e un tema musicale che sembra quasi parlarti, ricordandoti la bellezza e la fragilità della vita.

Un Gameplay dal Cuore Nostalgico, ma con una Marcia in Più


Se c’è un elemento che mi ha sorpreso, è il gameplay. La serie Mana è sempre stata conosciuta per il suo sistema di combattimento action e la sua semplicità accattivante. “Visions of Mana” mantiene questa tradizione, ma con alcune aggiunte che lo rendono fresco e coinvolgente.

Un personaggio che osserva un tramonto mozzafiato.

Il sistema di crescita dei personaggi è una delle novità più interessanti. Invece di un semplice accumulo di punti esperienza, il gioco ti invita a prendere decisioni che influenzano lo sviluppo delle abilità. Vuoi che il tuo mago diventi un maestro degli incantesimi distruttivi o preferisci che si concentri su supporto e guarigione? Le scelte sono tue, e ogni decisione ha un peso.

Le battaglie sono fluide e dinamiche, con una sensazione di impatto che mancava nei capitoli precedenti. Eppure, non è tutto azione e adrenalina. Ci sono momenti di calma, enigmi da risolvere e segreti da scoprire che ti fanno rallentare e apprezzare il mondo che ti circonda. È un equilibrio perfetto tra ritmo e riflessione.

Momenti che Restano nel Cuore


Ci sono stati momenti in cui ho dovuto posare il controller e respirare profondamente, sopraffatto dalle emozioni. Ricordo un dialogo tra due personaggi che, senza spoilerare troppo, parlavano di perdita e redenzione. Non era solo una scena scritta bene; era umana, vera. Mi sono rivisto in quelle parole, in quelle emozioni. E credo che molti giocatori faranno lo stesso.

Davanti a me, il sole si tuffa all’orizzonte, tingendo il cielo di arancione e rosso. Il protagonista sembra perso nei suoi pensieri, e io con lui.

E che dire dei colpi di scena? Non è solo la trama principale a sorprendere, ma anche le storie secondarie, che spesso nascondono rivelazioni inattese. Una missione che iniziava come una semplice ricerca di un oggetto smarrito si è trasformata in una riflessione sulla memoria e sull’importanza di non dimenticare chi siamo.

Conclusione: Un Classico Moderno


“Visions of Mana” è più di un videogioco. È un’esperienza, un viaggio che ti porta a riflettere non solo sul mondo fantastico che esplori, ma anche su te stesso. Ha i suoi difetti, certo. Forse alcuni dialoghi avrebbero potuto essere più incisivi, o certe missioni meno ripetitive. Ma nel grande schema delle cose, queste sono piccolezze. Se hai apprezzato questa avventura e cerchi altre esperienze simili senza spendere una fortuna, potresti voler acquistare giochi PS4 economici. Se sei un amante dei JRPG o semplicemente un sognatore in cerca di un’avventura che ti tocchi nel profondo, non posso che consigliarti di immergerti in “Visions of Mana”. Non è solo un gioco; è un ricordo che porterai con te, come una melodia che non smetti mai di canticchiare.


noblogo.org/giochips5/un-viagg…



C'era il Palio di Siena e bussarono i carabinieri



Mio padre, quando decise di portarci in villeggiatura per la prima volta, fu categorico: “se mi stanco della montagna, ci facciamo una decina di giorni e ce ne torniamo a casa. È sempre stato un tipo da mare, come mia sorella; il restante 50% della famiglia, invece, preferiva e preferisce la montagna. A me il mare piace, sia detto: mi piace guardarlo, mi piace l'atmosfera delle località di mare, mi piace camminare e averlo di lato; stare spiaggiati sulla sabbia in una calca di sconosciuti, a morir bruciati dal sole e accecati dal riverbero, a fare chissà cosa, proprio no.

Mio padre era impiegato comunale, autista di mezzi vari, e la montagna gli piacque così tanto che volle provare, per la prima volta questi “giorni di malattia” di cui tanto si parlava in certi ambienti. Niente di truffaldino, anzi: una leggera febbricola, accompagnata da sintomi collaterali vari, fu giudicata sufficiente dalla guardia medica per chiedere e ottenere quattro o cinque giorni di malattia. Questo era accaduto nel tardo pomeriggio di quel ferragosto.

Il giorno dopo, stavamo guardando il Palio di Siena nel piccolo televisorino da 12” che ci eravamo portati dietro: non che ne avessimo di più grandi, era l'unico che avevamo in casa, chiaramente in bianco e nero. Ero ancora abbastanza piccolo da trovare divertente il Palio, già dopo pochi anni iniziai a chiedermi cosa avessero fatto quei poveri cavalli per trovarsi lì, a fare quello che facevano. Bussarono alla porta ed erano i carabinieri.

Ebbi paura, che volevano? Era successo qualcosa a qualcuno? Qualcuno in famiglia aveva combinato un pasticcio di cui non sapevo nulla? No, fortunatamente, erano solo venuti a controllare, e mio padre davvero stava in pigiama, con la voce nasale e le medicine in giro.

Va bene, ma il 18 mattina dovete essere al lavoro: così si esaurirono rapidamente gli unici due giorni di malattia della vita lavorativa di mio padre. Ci avevano trovati, in un lampo, chiedendo un po' in giro, al barbiere che ci aveva accorciato i capelli qualche giorno prima, “stanno nella casa di...”.

Hanno fatto il loro dovere, non c'è nulla da dire in merito; tuttvia, ancora oggi ripenso a quella sollecitudine, con una punta di amarezza solcata da una striatura di facile populismo. Penso ai latitanti che latitano per decenni nel paese dove sono nati e dove sono sempre vissuti, con le istituzioni che sembrano brancolare nel buio e i compaesani ignari di tutto, dietro quel muro di omertà del Sud che al Nord si chiama dignitoso silenzio.

La faccenda si concluse con mio padre che diventò un pendolare della villeggiatura: tornava a casa e andava al lavoro, poi il venerdì sera ci raggiungeva e la domenica pomeriggio ripartiva.

E stare soli con nostra mamma era un'esperienza nuova, ma ugualmente bella. E quando tornava mio padre, era sempre una piccola festa.

Questo pendolarismo fu possibile solo nelle nostre villeggiature sul Matese, a circa 80 km da casa: in Abruzzo si sarebbe trattato di un viaggio di oltre 200 km, ogni volta, quindi facevano i nostri 15-18 giorni e tornavamo nella bruttura del nostro quotidiano.


log.livellosegreto.it/oreliete…



Jonathan Wilson - Fanfare (2013)


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L’intro di “Fanfare”, la title track che dà inizio al secondo album “ufficiale” di Jonathan Wilson, dura quasi tre minuti. Un'introduzione lunghissima, durante la quale, in un incredibile crescendo, alle note di un pianoforte si stratificano, man mano, innumerevoli altri strumenti: chitarre, archi, batteria, organi elettrici. Sembrano lontanissimi i tempi in cui, a uno scarno piano, si aggiungeva solo l’asciuttezza di una chitarra arpeggiata, nell’apertura di “Gentle Spirit”, il disco che nel 2011 ha fatto conoscere al mondo il musicista di base a Los Angeles... ondarock.it/recensioni/2013_jo…


Ascolta: album.link/i/689966729



noblogo.org/available/jonathan…


Jonathan Wilson - Fanfare (2013)


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L’intro di “Fanfare”, la title track che dà inizio al secondo album “ufficiale” di Jonathan Wilson, dura quasi tre minuti. Un'introduzione lunghissima, durante la quale, in un incredibile crescendo, alle note di un pianoforte si stratificano, man mano, innumerevoli altri strumenti: chitarre, archi, batteria, organi elettrici. Sembrano lontanissimi i tempi in cui, a uno scarno piano, si aggiungeva solo l’asciuttezza di una chitarra arpeggiata, nell’apertura di “Gentle Spirit”, il disco che nel 2011 ha fatto conoscere al mondo il musicista di base a Los Angeles... ondarock.it/recensioni/2013_jo…


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[piriche]l'offerta del segnale orario cerimonie fosfeni a ore dieci una] zona franca una [misura introdotta aperto] al traffico chiuso] la pressa alternata porzioni di brutalismo l'harmonizer [va in pezzi fa un botto freddo nel traffico dello] smistamento


noblogo.org/lucazanini/piriche…



QOELET - Capitolo 7


LA SAPIENZA UMANA E IL SUO FALLIMENTO (7,1-12,8)

Ciò che è meglio per l’uomo1Un buon nome è preferibile all'unguento profumato e il giorno della morte al giorno della nascita.2È meglio visitare una casa dove c'è lutto che visitare una casa dove si banchetta, perché quella è la fine d'ogni uomo e chi vive ci deve riflettere.3È preferibile la mestizia al riso, perché con un volto triste il cuore diventa migliore.4Il cuore dei saggi è in una casa in lutto e il cuore degli stolti in una casa in festa.5Meglio ascoltare il rimprovero di un saggio che ascoltare la lode degli stolti:6perché quale il crepitìo dei pruni sotto la pentola tale è il riso degli stolti. Ma anche questo è vanità.7L'estorsione rende stolto il saggio e i regali corrompono il cuore.8Meglio la fine di una cosa che il suo principio; è meglio un uomo paziente che uno presuntuoso.9Non essere facile a irritarti in cuor tuo, perché la collera dimora in seno agli stolti. 10Non dire: “Come mai i tempi antichi erano migliori del presente?”, perché una domanda simile non è ispirata a saggezza. 11Buona cosa è la saggezza unita a un patrimonio ed è utile per coloro che vedono il sole. 12Perché si sta all'ombra della saggezza come si sta all'ombra del denaro; ma vale di più il sapere, perché la saggezza fa vivere chi la possiede.13Osserva l'opera di Dio: chi può raddrizzare ciò che egli ha fatto curvo? 14Nel giorno lieto sta' allegro e nel giorno triste rifletti: Dio ha fatto tanto l'uno quanto l'altro, cosicché l'uomo non riesce a scoprire ciò che verrà dopo di lui.

Sapienza e moderazione15Nei miei giorni vani ho visto di tutto: un giusto che va in rovina nonostante la sua giustizia, un malvagio che vive a lungo nonostante la sua iniquità.16Non essere troppo giusto e non mostrarti saggio oltre misura: perché vuoi rovinarti?17Non essere troppo malvagio e non essere stolto. Perché vuoi morire prima del tempo?18È bene che tu prenda una cosa senza lasciare l'altra: in verità chi teme Dio riesce bene in tutto.19La sapienza rende il saggio più forte di dieci potenti che sono nella città. 20Non c'è infatti sulla terra un uomo così giusto che faccia solo il bene e non sbagli mai. 21Ancora: non fare attenzione a tutte le dicerie che si fanno, così non sentirai che il tuo servo ha detto male di te; 22infatti il tuo cuore sa che anche tu tante volte hai detto male degli altri.

La sapienza è introvabile nell’uomo e nella donna23Tutto questo io ho esaminato con sapienza e ho detto: “Voglio diventare saggio!”, ma la sapienza resta lontana da me! 24Rimane lontano ciò che accade: profondo, profondo! Chi può comprenderlo?25Mi sono applicato a conoscere e indagare e cercare la sapienza e giungere a una conclusione, e a riconoscere che la malvagità è stoltezza e la stoltezza è follia. 26Trovo che amara più della morte è la donna: essa è tutta lacci, una rete il suo cuore, catene le sue braccia. Chi è gradito a Dio la sfugge, ma chi fallisce ne resta preso.27Vedi, questo ho scoperto, dice Qoèlet, confrontando a una a una le cose, per arrivare a una conclusione certa. 28Quello che io ancora sto cercando e non ho trovato è questo: un uomo fra mille l'ho trovato, ma una donna fra tutte non l'ho trovata.29Vedi, solo questo ho trovato: Dio ha creato gli esseri umani retti, ma essi vanno in cerca di infinite complicazioni.

_________________Note

7,1-12,8 In questa seconda sezione il filo conduttore è la riflessione sulla condizione dell’uomo e della donna, sul mistero del destino dell’uomo e dell’agire di Dio.

7,1-14 Alcuni proverbi mettono in evidenza il contrasto tra il pensiero del Qoèlet e le idee comunemente accettate.

7,26 La donna vista come tentatrice e più temibile della morte è uno stereotipo proprio del suo ambiente, che il Qoèlet condivide ma corregge: saggezza e stoltezza appartengono a tutti gli esseri umani (v. 29).

=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti


vv. 1-5. I vv. 1-5 formano una struttura concentrica. Evidenziamo gli elementi simmetrici. La buona fama (v. 1) è più importante dei piaceri della vita (simbolizzati nell'unguento profumato), perché la vita che inizia è un'incognita, mentre la morte palesa la verità di un uomo e ne fissa il ricordo per i posteri; si può ottenere buona fama prestando orecchio al rimprovero del saggio più che alla lode degli stolti (v. 5). Se in 2a si consiglia di tendere al lutto piuttosto che alla festa, nel v. 4 si afferma qualcosa riguardo al «cuore», cioè al centro unificatore profondo della persona: l'interiorità dei saggi «è» nel lutto, mentre l'interiorità degli stolti «è» nella letizia. Il “ricordati che morirai” (v. 2b) deve diventare l'orizzonte della vita umana, deve segnare il volto dell'uomo, perché il cuore ne sia trasfigurato (v. 3b). Il nucleo centrale, 3b, propone qualcosa che necessita di una particolare attenzione da parte del lettore, in quanto è la chiave di volta della struttura, ciò che unifica tutte le altre esortazioni alla serietà. Vengono messi in opposizione due modi fondamentali di affrontare l'esistenza umana, espressi nei simboli antropologici del corruccio e del riso, quasi due maschere di una tragedia che dall'assunzione consapevole della morte spera la catarsi.

v. 6. Il giudizio di assurdità che conclude 7,6 trova la sua funzione logica se viene riferito all'insieme dei vv. 1-6a, i quali sono tutti tacciati di assurdità. Tutta quella sapienza corrucciata, quel preferire ciò che sa di morte all'allegria e alla vita, è un'assurdità, tant'è vero che quel sapiente serioso e accigliato si liquefà davanti a una minaccia o a una bustarella (7), e, come rompe il suo grave silenzio, se ne esce in insulsaggini (10). Ecco allora che il rapporto tra le parti di 7,1-10 si qualifica come ironia.

vv. 7-10. Anche la parte 7,7-10 è costruita in modo concentrico. Il v. 7 afferma la poca solidità del saggio, poiché basta una pressione per farlo ammattire, ed esclude che un cedimento esteriore (una “bustarella”) possa lasciare intatta l'interiorità del saggio, la sua opzione fondamentale per la saggezza. Al centro del chiasmo (v. 9), cuore della riflessione e suo fondamento, troviamo un'esortazione alla pazienza.

vv. 11-12. La struttura attira l'attenzione sul problema della sapienza e delle condizioni alle quali questa possa essere un vantaggio per l'uomo. 11a afferma che la sapienza è un bene quando è accompagnata dal denaro, e 12a spiega tale affermazione: sapienza e denaro costituiscono una doppia protezione dalle difficoltà della vita.

vv. 13-14. Esortano a considerare l'agire di Dio. Da notare che il v. 14 contestualizza con grande finezza psicologica l'invito alla riflessione nel giorno triste, sciagurato: il giorno felice è fatto per essere goduto, non per riflettere (cfr. 5,19); è invece quando gli eventi prendono una direzione sgradita che ci si chiede tanti perché. Opposta all'agire di Dio, abbiamo l'impotenza umana a raddrizzare qualcosa la cui stortura dipende dalla volontà divina. Sullo stesso piano troviamo l'incapacità umana di comprendere, anch'essa dipendente dalla volontà divina. Di fatto 7,14 introduce le sequenze che vanno fino alla fine del c. 8, tutte imperniate sull'inconcludenza della conoscenza umana. Dio stesso è il responsabile di tale incompetenza, poiché con il suo agire incomprensibile mantiene l'uomo nei suoi limiti creaturali (e questo per l'uomo è una delusione, ma al tempo stesso è la sua unica possibilità di esistere, cfr. Gn 2-3).

vv. 15-18. Lo sviluppo logico dei vv. 15-18 prende le mosse da un dato d'esperienza che rivela l'inadeguatezza delle categorie tradizionali di giustizia e malvagità e della correlativa retribuzione (v. 15). Da tale riflessione può derivare un senso di frustrazione conoscitiva, di incomprensibilità, di assurdità, che motiva l'esortazione a evitare gli eccessi unilaterali (v. 16-17). La conclusione (v. 18) è che la condizione umana è di immergersi nelle contraddizioni per uscirne bene grazie al timor di Dio. Nel Talmud esiste un termine speciale per designare colui che è troppo puntiglioso: hasid sôteh, un «pio imbecille». L'esempio classico di una pietà esagerata ci è dato dallo stesso Talmud: è colui che, vedendo una donna che sta annegando, dice: «Non sta bene guardare una donna! Non la posso salvare». E con la sua grande pietà la lascia annegare (Sota 21b, cit. in Scherman – Zlotowitz, 143). La dialettica giusto/malvagio non è che un esempio delle innumerevoli contraddizioni della vita (il v. 15 conferma tale idea: «Ho visto di tutto...: [ad esempio] c'è il giusto che perisce...»). Nella stessa linea viene allora a trovarsi il v.14: l'alternarsi di giorni felici e di giorni sciagurati diventa esempio di quella complessità contraddittoria insita nella realtà, che non può che risalire a Dio, e davanti alla quale l'uomo deve confessare la sua incapacità di comprendere, conscio che tale è la sua condizione di creatura.

vv. 19-22. Questi versetti proseguono il ragionamento di 7,15-18, polarizzato sulle antitesi saggezza/stoltezza e giustizia/ingiustizia. Il v. 19 è un proverbio che paragona la saggezza alla potenza di un decemvirato. Qoelet non nega la verità di tale detto tradizionale, ma la ridimensiona con uno sguardo disilluso sull'uomo concreto, prima con un argomento generale (v. 20) e poi con un argomento ad hominem: la coscienza che ognuno ha di essere stato sovente tutt'altro che giusto e saggio (vv. 21-22).

vv. 23-24. A mo di conclusione provvisoria del ragionare precedente, in 7,23-24, la sapienza è presentata come un ideale inarrivabile, eccedente le limitate possibilità dell'essere umano. Il sapiente vorrebbe comprendere tutto ciò che esiste, ma l'esistente gli sfugge in profondità irraggiungibili dove nessun uomo può andare a ritrovarlo.

vv. 25-29. Il verbo principale del v. 26 «trovo» (ûmôsẻ' ăm) è in ebraico un participio; questo induce a intendere quanto segue come dato di partenza, e non conclusione, probabile citazione di sapienza tradizionale da valutare. Possiamo tradurre: «Sentivo dire che...». Il referente di tutto il versetto 26 è la «donna» (ha'issa), a cui si riferiscono i pronomi femminili del pezzo in esame; constatiamo inoltre la presenza di termini che appartengono tutti al campo semantico della trappola (reti a strascico, rete, lacci, sfuggire, restare intrappolato): la donna è paragonata a una trappola. Il secondo stico del v. 27 e il primo del v. 28 formano una unità che funziona secondo la dinamica dei verbi cercare/capire; abbiamo infatti uno sforzo conoscitivo, il cui esito è peraltro fallimentare. Ciò che Qoelet non è riuscito a capire, pur avendone conosciute più di una, è la donna, mentre l'uomo (l'antitesi fa capire che qui si tratta del maschio), almeno un caso su mille, è riuscito a capirlo. Non è difficile intravvedere un riferimento a Gn 2,20: Adamo non aveva trovato in nessun animale qualcuno con cui condividere l'esistenza, ma davanti alla donna aveva cantato la sua gioia, poiché finalmente aveva trovato. Qoelet-pseudo-Salomone invece aveva avuto mille donne, ma non ne aveva capita nessuna, e così non aveva trovato tra di loro nessun «aiuto simile a sé», nessuno con cui condividere l'esistenza. In 6,10 Qoelet aveva affermato di sapere che cos'è «uomo», l'essere umano, per lo meno in rapporto a Dio, e in 7,29 sostiene di aver capito una cosa sola a proposito dell'uomo: che Dio lo ha fatto «semplice», «diritto», ma essi hanno cercato troppi concetti. Tutto il discorso si muove tra il tentativo di trovare una sapienza teoretica e il fallimento di questa ricerca. L'oggetto concreto che funge da pretesto per esemplificare questo fallimento è il concetto tradizionale di donna, pesantemente gravato dalle paure ancestrali del maschio che, davanti al mondo di passioni che la femminilità catalizza, perde la sua abituale e superficiale posizione di forza e trova facile rifugiarsi nei luoghi comuni della cultura maschilista, che lo rassicurano colpevolizzando la donna. Qoelet demistifica i termini esagerati di questa concezione tradizionale in base alla sua esperienza, che è ancora una volta un'esperienza non sporadica né parziale, ma totale, così da garantire il risultato. E il risultato non prende nemmeno in esame una possibile colpevolezza della donna, ma ammette il fallimento e il limite della comprensione umana, che si arresta davanti all'ennesimo mistero. Se c'è una colpa, non è della donna, ma dell'umanità intera, che con l'arroganza della sua ragione vuole raggiungere una conoscenza che Dio non le ha concesso. Risulta in questo modo più chiaro che l'atteggiamento di Qoelet verso la donna non è affatto di misoginia, e questo è confermato dal v. 9,9, in cui la donna amata è il conforto di una vita che presto svanisce.

Interpretazione della sequenza 7,13-29.Notiamo innanzitutto che i vv. 13-14 costituivano in qualche modo il “tema” che viene sviluppato nel seguito. Infatti in 13-14 si affermava: «osserva l'opera di Dio... Dio fa una cosa e il suo contrario affinché l'uomo non possa capire nulla di più». Ecco che il tema dei contrari viene sviluppato nei vv. 15-18: lo scambio delle sorti del giusto e del malvagio e la conseguente esortazione a non esagerare in nessun verso, ma a prendere in mano le contraddizioni per uscirne bene con il timor di Dio. Il discorso intorno al giusto e al malvagio partiva da una constatazione per giungere a un'indicazione di comportamento, e questo è l'iter proprio della sapienza, di una sapienza pratica che aiuta a vivere (v. 19). Tale sapienza pratica, aderente alla realtà, è pure disincantata e ironica: non solo le sorti del giusto e del malvagio si possono invertire, ma un giusto che non sbagli mai non esiste sulla terra, motivo per cui non è il caso di scandalizzarsi per i peccati altrui, sapendo di non esserne immuni (vv. 20-22). A questo punto sembra rendersi accessibile una sapienza più generale, che capisca il senso globale delle cose (v. 23). Eppure la realtà che si vorrebbe indagare in questo modo sfugge in profondità lontane, inaccessibili, così che nessuno può dire più di capirci qualcosa (24). Ecco che l'incapacità di capire sperimentata dal sapiente (v. 24) conferma la tesi annunciata al v. 14: Dio fa una cosa e il suo contrario affinché l'uomo non possa capire. Il v. 25 rilancia l'impresa sapienziale connotandola dal punto di vista etico e religioso: meditare sapienza, cercare concetti, significa pure individuare il nesso tra empietà e stupidità, tra la stupidaggine e la pazzia, per cui la ribellione a Dio coincide con la rovina dell'uomo (v. 26b). C'è una sapienza tradizionale che scarica la responsabilità di questa rovina dell'uomo sulla donna (v. 26a). Qoelet, che si era passato per Salomone, con le sue settecento mogli e trecento concubine (1Re 11,3), e dunque di donne poteva parlare per esperienza (v. 27), afferma che un uomo, uno su mille, poteva dire di averlo capito, ma una donna tra tutte quelle (le sue mille, per l'appunto), non era riuscito a capirla (v. 28). Qui Qoelet oppone i due atteggiamenti possibili rispetto alla diversità, all'alterità: c'è chi getta sul diverso la colpa dei propri limiti e c'è chi invece davanti all'alterità riconosce la sua incapacità di penetrare il mistero dell'altro, e questo gli fa percepire con chiarezza il proprio limite creaturale. Di fatto al v. 29 è proprio rievocato il momento della creazione per ritrovare la radice della situazione presente, e così si trae la conclusione che conferma la tesi del v. 14: che Dio ha fatto l'essere umano semplice, ed essi invece hanno cercato troppi concetti. E proprio in questa ribellione al progetto di Dio che si manifesta quel nesso tra empietà e stupidità, tra stupidaggine e pazzia che aveva iniziato questa parte (v. 25).

(cf. PAOLO PAPONE, Qoelet – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Ogni ciclista avrà un suo motivo per andare piano



Io vado piano e i miei motivi sono molteplici, il primo è che più di così non ce la faccio. Mi piacerebbe andare più forte, per arrivare più lontano nel tempo che mi è concesso per pedalare, ma la lentezza mi porta al secondo motivo: inseguire la prestazione ti fa perdere di vista tutto il resto.

Relativamente alle velocità solite dei ciclisti, c'è una sorta di posizionamento immediatamente visibile a chiunque abbia un minimo di consapevolezza del mezzo: un ciclista da strada mi supererà sulla gravel, io supererò un rider in mountain bike (di solito). E sarò sorpassato da un collega in gravel, ma va bene così.

Gli appassionati di MTB sono forse scarsi? Assolutamente no; hanno un motivo più che valido per andare alla loro velocità: non gliene importa niente della velocità media e i tratti pianeggianti, o dalle pendenze scarse, non sono altro che momenti di raccordo tra una salita che non potrei affrontare o un tratto sconnesso e irregolare che non saprei affrontare.

Quando incontriamo un ciclista, non sappiamo quanti chilometri e dislivello abbia già percorso o dovrà percorrere. Non sappiamo se abbia dormito bene, si sia nutrendo regolarmente durante lo sforzo, se stia facendo un esercizio specifico, se sia lì per un KOM o per godersi il paesaggio e la libertà della bicicletta. Ai ciclisti lenti, e a quello che non vediamo, vada il nostro incoraggiamento.

Stamattina, calda domenica estiva, stavo facendo una delle mie salitelle solite, adatte a tutti, quando ho incontrato un ciclista visibilmente più lento di me; non mi sono soffermato troppo sulla bici, ma sembrava una sorta di gravel col manubrio flat, non erano gomme da MTB. L'ho superato, ci siamo salutati, io ho continuato il mio giro, lui il suo. Dopo un'oretta, ci siamo incontrati di nuovo, probabilmente al punto più alto delle nostre uscite. Su un passo, dove si scollina o si torna indietro, entrambi siamo tornati indietro. Mi ha rivolto un largo sorriso, ho contraccambiato, dicendomi “ora inizia la discesa”.

È stato un momento tenerissimo, ho capito che per lui quella salita era stata abbastanza impegnativa (ricordate: non sappiamo mai, con sicurezza, cosa ci sia dietro una pedalata) ma l'aveva superata, ora poteva godersi il riposo della discesa e il piacere del vento sulla pelle, in una giornata caldissima. Così come si era goduto il panorama in salita, alla sua giusta velocità.

Il ciclismo amatoriale, lontano da Strava e dai watt, è bello anche per questi momenti


log.livellosegreto.it/superrel…


Ogni ciclista avrà un suo motivo per andare piano


Io vado piano e i miei motivi sono molteplici, il primo è che più di così non ce la faccio. Mi piacerebbe andare più forte, per arrivare più lontano nel tempo che mi è concesso per pedalare, ma la lentezza mi porta al secondo motivo: inseguire la prestazione ti fa perdere di vista tutto il resto.

Relativamente alle velocità solite dei ciclisti, c'è una sorta di posizionamento immediatamente visibile a chiunque abbia un minimo di consapevolezza del mezzo: un ciclista da strada mi supererà sulla gravel, io supererò un rider in mountain bike (di solito). E sarò sorpassato da un collega in gravel, ma va bene così.

Gli appassionati di MTB sono forse scarsi? Assolutamente no; hanno un motivo più che valido per andare alla loro velocità: non gliene importa niente della velocità media e i tratti pianeggianti, o dalle pendenze scarse, non sono altro che momenti di raccordo tra una salita che non potrei affrontare o un tratto sconnesso e irregolare che non saprei affrontare.

Quando incontriamo un ciclista, non sappiamo quanti chilometri e dislivello abbia già percorso o dovrà percorrere. Non sappiamo se abbia dormito bene, si sia nutrendo regolarmente durante lo sforzo, se stia facendo un esercizio specifico, se sia lì per un KOM o per godersi il paesaggio e la libertà della bicicletta. Ai ciclisti lenti, e a quello che non vediamo, vada il nostro incoraggiamento.

Stamattina, calda domenica estiva, stavo facendo una delle mie salitelle solite, adatte a tutti, quando ho incontrato un ciclista visibilmente più lento di me; non mi sono soffermato troppo sulla bici, ma sembrava una sorta di gravel col manubrio flat, non erano gomme da MTB. L'ho superato, ci siamo salutati, io ho continuato il mio giro, lui il suo. Dopo un'oretta, ci siamo incontrati di nuovo, probabilmente al punto più alto delle nostre uscite. Su un passo, dove si scollina o si torna indietro, entrambi siamo tornati indietro. Mi ha rivolto un largo sorriso, ho contraccambiato, dicendomi “ora inizia la discesa”.

È stato un momento tenerissimo, ho capito che per lui quella salita era stata abbastanza impegnativa (ricordate: non sappiamo mai, con sicurezza, cosa ci sia dietro una pedalata) ma l'aveva superata, ora poteva godersi il riposo della discesa e il piacere del vento sulla pelle, in una giornata caldissima. Così come si era goduto il panorama in salita, alla sua giusta velocità.

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Pace - un'utopia?


Predicazione su Isaia 2, 1-5

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oggi il nostro testo ci porta ben 2700 anni indietro nella storia e ci rende testimoni di una visione profetica, forse una delle visioni più note e citate.

Isaia, il profeta, all’inizio del capitolo 2 ci racconta non qualcosa che è accaduto nel passato, ma qualcosa che ancora deve accadere. È un sogno? Una speranza? Una promessa? Un’utopia?

Sembra quasi un dipinto, un affresco su larga scala: un monte, dei popoli in cammino, parole che danno vita, armi che si trasformano. Un testo che ha attraversato i secoli e ancora oggi ci interroga, ci conforta, ci provoca.

1. Un popolo in cammino

Isaia dice: “Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e si ergerà sopra i colli; ad esso affluiranno tutte le genti.

Non è una processione di un solo popolo, non è un corteo nazionale o religioso. Sono tutti i popoli, le nazioni del mondo, che si mettono in cammino. Non c'è conquista, non c'è imposizione. Non c'è propaganda. C'è solo un desiderio, un bisogno: “Venite, saliamo al monte del Signore.”

Questo movimento verso Dio nasce dal basso. È come una sete collettiva, una fame condivisa. Non è solo il desiderio di spiritualità, ma la ricerca di un senso, di un orientamento, di una parola che parli davvero alla vita.

C'è un dettaglio interessante nel testo: i popoli si incoraggiano a vicenda. Si dicono l’un l’altro: “Venite!” Come quando tra amici ci si motiva a partecipare a qualcosa di importante: un incontro, un evento, una giornata speciale.

2. Una sete di ascolto

Isaia continua: “Egli ci insegnerà le sue vie e noi cammineremo nei suoi sentieri.”

Questa è forse la parte più sorprendente: i popoli non vogliono salire al monte per vedere qualcosa, per fare una foto, per avere un'esperienza spirituale, non vanno lì per turismo religioso, vanno lì, perché Vogliono ascoltare. Vogliono imparare.

Noi viviamo in un mondo pieno di parole, di opinioni, di rumore. Siamo inondati da messaggi, notifiche, pubblicità, consigli su cosa fare, come essere, cosa pensare. Ma Isaia ci mostra una scena diversa: un’umanità che fa silenzio per ascoltare Dio.

Non è semplice. Ascoltare richiede pazienza, attenzione, umiltà. È una forma di apertura, di disponibilità. E qui non si tratta di ascoltare per curiosità, ma per mettersi in cammino: “Noi cammineremo nei suoi sentieri.”

C’è un legame profondo tra ascolto e azione. Non basta sapere. Non basta sentire belle parole. Il desiderio è quello di vivere in modo nuovo, di camminare su strade diverse, più giuste, più vere, più umane.

Questo cammino non si fa da soli. Come sul sentiero di Emmaus, si cammina insieme. E talvolta, proprio nel cammino, scopriamo che Dio è accanto a noi, magari nascosto nelle parole di un compagno di viaggio, in un gesto semplice, in una parola che ci conforta.

3. Dalle armi agli aratri

Ed ecco che la visione di Isaia raggiunge il suo culmine: “Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci.”

Nel nostro tempo la pace sembra sempre di più un sogno, anzi un utopia. Non una pace fragile, fatta di armistizi temporanei o silenzi tesi, ma una pace vera, profonda, dove nessuno deve più avere paura dell’altro. Una pace in cui non si costruiscono più muri, ma ponti. Una pace dove non si imparano le tecniche di guerra, ma le vie della giustizia, della solidarietà, del dialogo.

Il profeta Isaia immaginava proprio questo: un mondo dove le spade sarebbero diventate aratri, le lance trasformate in falci, e nessuno avrebbe più imparato l’arte della guerra. Un mondo dove la formazione non è più alla guerra, ma alla cura della terra e delle relazioni.

Pensiamo a come sta andando il mondo:

La spesa militare globale ha superato i 2.4 trilioni di dollari all’anno. In Europa, alcuni Paesi stanno aumentando la spesa militare fino al 5 % del PIL. In Italia, per raggiungere questo obiettivo, si rischia di stanziare oltre 30 miliardi di euro per armamenti, mentre nello stesso tempo mancano fondi per scuole, ospedali, pensioni, edilizia popolare.

È paradossale: si trovano miliardi per armi, carri armati, caccia da guerra… ma per i bambini senza asilo, per i medici di base, per chi vive senza casa… spesso non c’è abbastanza. La verità è questa: ogni euro investito in armi è un euro sottratto alla vita. Ogni “sicurezza” costruita con la minaccia, si paga con meno salute, meno istruzione, meno dignità. È una questione etica, prima ancora che politica.

Perché la pace vera non è solo assenza di guerra. La pace si costruisce. Si impara. Ha un prezzo, sì, ma è un prezzo di giustizia, non di acciaio. L’etica della pace ci insegna che se depongo la spada, è per impugnare un aratro. Non per disinteresse, ma per costruire. Non per cedere, ma per seminare futuro.

In questo senso, la pace è una scelta attiva. È decidere di invertire la direzione

  • da spese militari a investimenti educativi,
  • da difesa dei privilegi a cura dei più fragili,
  • da logiche di potere a logiche di servizio.

Per questo, la Parola di Dio ci invita non solo a desiderare la pace, ma a educarci alla pace. Non si nasce pacifici: si diventa artigiani di pace. Si impara a smontare le armi.

Sì, la pace si impara. Come si impara a suonare uno strumento, a coltivare un campo, a far crescere un figlio. E la si impara insieme.

E allora, che possiamo essere artigiani di pace, nella vita, nelle parole, nei bilanci pubblici e privati, nelle scelte quotidiane, perché la pace non è utopia, ma la più grande responsabilità che abbiamo davanti a Dio e agli altri.

4. E noi, oggi?

Isaia conclude con un invito rivolto al suo popolo: “Casa di Giacobbe, vieni, camminiamo nella luce del Signore!” È come se dicesse: “Abbiamo visto la visione. Ora tocca a noi. Non aspettiamo. Cominciamo a camminare.” E noi? Cosa ce ne facciamo di questa visione? Come ci interpella?

Forse ci sentiamo piccoli, impotenti, disillusi. Eppure la visione di Isaia comincia con un movimento collettivo, fatto di tanti piccoli passi. Un popolo in cammino. Uomini e donne che si incoraggiano a vicenda e vedono che si possono fare dei passi concreti per cambiare il mondo e convertire le menti e le azioni.


noblogo.org/jens/pace-unutopia



[filtri]eritrodermi particolari efficienti dermicidi particolari incisivi monodose orco] -oppure escono con trenta variazioni le diable i] corpi mobili [complottano pagano] distratti


noblogo.org/lucazanini/filtri-…



Arbouretum - Coming Out Of The Fog (2013)


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“Il classico non tramonta mai”, questo è il sottotito che più calza a questo “Coming Out Of The Fog”, quinto lavoro dei Arbouretum, band di quattro elementi provenienti da Baltimora. La struttura del disco infatti, è di un classico “suono” rock degli anni '70, nulla di avanguardistico, rivoluzionario quindi, ma solo blues, folk, rock e psichedelia, niente di più, semplicemente. Un “semplicemente” però di classe, suonato con stile e coraggio, con un occhio rivolto al passato e uno al futuro. Un perfetto equilibrio che genera un “gioco” sonoro particolarmente autentico. Gli otto brani che si succedono nel disco creano una atmosera intensa e, a parte qualche momento di noia, nel complesso l'album risulta piacevole. Se il suono delle ballate portano inevitabilmente a un “parallelo” con Neil Young e i suoi Crazy Horse, ascolto dopo ascolto gli Arbouretum riescono a convincere, ritagliandosi un angolo, una sfumatura originale nel panorama odierno della musica... artesuono.blogspot.com/2014/10…


Ascolta: album.link/i/591514356



noblogo.org/available/arbouret…


Arbouretum - Coming Out Of The Fog (2013)


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“Il classico non tramonta mai”, questo è il sottotito che più calza a questo “Coming Out Of The Fog”, quinto lavoro dei Arbouretum, band di quattro elementi provenienti da Baltimora. La struttura del disco infatti, è di un classico “suono” rock degli anni '70, nulla di avanguardistico, rivoluzionario quindi, ma solo blues, folk, rock e psichedelia, niente di più, semplicemente. Un “semplicemente” però di classe, suonato con stile e coraggio, con un occhio rivolto al passato e uno al futuro. Un perfetto equilibrio che genera un “gioco” sonoro particolarmente autentico. Gli otto brani che si succedono nel disco creano una atmosera intensa e, a parte qualche momento di noia, nel complesso l'album risulta piacevole. Se il suono delle ballate portano inevitabilmente a un “parallelo” con Neil Young e i suoi Crazy Horse, ascolto dopo ascolto gli Arbouretum riescono a convincere, ritagliandosi un angolo, una sfumatura originale nel panorama odierno della musica... artesuono.blogspot.com/2014/10…


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QOELET - Capitolo 6


L’uomo è sempre insoddisfatto1Un altro male ho visto sotto il sole, che grava molto sugli uomini. 2A uno Dio ha concesso beni, ricchezze, onori e non gli manca niente di quanto desidera; ma Dio non gli concede di poterne godere, anzi sarà un estraneo a divorarli. Ciò è vanità e grave malanno.3Se uno avesse cento figli e vivesse molti anni e molti fossero i giorni della sua vita, se egli non gode a sazietà dei suoi beni e non ha neppure una tomba, allora io dico che l'aborto è meglio di lui. 4Questi infatti viene come un soffio, se ne va nella tenebra e l'oscurità copre il suo nome, 5non vede neppure il sole, non sa niente; così è nella quiete, a differenza dell'altro! 6Se quell'uomo vivesse anche due volte mille anni, senza godere dei suoi beni, non dovranno forse andare tutti e due nel medesimo luogo?7Tutta la fatica dell'uomo è per la bocca, ma la sua fame non è mai sazia. 8Quale vantaggio ha il saggio sullo stolto? Qual è il vantaggio del povero nel sapersi destreggiare nella vita?9Meglio vedere con gli occhi che vagare con il desiderio. Anche questo è vanità e un correre dietro al vento. 10Ciò che esiste, da tempo ha avuto un nome, e si sa che cos'è un uomo: egli non può contendere in giudizio con chi è più forte di lui. 11Più aumentano le parole, più cresce il vuoto, e quale utilità c'è per l'uomo? 12Chi sa quel che è bene per l'uomo durante la sua vita, nei pochi giorni della sua vana esistenza, che passa via come un'ombra? Chi può indicare all'uomo che cosa avverrà dopo di lui sotto il sole?

=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti


vv. 1-9. Gli elementi esterni del chiasmo 6,1-2 sono caratterizzati dal ricorrere della radice ra (male, malanno) e dall'identificare come vanità, assurdità, ciò che si vede sotto il sole, e questa è una costante in Qoelet (cfr. 1,14; 2,11.17.20-21; 4,7-8.15-16). Il centro del chiasmo presenta la totale disponibilità dei beni e la paradossale impossibilità di goderne: questo è il malanno che grava sull'uomo, e che dipende dall'imperscrutabile volontà di Dio. La parte 6,3-6 si compone di tre pezzi; i due esterni 3a e 6b ad andamento parallelo, quello centrale (3b-5) di forma concentrica. I primi due pezzi oppongono dialetticamente un massimo di vigore vitale (un uomo che genera cento volte) e un minimo di vitalità (l'aborto). Il terzo pezzo stronca lo slancio retorico dei primi due con la constatazione realistica dell'universale destino di morte. La longevità – un valore nella tradizione – per Qoelet non è un gran pregio, poiché ha già dimostrato a più riprese che la vita è tutta un faticare senza senso e senza frutto. Se poi non si può neppure godere dei beni nel presente, allora è preferibile la quiete di chi ha vissuto un nulla e il suo nome (la realtà del nascituro nei sogni dei genitori) è stato sommerso dal buio. Torna in 6,7-9, a mo' di sintesi conclusiva, il discorso sull'avidità. La brama insaziabile di 6,7 richiama il possessore di ricchezze di 5,10, quello che doveva stare sempre con gli occhi aperti per sorvegliare i suoi tesori. A costui Qoelet contrappone il povero che, spinto dalla fame, cerca di inventarsi la vita momento per momento. Tuttavia non c'è vantaggio né per il ricco, né per il povero; non è preferibile la condizione di chi non può godere dei suoi beni perché deve difenderli dai parassiti, rispetto a quello di chi non li gode perché non li possiede. L'una e l'altra situazione sono segnate dall'assurdità che caratterizza tutta quanta la condizione umana.

v. 10. Il v. 10 del c. 6, che segna la metà esatta dei versetti del libro, introduce una nuova serie di riflessioni sulla condizione umana con un enigma. Il problema è conoscere l'essere umano; 1l soggetto di questa conoscenza risulta essere Dio, colui che «è più forte di lui»: infatti in tutto il Vicino Oriente antico pronunciare il nome di qualcuno o di qualcosa significa determinarne la natura e il destino, e dunque avere un potere assoluto su di esso. A un livello più alto di analisi retorica, 6,10 corrisponde a 7,13: l'uomo «non può discutere con Dio» (6,10), cioè «non può raddrizzare ciò che egli ha fatto storto» (7,13). Si giunge così a una conclusione quanto mai amara ma difficilmente eludibile: ciò che Dio ha fatto storto (7,13c) è proprio l'uomo (6,10ab), almeno per i limiti di cui l'uomo stesso fa esperienza.

vv. 11-12. L'enigma si configura intorno al problema conoscitivo, che si trova in tensione tra l'assurdità dei discorsi che si moltiplicano (6,11) e l'assurdità di una vita che ha i giorni contati (6,12). Che cosa siano questi discorsi che moltiplicano l'assurdità viene esemplificato nel capitolo successivo: in 7,1-6b; infatti in 7,6c si ribadisce che «anche questo è un'assurdità», e nei vv. 7-10 si danno le ragioni di tale asserita assurdità.

(cf. PAOLO PAPONE, Qoelet – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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[provetecniche]ha una parte una compressione tuning la] parte compromessa un numero] d'inventario la] parte del tutto preoccupa i] [puristi ha] una seconda e terza parte con i relais in fabbrica in cromovortex* rimuove] la previsione l'obbligo di fila [ultrapiatto con sondino meteo

*in attesa di omologazione


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lanciarmi anima-e-corpo

contro fastelli di luce

specchiarmi

nella sua “follia”

e tu a dirmi: Lui

l'irrivelato

nasconde il suo azzurro – è

lamento amoroso

. Che meravigliosa esplorazione poetica! Il testo trasuda una passione intensa e oscillante tra luce e follia, un invito a gettarsi completamente, anima e corpo, in un'esperienza che va oltre il razionale. Le immagini di “fastelli di luce” e il desiderio di “specchiarmi nella sua 'follia'” suggeriscono quel bisogno di confrontarsi con l'ignoto e l'irrazionale, cercando una verità nascosta nelle sfumature dell'esistenza.

La seconda parte, con il richiamo a “Lui / l'irrivelato / nasconde il suo azzurro – è / lamento amoroso”, intensifica il contrasto: l'azzurro, simbolo classico di malinconia, di vastità interiore o persino di un ideale idealizzato, diventa il segreto celato dietro una maschera di silenzio e di dolore. È come se quella luce, pur essendo esplosa in mille riflessi, lasciasse dietro di sé un rimpianto, un'eco di amore non detto, di verità che rimane sempre parzialmente svelata.

Questa tensione tra il rivelarsi e il celato, tra la spinta a esplorare fino all'abisso e il rimpianto che ne resta, ci invita a riflettere sulla natura stessa del desiderio e della ricerca personale. Mi piace immaginare che possa parlare al bisogno umano di abbandonarsi totalmente alle passioni, anche quando esse portano con sé un velo di tristezza sottile. Quali sensazioni evoca in te questa dialettica tra luce e ombra, tra manifesto e segreto?


noblogo.org/norise-3-letture-a…



Mikal Cronin - Mcii (2013)


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Un incerto ottimismo per il futuro aleggia su questo nuovo disco di Mikal Cronin, ormai iniziato a una vita da musicista di primo piano che non gli parrà vera, dopo la firma per la Merge. Vestito della fedelissima maglietta tye-dye, Mikal si è chiuso nello studio di registrazione e ha suonato da sé tutte le canzoni di questo nuovo “MCII”, suo secondo disco, se si escludono le ovvie ospitate dell’amico Ty. In questo lavoro il musicista americano ha dovuto evidentemente giungere a un compromesso con l’etichetta che ora lo sponsorizza, alzando il tiro a livello di produzione, pur mantenendo per il resto libertà d’azione... ondarock.it/recensioni/2013_mi…


Ascolta: album.link/i/601409150



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Mikal Cronin - Mcii (2013)


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Un incerto ottimismo per il futuro aleggia su questo nuovo disco di Mikal Cronin, ormai iniziato a una vita da musicista di primo piano che non gli parrà vera, dopo la firma per la Merge. Vestito della fedelissima maglietta tye-dye, Mikal si è chiuso nello studio di registrazione e ha suonato da sé tutte le canzoni di questo nuovo “MCII”, suo secondo disco, se si escludono le ovvie ospitate dell’amico Ty. In questo lavoro il musicista americano ha dovuto evidentemente giungere a un compromesso con l’etichetta che ora lo sponsorizza, alzando il tiro a livello di produzione, pur mantenendo per il resto libertà d’azione... ondarock.it/recensioni/2013_mi…


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QOELET - Capitolo 5


1Non essere precipitoso con la bocca e il tuo cuore non si affretti a proferire parole davanti a Dio, perché Dio è in cielo e tu sei sulla terra; perciò siano poche le tue parole. 2Infatti dalle molte preoccupazioni vengono i sogni, e dalle molte chiacchiere il discorso dello stolto.3Quando hai fatto un voto a Dio, non tardare a soddisfarlo, perché a lui non piace il comportamento degli stolti: adempi quello che hai promesso. 4È meglio non fare voti che farli e poi non mantenerli. 5Non permettere alla tua bocca di renderti colpevole e davanti al suo messaggero non dire che è stata una inavvertenza, perché Dio non abbia ad adirarsi per le tue parole e distrugga l'opera delle tue mani. 6Poiché dai molti sogni provengono molte illusioni e tante parole. Tu, dunque, temi Dio!

L’autorità, la ricchezza e i loro rischi7Se nella provincia vedi il povero oppresso e il diritto e la giustizia calpestati, non ti meravigliare di questo, poiché sopra un'autorità veglia un'altra superiore e sopra di loro un'altra ancora più alta. 8In ogni caso, la terra è a profitto di tutti, ma è il re a servirsi della campagna.9Chi ama il denaro non è mai sazio di denaro e chi ama la ricchezza non ha mai entrate sufficienti. Anche questo è vanità. 10Con il crescere delle ricchezze aumentano i profittatori e quale soddisfazione ne riceve il padrone se non di vederle con gli occhi?11Dolce è il sonno del lavoratore, poco o molto che mangi; ma la sazietà del ricco non lo lascia dormire.12Un altro brutto guaio ho visto sotto il sole: ricchezze custodite dal padrone a suo danno. 13Se ne vanno in fumo queste ricchezze per un cattivo affare e il figlio che gli è nato non ha nulla nelle mani. 14Come è uscito dal grembo di sua madre, nudo ancora se ne andrà come era venuto, e dalle sue fatiche non ricaverà nulla da portare con sé. 15Anche questo è un brutto guaio: che se ne vada proprio come è venuto. Quale profitto ricava dall'avere gettato le sue fatiche al vento? 16Tutti i giorni della sua vita li ha passati nell'oscurità, fra molti fastidi, malanni e crucci.17Ecco quello che io ritengo buono e bello per l'uomo: è meglio mangiare e bere e godere dei beni per ogni fatica sopportata sotto il sole, nei pochi giorni di vita che Dio gli dà, perché questa è la sua parte. 18Inoltre ad ogni uomo, al quale Dio concede ricchezze e beni, egli dà facoltà di mangiarne, prendere la sua parte e godere della sua fatica: anche questo è dono di Dio. 19Egli infatti non penserà troppo ai giorni della sua vita, poiché Dio lo occupa con la gioia del suo cuore. _________________Note

5,5 messaggero: forse il sacerdote, incaricato di ricevere le offerte presentate al tempio (Lv 4; Nm 15,22-31; per il sacerdote in qualità di “messaggero del Signore” vedi Ml 2,7).

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Approfondimenti


vv. 7-11. La logica del passo è la seguente: si parte innanzitutto dall'osservazione di un aspetto della realtà (7a), si prosegue con un ragionamento di stile sapienziale (7b-9a), ragionamento che viene poi raddoppiato nella parte 10-11, per concludere infine con un giudizio di assurdità (9b). Il v. 7 presenta una struttura concentrica, dalla quale si possono trarre queste conseguenze sulla corruzione della struttura amministrativa: il controllo esercitato da un'autorità sull'altra si rivela un latrocinio del diritto e della giustizia, e più ci sono autorità in alto, più il povero è oppresso. E il tutto viene beffardamente giustificato dalla ragion di stato (cfr. v. 8). La radice di queste dinamiche perverse sta nell'avidità umana (v. 9), tanto insaziabile (la radice indicante “sazietà” – peraltro negata – include la parte 5,9-11) quanto assurda. È tanto più assurda in quanto le preoccupazioni che la ricchezza porta con sé tolgono, a chi ha tanto faticato per accumulare beni, la serenità necessaria per goderli (vv. 10-11).

vv.12-16. Il passo è delimitato dall'inclusione formata dalla parola «malanno»; questo è coerente con l'accumulo di termini negativi, che contrasta con la positività del passo 5,17-19. All'interno dell'inclusione i versetti sono concatenati, e il centro logico della struttura è dato dal secondo stico del v. 14. Se il discorso prende spunto dalle peripezie della vita, tuttavia non è lì il nucleo del problema, perché il fatto che la sorte sia imprevedibile rientra nella normalità delle cose. Ancora una volta il limite, l'assurdità di una situazione umana, viene visto in relazione con la morte, che toglie senso al faticare dell'uomo. Narra il Midrash: «Un giorno una volpe giunse presso una vigna che era cintata ermeticamente, ad eccezione di un'apertura troppo piccola perché potesse passarci attraverso. Allora digiunò per tre giorni, fino a che divenne abbastanza magra per infilarsi nella breccia. Mangiò dell'uva e riprese la sua taglia di prima, così che, quando volle uscire, si accorse, costernata, che era troppo grossa per passare dal buco. Digiunò altri tre giorni, ridivenne magra ed emaciata, ed uscì. Quando fu all'esterno, si voltò verso la vigna e contemplandola le disse: “Vigna, vigna! Sei bella e i tuoi frutti sono dolci. Ma quale beneficio si può trarre da te? Come si entra da te, tale e quale ti si lascia”. Lo stesso è di questo mondo» (cfr. N. Scherman – M. Zlotowitz, 119-120).

vv. 17-19. Il passo si articola in due parti (17/18-19); la seconda riprende gli elementi della prima, non però con ordine. Vediamo quali indicazioni interpretative ci vengono dal porre in relazione gli elementi corrispondenti:

  • è bello mangiare e bere, ma per farlo ci vuole un permesso particolare di Dio;
  • la vita è una fatica, che diventa tollerabile se c'è allegria;
  • i giorni della vita sono pochi, e per l'uomo è meglio non ricordarsene;
  • è Dio che dà sia i giorni della vita, sia ricchezze e tesori;
  • mangiare, bere e godere dei beni sono la «parte» a cui l'uomo può aspirare, ma è solo Dio che gli può concedere di prenderla;
  • ciò che si vede essere bene per l'uomo è godere i beni, ma questo è un dono di Dio, infatti è Dio che intrattiene il cuore dell'uomo con la gioia.

(cf. PAOLO PAPONE, Qoelet – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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[rotazioni]un punto generico dove] rimbalza fanno] ricerche intorno alle centrifughe le] carte da parati i rimbalzi sono evidenti le epoche il sollievo sono] lo scarico del colpo passa] a un tiro a colpi in entrata nell'anticamera] limiti d'azione due o tre spinotti da isolare inverno con parafulmini [votano] controlli] in uscita


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EUBAM Rafah: rientra il primo contingente carabinieri impiegato al valico egiziano.

La missione prosegue con altri carabinieri e gendarmerie europee


Dal 29 gennaio di quest’anno, l’Italia partecipa alla European Union Border Assistance Mission (EUBAM) presso il Valico di Rafah, a sud della Striscia di Gaza (leggi qui, sul nostro account partner sul Fediverso poliversity.it/@Coop_internazi…)

I sette Carabinieri che hanno costituito il primo contingente italiano impiegato presso il valico egiziano sono rientrati in Italia dopo sei mesi di intensa attività.

La missione continua. I primi sono già stati sostituiti con altrettanti militari dell’Arma, che continueranno a operare insieme a personale della Guardia Civil spagnola e della Gendarmerie francese, in un contesto che vede coinvolta la Forza di Gendarmeria Europea (EUROGENDFOR).

L'obiettivo di EUBAM Rafah è quello di coordinare e facilitare il transito giornaliero di feriti e malati provenienti dai territori della Striscia di Gaza, garantendo assistenza e protezione alle persone vulnerabili, in un contesto di emergenza umanitaria.

L’Italia aderì prontamente all’iniziativa europea, confermando la vicinanza e la solidarietà nei confronti della popolazione in difficoltà, duramente provata dal conflitto in corso.

#EUBAMRafah #Armadeicarabinieri #GuardiaCivil #Gendarmerie


noblogo.org/cooperazione-inter…


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EUBAM Rafah: rientra il primo contingente carabinieri impiegato al valico egiziano.

La missione prosegue con altri carabinieri e gendarmerie europee


Dal 29 gennaio di quest’anno, l’Italia partecipa alla European Union Border Assistance Mission (EUBAM) presso il Valico di Rafah, a sud della Striscia di Gaza (leggi qui, sul nostro account partner sul Fediverso poliversity.it/@Coop_internazi…)

I sette Carabinieri che hanno costituito il primo contingente italiano impiegato presso il valico egiziano sono rientrati in Italia dopo sei mesi di intensa attività.

La missione continua. I primi sono già stati sostituiti con altrettanti militari dell’Arma, che continueranno a operare insieme a personale della Guardia Civil spagnola e della Gendarmerie francese, in un contesto che vede coinvolta la Forza di Gendarmeria Europea (EUROGENDFOR).

L'obiettivo di EUBAM Rafah è quello di coordinare e facilitare il transito giornaliero di feriti e malati provenienti dai territori della Striscia di Gaza, garantendo assistenza e protezione alle persone vulnerabili, in un contesto di emergenza umanitaria.

L’Italia aderì prontamente all’iniziativa europea, confermando la vicinanza e la solidarietà nei confronti della popolazione in difficoltà, duramente provata dal conflitto in corso.

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✍️ Ricordi... E oggi è quel giorno malinconico, che non posso condividere con nessuno! Solo a me non è concesso condividere, per un senso di appartenenza, non di comprensione, ma un momento in cui i miei pensieri trovano sfogo e magari incontrano altri pensieri o storie simili!? Perché mi sono sentita dire che un periodo di condivisione, in cui ci si ritrovava per un saluto, un abbraccio virtuale , alla fine era diventato uno sterile bollettino medico? Perché la sincerità fa così male? Perché io ci ho visto altro, uno scambio, un interesse , un voler in qualche modo starmi vicino in un periodo delicato! Ovviamente era tutta un' illusione, l'ennesima della serie! Così poi succede che non vuoi credere, non ti vuoi affezionare, non vuoi trovare collocazione in un mondo che nn ti appartiene, che sia reale o virtuale! Invece accade che puoi e non vuoi, perché ti è stato chiesto di non pretendere, da chi ha già vissuto e vive una realtà ancora più difficile della mia! E allora ti metti li in un angolo, ti affidi alla luna, a parole, che non trovano né rime , né spazi, ai colori del tramonto e dell'alba e a tutti quei piccoli e apparentemente insignificanti gesti quotidiani! Un sorriso, un volo, una canzone , una foto , un'immagine , un ricordo....si va avanti a piccoli passi, verso una meta in salita! Così ci pensi ad un anno fa, a quanto deve essere stato terribile ricevere quella diagnosi, preparare la propria mente ad accettare, l'arrivo e la paura, del mostro più feroce che ci possa essere in giro, un tumore! Parola che solo a pronunciarla fa tanto male, rievoca ogni attimo, ogni fragilità, di un periodo difficilissimo in cui il mondo mi è crollato! Doversi abituare all'idea, l'attesa dell'esito di una biopsia e poi la diagnosi, che non poteva essere più triste e difficile da accettare! Carcinoma infiltrante! Così oggi lo pronuncio, guardo e accarezzo quella cicatrice, che mi appartiene, che mi ricorda che ci sono e posso e devo combattere...ogni giorno per me, per la famiglia, per mio figlio e anche per coloro che credono in me, nella nostra amicizia, nel nostro rapporto! Perché sono una leonessa ferita, ma viva, ammaccata, ma pronta a difendere e difendersi, a ruggire, pronta a ricominciare a rincorrere i propri sogni, la propria vita!


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Okkervil River - The Silver Gymnasium (2013)


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Notevole prova di maturità e sfoggio di evoluzione espressiva da parte degli Okkervil River, band statunitense formatasi nel 1998 è attiva discograficamente dal 2002. The Silver Gymnasium settimo album in studio, è un album intenso e gradevolissimo, che sicuramente farà aumentare il pubblico di ascoltatori. La facilità di scrittura che The Silver Gymnasium evidenzia non può che colpire favorevolmente, tutte le canzoni scorrono senza forzature o momenti di noia, dando l'impressione che il lavoro di selezione sia stato piuttosto rigoroso. E' indiscusso “il filo” marcatamente autobiografico del leader Will Sheff, i testi, dal canto loro, riflettono da varie argomentazioni tutte legate da un comune denominatore: l'adolescenza... artesuono.blogspot.com/2014/11…


Ascolta: album.link/i/692709480



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Okkervil River - The Silver Gymnasium (2013)


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Notevole prova di maturità e sfoggio di evoluzione espressiva da parte degli Okkervil River, band statunitense formatasi nel 1998 è attiva discograficamente dal 2002. The Silver Gymnasium settimo album in studio, è un album intenso e gradevolissimo, che sicuramente farà aumentare il pubblico di ascoltatori. La facilità di scrittura che The Silver Gymnasium evidenzia non può che colpire favorevolmente, tutte le canzoni scorrono senza forzature o momenti di noia, dando l'impressione che il lavoro di selezione sia stato piuttosto rigoroso. E' indiscusso “il filo” marcatamente autobiografico del leader Will Sheff, i testi, dal canto loro, riflettono da varie argomentazioni tutte legate da un comune denominatore: l'adolescenza... artesuono.blogspot.com/2014/11…


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QOELET - Capitolo 4


L’oppressione1Tornai poi a considerare tutte le oppressioni che si fanno sotto il sole. Ecco le lacrime degli oppressi e non c'è chi li consoli; dalla parte dei loro oppressori sta la violenza, ma non c'è chi li consoli. 2Allora ho proclamato felici i morti, ormai trapassati, più dei viventi che sono ancora in vita; 3ma più felice degli uni e degli altri chi ancora non esiste, e non ha visto le azioni malvagie che si fanno sotto il sole.

La fatica del lavoro4Ho osservato anche che ogni fatica e ogni successo ottenuto non sono che invidia dell'uno verso l'altro. Anche questo è vanità, un correre dietro al vento.5Lo stolto incrocia le sue braccia e divora la sua carne.6Meglio una manciata guadagnata con calma che due manciate con tormento e una corsa dietro al vento.

La solitudine7E tornai a considerare quest'altra vanità sotto il sole: 8il caso di chi è solo e non ha nessuno, né figlio né fratello. Eppure non smette mai di faticare, né il suo occhio è mai sazio di ricchezza: “Per chi mi affatico e mi privo dei beni?”. Anche questo è vanità e un'occupazione gravosa.9Meglio essere in due che uno solo, perché otterranno migliore compenso per la loro fatica. 10Infatti, se cadono, l'uno rialza l'altro. Guai invece a chi è solo: se cade, non ha nessuno che lo rialzi. 11Inoltre, se si dorme in due, si sta caldi; ma uno solo come fa a riscaldarsi? 12Se uno è aggredito, in due possono resistere: una corda a tre capi non si rompe tanto presto.

Il potere13Meglio un giovane povero ma accorto, che un re vecchio e stolto, che non sa più accettare consigli.14Il giovane infatti può uscire di prigione ed essere fatto re, anche se, mentre quello regnava, era nato povero. 15Ho visto tutti i viventi che si muovono sotto il sole stare con quel giovane, che era subentrato al re. 16Era una folla immensa quella che gli stava davanti. Ma coloro che verranno dopo non si rallegreranno neppure di lui. Anche questo è vanità, un correre dietro al vento.

Fedeltà alle promesse fatte a Dio17Bada ai tuoi passi quando ti rechi alla casa di Dio. Avvicìnati per ascoltare piuttosto che offrire sacrifici, come fanno gli stolti, i quali non sanno di fare del male.

_________________Note

4,5 divora la sua carne: cioè si consuma nell’ozio, sciupa la propria esistenza.

4,13-16 La sapienza tradizionale vedeva nel re e nell’anziano i simboli della saggezza; l’esperienza invece dimostra a volte il contrario.

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Approfondimenti


vv. 1-3. Qoelet torna a puntare l'attenzione sulla malvagità umana: vede le lacrime degli oppressi, constata l'assenza di un consolatore e ribadisce con insistenza tale assenza, in contrasto con la fiducia nel giudizio divino che proponeva in 3,17. Allo stesso modo, se in 3,18 trovava un senso, pur non molto soddisfacente, al libero corso dell'iniquità, in 4,2-3 Qoelet si lascia ferire dall'agire malvagio dell'uomo fino a provare fastidio per la vita e a desiderare di non essere mai nato. Nel Talmud si afferma che le scuole di Hillel e di Shammai, grandi maestri dell'epoca erodiana, discussero per due anni e mezzo se per l'uomo fosse stato meglio essere creato oppure non esserlo. Conclusero che sarebbe stato meglio che non fosse creato, ma, ora che lo era, doveva esaminare le sue azioni e vivere un'esistenza virtuosa (cfr. ’Eruvin 13b, cit. in Scherman-Zlotowitz, 100).

vv. 4-6. Qoelet scopre una radice cattiva anche nelle azioni migliori per abilità e per successo; è l'invidia che spinge ad agire, molto più che l'utilità. Tuttavia ciascuno sente l'esigenza di giustificare il proprio comportamento, e i proverbi esistono anche per questo scopo. L'autore ne cita due, diametralmente opposti, uno che biasima la pigrizia e uno che la preferisce alla fatica. Di sfuggita, il commento: «è un inseguire il vento»; «parole al vento», diremmo noi.

vv. 7-8. Assurdità la fatica mossa dall'invidia, fatica inutile cercare nella sapienza tradizionale la giustificazione delle proprie scelte, assurdità la fatica di accumulare tesori per la propria solitudine, impedendosi di godere il presente. Poiché la vita è comunque fatica, la solitudine, cioè l'assenza di qualcuno con cui e per cui faticare, rende la vita un pessimo affare. Inizia qui un gioco di linguaggio sui due significati di “uno” e “due”: prima “essere solo” / “essere in compagnia” (4,7-12), poi “essere prima” / “essere dopo” (4,13-16).

vv. 9-12. In antitesi all'assurdità della solitudine, ecco i vantaggi – piccoli invero, ma reali – della compagnia. Le esemplificazioni che seguono sono esperienze talmente elementari e ovvie che prendono immediatamente un valore simbolico molto forte. Considerando che il contesto è ancora sempre quello di una vita terribilmente assurda e intessuta di fatica senza alcun guadagno, non è difficile interpretare questi piccoli, banali e umanissimi gesti come simboli di quella realtà ben più vasta che è la solitudine spezzata. Ancora più notevole è che questi simboli si salvano dalla falce dell'universale assurdità, quasi a dire che, se un vero e proprio senso della vita non si può trovare, il non essere soli rende almeno più vivibile questa vita, e la compagnia è un fuoco che scalda il cuore e mette allegria.

vv. 13-16. Torna il tema di fondo del guadagno vanificato o illusorio, visto nella prospettiva della successione, o meglio di un colpo di stato, ennesima attività frenetica, inutile, assurda (ben parallela con l'altra fatica vana, quella dell'avaro in 4,8, con cui fa inclusione). È da notare che Qoelet capovolge degli assunti che nella tradizione sapienziale hanno quasi valore di dogmi: egli usa una forma classica della letteratura sapienziale (il detto «è meglio questo di quello») per dire che non sempre la saggezza è degli anziani, né si trova nei “posti” importanti. D'altra parte anche la saggezza per così dire “alternativa”, quella del giovane povero che riesce ad usurpare il trono e a conquistare un'immensa ricchezza, non è vera saggezza, perché non porta frutti al di là dell'immediato presente: è ben raro che chi è nato povero e si è arricchito all'improvviso sappia amministrarsi in modo oculato.

vv. 4,17-5,6. Nel passo 4,17- 5,6 lo stile cambia: non si tratta più di un soliloquio (cessano i verbi alla prima persona singolare) ma di consigli (verbi all'imperativo o allo iussivo). Il passo è diviso in due parti, 4,17-5,2 e 5,3-6: la prima si incentra sul parlare a Dio, la seconda specifica questo parlare nel senso di fare voti (e cosi si chiarisce nel v. 4 che cosa sia il sacrificio degli stolti del v. 4, 17). Entrambe le parti tendono a porre l'uomo nella giusta relazione con Dio, che è il rispetto, quello che con termine tecnico si definisce il «timor di Dio». Esso è motivato dalla trascendenza di Dio («Dio è in cielo e tu sulla terra»), il che non significa una lontananza indifferente (come dicono gli empi di Sal 10,4 e 94,7), ma una signoria onnipotente. E l'uomo non può cogliere la logica dell'agire divino, né influenzarla, benché essa lo domini e possa metterlo in pericolo. Tale senso religioso autentico è contrapposto a una falsa religiosità, fatta di sogni, assurdità e parole (5,6), che ha una matrice prettamente psicologica, poiché nasce da ansietà e logorrea. Qoelet non è né nichilista né agnostico, è soltanto uno che non tollera la verbosità di coloro che sono convinti di riuscire a imbrigliare la complessità del reale con le loro parole, e cosi usa lo scudiscio dello hebel per smentire ogni forma di apparente saggezza.

(cf. PAOLO PAPONE, Qoelet – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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✍️ L'amicizia....quando finisce

Ho sempre avuto pochi amici, soprattutto poche amiche, ma conosco bene la fine, il perdersi, il non cercarsi più...Ecco che arriva il momento, quel momento e anche questa volta è successo! Non è il distacco a farci soffrire, ma è il sipario che cala sullo spettacolo che probabilmente avevamo messo in scena...Cioè quando finalmente ci si accorge che quella persona non era come l’avevamo descritta e raccontata nella nostra mente e non solo! Cosi siamo stati noi, con la nostra fame di conoscere, di confrontarci, di spiegarci, a cucire addosso un ruolo che forse non era quello giusto! Col tempo abbiamo ignorato i silenzi, le attese, l'imbarazzo e anche il disagio poi nel ritrovarsi. Abbiamo confuso tutto, l'empatia, con il destino, la gentilezza con il bisogno di comprensione e ci siamo persi! Arriva la delusione che segna la fine di un’illusione. E fa tanto male, perché spezza un legame, interrompe una connessione, che pur c'è stata anche se per poco, mette in crisi la nostra capacità di scegliere, di capire, di proteggerci. Ci fa sentire stupidi, indifesi, fragili, sensibili...persi! Ma non è la debolezza, che ci ha fatto credere in qualcuno, in qualcosa, in alcune parole, e' umanità, lealtà, sincerità. Perché tutti abbiamo voluto credere che fosse vero, per l'ennesima volta, che almeno questa volta fosse a doppio senso e non un triste senso unico. Ancora una volta crolla il castello che avevamo costruito nella testa, un po' si soffre e in quel dolore che non sappiamo spiegare, iniziamo a crescere, ad amare senza aspettarci nulla in cambio, a fidarci, a credere in qualcuno per quello che è, senza idealizzarlo. Così ho salutato l'ennesima illusione, una connessione che al primo intoppo, si è interrotta.. così , con un ciao, false e inutili promesse iniziali, un fuggire dinanzi l'umiltà e la lealtà di chi ha voluto solo ascoltare, esserci, di un cuore che impara a scegliere chi lo vede e lo apprezza davvero, ma che sbaglia ancora e ancora!


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Pace


Utopia o reponsabilità?

Registrazione per la RAI FVG

castopod.it/@jhansen/episodes/…
La pace sembra sempre di più un sogno, anzi un utopia. Non una pace fragile, fatta di armistizi temporanei o silenzi tesi, ma una pace vera, profonda, dove nessuno deve più avere paura dell’altro. Una pace in cui non si costruiscono più muri, ma ponti. Una pace dove non si imparano le tecniche di guerra, ma le vie della giustizia, della solidarietà, del dialogo.

Il profeta Isaia, con il nostro testo di oggi, immaginava proprio questo: un mondo dove le spade sarebbero diventate aratri, le lance trasformate in falci, e nessuno avrebbe più imparato l’arte della guerra. Un mondo dove la formazione non è più alla guerra, ma alla cura della terra e delle relazioni.

È un’immagine potente, poetica. Ma oggi… non è irreale o surreale? Io direi che è drammaticamente attuale.

Pensiamo a come sta andando il mondo:

La spesa militare globale ha superato i 2.4 trilioni di dollari all’anno. In Europa, alcuni Paesi stanno aumentando la spesa militare fino al 5 % del PIL. In Italia, per raggiungere questo obiettivo, si rischia di stanziare oltre 30 miliardi di euro per armamenti, mentre nello stesso tempo mancano fondi per scuole, ospedali, pensioni, edilizia popolare.

È paradossale: si trovano miliardi per armi, carri armati, caccia da guerra… ma per i bambini senza asilo, per i medici di base, per chi vive senza casa… spesso non c’è abbastanza.

La verità è questa: ogni euro investito in armi è un euro sottratto alla vita. Ogni “sicurezza” costruita con la minaccia, si paga con meno salute, meno istruzione, meno dignità. È una questione etica, prima ancora che politica.

Perché la pace vera non è solo assenza di guerra. La pace si costruisce. Si impara. Ha un prezzo, sì, ma è un prezzo di giustizia, non di acciaio.

L’etica della pace ci insegna che se depongo la spada, è per impugnare un aratro. Non per disinteresse, ma per costruire. Non per cedere, ma per seminare futuro.

In questo senso, la pace è una scelta attiva. È decidere di invertire la direzione:

  • da spese militari a investimenti educativi, * da difesa dei privilegi a cura dei più fragili, * da logiche di potere a logiche di servizio.

Per questo, la Parola di Dio ci invita non solo a desiderare la pace, ma a educarci alla pace. Non si nasce pacifici: si diventa artigiani di pace. Si impara a smontare le armi.

Sì, la pace si impara. Come si impara a suonare uno strumento, a coltivare un campo, a far crescere un figlio. E la si impara insieme.

E allora, che possiamo essere artigiani di pace, nella vita, nelle parole, nei bilanci pubblici e privati, nelle scelte quotidiane, perché la pace non è utopia, ma la più grande responsabilità che abbiamo davanti a Dio e agli altri.


noblogo.org/jens/pace



[vortex] -chi è là?

prima dopo vere] opere di falsi da isolamento] al vetro focato come le] stanze stampe Afro picoglass mardigras comunicanti -i bronzetti] l'arco appena finito esposti altri prima attigui portano una cassa cortèn parcelle funi minacciano di acqua in] acqua o dopo mancato] conferimento degli inerti lastre] [stanchissime


noblogo.org/lucazanini/vortex-…



Sidi Touré – Toubalbero (2018)


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La musica è una delle principali risorse culturali del Mali. Risalendo a imperi tanto antichi come quello Mandingo, esiste una tradizione ricchissima di canti di lode. Queste canzoni di lode malinké o mandinghe sono dominio esclusivo dei griot (chiamati djeliw), musicisti ereditari, che sono allo stesso tempo genealologi e storici. Questa musica dei griot è sempre viva e cantata. Ma la musica maliana è molto più variegata e nuovi stili sono apparsi. Per esempio, c’è la musica bambara che è più ritmica, il mali blues di Kar Kar, il blues songhai di Ali Farka Touré, Afel Bocoum e Sidi Touré, appunto... silvanobottaro.it/archives/236…


Ascolta: album.link/i/1322730583



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Sidi Touré – Toubalbero (2018)


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La musica è una delle principali risorse culturali del Mali. Risalendo a imperi tanto antichi come quello Mandingo, esiste una tradizione ricchissima di canti di lode. Queste canzoni di lode malinké o mandinghe sono dominio esclusivo dei griot (chiamati djeliw), musicisti ereditari, che sono allo stesso tempo genealologi e storici. Questa musica dei griot è sempre viva e cantata. Ma la musica maliana è molto più variegata e nuovi stili sono apparsi. Per esempio, c’è la musica bambara che è più ritmica, il mali blues di Kar Kar, il blues songhai di Ali Farka Touré, Afel Bocoum e Sidi Touré, appunto... silvanobottaro.it/archives/236…


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Sidi Touré – Toubalbero (2018)


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La musica è una delle principali risorse culturali del Mali. Risalendo a imperi tanto antichi come quello Mandingo, esiste una tradizione ricchissima di canti di lode. Queste canzoni di lode malinké o mandinghe sono dominio esclusivo dei griot (chiamati djeliw), musicisti ereditari, che sono allo stesso tempo genealologi e storici. Questa musica dei griot è sempre viva e cantata. Ma la musica maliana è molto più variegata e nuovi stili sono apparsi. Per esempio, c’è la musica bambara che è più ritmica, il mali blues di Kar Kar, il blues songhai di Ali Farka Touré, Afel Bocoum e Sidi Touré, appunto... silvanobottaro.it/archives/236…


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cogliere una piccola morte

nello strappo di radice

dove altra ne nasce

dal suo grido

cogliere l'inesprimibile

di questo morire

che s'ingemma d'eterno

. Questo componimento è un viaggio interiore che abbraccia la dualità della vita e della morte. La “piccola morte” non è intesa come un atto finale, ma piuttosto come un passaggio, un momento in cui si assiste allo sgomento e alla simultanea germinazione di qualcosa di nuovo. L'immagine dello “strappo di radice” evoca il gesto profondo e quasi rituale di separarsi da un vecchio stato per fare spazio a una rinascita—un grido che annuncia il ciclo eterno di distruzione e creazione.

L’idea di “cogliere l’inesprimibile” ci sfida a dare forma alle emozioni e alle trasformazioni impossibili da spiegare con parole fatte. Qui il morire si intreccia con l'eterno, creando un legame in cui ogni frammento di fine diventa parte integrante di un disegno più grande, un eterno abbraccio tra il passato e il futuro. È un invito a riconoscere che anche nei momenti di crisi o di perdita, si cela la possibilità di una nuova vita, di una parte di noi che si rinnova.


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La chiamavamo Sprecavitelli



Non so, effetto Mandela o allucinazione collettiva in famiglia? Fatto sta che credevamo quella forra fosse in località Sprecavitelli. Non sapevamo neanche fosse una forra, per noi era un generico burrone. La vera Sprecavitelli è una località nei pressi del Lago Matese, mentre il ponte di Arcichiaro, questo il vero nome, svetta sul torrente Quirino, che siamo sicuri di non aver mai visto. Per gestire queste acque, successivamente, è stata costruita una diga, di cui non so granché, a parte il fatto che sembra i lavori siano iniziati a fine anni Novanta e completati all'italiana, solo parzialmente, almeno fino al 2023.

Allego un paio di foto d'epoca, della mia epoca, così ci togliamo il pensiero e potete smettere di leggere. Scattate con la mia solita reflex delle vacanze, classicamente 36 esposizioni da far durare dalle due alle quattro settimane.

Imbocco di una brevissima galleria, visibile a destra un tratto di strada e a sinistra l'esterno della stessa che si sporge sul vuoto ed è caratterizzata da alcune piante che crescono sulla nuda roccia.

Protagonista della foto, la brevissima galleria che introduce al ponte, sulla SP 331, Strada Provinciale del Matese, in territorio già molisano, nello specifico territorio di Guardiaregia. Proprio Guardiaregia era, probabilmente, la meta di queste nostre escursioni in Molise, una regione vicina ma che non ci siamo mai presi la briga di esplorare, se non per visita a Venafro, Isernia, Bojano e Castelpetroso.

Sporgendoci dal lato roccioso, l'impatto era impressionante, abituati come eravamo a panorami ben più cittadini: una profonda fenditura tra le rocce, un dislivello tale da dare le vertigini e esercitare quella morbosa attrazione per il vuoto, non penso sia solo una questione mia. Credo sia un panorama interessante e pericoloso anche per gente più avvezza a montagne più imponenti.

Profonda forra caratterizzata da una vegetazione alquanto scarsa, in una vecchia foto

Ebbene, per molto tempo ho cercato quella galleria su Maps, per ripercorrere almeno immaginariamente quella strada sospesa su un piccolo, relativo nulla, per rivivere quei momenti ancora una volta, perché non sarà giusto abbandonarsi ai ricordi, ma capita che i ricordi siano l'unico sprone a continuare. Non sono mai riuscito a risalire al punto, intenzionalmente: in molti casi, quando si cerca una cosa e non la si trova, si sta cercando nel posto sbagliato; era uno di quei casi, e da un caso è arrivata la soluzione.

Ho una bicicletta e sogno di usarla per viaggiare, al momento è assolutamente impossibile. Dovessi vivere abbastanza a lungo, perché non si sa mai, nella migliore delle ipotesi ne avrò la possibilità quando non avrò più forza per pedalare e permettermi certe distanze. Non che oggi percorra chissà quanti chilometri, ma ho diversi limiti a cui attenermi, la libertà può essere costretta da troppe pareti.

Stavo fantasticando sul percorso da fare per pedalare fino a San Gregorio Matese: tragitto fattibilissimo, in un giorno, da una persona allenata e io non sono quella persona, quindi dovrei spezzare in due. Il problema è la salita finale, circa 11 km con una pendenza media del 5,5% circa, potrei farcela ma c'è un “ma”.Più di uno, in realtà: la salita è alla fine del percorso, quindi ci arriverei già stanco, la soluzione potrebbe essere quella di sopra, ovvero fare due tappe. Il “ma” grosso, diciamo il MA, sta nell'irregolarità della pendenza e l'ostacolo insormontabile sarebbe uno strappo di circa 400 metri al 14% medio e punte del 18%, a cui seguirebbero altri strappetti analogamente ripidi ma brevi. Non avrei la condizione fisica per quello strappo, dovrei scendere e spingere su una strada stretta.

Come le so queste cose, dov'è che vado a fantasticare? Su Komoot, per esempio: è l'universo immaginario delle cose che mi piacerebbe fare e non farò mai. E sto fantasticando di tornare a Piedimonte, Castello, passare San Gregorio e raggiungere il lago, ormai ho perso la speranza di individuare la finta Sprecavitelli. Complice una zoomata non richiesta (ancora il caso), la mappa si rimpicciolisce e mi appaiono le altre icone dei punti di interesse, una delle quali con la dicitura “Ponte del Diavolo (Arcichiaro)”: di ponti del diavolo ne è pieno il mondo, ma fammici guardare... ed eccolo lì, il posto non può essere che questo. La vegetazione è più folta che nella mia testa e in quelle due foto, scopro che sotto c'è una diga, parte della montagna è stata grattata per ricavarne materiale da costruzione, i guardrail sono rinforzati nello scopo da griglie di contenimento. Cambiamenti estetici, l'essenza del ricordo è immutata.


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QOELET - Capitolo 3


Per tutte le cose c’è un tempo fissato da Dio1Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo.2C'è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare quel che si è piantato.3Un tempo per uccidere e un tempo per curare, un tempo per demolire e un tempo per costruire.4Un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per fare lutto e un tempo per danzare.5Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.6Un tempo per cercare e un tempo per perdere, un tempo per conservare e un tempo per buttar via.7Un tempo per strappare e un tempo per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare.8Un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace.9Che guadagno ha chi si dà da fare con fatica?10Ho considerato l'occupazione che Dio ha dato agli uomini perché vi si affatichino. 11Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo; inoltre ha posto nel loro cuore la durata dei tempi, senza però che gli uomini possano trovare la ragione di ciò che Dio compie dal principio alla fine. 12Ho capito che per essi non c'è nulla di meglio che godere e procurarsi felicità durante la loro vita; 13e che un uomo mangi, beva e goda del suo lavoro, anche questo è dono di Dio. 14Riconosco che qualsiasi cosa Dio fa, dura per sempre; non c'è nulla da aggiungere, nulla da togliere. Dio agisce così perché lo si tema. 15Quello che accade, già è stato; quello che sarà, già è avvenuto. Solo Dio può cercare ciò che ormai è scomparso.

Uomini e animali di fronte alla morte16Ma ho anche notato che sotto il sole al posto del diritto c'è l'iniquità e al posto della giustizia c'è l'iniquità. 17Ho pensato dentro di me: “Il giusto e il malvagio Dio li giudicherà, perché c'è un tempo per ogni cosa e per ogni azione”.18Poi, riguardo ai figli dell'uomo, mi sono detto che Dio vuole metterli alla prova e mostrare che essi di per sé sono bestie. 19Infatti la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa: come muoiono queste, così muoiono quelli; c'è un solo soffio vitale per tutti. L'uomo non ha alcun vantaggio sulle bestie, perché tutto è vanità. 20Tutti sono diretti verso il medesimo luogo: tutto è venuto dalla polvere e nella polvere tutto ritorna.21Chi sa se il soffio vitale dell'uomo sale in alto, mentre quello della bestia scende in basso, nella terra? 22Mi sono accorto che nulla c'è di meglio per l'uomo che godere delle sue opere, perché questa è la parte che gli spetta; e chi potrà condurlo a vedere ciò che accadrà dopo di lui?

_________________Note

3,1-15 Sotto i nostri occhi appare l’agire dell’uomo nella prospettiva del “polarismo”, cioè di azioni contrapposte ed estreme, che altrove nella Bibbia sono descritte con i verbi “entrare-uscire”, “sedersi-alzarsi”, ecc. Non si tratta di fatalismo, ma di una maturata consapevolezza che tutta la vita dell’uomo è nelle mani di Dio, affidata al ritmo dei suoi tempi.

3,19.21 soffio vitale: il respiro; in 12,7 si dirà che esso ritorna a Dio, da cui ha origine, e il corpo ritorna alla terra, dalla quale è stato tratto (Gen 2,7).

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Approfondimenti


Qo 3,1-4,3. La sequenza 3,1-4,3 si sviluppa in modo parallelo, avendo la prima sotto-sequenza (3,1-18) un taglio più teologico, e la seconda sotto-sequenza 3,19-4,3) un taglio piuttosto antropologico. Entrambe le sotto-sequenze partono dal dato d'esperienza della morte (3,2; 3,19), davanti a cui non c'è altro bene se non l'allegria (3,12; 3,22); l'attenzione si concentra poi sull'iniquità umana (notiamo le ripetizioni martellanti in 3,16 e 4,1), per concludere nella prima sotto-sequenza con un riferimento di fede a Dio (3,17-18) e nella seconda sotto-sequenza con un elogio della morte e meglio ancora del non-nascere (4,2-3). In tutta la prima sotto-sequenza Qoelet pensa a Dio come al fondamento ultimo dell'esperienza umana, e nel suo ragionare egli cerca di combinare dati teologici tradizionali con la sua personale valutazione dell'esperienza. Poiché però in concreto non riesce a trovar conferma degli assunti teologici, nella seconda sotto-sequenza rinuncia a chiamare in causa Dio e si ferma al semplice dato umano. In questo modo egli perde ogni rassicurazione e non può più guardare con una certa fiducia la realtà umana, profondamente segnata dall'iniquità: questa diventa troppo pesante per le spalle dell'uomo, tanto da rendergli la vita stessa un peso.

vv. 1-9. Il “sonetto” iniziale (3,2-8) si apre con la coppia generare/morire; è da ricordare che la tradizione ebraica, a partire dal Midrash, ha sovente interpretato tutte le coppie seguenti nella medesima prospettiva (vita/morte, lutto/festa, guerra/pace).

vv. 10-11. L'alternarsi dei tempi, tanto ineluttabile quanto in tensione tra positività e negatività, sfugge alle possibilità di dominio dell'uomo; pertanto viene considerato come il modo in cui Dio esercita il suo controllo sul mondo. E l'uomo, strutturalmente limitato dal punto di vista conoscitivo (ricordiamo che in Gn 2-3 l'unico divieto era relativo proprio all'albero della conoscenza del bene e del male), non riesce a comprendere la logica dell'agire di Dio.

Il v. 11 è un punto-chiave per la comprensione di Qoelet. Se si segue l'interpretazione abituale, che traduce con «eternità», «globalità» i termine ebraico ha olam, non si capisce la logica del testo: se Dio ha fatto ogni cosa «bella», appropriata nel suo tempo, e ha posto pure l'eternità, la globalità nel cuore degli uomini, l'uomo dovrebbe avere tutto ciò che serve per capire l'opera di Dio dall'inizio alla fine, e non dovrebbe essere il contrario. Se invece olam è l'ignoranza, allora il discorso è perfettamente logico: il problema dell'occupazione che Dio ha imposto agli uomini (3,10) – occupazione già qualificata in precedenza come negativa (1,13) – deriva dal fatto che Dio ha fatto ogni cosa appropriata al suo tempo, ma ha posto l'ignoranza nel cuore degli uomini, così che l'uomo non riesce a comprendere l'opera di Dio da capo a fondo, e perciò non riesce a integrarvisi. Si può ancora ipotizzare una pregnanza di significato, un giocare intenzionale su due livelli semantici: il livello più superficiale implica il senso di “eternità”, così da integrarsi bene nel campo semantico del tempo che caratterizza buona parte del c. 3; il secondo livello di significato implica invece l'idea di “ignoranza”, così che si crea un gioco ironico: dove sembra che l'uomo riceva da Dio un “di più”, un'istanza conoscitiva (eternità, globalità) che in qualche modo lo assimila a Dio, in realtà – ed è il senso proprio del testo, l'unico che dà una coerenza logica – riceve un “di meno”, qualcosa che mette drammaticamente in evidenza il suo limite, la sua dissomiglianza da Dio.

vv. 12-13. Se il controllo dei tempi sfugge all'uomo, non gli resta che cercare di trarre il meglio dal presente; tuttavia il presente rientra nell'alternanza dei tempi, per cui anche la possibilità di gioire e di godere dipende da Dio e, visto che è positiva, viene letta come suo dono.

vv. 14-15. L'impossibilità di influire sull'alternarsi dei tempi viene spiegata riflettendo su chi è Dio, sulla sua eternità e sovranità, e questa riflessione porta al timore di Dio e alla certezza di non potergli sfuggire.

vv. 16-18. L'attenzione si sposta nuovamente sul mondo degli uomini, e si constata il crimine perfino là dove dovrebbe trionfare la giustizia (v. 16). Alla luce delle precedenti riflessioni su Dio, viene addotta la tradizionale certezza del giudizio di Dio, che rimetterà in ordine ogni cosa, emettendo un giudizio di condanna per gli uomini che si sono comportati come bestie gli uni verso gli altri.

vv. 19-21. Tuttavia non c'è alcuna conferma dell'intervento di Dio, poiché l'assimilazione dell'uomo alla bestia salta bruscamente dal piano etico al piano esistenziale, dal comportamento alla sorte comune: la morte, col grave dubbio che pure dopo non ci sia alcuna differenza tra l'uomo e la bestia. Le asserzioni tradizionali sul giudizio divino non vengono di per sé negate, però, poiché la loro realizzazione è localizzata nel futuro, e nel futuro dell'uomo c'è la morte e niente altro dopo di essa, è implicito che anche l'ansia di giustizia è un'esigenza del cuore umano (come altrove si è già visto la conoscenza) a cui la realtà non dà soddisfazione. Ecco perché si ritrova l'etichetta dello bebel: tutto è assurdo (v. 19).

v. 22. Ritorna in conclusione la sentenza «non c'è altro bene»: questa volta però non c'è più nessun riferimento a Dio; la riflessione sulla morte lo ha eliminato dall'orizzonte, poiché la relazione con Dio dura finché dura la vita, e per il «dopo» non c'è alcuna prospettiva. Pertanto la locuzione conclusiva «dopo» (’aharayw) difficilmente può indicare l'aldilà, mentre è più probabile che sia legata al problema dell'alternarsi imprevedibile e ininfluenzabile dei tempi: bisogna gioire nel presente, mentre si agisce, perché non si può sapere il prossimo “tempo” che cosa riserva.

(cf. PAOLO PAPONE, Qoelet – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Filosofia Perenne


di Ken Wilbertraduzione dallo spagnolo di @guaspito con il supporto di chatGPT#filosofia #psicologia #mistica #statidicoscienza #religioni #scienza #spiritualità

La Filosofia Perenne è quella visione del mondo condivisa dalla maggior parte dei principali maestri spirituali, filosofi, pensatori e perfino scienziati di tutto il mondo. Viene chiamata “perenne” o “universale” perché appare implicitamente in tutte le culture del pianeta e in tutte le epoche. La ritroviamo tanto in India, Messico, Cina, Giappone e Mesopotamia, quanto in Egitto, Tibet, Germania o Grecia. E ovunque essa si manifesti, presenta sempre gli stessi tratti fondamentali: un accordo universale su ciò che è essenziale.

Per noi, uomini contemporanei, che siamo praticamente incapaci di metterci d’accordo su qualsiasi cosa, ciò risulta difficile da credere. Come ha riassunto Alan Watts: “Siamo appena consapevoli dell’eccezionale singolarità della nostra stessa posizione, e perciò ci risulta assai difficile ammettere il fatto evidente che sia esistito un consenso filosofico unico, di ampiezza universale, sostenuto da molti (uomini e donne) che hanno condiviso le stesse esperienze e trasmesso essenzialmente gli stessi insegnamenti, oggi come seimila anni fa, dal Nuovo Messico nel lontano Occidente fino al Giappone nel lontano Oriente.”

Questo è davvero notevole. Credo che queste verità di natura universale costituiscano fondamentalmente l’eredità dell’esperienza universale dell’intera umanità, che in ogni tempo e luogo è giunta a un accordo su alcune verità profonde riguardanti la condizione umana e su come accedere al Trascendente. Questa è una maniera per descrivere ciò che è la Philosophia perennis.

TKW: Dici che la Filosofia Perenne è essenzialmente la stessa in culture molto diverse. Ma oggi si sostiene che siano il linguaggio e la cultura a modellare tutto il nostro sapere. Se questo fosse vero, e dato che le diverse culture e linguaggi sono molto differenti tra loro, sarebbe possibile che emergesse una qualche verità universale o collettiva sulla condizione umana? Da questo punto di vista non esisterebbe una condizione umana, in quanto tale, ma solo una storia umana; e quella storia sarebbe molto diversa in ogni caso. Cosa pensi di tutta questa nozione di relatività culturale?

KW: C'è molta verità in ciò. Esiste, senza dubbio, una diversità di culture che possiedono un diverso “sapere locale”, e lo studio di queste differenze è un’attività molto interessante. Ma sebbene la relatività culturale sia reale, essa non rappresenta tutta la verità.

Accanto alle evidenti differenze culturali, come possono essere il tipo di alimentazione, le strutture linguistiche o le usanze di accoppiamento, esistono anche molti altri fenomeni dell’esistenza umana che sono, in larga misura, universali o collettivi. Il corpo umano, per esempio, possiede duecento otto ossa, un cuore e due reni, sia che si tratti di un abitante di New York che di uno del Mozambico, e tanto oggi quanto migliaia di anni fa. Queste caratteristiche universali sono ciò che viene chiamato “strutture profonde”, perché sono essenzialmente le stesse ovunque.

Tuttavia, le diverse culture utilizzano queste strutture profonde in modi molto differenti: come i cinesi che fasciavano i piedi delle loro donne, o i popoli Ubangi che allungavano le loro labbra, oppure attraverso l’uso di tatuaggi, di abiti, nei giochi, nel sesso e nel parto, tutte pratiche che variano considerevolmente da una cultura all’altra. Tutte queste variabili vengono chiamate “strutture superficiali”, perché sono locali anziché universali.

Lo stesso avviene anche nell’ambito della mente umana. La mente umana possiede strutture superficiali che variano tra le diverse culture, e strutture profonde che restano essenzialmente identiche indipendentemente dalla cultura considerata. Ovunque la si trovi, la mente umana ha la capacità di formare immagini, simboli, concetti e regole. Le immagini e i simboli particolari possono variare da una cultura all’altra, ma la capacità di creare tali strutture mentali e linguistiche – e le strutture stesse – è sostanzialmente la stessa ovunque. Così come il corpo umano produce capelli, la mente umana produce simboli. Le strutture mentali superficiali variano ampiamente tra loro, ma le strutture mentali profonde sono, al contrario, straordinariamente simili.

Ebbene, allo stesso modo in cui il corpo umano produce universalmente capelli e la mente produce universalmente idee, anche lo spirito umano genera universalmente intuizioni sul Divino. E queste intuizioni e vislumbres (lampi di intuizione) costituiscono il nucleo delle grandi tradizioni spirituali di tutto il mondo. Ancora una volta, sebbene le strutture superficiali delle grandi tradizioni sapienziali siano, ovviamente, molto diverse tra loro, le loro strutture profonde sono invece molto simili, e talvolta identiche.

La Filosofia Perenne si occupa fondamentalmente delle strutture profonde dell’incontro umano con il Divino. Perché quelle verità sulle quali induisti, cristiani, buddisti, taoisti e sufi si trovano in completo accordo, tendono a riguardare qualcosa di profondamente importante, qualcosa che ci parla di verità universali e di significati ultimi, qualcosa che tocca l’essenza fondamentale della condizione umana.

TKW: A prima vista, è difficile vedere su cosa potrebbero essere d’accordo il buddismo e il cristianesimo. Quali sono, dunque, i principi fondamentali della Filosofia Perenne? Potresti elencare i suoi temi principali? Quante sono queste verità profonde e questi punti fondamentali di accordo?

KW: Sono molti, ma consideriamo i sette che ritengo più importanti:

  1. Lo Spirito esiste.
  2. Lo Spirito è dentro di noi.
  3. Nonostante ciò, la maggior parte di noi vive in un mondo di ignoranza, separazione e dualità, in uno stato di caduta illusoria, e non si accorge di quello Spirito interiore.
  4. Esiste una via d’uscita da questo stato di caduta, di errore o di illusione; esiste un Cammino che conduce alla liberazione.
  5. Se percorriamo questo Cammino fino in fondo, arriveremo a una Rinascita, a una Liberazione Suprema.
  6. Questa esperienza segna la fine dell’ignoranza fondamentale e della sofferenza.
  7. La fine della sofferenza conduce a un’azione sociale amorevole e compassionevole verso tutti gli esseri senzienti.

TKW: Hai detto molte cose! Procediamo passo dopo passo. Dici che lo Spirito esiste.

KW: Lo Spirito esiste, Dio esiste, esiste una Realtà Suprema, sia che la si chiami Brahman, Dharmakaya, Yahweh, Aton, Kether, Tao, Allah, Shiva: “Molti sono i nomi che riceve l’Uno”.

TKW: Ma come fai a sapere che lo Spirito esiste? I mistici dicono che esiste, ma su cosa basano questa affermazione?

KW: Sull’esperienza diretta. Le loro affermazioni non si basano su mere credenze, idee, teorie o dogmi, bensì sull’esperienza diretta, sull’esperienza spirituale reale.
Questa è la differenza tra i veri mistici e i religiosi dogmatici.

TKW: Ma cosa dire del fatto che si sostiene che l’esperienza mistica non sia una conoscenza valida perché è ineffabile e dunque incomunicabile?

KW: Certamente, l’esperienza mistica è ineffabile e non può essere tradotta completamente in parole, ma lo stesso vale per qualsiasi altra esperienza, che si tratti di un tramonto, del gusto di una fetta di torta o dell’armonia di una fuga di Bach.
In ognuno di questi casi, dobbiamo aver vissuto l’esperienza reale per sapere di cosa si tratta. Ma questo non significa che il tramonto, la torta o la musica non esistano o che siano esperienze non valide. Inoltre, anche se l’esperienza mistica è in gran parte ineffabile, può comunque essere comunicata o trasmessa. Ad esempio, così come la danza può essere insegnata anche se non può essere descritta compiutamente a parole, è possibile anche apprendere una determinata pratica spirituale sotto la guida di un maestro spirituale.

TKW: Ma quell’esperienza mistica che al mistico sembra così vera potrebbe essere semplicemente sbagliata. I mistici possono affermare di fondersi con Dio, ma ciò non garantisce affatto che ciò che affermano sia ciò che accade realmente. Nessuna conoscenza è assolutamente certa.

KW: Sono d’accordo che l’esperienza mistica non sia più certa di qualsiasi altra esperienza diretta. Ma questo argomento, lungi dal minare le affermazioni dei mistici, le eleva in realtà allo stesso livello che io, personalmente, accetto pienamente. In altre parole, lo stesso argomento che si può usare contro la conoscenza mistica può essere applicato a qualsiasi altra forma di conoscenza basata sull’esperienza evidente, inclusa l’esperienza empirica.
Credo di stare guardando la luna, ma potrei sbagliarmi; i fisici credono nell’esistenza degli elettroni, ma potrebbero sbagliarsi; i critici ritengono che Amleto sia stato scritto da un personaggio storico di nome Shakespeare, ma potrebbero essere in errore, e così via.
Come possiamo essere sicuri della veridicità delle nostre affermazioni?
Attraverso ulteriori esperienze.

Ebbene, questo è esattamente ciò che i mistici hanno fatto storicamente nel corso di decenni, secoli e millenni: verificare e affinare le proprie esperienze, un primato di costanza storica che fa impallidire persino la scienza moderna. Il fatto è che questo argomento, invece di screditare le affermazioni dei mistici, conferisce loro — a mio avviso — in modo estremamente adeguato, lo statuto di autentici esperti e conoscitori della loro disciplina, e di conseguenza, gli unici realmente qualificati per formulare affermazioni in materia.

TKW: Molto bene. Ma spesso ho sentito dire che la visione mistica potrebbe in realtà trattarsi di una patologia schizofrenica. Come risponderesti a questa accusa?

KW: Non credo che qualcuno metta in dubbio che certi mistici presentino tratti schizofrenici, o che ci siano schizofrenici che vivono intuizioni mistiche. Ma non conosco alcuna autorità in materia che creda che le esperienze mistiche siano fondamentalmente e primariamente allucinazioni schizofreniche.
È chiaro che conosco anche molte persone non qualificate che la pensano in questo modo, e sarebbe difficile convincerle del contrario nello spazio limitato di questa intervista. Dirò soltanto che le pratiche spirituali e contemplative utilizzate dai mistici – come la preghiera contemplativa o la meditazione – possono essere molto potenti, ma non abbastanza da attrarre un gran numero di uomini e donne normali, sani e adulti e, nel giro di pochi anni, trasformarli in schizofrenici deliranti.
Il Maestro Zen Hakuin trasmise il suo insegnamento a ottantatré discepoli che si incaricarono di rivitalizzare e organizzare lo Zen giapponese. Ottantatré schizofrenici allucinati non riuscirebbero nemmeno a mettersi d’accordo per andare in bagno... Che ne sarebbe stato dello Zen giapponese se fosse stato così?

TKW: (Risate) Un'ultima obiezione: non è forse possibile che la nozione di “essere uno con lo Spirito” non sia altro che un meccanismo di difesa regressivo per proteggere una persona dal panico davanti alla morte e all’impermanenza?

KW: Se “l’unità con lo Spirito” fosse semplicemente qualcosa in cui si crede, e quindi un’idea o una speranza, allora certamente potrebbe far parte della “proiezione d’immortalità” di una persona, cioè di un sistema di difesa progettato – come ho cercato di spiegare nei miei libri Dopo l’Eden e Un Dio socievole – per proteggersi in modo magico o regressivo dalla morte, sotto la promessa di un prolungamento o una continuazione della vita.
Ma l’esperienza di unità atemporale con lo Spirito non è un’idea né un desiderio; è una percezione diretta. E possiamo considerare questa esperienza diretta solo in tre modi diversi:
– affermare che si tratti di un’allucinazione, a cui ho appena risposto;
– sostenere che sia un errore, cosa che ho pure già confutato;
– oppure accettarla per ciò che dice di essere: un’esperienza diretta del nostro Sé Spirituale.

TKW: Da quello che dici, il misticismo genuino, a differenza della religione dogmatica, è scientifico, perché si basa sull’evidenza e sulla verifica sperimentale diretta. È così?

KW: Esattamente. I mistici ti chiedono di non credere in nulla in modo cieco, e ti offrono una serie di esperimenti da verificare nella tua stessa coscienza.
Il laboratorio del mistico è la propria mente, e l’esperimento è la meditazione.
Tu stesso puoi verificare e confrontare i risultati della tua esperienza con quelli di altri che abbiano svolto lo stesso esperimento.
Da questo insieme di conoscenze sperimentali, validate in modo consensuale, si giunge a certe leggi dello spirito, o a certe “verità profonde”, se preferisci chiamarle così.

TKW: E questo ci riporta di nuovo alla filosofia perenne, alla filosofia mistica e ai suoi sette grandi principi. Il secondo principio era: lo spirito è dentro di te.

KW: Lo spirito è dentro di te, c'è un intero universo dentro di te. Il messaggio sorprendente dei mistici è che, al centro stesso del tuo essere, tu vivi la divinità.
Strettamente parlando, Dio non è né dentro né fuori – poiché lo Spirito trascende ogni dualità – ma lo si scopre cercando profondamente dentro, fino a quando quel “dentro” finisce per diventare un “al di là”.
Il Chandogya Upanishad ci offre la formulazione più nota di questa verità immortale quando dice:

“Nell’essenza stessa del tuo essere non percepisci la Verità, ma in realtà essa è lì.
In ciò che è l’essenza sottile del tuo essere, tutto ciò che esiste È.
Quell’essenza invisibile è lo Spirito dell’intero universo.
Quella è la Verità, quello è l’Essere. E tu? Tu sei quello.”


Tat Tvam Asi – Tu sei Quello.
È superfluo dire che il “tu” che è “Quello”, il tu che è Dio, non è la tua identità individuale e separata, l’ego, questa o quella personalità, il Signor o la Signora Tal dei Tali.
Anzi, il sé individuale o ego è precisamente ciò che ci impedisce di prendere coscienza della nostra Identità Suprema.
Quel “tu”, al contrario, è la nostra essenza più profonda, o se preferisci, il nostro aspetto più elevato: l’essenza sottile – come la descrive l’Upanishad – che trascende il nostro ego mortale e partecipa direttamente al Divino.
Nel giudaismo viene chiamato Ruach, lo spirito divino e la supraindividualità che si trova in ognuno di noi, e che si distingue dal nefesh, l’ego individuale.
Nel cristianesimo, invece, è il pneuma, lo spirito che dimora in noi e che è della stessa natura di Dio, e non la psiche o anima individuale che, nel migliore dei casi, può solo adorare Dio.
Come ha detto Coomaraswamy, la distinzione tra lo spirito immortale ed eterno di una persona e la sua anima individuale e mortale (cioè l’ego) è un principio fondamentale della filosofia perenne.

TKW: San Paolo disse: “Vivo, ma non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me.” Stai dicendo che San Paolo ha scoperto la sua vera Identità, che era uno con Cristo, e che Cristo ha sostituito il suo vecchio piccolo ego, la sua anima o psiche individuale?

KW: Esattamente. Il tuo Ruach, o fondamento, è la Realtà Suprema, non il tuo nefesh, il tuo ego.
Se credi che il tuo ego individuale sia Dio, allora sei chiaramente nei guai. In effetti, soffriresti di una psicosi, una schizofrenia paranoide.
Non è certo questo ciò che intendevano i più grandi filosofi e saggi del mondo.

TKW: Ma allora, perché non c’è più gente consapevole di questo? Se lo spirito è davvero dentro di noi, perché non è evidente a tutti?

KW: Ottima domanda. E questo ci porta al terzo punto.
Se davvero sono uno con Dio, perché non me ne rendo conto?
Qualcosa mi separa dallo Spirito. Perché questa Caduta? Dov’è stato l’errore?

Le diverse tradizioni danno risposte differenti a questa questione, ma tutte fondamentalmente convergono su un punto:

“Non riesco a percepire la mia Vera Identità, la mia unione con lo Spirito, perché la mia coscienza è ottenebrata e ostruita da una certa attività; anche se riceve nomi diversi, si tratta semplicemente dell’attività di contrarre e concentrare la coscienza sul mio io individuale, sul mio ego personale.
La mia coscienza non è aperta, rilassata e centrata su Dio, ma chiusa, contratta e centrata su me stesso.
Ed è proprio l’identificazione con quella contrazione in me stesso e la conseguente esclusione di tutto il resto che mi impedisce di trovare o scoprire la mia identità originaria, la mia vera identità con il Tutto.”


La mia natura individuale – “l’uomo naturale” – è caduta e vive nell’errore, separata e alienata dallo Spirito e dal resto del mondo.
Sono separato e isolato dal mondo “là fuori”, un mondo che percepisco come completamente esterno, estraneo e ostile al mio essere.
Quanto al mio essere interiore, di certo non sembra essere uno con il Tutto, con tutto ciò che esiste, uno con lo Spirito Infinito, ma al contrario, resta chiuso e imprigionato tra le mura limitanti di questo corpo mortale.

TKW: Questa situazione viene solitamente chiamata “dualismo”, giusto?

KW: Esattamente. Mi divido in un “soggetto” separato dal mondo degli “oggetti” situati là fuori e, a partire da questo dualismo originario, continuo a dividere il mondo in ogni tipo di opposti in conflitto: piacere e dolore, bene e male, verità e menzogna, ecc.
Secondo la filosofia perenne, la coscienza dominata dal dualismo soggetto-oggetto non può percepire la realtà così com’è, la realtà nella sua totalità, la realtà come Identità Suprema.
In altre parole: l’errore è la contrazione di sé stessi, la sensazione di un’identità separata, l’ego.
L’errore non sta in qualcosa che fa il piccolo io, ma in qualcosa che è.

E c’è di più: quell’essere contratto, quel soggetto isolato “qui dentro”, non riconoscendo la propria vera identità con il Tutto, sperimenta una forte sensazione di mancanza, di privazione, di frammentazione.
In altre parole: la sensazione di essere separato, di essere un individuo separato, dà origine alla sofferenza, dà origine alla “Caduta”.
La sofferenza non è qualcosa che accade a causa della separazione: è qualcosa di intrinseco a quella condizione.
“Peccato”, “sofferenza” e “io” non sono altro che nomi diversi per uno stesso processo, che consiste nella contrazione e frammentazione della coscienza.

Per questo è impossibile salvare l’ego dalla sofferenza.
Come disse Gautama il Buddha: per porre fine alla sofferenza, devi abbandonare il piccolo io, l’ego; perché entrambi nascono e muoiono nello stesso momento.

TKW: Quindi questo mondo dualistico è il mondo della Caduta e del peccato originale, è la contrazione dell’essere, l’auto-contrazione presente in ognuno di noi. E stai dicendo che non sono solo i mistici orientali, ma anche quelli occidentali a definire il peccato e l’Inferno come qualcosa di inerente allo stato di identità separata?

KW: Al sé separato e alla sua avidità, al suo desiderio e alla sua fuga priva d’amore.
Sì, senza dubbio.
È vero che l’Oriente – e in particolare il buddismo e l’induismo – mette molto l’accento sull’identificare l’Inferno (o Samsara) con l’ego separato e individualista.
Ma anche negli scritti dei mistici cattolici, dei gnostici, dei quaccheri, dei cabalisti e dei mistici islamici troviamo gli stessi temi.
A tal proposito, il mio scritto preferito è di William Law, uno straordinario mistico cristiano inglese del XVIII secolo. Te lo leggo:

“Ecco la verità riassunta.
Ogni peccato, ogni morte, ogni condanna e ogni inferno non sono altro che il regno del sé, dell’ego.
Le varie attività del narcisismo, dell’amor proprio e dell’egoismo separano l’anima da Dio e la conducono alla morte e all’inferno eterno”.


Oppure le parole del sufi Abi l-Khayr:

“Non c’è Inferno se non nell’individualità, non c’è Paradiso se non nell’altruismo”.


Troviamo lo stesso tipo di affermazioni anche nei mistici cristiani, come dimostra la dichiarazione della Theologia Germanica secondo cui

“L’unica cosa che brucia all’Inferno è l’ego”.


TKW: Sì, capisco. Quindi la trascendenza del “piccolo io” porta alla scoperta del “grande Io”.

KW: Proprio così.
In sanscrito, questo “piccolo io” o anima individuale si chiama ahamkara, che significa “nodo” o “contrazione”; ed è proprio questo ahamkara, questa contrazione dualistica ed egocentrica della coscienza, a costituire la radice stessa dello stato di Caduta.

Arriviamo così al quarto grande principio della filosofia perenne: esiste un modo per superare la Caduta, un modo per cambiare questo stato di cose, un modo per sciogliere il nodo dell’illusione e dell’errore fondamentale.

TKW: Buttare via l’ego individualista.

KW (ride): Esattamente.
Arrendersi o morire a quella sensazione di essere un’identità separata, al piccolo io, alla contrazione su sé stessi.
Se vogliamo scoprire la nostra identità con il Tutto, dobbiamo abbandonare l’identificazione errata con l’ego isolato.
Ma questa Caduta può essere immediatamente dissolta comprendendo che, in realtà, non è mai avvenuta, perché esiste solo Dio e, di conseguenza, il sé separato non è mai stato altro che un’illusione.

Tuttavia, per la maggior parte di noi, questa condizione deve essere superata gradualmente, passo dopo passo.
In altre parole, il quarto principio della filosofia perenne afferma che esiste una Via e che, se la seguiamo fino in fondo, ci condurrà dallo stato di caduta allo stato di illuminazione, dal Samsara al Nirvana, dall’Inferno al Cielo.

TKW: La meditazione è quel Cammino?

KW: Bene. Potremmo dire che esistono diversi “cammini” che costituiscono ciò che io chiamo genericamente “il Cammino”, e ancora una volta si tratta di strutture superficiali differenti che condividono però la stessa struttura profonda.
Nell'induismo, ad esempio, si dice che ci sono cinque grandi cammini o yoga. Yoga significa semplicemente “unione”, l’unione dell’anima con la Divinità.
La parola inglese yoke, lo spagnolo yugo, l’ittita yugan, il latino jugum, il greco zugon e molte altre derivano dalla stessa radice.

In questo senso, quando Cristo dice: “Il mio giogo è leggero”,
sta intendendo dire: “Il mio yoga è facile”.

Ma forse possiamo semplificare tutto dicendo che tutti questi cammini, siano essi induisti o provenienti da qualsiasi altra tradizione di saggezza, si dividono in due grandi vie.

A tal proposito mi viene in mente una citazione per illustrare questo punto. È di Swami Ramdas:

“Ci sono due cammini: uno consiste nell’espandere il tuo ego fino all’infinito, l’altro nel ridurlo al nulla”;
il primo è una via della conoscenza, mentre il secondo è una via devozionale.


Un Jnani (saggio indù) dice: “Io sono Dio, la Verità universale”.
Un Devoto, invece, dice: “Io non sono nulla, oh Dio! Tu sei tutto”.
In entrambi i casi scompare la sensazione di identità separata.

La chiave della questione è che, in qualunque dei due casi, l’individuo che percorre il Cammino trascende o muore al piccolo io, e riscopre, o fa risorgere, la propria Identità Suprema con lo Spirito universale.
E questo ci porta al quinto grande principio della filosofia perenne: quello della Rinascita, della Resurrezione o dell’Illuminazione.
Il piccolo io deve morire affinché, dentro di noi, possa risorgere il grande Io.

Le varie tradizioni descrivono questa morte e rinascita con nomi molto diversi.
Così, ad esempio, nel cristianesimo si parla di Adamo – che i mistici chiamano l’“Uomo Vecchio” o “Uomo Esteriore”, colui che ha aperto le porte dell’Inferno – e di Gesù – l’“Uomo Nuovo” o “Uomo Interiore”, colui che apre le porte del Paradiso.
Secondo i mistici, la morte e resurrezione di Gesù rappresentano l’archetipo della morte dell’io separato e la rinascita a un destino nuovo ed eterno nel flusso della coscienza, ovvero l’Essere Divino o Crístico e la sua Ascensione.
Come disse Sant’Agostino:

“Dio si è fatto uomo affinché l’uomo potesse farsi Dio”.


Nel cristianesimo, questo processo di ritorno dalla condizione “umana” alla condizione “Divina”, dalla persona esterna alla persona interna, si chiama Metanoia, una parola che significa sia “pentimento” che “trasformazione”.
In questo caso, ci pentiamo del piccolo io (l’ego individualista) e ci trasformiamo nell’Essere (o in Cristo), così che, come affermava San Paolo,

“Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”.


Allo stesso modo, l’Islam chiama tawbah (che significa “pentimento”) e anche galb (che significa “trasformazione”) questa morte e resurrezione, che Al-Bistami riassume così:

“Dimenticare sé stessi è ricordare Dio”.


Sia nell’induismo che nel buddhismo, questa morte e rinascita viene sempre descritta come la morte dell’anima individuale (jivatman) e il risveglio alla vera natura della persona, che gli induisti descrivono metaforicamente come Totalità dell’Essere (Brahman) e i buddhisti come Apertura Pura (Shunyata).
Il momento in cui avviene questa rottura o rinascita si chiama illuminazione o liberazione (Moksha o Kaivalya).
Il Lankavatara Sutra descrive l’esperienza dell’illuminazione come

“una trasformazione completa nella stessa essenza della coscienza”.


Questa “trasformazione” consiste semplicemente nel disattivare la tendenza abituale a creare un io separato e sostanziale dove, in realtà, esiste solo una coscienza chiara, aperta e vasta.
Il Zen chiama Satori o Kensho questa trasformazione o Metanoia.

Ken” significa vera natura e “sho” significa “vedere direttamente”.

Vedere direttamente la nostra vera natura è diventare un Essere pienamente autorealizzato.
E come disse il Maestro Eckhart:

“In questa trasformazione ho scoperto che Dio e io siamo la stessa cosa.”


TKW: L'illuminazione si sperimenta realmente come una morte vera o si tratta solo di una metafora?

KW: In realtà, si tratta della morte dell’ego individualista.
I racconti di questa esperienza — che possono essere molto drammatici, ma anche estremamente semplici e per nulla spettacolari — affermano chiaramente che, all’improvviso, ti svegli e scopri che, tra le altre cose, e per quanto possa sembrare strano, il tuo vero essere è tutto ciò che hai osservato fino a quel momento, che letteralmente sei uno con tutto ciò che è manifestato, uno con l’universo.
E che, in verità, non è che diventi uno con Dio e con il Tutto, ma che prendi coscienza del fatto che da sempre sei stato quella unità, senza essertene mai accorto prima.
Ma accanto a questa percezione, insieme alla scoperta dell’Essere che tutto permea, si sperimenta anche una sensazione molto concreta: quella che il tuo piccolo ego è morto. Che è morto veramente.

Il Zen chiama il Satori “la Grande Morte”.
Eckhart era altrettanto categorico: “L’anima – diceva – deve donare se stessa”.
Coomaraswamy affermava: “Solo quando il nostro ego muore, comprendiamo finalmente che non c’è nulla con cui possiamo identificarci, e solo allora possiamo trasformarci realmente in ciò che già siamo”.

TKW: Trascendendo il piccolo ego, si scopre l’eternità?

KW (Lunga pausa): Sì, a condizione però di non intendere l’eternità come un tempo che non finisce mai, bensì come un momento senza tempo, il presente eterno, l’adesso atemporale.
L’ESSERE non risiede per sempre nel tempo, ma nel presente senza tempo, che è anteriore al tempo, alla storia, al cambiamento, alla successione.
Lo Spirito, l’Essere, è presente nel senso di Pura Presenza, non nel senso di essere immerso in un “ora” infinito — che è un concetto piuttosto inquietante.

In ogni caso, il sesto grande principio fondamentale della filosofia perenne afferma che l’illuminazione, o liberazione, pone fine alla sofferenza.
Ciò che causa la sofferenza è l’attaccamento e il desiderio della nostra identità separata;
e ciò che pone fine alla sofferenza è il cammino meditativo che trascende il piccolo io, il desiderio e l’attaccamento.
La sofferenza è intrinseca a quel nodo o contrazione chiamato ego, e l’unico modo per superarla è trascendere l’ego.

Non significa che dopo l’illuminazione — o dopo la pratica spirituale in generale — non si provino più dolore, angoscia, paura o ferite.
Si provano ancora, sì.
Ma ciò che cambia è che queste emozioni non minacciano più la tua esistenza, e quindi smettono di costituire un problema per te.
Non ti identifichi più con esse, non le drammatizzi più, non hanno più energia, non ti sembrano più minacciose.
Da un lato, non c’è più alcun ego frammentato che possa sentirsi minacciato;
dall’altro, nulla può minacciare quel grande Io dell’Essere originario e autentico, poiché, essendo il Tutto, non esiste nulla di esterno che possa fargli del male.

Questa consapevolezza produce un profondo rilassamento e una distensione del cuore.
Per quanto dolore possa sperimentare l’individuo, il suo vero Sé non si sente minacciato.
La sofferenza può sorgere e può svanire, ma ora la persona è saldamente radicata e sicura nella “pace che supera ogni comprensione”.
Il saggio sperimenta la sofferenza, ma questa non lo “ferisce”.
E poiché è consapevole della sofferenza, è spinto dalla compassione e dal desiderio di aiutare chi soffre e crede nella realtà della sofferenza.

TKW: Il che ci porta al settimo punto, la motivazione dell’illuminato.

KW: Sì. Si dice che la vera illuminazione sfoci in un’azione sociale ispirata dalla misericordia e dalla compassione, in un tentativo di aiutare tutti gli esseri umani a raggiungere la Liberazione Suprema.
L’attività illuminata non è altro che un servizio disinteressato.
Poiché siamo tutti uno nello stesso Essere, allora, servendo gli altri, sto servendo il mio stesso Sé.


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MÁS ALLÁ DE LA NACIÓN


DeoVanLongHouseLas ruinas de la casa del hijo del “saqueador” de Luang Prabang, provincia de Lau Chau, noroeste de Vietnam

Para los más empáticos, la ciudad de Luang Prabang podría resultar un descubrimiento placentero. Al sumergirse en su escucha, sus calles revelan campos magnéticos seductores, como si la comunidad que las habita estuviera atravesada por una fuerza femenina capaz de hechizar al viajero de paso. A primera vista, se nota inmediatamente que se trata de una ciudad “instagrameable”, llena de marcos perfectos para ser capturados en el “relato de Mí en el mundo” de las redes sociales. Al revisar YouTube, Instagram, WhatsApp, TikTok o Facebook, emerge un componente narcisista de los lugares que describe algunos aspectos de las fuerzas femeninas de las que quiero hablar.

De hecho, los habitantes de Luang Prabang pasan largos momentos de su jornada laboral manteniendo inalterado el paisaje, es decir, cuidando físicamente los espacios exteriores e interiores para limpiar continuamente los entornos donde se desarrolla y se teatraliza la experiencia “social” de los turistas en la ciudad. Las restauraciones vintage y las antiguas casas coloniales son imagen de una belleza que se auto-observa y se auto-relata en una narrativa social que posiciona la ciudad en un nicho del capitalismo postindustrial. El producto que se compra es un estar allí documentado digitalmente entre sus calles ordenadas y sobriamente coloridas. Esto ocurre en una región, el sudeste asiático, donde el turismo se está consolidando rápidamente como una de las principales industrias, tanto desde el punto de vista laboral como por sus sólidas conexiones con el sector de la construcción.

Existe además una estratificación adicional de las fuerzas femeninas que atraviesan los lugares. Este cuidado de los espacios es también cuidado del “sí mismo”, entendido aquí como cuerpo. En Luang Prabang, como ya sucede en muchas otras partes de la región, proliferan las llamadas economías de la intimidad o, en palabras de Foucault, del “cuidado de sí”. Entre estas, lo primero que salta a la vista para quienes observan con rapidez son los centros de masaje, que emplean principalmente a mujeres jóvenes. Pero una mirada más atenta no puede dejar de incluir en la categoría del “cuidado” también al “Templo Budista”. Aquí son acogidos jóvenes varones. Ambas instituciones están centradas en la hospitalidad y, aunque viven dentro de una clara división de género, parecen cumplir funcionalmente propósitos similares. Junto a miles de monjes, existen miles de masajistas. Así, aunque sigan trayectorias distintas, ambas instituciones se ocupan de la pacificación de los sentidos y de las fatigas existenciales.

Incluso históricamente, el templo budista y el centro de masajes estuvieron indisolublemente ligados. El masaje tailandés es hoy el más reconocido y recientemente ha sido incluido en el patrimonio cultural inmaterial de la humanidad. Se cuenta que nació precisamente en los templos budistas de Bangkok y Chiang Mai, donde se sistematizó un saber que provenía directamente del Buda, quien al parecer era masajeado por expertas masajistas durante sus peregrinaciones. Masajes “tradicionales” existen en toda la región, desde Birmania hasta Vietnam, desde el sur de China hasta Tailandia. Junto al templo budista, los centros de masajes forman una alianza de los sentidos en la que el cuidado de sí mismo se refiere a modos y formas de subjetivación.

Sucede entonces que, en el espacio público del encuentro entre visitantes, trabajadores y habitantes, además de la experiencia estética del paisaje para contemplar y dentro del cual “ser contemplado” o “instagrameado”, hay una dimensión igualmente importante, más íntima y subjetiva, en la que los empresarios locales están desarrollando servicios enfocados a la producción de bienestar. Existen, por ejemplo, hoteles “conscientes” y centros de masaje “energéticos” donde los trabajadores son formados para generar una profunda capacidad empática con el turista, hasta el punto, en algunos casos de excelencia local, de producir una experiencia de relajación total: desde el café de la mañana hasta la infusión antes de dormir. El desarrollo de este tipo de servicios se ha convertido en un auténtico factor competitivo, tanto a nivel regional como local, y abarca rutas de formación para la fuerza laboral que debe saber captar los matices más ocultos de los deseos del cliente. El objetivo del marketing es siempre vender una experiencia de acogida irrepetible y/o especial, y para sobresalir en esta tarea, algunos hoteles quieren que sus trabajadores vivan dentro de las mismas instalaciones en lugar de regresar a los barrios dormitorio donde normalmente se alojarían. Esta vida en común, obligatoria o altamente recomendada para quienes deseen trabajar en el sector de la hospitalidad, tendría como objetivo precisamente la incorporación del “servicio total”, es decir, una comprensión más completa de la experiencia de acogida que permita al trabajador responder a las necesidades de cuidado del turista casi con una mirada.

Sin embargo, para quienes, como yo, provienen de culturas marcadamente machistas además de patriarcales, en estos campos de fuerza también podría vislumbrarse algo más, como si esta magia de las calles fuera también el producto de organizaciones políticas y sociales peculiares cuyas raíces se hunden en épocas históricas muy anteriores al encuentro colonial. Intentaré en las próximas páginas aclarar mejor esta tercera estratificación de las fuerzas femeninas del lugar. Me parece importante describirlas antes de adentrarme en la “cuestión étnica laosiana”. Para ello, me moveré en un campo distinto de los que he recorrido hasta ahora. Me ocuparé del estudio de los mitos, tal como emergen tanto en el relato local como en la producción artística y literaria religiosa. El objetivo es mostrar la existencia en estas tierras de un matriarcado nunca completamente sometido a las estructuras políticas coloniales y neocoloniales. Mostraré entonces cómo el uso de las mujeres como “objeto diplomático” pero también como “objeto sacrificial” para establecer alianzas y fundar linajes y derechos de propiedad ha sostenido desde siempre sistemas políticos plásticos y altamente adaptables a las diversas condiciones del mundo. A partir de ahí, observaré el actual devenir-queer del liderazgo ciudadano como una continuidad histórica y como una modalidad política de la ciudad que responde, ayer como hoy, al miedo atávico de una enésima apocalipsis cultural, como quizá la definiría De Martino: el miedo a una invasión tanto ética como material que, según algunos, está amenazando la identidad de Luang Prabang y de Laos en general.

ImperturbabileBuda femenino en posición imperturbable de la escuela de Luang Prabang, Museo del Wat Ho Phra Keo, Vientián, Laos

Los Sistemas Galácticos


Cuando el primer explorador francés llegó al actual Laos, atravesó la meseta de Korat, en el norte de Tailandia, acompañado por dos elefantes y una pequeña caravana que le había sido proporcionada por el virrey de dicha región. Llevaba consigo una carta de salvoconducto que debía mostrar a los distintos jefes de clan laosianos. Además, se le habían entregado unos tambores con los que debía anunciar su llegada antes de ingresar a los poblados, a fin de asegurarse una acogida y hospitalidad apropiadas.

En 1846, Henri Mouhot, quien aún hoy es considerado por muchos europeos como el “descubridor” de los templos de Angkor, cruzó por primera vez el Mekong, probablemente sin saber que, veinte años antes de su llegada, la ciudad que se extendía por las tierras que ahora pisaba —más allá de la meseta de Korat y del Mekong—, Vientián, había sido completamente arrasada por el ejército de Siam, es decir, por el mismo virrey que le había entregado el salvoconducto. En sus diarios, Mouhot describe con asombro cómo los “primitivos” se alineaban dócilmente al oír los sonidos reales del Siam, y cómo los jefes de clan se prosternaban ante él tras recibir la misiva del virrey de Korat. En pocas semanas logró remontar el gran río hasta descubrir una ciudad, Luang Prabang, de la cual probablemente se enamoró, pero en la que poco después encontró la muerte a causa de la picadura de un mosquito.

Tras él, otros exploradores franceses llegaron a Luang Prabang y describieron su fascinante belleza. Entre todos ellos, el más destacado fue sin duda quien más tarde se convertiría en su vicecónsul: Auguste Pavie. En sus diarios, describió su ingreso a la ciudad como si se encontrara en algún lugar del lago de Como o del de Constanza, e incluso se imaginaba embellecer el paisaje con alguna que otra villa “francesa”. Pavie tardó diez días en reunirse oficialmente con el rey. Para la ocasión, se construyó una puerta de madera y bambú bajo la cual fue conducido, tras haber pasado los días anteriores “fuera” de la ciudad. Se alojó en una casa en la orilla derecha del Mekong, frente a la ciudad, en tierras que los reyes usaban para la caza y donde, desde la primera mitad del siglo XIX, también solían retirarse a meditar. Se le asignaron guías locales que se ocuparon de él mostrándole las aldeas de los alrededores, sin permitirle nunca acercarse al centro. También fue llevado a visitar la tumba de su predecesor, situada en una curva de un afluente del Mekong, accesible en aquella época únicamente por vía fluvial. En sus escritos, Pavie no parece consciente de todas las implicaciones rituales de su llegada a la ciudad. Sin embargo, la recepción que se le ofreció representaba, con toda probabilidad, un clásico rito de purificación o de paso, que culminó con una ceremonia pública frente a toda la población, en un espacio habilitado a lo largo de la calle principal de la ciudad, justo al lado de la residencia del rey.

En ese momento, ciertamente, ni el Rey Oun Kham ni Pavie sabían que, unas dos décadas después, ese tipo de encuentros “diplomáticos” se adecuarían a las normas “internacionales” y se realizarían en privado, en la sala del trono del Palacio Real, concebido por arquitectos franceses a principios del siglo XX. El edificio fue el primero de su tipo en la historia de la ciudad, pero también en toda la región del Mekong medio. Nunca antes una estructura arquitectónica de carácter civil había superado en imponencia y “eternidad” a los templos de la ciudad. El edificio se elevaba hacia el cielo como lo hacían las residencias imperiales de Huế en Vietnam, la Ciudad Prohibida de Pekín o los palacios reales del Siam. Sin embargo, en el Reino del Millón de Elefantes, el rey no cumplía esta función cosmológica. El rey de Luang Prabang, aunque procuraba representarse como Indra (divinidad) y como Bodhisattva (futuro Buda), coexistía con otros poderes locales y regionales que no permitieron que su institución se teocratizara ni que se indianizara de forma plena. La estupa que fue construida en el techo del palacio, justo sobre la posición del trono y que idealmente elevaba al rey de Luang Prabang hacia el cielo, era una decoración religiosa que jamás se había utilizado para la residencia de una persona, incluso una tan importante como el rey. Este y otros elementos arquitectónicos fueron introducidos por los franceses y marcaron una ruptura con el pasado de los sistemas políticos del Mekong central. Ciertamente, los reyes de Luang Prabang siempre estuvieron comprometidos con la creación de monasterios que pudieran elevar su estatus hacia la divinidad. Sin embargo, tal aspiración estaba dirigida principalmente hacia un reconocimiento local, donde los reyes competían con otros potentados y clanes. Otras familias influyentes del actual Laos, como por ejemplo el rey de Xieng Khouang (en la Llanura de las Jarras), que atravesaba procesos igualmente importantes de construcción de un “budismo estatal”, no reconocieron el nuevo “poder soberano” del rey de Luang Prabang. En sus diarios, Pavie no es consciente de estas implicaciones, y probablemente los administradores coloniales nunca se preocuparon por comprenderlas en profundidad. No menciona tampoco si, durante la fase de “purificación” en la que fue mantenido, se le permitió fumar opio o tener damas de compañía, como solía ofrecerse a los invitados más ilustres. Las mujeres de Luang Prabang cumplían, de hecho, múltiples funciones vitales para el reino y determinaban la propia capacidad de poder del rey.

El intercambio de “vírgenes” fue la base de alianzas entre pueblos prácticamente desde los tiempos más antiguos de la historia local. Los mitos fundacionales que he escuchado en torno a la ciudad coinciden casi todos en un detalle: para ocupar legítimamente tierras, los jefes debían ofrecer como prenda a una hija suya, o en otras versiones, a la mujer más hermosa del poblado, al rey de Luang Prabang. En la base de la alianza propuesta había, por tanto, un “derecho de propiedad” madurado mediante el sacrificio/donación de una mujer. La alianza también sancionaba la aceptación de una fuerza superior a la cual se solicitaba protección. Algunos textos redactados en los años setenta que investigan los cultos animistas de la región del Mekong central mencionan una tercera modalidad fundacional de un núcleo urbano: el sacrificio de una mujer embarazada, no al rey sino a los dioses (véase Condominas). Este tercer caso presenta varios elementos de interés, ya que podría evidenciar la existencia de centros urbanos organizados en torno a un matriarcado. El sacrificio/donación producía un espíritu imperecedero, llamado Phi, que permanecía para siempre ligado a los lugares donde ocurría el sacrificio. Aunque en formas distintas, tal culto subsiste aún hoy.

El Phi, es decir, posee una característica fundamental: es inmanente a los lugares y, al no tener una naturaleza ética —ni buena ni mala—, los eventuales ritos de “purificación” realizados por chamanes, exorcistas o magos no logran eliminarlo ni transformarlo. “El olvido” de ese Phi no tiene efectos concretos. Sin embargo, su recuerdo ayuda a mantener la paz y el equilibrio en los lugares. En otras palabras, el Phi de un lugar se asemeja a una memoria compartida del pasado mítico de los territorios. Su interpretación, como su olvido, es sin duda un acto político. Un poco como me ocurre a mí, que escribo sobre ello: los habitantes, en algún momento de sus vidas, simplemente “saben que allí hay un Phi” y actúan en consecuencia, llevando ofrendas o evitando esos lugares. Según los creyentes budistas, los Phi forman parte de un mundo supersticioso en el que los eventos pueden verse influidos por poderes ocultos de todo tipo. No obstante, una de las peculiaridades más notables del budismo de Luang Prabang es precisamente su persistencia en las prácticas religiosas cotidianas de la población (véase Holt). Lo que resulta especialmente interesante para los fines de este escrito es que algunos mitos fundacionales de los principales centros urbanos de la región tenían espíritus tutelares femeninos, como si se tratara de reminiscencias ancestrales de un matriarcado originario sobre el cual se organizaba la vida entre los pueblos antes de ser sustituido por el patriarcado real.

WatSimuangChao Mae Simuang, culto del espíritu tutelar femenino en el Wat Simuang, Vientián, Laos.

En el Reino de Lan Xang, varios edictos prohibieron expresamente el culto a los Phi e iniciaron campañas para su erradicación y sustitución, que incluyeron la construcción de altares y templos budistas sobre los lugares donde se recordaban a los Phi. Es importante subrayar, sin embargo, que a menudo el culto a un Phi estaba asociado a líderes carismáticos de diverso tipo que, en distintas fases históricas, podían aspirar a sustituir o competir con la familia real. En torno a los Phi podían surgir grupos que compartían un conjunto de ritos y cultos que daban origen a mitos totémicos y clanes ancestrales, frecuentemente en conflicto o competencia con aquellos celebrados por la familia real. Se trataba de verdaderas batallas cosmológicas libradas mediante rituales y creencias que, cuando no eran absorbidas por el budismo, podían desembocar en rebeliones y sublevaciones.

En los estudios antropológicos regionales existe una categoría política específica, la del “Big Man”, que describe organizaciones jerarquizadas en torno a estas figuras de poder, a menudo paralelas o entrelazadas con las más formales del rey budista. En la cúspide de estas estructuras se encontraban hombres que, además de riquezas, se decía poseían capacidades curativas y por ello eran considerados “hombres de poder”. En la historia local, muchos de estos líderes carismáticos terminaron por apoyar y organizar rebeliones que, aunque esporádicas, constituyen hasta hoy los únicos momentos conocidos de oposición pública masiva al poder político de las comunidades lao.

Los procesos de indianización del rey estaban dirigidos principalmente a ordenar estos cultos menores y subordinarlos a una religión que debía ser considerada verdadera y justa, es decir, el budismo. Por ello, el rey debía encarnar todos sus preceptos éticos. Sin embargo, durante largos períodos históricos, el budismo fue la religión de la nobleza, que distinguía a la familia real del resto del pueblo, el cual mezclaba animismo y budismo.

En esta conflictividad cosmológica probablemente se oculta la sustitución del matriarcado originario, del cual aún hoy persisten huellas en los sistemas hereditarios de las comunidades lao. A un patriarcado carismático se añadió, para luego imponerse, un sistema de leyes kármicas budistas que encontraba su culminación en el rey indianizado. Pero como se ha señalado anteriormente, en Luang Prabang esta asimilación nunca fue completa; fue más bien la Colonia francesa la que intentó completar el proceso por evidentes razones de control territorial.

Lo que sí sucedió con certeza fue que, en el paso del matriarcado al patriarcado, la mujer, de centro focal de la estructura organizativa, asumió un valor tanto económico como de intercambio y simbólico. El rey de Luang Prabang, para ser considerado “rey”, debía poseer muchas mujeres, y estas debían provenir de todos los reinos y de las principales casas nobles de la región: las acumulaba y las intercambiaba. Cuando Pavie llegó a Luang Prabang, escribió que el rey Oun Kham tenía al menos 60 concubinas, con las cuales había tenido un número difícil de cuantificar de hijos e hijas, todos ellos residiendo en lo que hoy se conoce como la “Península UNESCO”. Sin embargo, poseer mujeres no era solo una medida del poder. El rey de Luang Prabang desempeñaba también una importante función reproductiva: debía garantizar la supervivencia eterna de su pueblo en una región que a menudo había conocido el aniquilamiento de aldeas y ciudades. Representaba así la continuación de una genealogía mítica que algunas leyendas totémicas remontaban a Khoun Boulom, el fundador de un reino legendario que abarcaba desde el río Rojo y el Dai Viet hasta el Irrawaddy y Pegu, pasando por el Mekong central. En los hechos, el rey era por tanto el padre fundador de una ciudad-aldea de poco más de 3000 habitantes, que entre ellos eran, ante todo, consanguíneos. Por esta razón, la ciudad UNESCO estaba poblada por una estirpe “real”, los lao, donde la palabra “lao” no definía una homogeneidad sanguínea o “étnica”, sino que establecía una relación dinástica y regia por la cual todos los habitantes de Luang Prabang estaban ligados al primer líder totémico, Khoun Boulom, cuyas gestas continuaba el rey.

Un aspecto significativo de estos relatos es que la primera “Reina” nunca era originaria de Luang Prabang. Se trataba, más bien, de la esposa que el rey recibía como obsequio por parte de la familia real más influyente en un determinado momento histórico. Así, por ejemplo, el primer rey del Lan Xang, Fa Ngum, tuvo como primera reina a una princesa Khmer nacida y criada en Angkor. Pero junto a ella, había mujeres provenientes de Chiang Mai, Chiang Rai, Sukhothai, del Dai Viet, de Pegu, etc., además de otras regiones y aldeas del actual Laos. El hecho de que las esposas del rey procedieran de todo “el mundo” constituye un elemento característico de las estructuras políticas de estos territorios, y se refleja en diversos mitos de carácter también religioso. La historia de la penúltima encarnación del Buda antes de alcanzar la iluminación, esculpida en la fachada de uno de los templos más importantes de Luang Prabang, el Wat Mai, narra un momento culminante en el que el príncipe Vissanthara se despoja definitivamente de todas sus posesiones y se convierte finalmente en “pueblo” sólo después de haber regalado a su esposa y a sus hijos a un comerciante. Nos encontramos en territorios donde el tráfico de personas ha constituido, desde hace siglos, una de las principales actividades económicas. El ejército del Siam fue uno de los mayores saqueadores de estas tierras, y en Phnom Penh se hallaba el principal mercado de esclavos de la región. Por ello, el acto de desposesión más alto posible para un rey era precisamente entregar su propia dinastía a un mercader. De manera especular, en las paredes del Wat Sisaket en Vientián, construido en la segunda década del siglo XIX, está pintada la historia del Buda Balasankaya, es decir, del mítico fundador de una ciudad cuyo ejército estaba compuesto por 30.000 monjes (exguerreros) y por 94.000 mujeres, todas ellas esposas del Buda.

El Balansakaya no es exactamente un Jataka, aunque afirma relatar una vida anterior del Buda. Podríamos decir que se trata de un “tipo de Jataka” que forma parte de tradiciones literarias budistas profundamente locales. Una copia del manuscrito fue hallada en la zona de Chiang Mai, en el norte de Tailandia, y su desciframiento se convirtió casi en una historia de espionaje en los círculos de la arqueología laosiana. De hecho, su contenido fue divulgado por una publicación de tirada muy limitada producida con ocasión de la última restauración del Wat Sisaket. El texto no se limita a describir cuestiones técnicas del trabajo de restauración, sino que publica por primera vez los resultados de una investigación llevada a cabo durante varios años por la EFEO de Vientián. Sin embargo, dicha divulgación se realizó sin su consentimiento y a partir de datos sustraídos. Lo cierto es que la historia del Buda Balansakaya no forma parte del currículum monástico. Por eso no se la considera un Jataka. No se encuentra en las bibliotecas de los templos y no es mencionada en ninguna de las ediciones en inglés o francés de los Jataka disponibles actualmente. Parece más bien pertenecer a una tradición budista muy localizada, emanación de alguna escuela de Chiang Mai. Para comprender las dimensiones a las que nos referimos, podríamos afirmar que el texto podría formar parte de una auténtica secta budista que, durante un determinado período, llegó a convertirse en el “Budismo del Reino de Lan Xang”. Esta afirmación se basa en el hecho de que la historia de este Buda fue representada en el sim del templo más importante construido por el rey de Vientián y de Luang Prabang, Chao Anouvong, cuando el Reino de Lan Xang era un protectorado del Imperio del Siam. Probablemente, su construcción tenía como objetivo afirmar una autonomía cósmica respecto al budismo siamés y, al mismo tiempo, reivindicar una forma local de budismo no subordinada a la de Bangkok. Lo que ahora resulta relevante destacar es que la pintura narra la historia de un reino mítico de más de dos mil años que vivió en una condición de paz mientras a su alrededor reinaban las guerras y las luchas por el poder. Esta paz fue posible gracias a la voluntad de los dioses, pero sobre todo mediante un arte diplomático sutil, fundamentado en el “budismo del Reino”, o mejor dicho, en la figura del Rey-Buda, en las relaciones de parentesco y en el intercambio de mujeres.

De hecho, estas zonas centrales del Mekong se caracterizaban por una debilidad estructural que durante mucho tiempo ha fascinado a los historiadores. El Mekong, si bien constituía una vía de comunicación esencial, nunca fue completamente navegable debido a las cataratas de Khone Phapheng, actualmente situadas entre el sur de Laos y Camboya. Por esta razón, la región del Mekong central permaneció, en cierto modo, aislada. Las tecnologías bélicas que hacían de las zonas costeras espacios más habituados a las guerras y a las conquistas llegaban a estas regiones con cierto retraso. La supervivencia de las formas locales de gobierno dependía, por tanto, no solo de aspectos económicos y comerciales —como el ciclo de las estaciones agrícolas o la capacidad de desarrollar productos manufacturados de cierto interés—, sino también del desarrollo de una forma sofisticada de soft power.

Para distinguir las categorías políticas de esta región de las europeas, suele utilizarse la expresión “sistemas galácticos” (para una discusión más detallada véase Tambiah). Así se designan aquellos reinos y estados que no ejercían un poder soberano sobre territorios delimitados, sino que operaban dentro de un sistema relacional en el cual, además del pago de tributos y de las alianzas militares, se mantenían vínculos religiosos y de parentesco. De este modo, cada centro urbano funcionaba como una fuerza gravitacional en torno a la cual se generaban fenómenos de urbanización y de homogeneización cultural. Más allá de un radio aproximado de 70 kilómetros, la influencia del centro cambiaba de forma y se inscribía en un mundo simbólico entre la mitología y la religión, cuya credibilidad dependía de los distintos momentos históricos. Por lo tanto, las alianzas y tratados requerían para su validación un intrincado intercambio diplomático basado en creencias, en reyes que se asemejaban a Budas, y en mujeres ofrecidas como dones.

Tomados en conjunto, los elementos organizativos delineados producían un sistema político plástico que, más que elaborar estructuras para garantizar su perpetuidad (más allá de la filiación), encontraba modos de adaptarse continuamente a los cambios. Esto ocurría a partir de una consciencia clara de la debilidad estructural que impedía a los habitantes del Lan Xang incluso imaginar grandes campañas militares de conquista y saqueo. Al menos hasta la llegada, primero, de la colonia francesa y, después, de las fuerzas paramilitares estadounidenses, las ciudades de Luang Prabang y Vientián fueron reiteradamente saqueadas y destruidas, y se sabe poco sobre expediciones militares exitosas que no se limitaran a territorios cercanos. Sin embargo, las dificultades logísticas derivadas de comunicaciones y transportes extremadamente lentos impedían que los ejércitos extranjeros se convirtieran en fuerzas de ocupación permanente.

El mito (o pesadilla) de la invasión extranjera —que desde siempre representa la experiencia traumática por excelencia de estas áreas geopolíticas— tomó históricamente en Luang Prabang la forma de saqueos, ocupaciones súbitas, generalmente resueltas mediante intercambios de dones, estatuas y mujeres ofrecidas como esclavas. Estos eventos reducían ciertamente el poder del rey, pero no lo anulaban. En parte, estas tierras parecen confirmar lo que Edmund Leach describía en los estados Kachin de Birmania, donde las organizaciones sociales locales oscilaban constantemente entre formas políticas autoritarias y modelos más abiertos e incluyentes. Esto podía suceder en periodos breves, como si las poblaciones hubiesen aprendido el arte de adaptarse a los encuentros, las cosechas y la buena fortuna.

No obstante, estos procesos de adaptación nunca hacían desaparecer los elementos profundamente localistas. Como en el caso del Jātaka “apócrifo”, tales localismos podían, en determinados momentos históricos, convertirse incluso en “religiones oficiales de los Lao”, o ser preservados bajo la forma de espíritus del lugar —los Phi—, custodiados por algunas casas nobiliarias que habrían mantenido soterradamente su propio poder carismático. Por tanto, reminiscencias y memorias sobrevivían tanto a los edictos reales que los prohibían como a saqueos repentinos, conquistas de pocos años, o al constante trabajo de borrado activado por la difusión del budismo Theravāda “oficial” y por la llegada de la modernidad.

El Encuentro Colonial


Laos e AnnamMapa político de Laos y del norte de Vietnam en la década de 1930

En resumen, Luang Prabang estaba gobernada por formas decididamente peculiares, y de algún modo estas rarezas le permitieron convertirse en un centro regional de importancia media, reconocido en todas partes. Sin embargo, la historiografía colonial centró sus investigaciones no en la plasticidad de los sistemas políticos locales, sino en la debilidad inherente, tanto militar como burocrática, de los reinos del Mekong central. Las estructuras político-administrativas encontradas eran en su mayoría descritas como el resultado de procesos de imitación y asimilación (para más detalles, véase Lieberman). Todo impulso innovador —tanto económico-cultural como político u organizativo— se consideraba marginal y en cualquier caso inestable. La sustancial oralidad de las poblaciones y su escaso uso de sistemas sofisticados de recolección de información que protegieran los archivos estatales tanto de desastres naturales como de saqueos, contribuyó ciertamente a reforzar esta atmósfera intelectual general. Y, como en muchas otras partes del mundo, la ausencia de una historia escrita autóctona pareció confirmar la existencia de sistemas políticos fragmentarios e incapaces de construir una imagen coherente y duradera de sí mismos (véase al respecto Lorillard). Indochina —nombre dado por el gobierno francés a los protectorados que había conquistado en los actuales Laos, Camboya y Vietnam a finales del siglo XIX— representa bien esta idea “colonialista” de lugar “débil”, definido por el encuentro de culturas milenarias —China e India— pero sin capacidad propia para influir en las trayectorias políticas y comerciales de la época.

La llegada de los franceses al Laos parece además paradigmática de una visión salvadora de la Colonia. En los textos de aquella época puede leerse, por ejemplo, que la “Colonia” había pacificado tierras marcadas por el caos y las disputas, que a menudo culminaban en el aniquilamiento total de los adversarios políticos; o que “el hombre blanco”, el falang, había devuelto la seguridad a ciudades que eran periódicamente saqueadas por bandas de asaltantes y bandidos; o incluso que había construido y perfeccionado las vías de comunicación, permitiendo un renovado crecimiento del comercio. La “Colonia”, en otras palabras, “trajo paz y bienestar”, pero al hacerlo redujo esencialmente la variedad de entidades políticas que existían a lo largo de los principales ríos de la región, sometiéndolas a un orden bien definido y jerarquizado, en cuya cúspide se encontraban las estructuras burocrático-militares y las empresas comerciales gestionadas generalmente por un pequeño grupo de falang. El relato del encuentro que vinculará de manera indisoluble a la familia real de Luang Prabang con el gobierno francés describe de forma casi paradigmática este ambiente intelectual.

El vicecónsul Auguste Pavie, en la historiografía colonial, desempeñó un papel esencial al salvar al rey Ounkam, en 1887, de una “banda de saqueadores chinos” conocida como el ejército de las “Banderas Negras”, comandada por un “señor de la guerra chino”, Deo Van Tri. Según relatos de este tiempo, la banda entró en Luang Prabang destruyendo gran parte de las estructuras arquitectónicas de la ciudad, pero el rey fue salvado por una embarcación que Pavie había preparado para trasladarlo a una ciudad más al sur, Paklay, también a orillas del Mekong, pero a más de 200 km de distancia. Como resultado de este acto heroico, a los franceses se les permitió reemplazar al reino de Siam como “protectores” del reino de Luang Prabang. Y aunque el nuevo protectorado no fue reconocido por otros reinos laosianos —especialmente por el Reino de Xiengkhouang— al menos hasta finales de los años 30, los franceses establecieron una nueva nación subordinada a la familia real de Luang Prabang, es decir, a sus aliados más fieles.

Estudios más recientes (véase aquí y aquí) han mostrado que podrían existir otras perspectivas sobre aquellos acontecimientos. En la historiografía laosiana, la época de anarquía y bandidaje que encontraron los franceses se denomina genéricamente como las “Guerras Ho” (Ho Wars), es decir, una serie de rebeliones, guerras civiles y saqueos que se originaron en el norte del país como consecuencia de amplios procesos migratorios en China durante la segunda mitad del siglo XIX. Por lo tanto, se refieren a un Otro general —los Ho— que eran poblaciones de origen chino, aunque con historias y procedencias muy diversas entre sí. Por esta razón, el término “Guerras Ho” tiende a representar, desde el punto de vista “laosiano”, una serie de trastornos económicos y demográficos profundos iniciados en China, resultado tanto del encuentro colonial (la difusión del cristianismo y el comercio con Inglaterra y Francia), como de las rebeliones locales contra las burocracias imperiales Qing. En los estados del sur y sureste de China, en un lapso de treinta años, de 1839 a 1873, murieron más de 30 millones de personas. Esta cifra —probablemente subestimada— se calcula sumando las víctimas de las dos Guerras del Opio contra Inglaterra (1839-42 y 1856-60), la Rebelión Taiping (1849-61), la guerra entre los clanes Punti y Hakka (1855-68) y la Rebelión Panthay (1856-1873). El impacto de estos eventos sobre las regiones del interior y las montañas de Vietnam y Laos ha sido escasamente estudiado. Por esta razón, el saqueo de Luang Prabang de 1887 ha sido considerado un producto periférico de transformaciones mucho más amplias. La narrativa colonial lo interpretó como una simple manifestación de bandidaje vinculada a la época de “anarquía”, es decir, a las Guerras Ho que precedieron la llegada de los franceses. En realidad, la historia era considerablemente más compleja.

Lo que hoy sabemos sobre el saqueo de Luang Prabang es que, en 1887, la Banda de las Banderas Negras ya no existía desde al menos cinco años atrás y, según algunos historiadores, era imposible considerarlos una banda: más bien se habían convertido en un cuerpo militar del ejército imperial vietnamita. La fusión definitiva con el ejército oficial se produjo durante la guerra de conquista de la Bahía de Tonkín por parte de los franceses (1884-85), pero ya desde antes habían estado al servicio de la administración imperial, gestionando diversos territorios alrededor del río Rojo, es decir, en la vía fluvial que conectaba China con Hanói. Tras la derrota vietnamita, su capitán, Liu Yungfu, junto con otros miembros de la Banda, se dispersaron. Algunos de ellos se refugiaron en las montañas del noroeste de Vietnam, lo cual podría haber confundido a Pavie y con él a toda una generación de historiadores franceses. Lo que probablemente confundió a Pavie fue la guardia personal de Deo Van Tri, compuesta efectivamente por soldados de la etnia Zhuang, algunos de los cuales procedían del cuerpo militar vietnamita y, en un pasado relativamente lejano, habían formado parte de las “Banderas Negras”.

Es interesante observar que, antes de enfrentarse a los franceses, la banda había formado parte del heterogéneo ejército de los Taiping, es decir, un ejército evangélico de carácter mesiánico que se rebeló contra la dinastía Qing y que, en poco tiempo, logró reunir un vasto conjunto de actores armados ajenos al ejército imperial chino. Su comandante supremo, Hong Xiuquan, tras haber estudiado con misioneros británicos, llegó a considerarse una especie de reencarnación china de Jesucristo. Los comandantes militares se reunían con él en asambleas de oración durante las cuales dialogaban con Dios y definían las estrategias militares a seguir. Su objetivo, más allá de la liberación respecto a la dinastía Qing, era la creación del “Reino Celestial” en China. La noción de “Reino Celestial” es de suma importancia para comprender los movimientos militares mesiánicos del sudeste asiático que acompañaron la construcción colonial en la región. No obstante, me detendré más en este punto en otra ocasión. Por ahora, baste decir que la derrota de la rebelión Taiping, junto con la muerte de millones de personas, generó movimientos migratorios a gran escala y presiones sin precedentes sobre la organización de la tierra. Todo esto ocurrió mientras la liberalización de la producción de opio, impuesta por los británicos, provocaba una igualmente inédita conversión productiva de los campos agrícolas hacia el cultivo de la adormidera. En pocos años, esta planta y su derivado, el opio, se convirtieron en la producción predominante en todo el sur de China. Evidentemente, los territorios fronterizos como Vietnam y Laos también se vieron profundamente afectados por esta rápida transformación. Por ende, resulta evidente que la categoría macrohistórica de las llamadas “Guerras Ho” aún está pendiente de una comprensión más profunda en la historiografía regional.

Deo Van Tri e Auguste PavieEn la foto se puede ver a Deo Van Tri junto a Auguste Pavie y la escolta Zhuang

Volviendo al saqueo de Luang Prabang, y una vez aclarada la naturaleza militar —y no meramente bandolera— de la expedición que atacó la ciudad, resulta pertinente redefinir también la narrativa en torno a la figura del “señor de la guerra chino”. Deo Van Tri, si bien descendía de chinos —su padre era un comerciante chino que se había casado con una princesa Tai Dam—, había nacido en Hanói y era considerado en aquella época como un rey Tai Dam. Por tanto, no puede ser clasificado estrictamente como un señor de la guerra chino. Además, su papel político fue, desde un inicio, de vital importancia para la colonia francesa. La amistad entre Deo Van Tri y Pavie, documentada, por ejemplo, en el reciente trabajo de Le Founnier, constituye probablemente uno de los vínculos más estrechos que desarrolló el vicecónsul de Luang Prabang durante la expedición colonial en la llamada “Indochina”. El clan Deo sería tan crucial para la administración colonial francesa precisamente por su capacidad para controlar el tráfico de opio en la región. Cuando, en 1954, los franceses fueron expulsados de Vietnam, el hijo de Deo Van Tri, Deo Van Long, fue trasladado con toda su familia a Francia, concretamente a Marsella, donde aún hoy residen sus descendientes.

Sin embargo, esta particular intimidad entre el clan Deo y ciertos emisarios coloniales no fue bien vista por todos en Luang Prabang. En particular, despertó sospechas en el virrey Phetsharat, quien, en diversos memoriales redactados por él mismo en la década de 1940 y basados en testimonios directos de personas que presenciaron los acontecimientos de 1887, cuestionó el papel desempeñado por Pavie en el saqueo de Luang Prabang. Según su interpretación, Pavie salvó al rey no porque estuviera previamente informado de los hechos, sino porque, de alguna manera, él mismo había contribuido a crear las condiciones que los hicieron posibles. Para no complicar aún más la narraciòn, bastará decir aquí que, antes del saqueo de Luang Prabang, el ejército de Siam había iniciado una operación militar a gran escala, apoyada por los británicos. Su objetivo era consolidar el control sobre el Mekong central y algunos de sus principales afluentes, como el Nam Ou, con el fin de gestionar más eficazmente la distribución del opio y, al mismo tiempo, establecer una zona de amortiguamiento que limitara el avance de las migraciones que caracterizaron aquella época. Luang Prabang fue utilizada como base de apoyo para la expedición militar que ascendió el río Ou hasta llegar a las regiones de Lao Cai, de las cuales Deo Van Tri, junto con su padre, era señor por derecho dinástico, tras los matrimonios con las mencionadas princesas. Allí, tras varios meses de guerra y la captura de al menos cinco miembros de la familia de Deo Van Tri, el ejército siamés se replegó y regresó a Bangkok. Según el testimonio del virrey Phetsharat, Pavie habría sugerido a Deo Van Tri que sus familiares capturados se encontraban precisamente en Luang Prabang, ciudad que Deo Van Tri conocía muy bien, ya que su padre lo había enviado a estudiar allí cuando era adolescente, en uno de sus templos principales. No por casualidad, los asesinados por Deo Van Tri no fueron los civiles que transitaban por las calles, sino precisamente aquellas personas que lo habían traicionado, es decir, aquellos más cercanos a él en la ciudad, como el entonces virrey Souvhanna Poumma, acusado de no haberle advertido a tiempo del peligro inminente.

La reconstrucción de otras perspectivas historiográficas sobre este episodio nos permite proponer algunas conclusiones lo suficientemente generales como para no forzar las evidencias históricas disponibles. En primer lugar, más que tratarse de un grupo de bandidos, el saqueo de Luang Prabang fue una expedición militar en toda regla, cuyo objetivo consistía en castigar a las altas autoridades políticas de la ciudad por su traición y por el apoyo brindado al ejército siamés. En segundo lugar, el asesinato de los aliados de Lao Cai provocó una fractura irreparable que impidió restablecer el statu quo mediante el cual Luang Prabang solía mantener relaciones tanto con Bangkok como con Lao Cai. Sin embargo, en lugar de acercarla más al Siam, esta fractura facilitó la instalación del poder colonial francés. Es decir, la división produjo el más clásico de los “divide et impera”. Al desconectar entre sí las zonas montañosas del norte y los vínculos históricos entre el río Ou y el río Negro, los franceses lograron gestionar con mayor facilidad los ingresos procedentes del tráfico de opio en esa región, sin necesidad de compartirlos con intermediarios demasiado poderosos, salvo el clan Deo en el río Negro y la familia real de Luang Prabang en el Nam Ou.

Los más perjudicados fueron sobre todo los pueblos dedicados al cultivo de adormidera, en particular los Hmong. A pesar de haber intentado en repetidas ocasiones rebelarse contra los nuevos acuerdos comerciales y contra los precios de venta más bajos, los Hmong quedaron divididos entre las dos zonas de influencia creadas por los franceses (véase Mai Na Lee). En efecto, esta fragmentación impidió que los líderes Hmong se consolidaran como intermediarios de referencia en la distribución del “petróleo de la época”, es decir, el opio, al menos hasta la llegada de la CIA. En tercer lugar, la necesidad estratégica de “cortar” las relaciones comerciales y políticas entre estas dos regiones geográficas constituyó una constante tanto en la época colonial como durante las dos guerras de Indochina. Los acontecimientos de Dien Bien Phu en 1954 podrían demostrarlo con bastante claridad, aunque este no es el objetivo del presente texto. Baste señalar, por ahora, que las fronteras impuestas entre ambas regiones impactaron directamente en el control del Mekong central, ya que impidieron la formación de poderes locales suficientemente ambiciosos y autónomos con respecto a los aliados del poder colonial. En otras palabras, los flujos de los sistemas galácticos fueron interrumpidos en beneficio de los intereses franceses.

En cuarto lugar, la “pequeña” mentira de Pavie tuvo un impacto considerable en la historiografía oficial de la Colonia. Sobre este punto conviene detenerse un poco más. A raíz de los acontecimientos de 1887, todos los textos franceses de la época colonial sustentan una idea fundamental para la legitimidad de la administración de París: la supuesta aceptación generalizada por parte de la población local. Podría entonces afirmarse que nos encontramos ante una situación antropológica comparable a la del Capitán Cook, tal como fue formulada por uno de los referentes de la antropología poscolonial, Marshall Sahlins. Sin embargo, de esta presunta benevolencia derivó una larga serie de hipótesis historiográficas que no solo sirvieron como justificación ideológica del proyecto colonial, sino que también establecieron las bases jurídicas y políticas para las posteriores intervenciones militares francesas en la región. Por esta razón, resulta necesario dar un pequeño salto temporal hasta la Segunda Guerra Mundial con el fin de retomar algunas cuestiones aún no resueltas del encuentro colonial.

LaLiberazionePortada de un texto (1985) de propaganda militar durante la Guerra Fría en Laos

En síntesis, si la población local era feliz con la presencia francesa y las crónicas de la época apenas lograban registrar episodios de revuelta o rebelión, incluso en las zonas más remotas del país, ¿por qué surgió entonces un movimiento antifrancés? El nacionalismo lao y los sentimientos antifranceses de los años treinta, organizados en torno al movimiento (también armado) del Lao Issara, fueron reducidos por la administración colonial a un proyecto político elitista con escasa difusión entre la población. En aquellos años, en la cúspide del movimiento se encontraba el virrey de Luang Prabang, Phetsarat. No por casualidad, su cargo fue suprimido por la administración colonial. Su figura conservaba un valor simbólico dentro de la ciudad, pero ya no poseía ningún valor “nacional”. En efecto, el virrey habría sucedido al rey en caso de fallecimiento, pues existía un sistema de transmisión del poder que seguía líneas de consanguinidad también horizontales y no exclusivamente por filiación directa.

Entre los miembros del Lao Issara se encontraba también el llamado “Príncipe Rojo”, Souphanouvong, nacido de la relación furtiva entre el padre de Phetsarat y una empleada doméstica de su residencia, y gran amigo de Ho Chi Minh. El conflicto entre las dos facciones alcanzó su punto más dramático el 12 de octubre de 1945, fecha simbólica para el indigenismo mundial, cuando Phetsarat, en calidad de Primer Ministro, declaró la independencia de Laos con respecto a Francia. El rey Sisavang Vong no ratificó la declaración y, por el contrario, emitió una orden de arresto contra Phetsarat y Souphanouvong, acusándolos de traición a la monarquía. Ambos permanecerían en prisión por muy poco tiempo, ya que las mismas guardias les permitieron escapar hacia Tailandia. Allí, junto a otros miembros del Lao Issara, comenzaron a organizar la resistencia armada contra los franceses y contra la familia real de Luang Prabang.

En pocas semanas, lograron reconquistar dos ciudades clave del centro-sur del país, Thakhek y Savannakhet. En estas localidades, junto a restos del ejército ocupante japonés y voluntarios vietnamitas, construyeron barricadas para defenderse de las represalias del ejército francés, que para entonces había salido de la esfera de influencia alemana y recibido armamento y suministros de los británicos.

Según diversos textos de historia militar francesa —citados en la ya mencionada obra de Mai Na Lee— las alianzas en clave antifrancesa y “anti-hombre blanco” que el Lao Issara forjó, especialmente con los remanentes de las fuerzas japonesas y con el grupo armado Viet Minh de Ho Chi Minh, proporcionaron a los franceses y a mercenarios hmong el mandato “histórico” de llevar la guerra contra el nazi-fascismo también en Laos. En otras palabras, las campañas militares de 1945-46 —durante las cuales se cometieron un número aún impreciso de masacres— fueron inscritas en la historiografía oficial como parte de la cruzada global contra el nacionalsocialismo y como operaciones para la “liberación de Laos”.

Entre dichas acciones, la más significativa fue la masacre de Thakhek (vease el reciente trabajo del historiador Vattana Polsena, donde, en pocas horas, la aviación franco-británica exterminó a varios miles de personas que, sin haber visto nunca antes un avión, intentaron refugiarse en el Mekong, convirtiéndose en blanco fácil. El general francés Jean Boucher de Crèvecœur —quien ocuparía importantes cargos militares en Europa hasta la década de 1980 y que comandaba aquella expedición— calificó la masacre como una victoria fundamental contra el nazi-fascismo. La matanza de Thakhek, ocurrida el 21 de marzo de 1946, es considerada hoy por los historiadores del Partido Comunista Laosiano como el acontecimiento que dio inicio a la Primera Guerra de Indochina en Laos, y que marcó de forma decisiva el apoyo popular a las guerrillas.

Lo que, sin embargo, debe subrayarse a modo de conclusión para los fines de este escrito, es que en el relato colonial, la gendarmería francesa llegó a estas tierras primero como salvadora y luego como liberadora, al menos hasta 1954, cuando fue finalmente expulsada.

Asimismo, es necesario aclarar que en Laos tuvo lugar, ante todo, una larga guerra civil que comenzó el 12 de octubre de 1945 y concluyó el 3 de diciembre de 1975 con la proclamación de la República Democrática Popular Lao. Inmediatamente después, se inició una fase de “limpieza social” que, si bien no desembocó en un genocidio como en la Camboya de Pol Pot, sí provocó un vasto flujo de expulsiones y exilios de todas aquellas personas consideradas colaboradoras de la CIA o de la monarquía de Luang Prabang. La antigua capital del reino de Lan Xang se convirtió en pocos años en una “ciudad fantasma”, como la definió un urbanista francés de la UNESCO cuando pudo ingresar en ella a inicios de la década de 1990.

Junto con el abandono de algunas zonas del país, muchas otras habían sido completamente arrasadas. De ciudades y monumentos no quedaban más que ruinas en todo el antiguo Reino de Xiengkhuang. Lo mismo ocurrió en el centro-sur de Laos. No obstante, la reconstrucción no se benefició de ningún fondo ni capital extranjero. Sus aliados, China y Vietnam, atravesaban también graves dificultades, y la URSS ya había entrado en su fase de declive, presionada por el sostenimiento de un aparato militar sobredimensionado. A excepción del arroz y unos pocos recursos básicos, los aliados de la recién nacida República Popular no pudieron impedir una trágica hambruna debida quizás más a la presencia de minas y bombas sin detonar esparcidas por los arrozales de los valles fluviales que a la colectivización de las tierras, la cual, en todo caso, duró apenas un quinquenio.

La gestión de esta fase extremadamente compleja y dolorosa, marcada tanto por la expulsión de sectores sociales como por la reconstrucción nacional, recayó en el comandante del Ejército de Liberación de Laos, Kaysone Phomvihane, nacido en Savannakhet de padre traductor vietnamita y madre campesina laosiana. Kaysone había participado desde las primeras horas en las revueltas antifrancesas y en el movimiento Lao Issara, y su historya constituye hoy una de las leyendas fundacionales del país.

La excepción de Kaysone


KaysoneEstatua de Kaysone Phomvihane expuesta en el museo dedicado a las guerras de liberación de Laos, Vientián, Laos

Hoy en día, para quienes sostienen posturas marcadamente nacionalistas y nostálgicas del período monárquico, el comandante del Ejército de Liberación de Laos es considerado vietnamita y no laosiano. Esta afirmación posee una doble dimensión. Para algunos, los más radicalizados, Kaysone sería un usurpador del poder de los Lao, que no respetó los acuerdos de paz y accedió al poder mediante un golpe de Estado. Ello ocurrió como resultado de una voluntad política “externa”, atribuida a la Internacional Comunista, y no de una decisión colegiada tomada por la Asamblea Nacional. En efecto, estos sectores no consideran a Kaysone un héroe que, junto a unos pocos compañeros, luchó gran parte de su vida por la independencia política de Laos. Por el contrario, lo ven como el artífice de su sometimiento al comunismo. Esta postura me ha sido reiterada en múltiples ocasiones, de manera informal, por exponentes del movimiento democrático laosiano más radical, es decir, aquellos que aspiran a instaurar una monarquía constitucional en el país, al estilo tailandés.

Existe, sin embargo, una segunda interpretación, más sofisticada, sobre la “impureza” del antiguo comandante guerrillero. El padre de Kaysone era vietnamita y llegó a Savannakhet junto a los franceses, desempeñándose en la administración y la burocracia local en representación de éstos. Durante la época colonial, fueron varios miles los vietnamitas que migraron a Laos por decisión expresa de las autoridades francesas. No poseo elementos suficientes para calificarlas como deportaciones, pero algunos habitantes del centro-sur del país las recuerdan en esos términos. Su fuerza laboral contribuyó sustancialmente a la construcción de la mayoría de las vías de comunicación y residencias coloniales en esa región de Laos. El padre de Kaysone contrajo matrimonio con una mujer laosiana de origen humilde de un poblado cercano a Savannakhet. Además, era profundamente budista, y Kaysone fue educado desde pequeño en un monasterio, viviendo como novicio hasta los 16 años. Posteriormente, su padre decidió enviarlo a estudiar a Vietnam, donde residió varios años en Hanói. A diferencia de las historias anteriores y de las dinastías reales, la biografía de Kaysone se presenta desde el inicio como una excepción.

Se trata de la historia de un laosiano común cuya laocidad, su “sangre lao”, no le proviene del padre, sino de la madre. No estudia en las escuelas coloniales francesas, sino en un monasterio; es padre devoto y esposo enamorado de su única mujer, alejado de cualquier forma de concubinato. Incluso las fotografías que lo retratan ya como Primer Ministro de Laos lo muestran en una vivienda modesta, con una mesa de ping pong y vestido con ropas populares, sin ostentar jamás el poder que había alcanzado. Todo esto se distancia enormemente de la estética del poder real que caracterizó a la monarquía, especialmente tras la llegada de los franceses. Difícilmente una persona como él habría podido acceder a las altas esferas del poder nobiliario de Luang Prabang o Vientián. Y es precisamente este haber venido de “fuera del Reino” lo que lo convierte, a los ojos de los nacionalistas monárquicos, en un “vietnamita” y no en un “laosiano”, una condición de impureza compartida hoy por muchas personas nacidas de relaciones entre falang y mujeres laosianas.

Cabe señalar que no nos hallamos ante un culto al líder típico de los regímenes totalitarios, como suele afirmarse de forma apresurada respecto al Museo de la Resistencia que le fue dedicado. Nos encontramos más bien ante una ruptura con el pasado colonial, en la cual el país es narrado desde otras perspectivas, invirtiendo precisamente ese culto que históricamente había sido reservado a los Reyes-Buda. La historia de Kaysone propone una nueva laocidad: popular, ascética y carismática, dado que su amor patriótico no nace del deseo de poder dentro de un palacio real, sino entre las barricadas de Savannakhet y luego de Thakhek, en su haber vivido diez años en un monasterio y diez años de guerra en una caverna, junto a otras 30.000 personas, en la ciudad secreta de Viengxai. Su trayectoria es, en definitiva, una historia de rebelión que recorre un camino budista. Más que un culto personalista, el retrato que se presenta adquiere los rasgos de un ejemplo a seguir y recuerda a las nuevas generaciones del Partido Comunista —a menudo poco atentas a las lecciones de la historia— los elementos fundamentales del ser guerrillero encarnado por Kaysone.

Comitate Centrale ClandestinoComité Central Clandestino del Ejército de Liberación de Laos, Vienxay, distrito de Huaphan, Laos

Si se pretende ir aún más allá y profundizar la reflexión, es posible vincular este relato sobre Kaysone con una específica producción mítica y literaria laosiana, compuesta por héroes del pueblo que, gracias a la sabiduría adquirida durante sus viajes, logran cumplir hazañas extraordinarias. Estos mitos se distinguen de los budistas o regios por la ausencia de linaje en sus protagonistas. Algunos han sido incorporados a la cosmología budista, otros subsisten como relatos orales. Entre los primeros destaca el de Sieu Savath, representado en la “Capilla Roja”, junto al monasterio más importante de la ciudad, el Wat Xieng Thong. Narra la historia de un joven campesino que decide partir a conocer el mundo y, tras múltiples peripecias, logra convertirse en consejero del rey, a pesar de su ignorancia y de no pertenecer a ninguna casa noble. Lo consigue gracias a una inteligencia innata y una aguda comprensión de las situaciones que enfrenta.

En la segunda categoría de relatos, especialmente en el área de Luang Prabang, puede identificarse otro grupo mitológico, centrado en poblaciones originarias que habitan los bosques y no practican la agricultura. Estas poblaciones son a menudo denominadas “Kha”, término que históricamente designó a pueblos no lao, frecuentemente subordinados o esclavizados. En otros casos, las leyendas tratan sobre los Nyak, demonios del bosque, probablemente así llamados por lo cruento de sus rituales. Como ya se mencionó, con el paso del tiempo estos ritos fueron prohibidos, eliminados o absorbidos por la religión del Reino. En conjunto, estos relatos podrían representar reminiscencias del pasado premonárquico, o bien una pacificación cosmológica nunca culminada en el Mekong central. Desde esta perspectiva, la historia de Kaysone constituiría una auténtica inversión ontológica: marcaría el repliegue de la mitología fundacional de la ciudad sobre un héroe popular que finalmente supera las prácticas monárquicas.

Sin forzar en exceso las conclusiones, la leyenda de las doce hermanas —ya atribuible al período monárquico, aunque con reminiscencias de una época anterior— insinúa la posibilidad de que Luang Prabang posea también un espíritu tutelar femenino. Se trata de una “Reina Indígena”, Nang Kwang Hi, demonio del bosque e hija de la reina del reino de los Nyak, Nang Khong Bhali, cuyo nombre retoma el término “khong”, que en lao contemporáneo significa mono. El mono es un animal recurrente en la mitología local. En la versión laosiana del Ramayana —poema épico indio vinculado, no por casualidad, al rapto de una mujer— no es Hanuman, la deidad hinduista hombre-mono, quien asiste a los héroes, sino un ejército de monos. Además, en esta versión, los dos protagonistas, Phra Lak y Phra Lham, se transforman en monos tras ingerir una raíz venenosa, y durante su búsqueda del demonio y de su amada fundan numerosos poblados a lo largo del Mekong, reclutando así el ejército que derrotará al demonio. En la leyenda de las doce hermanas, en cambio, la princesa nyak se enamora del hijo de la menor de las doce hermanas, Buddhasen, héroe popular laosiano célebre por su éxito en el juego y las peleas de gallos. Ambos mueren de un amor irrealizable que no produce descendencia. En la muerte, son sepultados juntos. La tumba de Nang Kwang Hi sería la montaña situada en la margen derecha del Mekong, frente al centro urbano, conocida como Phu (montaña) Nang (mujer). La tumba de Buddhasen es la montaña adyacente, llamada Phu Thao (hombre). No obstante, la leyenda cuenta que Buddhasen murió a los pies de Nang Kwang Hi, pero que Indra (el dios), al ver en esta superioridad femenina un mal augurio para el futuro del reino —dado que ella era un demonio— decidió invertir sus posiciones, colocando a la mujer a los pies del hombre.

Este mito contiene varios elementos relevantes, sobre todo si se compara con los que conciernen a las familias nobiliarias de Luang Prabang. En primer lugar, a una dinastía de demonios/indígenas que se extingue corresponde la de Khoun Bhulom, el ancestro totémico de la familia real, cuyo hijo, Khoun Lo, conquistó Muang Swa (nombre original de Luang Prabang) en nombre de su padre. Probablemente, Khoun Lo arrebató la ciudad a los Kha o Nyak. En segundo lugar, la historia de Nang Kwang Hi describe claramente el final de un sistema matrilineal por voluntad divina. No sabemos si esto constituye una codificación mítica de la consanguineidad patrilineal como “regla del reino”. Asimismo, este mito no justifica necesariamente el intercambio de mujeres como práctica de gobierno. Tampoco conocemos con certeza si, y cómo, en el caso particular de Luang Prabang, los Kha se convirtieron en Lao. En este sentido, los archivos coloniales de las diversas expediciones posteriores a las de Pavie continuaron utilizando el término “Kha” para referirse a ciertas poblaciones no lao. A inicios del siglo XX, parece que la palabra tenía un valor peyorativo y se empleaba de manera racista para designar a personas que vivían en condiciones de esclavitud de facto (véase Schliesinger). En cualquier caso, en los relatos de la ciudad, ambos mundos permanecen separados cuando uno —el real y budista— no logra imponerse sobre el otro. El relato sobre Kaysone parece entonces reinscribirse en un mundo mítico históricamente sometido o suprimido. Sería interesante reinterpretar la compleja cuestión étnica laosiana partiendo de este campo “indígena” vencido pero redescubierto en el Laos moderno, más allá de la dialéctica entre rey indianizado y líder carismático. De este modo, podríamos volver a apreciar sistemas políticos que no necesariamente se ajustan a las categorías politológicas modernas, y reconsiderar vínculos y relaciones que la prolongada guerra civil del país ha desgarrado profundamente. Escribiré más al respecto en cuanto sea posible.


noblogo.org/from-balvano-to-th…



NOVITÀ DI VENERDÌ 30/5/25.


Anche in questa puntata inserirò il carico San Paolo.

NOIR, GIALLI E THRILLER:

  • I COLLEZIONISTI di Paolo Regina (Neri Pozza). Prima indagine del vicequestore Gaia Innocenti. Un antiquario inglese viene rinvenuto strangolato a mani nude in un padiglione della fiera Antiquitates di Trani. Trasferita in Puglia dalla Romagna, la vicequestore Gaia Innocenti indaga sul caso, che nasconde parecchi segreti. Per saperne di più: scheda libro.

FUMETTI, MANGA E GRAPHIC NOVEL:

  • OCCHI di Soshiki Tonari, illustrazioni di Junji Ito (J-Pop). In realtà non è propriamente un fumetto: si tratta più che altro di un albo, illustrato da un maestro del manga horror. Racconta la storia di un bambino, ossessionato dalle facce e dagli occhi che, piano piano, compaiono ovunque intorno a lui e lo guardano. Terrificante. Per saperne di più: scheda libro.

SAGGISTICA:

  • SUPERBLOOM di Nicholas Carr (Raffaello Cortina). Un saggio sui meccanismi che regolano i social network e gli strumenti di messaggistica, e di come queste piattaforme favoriscano il conflitto, la ristrettezza della comunicazione, l'aggressività, e di come la “superfioritura” di dati e informazioni rischia di distorcere la percezione della realtà. Per saperne di più: scheda libro.
  • LA STRAGE DI USTICA di Massimo De Angelis (Newton Compton). Cosa accadde a quel DC-9 Itavia, il 27 giugno 1980? A distanza di 45 anni, manca ancora un colpevole, e i depistaggi e le bugie si sono accumulate fino a coprire completamente la verità. Massimo De Angelis, quel giorno, si trovava proprio a Ustica e, dal suo punto di vista, racconta in questo libro tutti i fatti che è stato possibile accertare. Per saperne di più: scheda libro.
  • NICEA 325 di Andrea Cavallini (San Paolo). Di nuovo, un volume sul Concilio che 1700 anni fa ha stabilito i dogmi e i fondamenti teologici della dottrina cristiana. Per saperne di più: scheda libro.
  • Sempre da San Paolo: AMA CIÒ CHE FAI di Stefano Bartoli, Simona Milanese e Lara Ventisette. Un manuale di auto-aiuto psicologico, che indica come uscire dalle trappole che bloccano l'esistenza: l'inseguimento della produttività, del successo, dell'approvazione altrui, eccetera. Si può aumentare il proprio benessere, proprio trasformando quelle trappole psicologiche e le difficoltà della vita in opportunità di crescita, amando ciò che si fa e ciò che si è. Per saperne di più: scheda libro.

INFANZIA E RAGAZZI:

  • Per Librido Gallucci, ecco qualche titolo:
    • STICKER SPESSI – UNICORNI (scheda libro) e STICKER SPESSI – FATTORIA (scheda libro): due raccolte di stickers (attacca-stacca) grossi e spessi, facili da prendere, con 4 scenari dove poterli collocare. Illustrazioni e disegni di Lucile Ahrweiller. Per i lettori dai 3 anni.
    • IL CANTIERE RINNOVA IL QUARTIERE di Sherri Duskey Rinker e A.G. Ford (scheda libro): il quartiere era bello e accogliente, ma adesso le case abbandonate e la spazzatura accumulata creano disagi e degrado. Come si può fare per ritrovare la bellezza della zona? Ci vuole un progetto (e un gioco di squadra) per ripulire tutto: una storia in rima per raccontare a cosa servono e come funzionano i vari macchinari stradali e automezzi. Età di lettura: dai 3 anni.
    • LE MIE CREAZIONI – LANTERNE DI CARTA di Julie Mercier (scheda libro): un manuale completo di carta decorata (10 fogli) per creare ghirlande e lanterne luminose (sono incluse anche le luci led). Età di lettura: dagli 8 anni.


  • MANI IN PASTA CUORI FELICI di Valeria Bedeschi (Mimep-Docete). Una raccolta di attività creative (cucina, giardinaggio, bricolage) per passare qualche ora lontano dallo schermo di televisione, videogiochi e smartphone. Età di lettura non indicata: a mio parere, dai 7 anni.
  • Per la casa editrice Buk Buk, abbiamo due libri di Sara Benecino, della collana Provo anch'io (età di lettura: dai 7 anni):
    • IL PICCOLO MANUALE DELLE DIFFERENZE (scheda libro): un volume per apprezzare le differenze e le qualità che ci rendono unici.
    • IL PICCOLO MANUALE DEI MESTIERI (scheda libro): un “compendio” delle professioni e dei mestieri per scoprire cosa vogliamo fare da grandi.


  • LA VITA COMINCIA ALLE MEDIE – 2. IDRISSA di Alice Boutaud (La Nuova Frontiera Junior). La Banda dei Tonni è composta da 5 amici inseparabili. In questo secondo volume della serie, il protagonista (e voce narrante) è Idrissa: il classico “primo della classe”, intelligente, con gli occhiali e tutto il resto. Ultimamente, però, gli stanno accadendo cose un po' strane: i suoi genitori gli dicono che stanno per separarsi, e un gatto fantasma comincia a fargli visita... Il sostegno dei suoi amici della Banda dei Tonni è più che mai necessario! Età di lettura: dai 10 anni. Per saperne di più: scheda libro.

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Sigur Rós - Kveikur (2013)


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Dopo il non troppo brillante Valtari, album in certi momenti soporifero, i Sigur Ròs ritornano con una veste rinnovata e questa volta convincono. Kveikur, il settimo album in studio della band islandese attiva dal 1994, si muove su strade più dinamiche ed effervescenti, evidenziando subito la diversità dai lavori precedenti, infatti, Kveikur è forse l'album più avventuroso dei Sigur Rósl e può davvero essere visto come un nuovo inizio per la band... artesuono.blogspot.com/2014/10…


Ascolta: album.link/i/1447442983



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Sigur Rós - Kveikur (2013)


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Dopo il non troppo brillante Valtari, album in certi momenti soporifero, i Sigur Ròs ritornano con una veste rinnovata e questa volta convincono. Kveikur, il settimo album in studio della band islandese attiva dal 1994, si muove su strade più dinamiche ed effervescenti, evidenziando subito la diversità dai lavori precedenti, infatti, Kveikur è forse l'album più avventuroso dei Sigur Rósl e può davvero essere visto come un nuovo inizio per la band... artesuono.blogspot.com/2014/10…


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Chi cambierà la scuola? Coloro a cui non piace!


di khule wampe


Oggi vorrei parlare della storia del cosiddetto boicottaggio dell’esame di stato del secondo ciclo di istruzione e della conseguente repressione esplicita e implicita a cui abbiamo assistito a livello politico e mediatico. Per farlo, oltre al racconto della vicenda di attualità, aggiungerò due piccoli contributi: il mio esame di stato del 2005 e un film tedesco sceneggiato da Brecht nel 1932 (da cui deriva il nome di questo blog e il mio nickname).

Vent’anni fa, in Molise


Nel 2005 ero in quinta liceo scientifico e, un po’ come tuttə lə compagnə della mia classe, pensavo a come sarebbe andato l’esame di stato. Avevo in realtà tenuto una buona media dei voti nel triennio (tirata notevolmente su solo da due materie: matematica e fisica) e quindi avevo a disposizione il massimo dei crediti. Massimo che però, nel 2005, era di 20 punti. C’era molto da fare per arrivare a 60!

La prima prova, il tema di italiano, fu un colpo di fortuna: quando arrivo il foglio con le tracce ministeriali volevo spararmi, tra Dante e altri testi. Poi, per fortuna, l’ultima traccia sui 100 anni della teoria della relatività di Albert Einstein mi salvò la vita.

Feci quella. E così andò bene, 15 su 15. La seconda prova, come previsto, fu una passeggiata: 15 su 15 e aiutai pure tutta la mia 5D a combinare qualcosa (e aiutai anche la 5C…). La terza prova, quella più rognosa, anche andò abbastanza bene: sbagliai qualcosina e presi 13 su 15.

Insomma, alla fine degli scritti avevo già 62. Mi ricordo benissimo quando andai a Campobasso con alcunə della mia classe a vedere gli esiti degli scritti: ero inebriato dal fatto che fossi, praticamente, già diplomato! Quasi quasi…“e se non andassi all’orale?” Fu un pensiero che mi balenò in testa, lo ammetto. Non avevo proprio alcuna velleità di ottenere un voto alto, anche perché, onestamente, mi era davvero indifferente rispetto a ciò che avrei fatto qualche mese dopo (l’accesso al corso di laurea in astronomia a Bologna era libero e non esistevano test d’ingresso e TOLC, ma di questo ne parliamo un’altra volta).

Alla fine, ovviamente, era impossibile per me all’epoca trovare il coraggio di non andare all’orale. Quindi andai e me la cavai abbastanza bene.

Perciò in questi giorni del 2025, quando ho letto di due studentə che hanno deciso di fare, volontariamente, scena muta al loro esame di stato, ho cercato di immaginare dove avessero trovato il coraggio. Mi sembrava impossibile l’avessero fatto. Poi mi sono detto che forse l’avevano trovato il coraggio perché, dopo anni, non ne potevano più e volevano farlo sapere al mondo intero.

Con una protesta pacifica e plateale, con delle ragioni profondamente politiche dietro.

Diplomati e “mazziati”: cos’è successo in questi giorni a chi ha boicottato l’esame di stato


Anche Gianmaria Favaretto, a Padova, aveva 62 già prima dell’orale. E il giorno della sua prova orale ha preso coraggio e ha deciso non rispondere alle domande della commissione (alla fine però ci sarà un compromesso sullo svolgimento dell’esame e arriverà a 65/100). Ha portato la sua protesta in sede d’esame perché per lui «l’esame di maturità per me è una sciocchezza, non rispecchia la reale capacità dei ragazzi, figuriamoci la loro maturità». E inoltre: «in classe c’è molta competizione. Ho visto compagni diventare addirittura cattivi per un voto».

Maddalena Bianchi, a Belluno, ha portato una protesta simile il giorno del suo orale, poiché con i voti degli scritti era già promossa. All’orale ha detto che protestava per andare contro «i meccanismi di valutazione scolastici, l'eccessiva competitività, la mancanza di empatia del corpo docente».

Per prima cosa bisogna fare tanto di cappello a questə ragazzə: hanno avuto davvero un coraggio fuori dal comune. Del resto, per contrastare lo status quo di questi tempi serve fare qualcosa di straordinario.

E infatti la prova definitiva dell’importanza della loro protesta è arrivata a stretto giro con le dichiarazioni del ministro dell’istruzione Valditara: chi in futuro boicotterà l’esame, come hanno fatto Favaretto e Bianchi, verrà bocciato. Taaaac. Intervistato da Fanpage.it il ministro aggiunge una dichiarazione, a mio avviso, sconcertante. Alla domanda “Perché pensate a una misura così dura?” la risposta di Valditara è stata:

Dura? È una misura necessaria. Atteggiamenti che deliberatamente intendano boicottare gli esami sono offensivi verso il lavoro dei commissari, e sono offensivi nei confronti di quei compagni che hanno studiato e si sono impegnati. Sono anche offensivi verso la scuola, che è una cosa seria.


Repressione totale dal cuore del sistema


Quindi, anziché mettersi in ascolto delle istanze portate avanti da Favaretto e Bianchi, il governo decide di reprimere subito questa manifestazione coraggiosa, ma tutto sommato pacifica, di dissenso. Mi sarei aspettato un commento più sprezzante, à la mangino brioche di mariantonettiana memoria, ovvero qualcosa come “se a loro sta bene buttare via un potenziale 100 e lode, che facciano pure”.

Invece no. Repressione. E sapete perché? Perché la protesta ha colpito al cuore del sistema.

L’esame di stato è stata un’idea del primo governo fascista, nel 1923, con il ministro dell’istruzione Giovanni Gentile. Innanzitutto si chiamava esame di maturità e si trattava di un esame tostissimo (ne ho parlato in questo post su Instagram, dateci un’occhiata se volete approfondire). L’idea di fondo era quella di selezionare la classe dirigente. Gli stessi fascisti, pensate, qualche hanno dopo hanno dovuto un po’ ammorbidirlo, per dire, a causa dell’incredibile tasso di persone bocciate nei primi anni.

Questo retaggio fascista, decisamente ammorbidito e modificato, lo abbiamo ancora oggi. E l’idea che c’è dietro è ancora quello di selezionare, classificare. Idea che, peraltro, permea ogni secondo della vita scolastica con i suoi voti, le note disciplinari, le sospensioni, il voto in condotta. Favaretto e Bianchi hanno puntato il dito contro questo. Infatti loro due sono esempi di studenti che tutto sommato andavano bene a scuola, avevano buoni voti e hanno fatto anche buone prove scritte all’esame. Favaretto e Bianchi hanno usato il loro privilegio di persone già tecnicamente diplomate per parlare anche a nome dellə loro compagnə di scuola che invece hanno dovuto sostenere l’orale con tutti i crismi perché il diploma era ancora da guadagnare.

Favaretto e Bianchi hanno fatto notare, con la loro protesta, che a scuola germogliano i semi di ciò che poi, fuori nella società, è causa di disuguaglianze e problemi: competitività, meritocrazia, meccanismi valutativi per qualsiasi cosa per cui si ha la pretesa che sia “misurabile”. Dovrebbe farci riflettere davvero tanto il fatto che siano state due persone di 19 anni a far emergere con forza questi aspetti per cui noi adulti ormai ci abbiamo fatto il callo come se fosse inevitabile. Loro hanno detto, per un attimo, “basta” e hanno rinunciato alla consuetudine, a un momento che per tantissimə altrə studenti è stata una giornata di festa e gioia.

Solidarietà negativa a tutto campo


Ma se la reazione del governo è tutto sommato comprensibile, in quanto difensore supremo dell’autoritarismo insito nelle nostre istituzioni educative e non, un po’ meno comprensibile è stata la reazione di docenti e società “civile”. Alcune persone, bisogna dirlo, hanno solidarizzato con lə studenti e hanno chiesto al governo di ascoltare le ragioni di cui si sono fattə portavoce Favaretto e Bianchi; ma una grossa fetta di persone ha insistito su due aspetti su cui vorrei soffermarmi con voi: la solidarietà negativa e la necessità di adattarsi.

La solidarietà negativa è stata espressa da quelle persone che hanno detto: “va beh, ci siamo passatə tuttə, non vedo perché non ci debbano passare anche loro”. A me sembra assurdo sentire ragionamenti del genere. Semmai è il contrario: proprio perché io ho sofferto, allora non voglio che altre persone soffrano. Evidentemente sono io a pensare nel modo sbagliato.

La necessità di adattarsi invece è stato espressa da quelle persone che hanno detto: “Eh, ma poi voglio vederli questə quando vanno nel mondo del lavoro!”. Questo tipo di commento, secondo me, è ancora più feroce della solidarietà negativa perché ci si aspetta un’inevitabile gigantesca sofferenza futura per chi oggi è studente. E di chi è la colpa? Della scuola, ovviamente, perché non prepara al mondo che c’è la fuori.

E qui veniamo alla nota dolente: questa è anche la posizione di moltə docenti. E infatti per questo, così chiudiamo il cerchio, è il motivo per cui Favaretto e Bianchi hanno protestato. Infatti spesso, a scuola, moltə docenti si lamentano del fatto che lə studenti prendano male un voto negativo come 3 o 4. “Dovrebbero abituarsi alla vita fuori dalla scuola, è un modo per imparare a crescere!” il commento che ho sentito più spesso nelle aule insegnanti dalla bocca dellə miə colleghə. Ma questo è esattamente ciò che hanno detto Favaretto e Bianchi: la scuola allena alla competizione, insegna ad adattarsi tramite i meccanismi di valutazione in uso. È proprio questo il punto!

Una crepa nello status quo


Questo è il motivo per cui nessunə ha veramente prestato attenzione a queste proteste. Perché Favaretto e Bianchi hanno creato una crepa nello status quo. Ma lo status quo siamo noi: ripensare ai meccanismi di valutazione, al motivo per cui valutiamo e al come lo facciamo, allora dobbiamo ripensare anche alle nostre vite, al motivo per cui insegniamo a scuola, fare pura pratica di autocoscienza e guardare in faccia il mondo che ci circonda per immaginarne uno diverso. Fare questo, per tantissime persone, costa. Non è indolore. Vuol dire mettere in discussione una vita intera, tanti privilegi e soprattutto ridiscutere il futuro individuale che, giorno dopo giorno, ogni persona si sta costruendo solo ed esclusivamente per sé stessa. Anche lavorare in una scuola competitiva, che seleziona e reprime, pur sembrando un lavoro per la collettività, in realtà non fa altro che cristallizzare il mondo in cui determinate persone hanno determinati lavori, posizioni e privilegi.

In questo quadro di manutenzione dello status quo, chi non vuole scalfire la situazione generale pur sembrando mostrare un minimo di empatia animato dalle migliori intenzioni, in realtà svela il suo lato più repressivo.

È stato il caso di docenti-influencer molto famosi che pur riconoscendo le ragioni del boicottaggio dell’esame di stato, hanno avuto da ridire su come è stata fatta la protesta. E questo credo sia qualcosa di assurdo. Docenti che sui social hanno milioni di follower, anche mostrando una loro certa visione della scuola, hanno anche la pretesa di spiegare allə studenti come avrebbero dovuto protestare per avere un risultato “più efficace” (secondo loro…).

Oppure, addirittura, un docente molto seguito ha scritto un post per dire “che è facile protestare quando hai già 60”. Non ci sono parole. Non vi metto i link, li potete trovare su Instagram (per le prossime 24 ore anche nelle storie del mio profilo…).

Chi cambierà il mondo, allora?


Tutto questo mi ha ricordato un film che ho visto nel 2021 al festival del Cinema Ritrovato organizzato ogni anno dalla Cineteca di Bologna. Era una mattina di giugno e quell’anno non ero commissario dell’esame di stato perché non avevo avuto una classe quinta e, causa pandemia, tuttə lə commissariə erano interne. Una di quelle mattine di fine giugno quindi mi svegliai presto e decisi di andare a vedere un film tedesco che mi aveva incuriosito: Khule Wampe. Sembrava interessante per diversi motivi: era sceneggiato da Bertolt Brecht ed era stato realizzato nel 1932, pochi mesi prima dell’avvento del nazismo in Germania.

Nell’ultima scena, durante un viaggio in treno, si discute di economia internazionale e prezzi del caffé brasiliano. La discussione si accende perché ci sono persone di varie estrazioni sociali. Le persone, per capirci vista l’epoca, borghesi discutono delle strategie per avere un caffé a prezzo basso e addirittura una persona arriva a pensare che la soluzione è colonizzare il Brasile! Un ragazzo, per capirci, proletario, che viaggiava con un gruppo di amici proletari, si lamenta perché il borghese dice sempre “noi” mentre a lui sembra che ci sia una evidente disuguglianza nello stato delle cose. Il dibattito si accende, vola qualche offesa. Quando gli animi si placano, si vedono altre persone provare a discutere del prezzo del caffé ma emerge la rassegnazione perché, dice un viaggiatore a un suo compagno di viaggio sul treno “non saremo noi due a cambiare il mondo”.

Allora il ragazzo proletario di prima precisa che sul treno nessuno di loro cambierà il mondo, soprattutto il personaggio borghese con cui aveva litigato perché al borghese “piace il mondo così com’è”. A questo punto il borghese chiede al gruppo di proletari: “E allora chi cambierà il mondo?”. E qui, una ragazza proletaria risponde decisa: “Lo cambieranno coloro a cui questo mondo ora non piace!”.

Smascheriamo lo status quo e pensiamo alle alleanze


Questa scena scritta da Brecht riesce a colpire diritto al cuore della faccenda. C’è chi difende lo status quo perché gode di privilegi e benefici e chi invece subisce l’oppressione dello stato delle cose e tenta di cambiare il mondo. Naturalmente, chi cambierà il mondo lo farà in un modo che non piacerà a chi difende lo status quo.

Questo è un dato di fatto: a cambiare la scuola non saranno i ministri e, purtroppo, non saremo neanche noi prof. A cambiare la scuola saranno coloro a cui non piace veramente, coloro che sognano una scuola diversa. Coloro che, per svariati motivi, la scuola vuole tenere fuori, emargina, declassa. Solo loro potranno cambiare le cose.

Forse siamo molto lontanə anche solo dall’immaginare un mondo diverso, migliore. Ma la protesta di Favaretto e Bianchi è stata davvero efficace perché loro due hanno usato il loro di privilegio di persone non emarginate dal sistema scolastico e lo hanno messo al servizio di una discussione più ampia, con coraggio. La loro protesta ha infatti, non a caso, immediatamente messo in crisi lo status quo e ha richiesto un intervento immediato e totalmente repressivo dell’autorità. Questo per capire quanto fosse precisa e giusta la loro modalità di protesta, malgrado ciò che dicono boomer e professori boomer in giro sui social network.

In fondo, le proteste di Favaretto e Bianchi hanno fatto la cosa più importante di tutte: hanno smascherato lo status quo, hanno costretto chi si stringe attorno ai propri privilegi a uscire allo scoperto.

Quindi in realtà ciò che è accaduto è stato un modo utile per far scoprire ancora di più le carte a coloro il cui mondo piace così com’è. Grazie a proteste di questo tipo è più facile capire quali sono le persone che difendono lo status quo per i loro interessi e quali sono le persone con cui invece lavorare insieme per tentare di costruire le alleanze che porteranno alla creazione di nuove prassi da usare nel mondo che cambieremo. La protesta di Favaretto e Bianchi ha dimostrato che c’è una crepa, una faglia, in cui possiamo immergerci per iniziare a immaginare un mondo nuovo e che ci sono tante persone che hanno voglia di attraversare insieme questo spazio.


log.livellosegreto.it/khulewam…




QOELET - Capitolo 2


Vanità dei piaceri, delle ricchezze e del lavoro1Io dicevo fra me: “Vieni, dunque, voglio metterti alla prova con la gioia. Gusta il piacere!”. Ma ecco, anche questo è vanità.2Del riso ho detto: “Follia!” e della gioia: “A che giova?”.3Ho voluto fare un'esperienza: allietare il mio corpo con il vino e così afferrare la follia, pur dedicandomi con la mente alla sapienza. Volevo scoprire se c'è qualche bene per gli uomini che essi possano realizzare sotto il cielo durante i pochi giorni della loro vita. 4Ho intrapreso grandi opere, mi sono fabbricato case, mi sono piantato vigneti. 5Mi sono fatto parchi e giardini e vi ho piantato alberi da frutto d'ogni specie; 6mi sono fatto vasche per irrigare con l'acqua quelle piantagioni in crescita. 7Ho acquistato schiavi e schiave e altri ne ho avuti nati in casa; ho posseduto anche armenti e greggi in gran numero, più di tutti i miei predecessori a Gerusalemme. 8Ho accumulato per me anche argento e oro, ricchezze di re e di province. Mi sono procurato cantori e cantatrici, insieme con molte donne, delizie degli uomini. 9Sono divenuto più ricco e più potente di tutti i miei predecessori a Gerusalemme, pur conservando la mia sapienza. 10Non ho negato ai miei occhi nulla di ciò che bramavano, né ho rifiutato alcuna soddisfazione al mio cuore, che godeva d'ogni mia fatica: questa è stata la parte che ho ricavato da tutte le mie fatiche. 11Ho considerato tutte le opere fatte dalle mie mani e tutta la fatica che avevo affrontato per realizzarle. Ed ecco: tutto è vanità e un correre dietro al vento. Non c'è alcun guadagno sotto il sole.

C’è una stessa sorte per tutti12Ho considerato che cos'è la sapienza, la stoltezza e la follia: “Che cosa farà il successore del re? Quello che hanno fatto prima di lui”. 13Mi sono accorto che il vantaggio della sapienza sulla stoltezza è come il vantaggio della luce sulle tenebre:14il saggio ha gli occhi in fronte, ma lo stolto cammina nel buio. Eppure io so che un'unica sorte è riservata a tutti e due. 15Allora ho pensato: “Anche a me toccherà la sorte dello stolto! Perché allora ho cercato d'essere saggio? Dov'è il vantaggio?”. E ho concluso che anche questo è vanità. 16Infatti, né del saggio né dello stolto resterà un ricordo duraturo e nei giorni futuri tutto sarà dimenticato. Allo stesso modo muoiono il saggio e lo stolto.

Perché faticare, per poi lasciare tutto a un altro?17Allora presi in odio la vita, perché mi era insopportabile quello che si fa sotto il sole. Tutto infatti è vanità e un correre dietro al vento. 18Ho preso in odio ogni lavoro che con fatica ho compiuto sotto il sole, perché dovrò lasciarlo al mio successore. 19E chi sa se questi sarà saggio o stolto? Eppure potrà disporre di tutto il mio lavoro, in cui ho speso fatiche e intelligenza sotto il sole. Anche questo è vanità! 20Sono giunto al punto di disperare in cuor mio per tutta la fatica che avevo sostenuto sotto il sole, 21perché chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare la sua parte a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e un grande male.22Infatti, quale profitto viene all'uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole? 23Tutti i suoi giorni non sono che dolori e fastidi penosi; neppure di notte il suo cuore riposa. Anche questo è vanità! 24Non c'è di meglio per l'uomo che mangiare e bere e godersi il frutto delle sue fatiche; mi sono accorto che anche questo viene dalle mani di Dio. 25Difatti, chi può mangiare o godere senza di lui? 26Egli concede a chi gli è gradito sapienza, scienza e gioia, mentre a chi fallisce dà la pena di raccogliere e di ammassare, per darlo poi a colui che è gradito a Dio. Ma anche questo è vanità e un correre dietro al vento!

_________________Note

2,24 mangiare e bere: tra le modeste gioie della vita, la più frequentemente ricordata è la gioia della tavola, intesa come benedizione predisposta dal Signore per l’uomo (3,12-13).

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Approfondimenti


vv. 1-3. Il vino (2,3) è il simbolo di tutto ciò che rallegra la vita dell'uomo (Sal 104,15), dell'allegria stessa, del piacere. E anche l'esperienza del piacere è presentata nell'eccesso, laddove si rivela il suo limite, la sua incapacità a soddisfare le attese che aveva suscitato. Pure questa apparente perversione è posta sotto il segno della sapienza, dal momento che mira a scoprire che cosa sia il bene per l'uomo. E una ricerca spinta fino all'eccesso della perversione è giustificata dall'incombere della morte, che la rende urgente, urgente di un'urgenza cronologica (i giorni della vita sono pochi; cfr. Sal 90, 10) e di un'urgenza filosofica, esistenziale (la fragilità dei figli di Adamo, sempre sul punto di ritornare a quella terra ’adamah, da cui sono stati tratti).

vv. 4-8. Qoelet enumera i frutti del suo agire. Tra i beni immobili bisogna notare i «parchi»: il termine ebraico è pardēsîm, una parola presa in prestito dal persiano (da cui il nostro “paradiso”); il primo a creare dei parchi fu Tiglat-Pilezer I, re d'Assiria (XII-XI sec. a.C.), che vi radunava animali esotici in una vegetazione lussureggiante, come simbolo del suo dominio universale; con i Persiani il “paradiso” diventa parte dell'immagine regale, tanto che i satrapi vollero avere ciascuno il suo parco, per essere simili al gran re (e quest'idea vale probabilmente anche in Qo 2,5).

v. 9. Osserviamo che la sapienza, che in 1,16 era l'oggetto accumulato, dopo l'enumerazione di tutti gli oggetti che il cuore umano può concupire, diventa il soggetto di un'avversativa: «eppure mi era rimasta la mia sapienza». Quasi a dire che, se da un lato solo l'eccesso permette al sapiente di discernere chiaramente l'assurdità, dall'altro è molto difficile conservare la sapienza attraversando gli eccessi.

v. 10. L'assenza di limite al desiderio, punto focale del pezzo in esame, risulta evidente dalla doppia negazione dei verbi indicanti rifiuto. La motivazione che si dà di questo non-rifiuto riflette non un edonismo decadente, ma un vero atteggiamento sapienziale (il “godere” di 2,10 è in parallelo con il “conservare la sapienza” di 2,9). Abbandonato il piano esteriore, ci si muove solo più su quello interiore: l'allegria è vista come un'attitudine interiore durevole (il verbo è un participio), dunque: «il mio cuore si rallegrava sempre», «il mio cuore sapeva rallegrarsi».

v. 11. I vv. 9-10 sono un riassunto dell'enumerazione e dell'accumulazione di beni di 2,4-8 ed esprimono la sintesi massima del desiderabile: avere tutto quel che poté avere un Salomone, ma senza perdere la testa (v. 9; c'è forse qui una punta d'ironia nei confronti del grande sovrano che si era lasciato traviare dalle sue donne, cfr. 1Re 11,1-13); avere tutto quel che si può desiderare, oggetti e stati d'animo, essere ricchi e saperne godere (v. 10). Eppure Qoelet si volta a guardare ciò che ha realizzato, la ricchezza per cui ha faticato (v. 11), e il suo sguardo diventa un giudizio quanto mai negativo e disilluso (v. 11: assurdità totale, tormento inutile). Tale giudizio è per ora immotivato, ma è solo l'anticipazione di quanto verrà esposto nelle pericopi seguenti.

vv. 12-16. In 2,11 veniva anticipato un giudizio di generale assurdità e assenza di vantaggio. In 2,12 viene introdotto un elemento nuovo: la successione, che implica la morte. Contro la morte si scontrano tutte le realtà comparse nei versi precedenti, e la morte ne manifesta il non-senso. In 2,13 si trova una tesi contraddittoria rispetto al giudizio di 2,11 («pare che un vantaggio ci sia...»), appoggiata dalla tradizione con il proverbio di 2,14; ma lo stesso v. 14 aggiunge subito un dato d'esperienza che smentisce radicalmente la tesi tradizionale: non c'è vantaggio del saggio sullo stolto, perché tutti muoiono. Il centro del chiasmo è davvero il perno intorno al quale ruota l'intero discorso: la scoperta della morte – una scoperta non astratta ma esistenziale, coinvolgente – appiattisce la differenza tra saggezza e idiozia, e pertanto rende assurdo lo sforzo del saggio. Nei versetti che seguono viene sviluppata proprio quest'ultima idea, dapprima in chiave di coinvolgimento personale (v. 15), il che acuisce la coscienza dell'assurdità; viene poi la prospettiva dell'oblio: se il ricordo poteva sembrare una scappatoia dalla fine di tutto, in realtà non lo è; e se non ci sono scappatoie, non resta che il grido, il lamento (v. 16).

vv. 17-23. La parte 2,17-23 è ritmata in senso longitudinale dal ritornello della «vanità», dell'assurdità, alternando forma ampliata (17 e 21) e forma breve (19 e 23); tuttavia la struttura della parte, se si tralasciano i ritornelli, è concentrica. Se in 2,3 ci si impegnava a indagare che cosa fosse “bene” per l'uomo fare nei pochi giorni della sua vita, in 2,17 ecco la risposta (in ordine inverso): la vita è odiosa. perché è “male” tutto ciò che si fa sotto il sole. Il v. 17 chiude la pericope precedente e apre al tempo stesso quella seguente. Il vero problema non è l'eredità, né per chi lascia, né per chi riceve, stolto o saggio che sia; il dramma è dover morire, e l'eredità ne è solo un corollario. La radice che più ricorre in questa pericope è ‘ml (dieci volte in cinque versetti), ovvero la fatica e il suo frutto. Abbiamo, inoltre, già notato il martellare del ritornello «anche questo è vanità». Possiamo allora concludere che il motivo del lascito e dell'erede non è il tema della pericope, ma soltanto un modo di esprimere il non-senso della fatica umana davanti alla morte. Osserviamo infine che, se in filigrana c'è ancora l'immagine di Salomone, non è difficile pensare che questo erede sia simbolicamente il figlio Roboamo, definito dal Siracide «pieno di stoltezza e vuoto di senno» (Sir 47,23, tr. Vaccari dal testo ebraico).

vv. 24-26. In 2,26 (non consideriamo ora il giudizio conclusivo) si combinano uno schema parallelo – evidenziato dai due “dare” di Dio – e uno schema chiastico, agli estremi del quale si trova «colui che è gradito a Dio», mentre in centro compare il «peccatore» (che letteralmente vuol dire «fallito»). Non è senza significato questo gioco tra lo schema parallelo e quello chiastico: infatti, sotto il velo di una sentenza tradizionale riguardo alla retribuzione temporale (schema parallelo), si rivela un'intuizione angosciata: il «peccatore-fallito» (centro del chiasmo) è Qoelet stesso. Ricordiamo come in 2,20-21 Qoelet era disperato a motivo di tutto ciò per cui aveva faticato nella sua vita, perché avrebbe dovuto darlo a un altro che non vi aveva faticato per nulla. Eppure il motivo della disperazione non erano i beni. La sua fatica si era qualificata per sapienza, competenza e perizia (cfr. 2,21), proprio quelle qualità che sembrano essere dono di Dio a chi gli è gradito (cfr. 2,26b: al posto della perizia c'è la gioia), e invece il dover faticare per poi dare tutto a un altro, lo identifica con il peccatore, o meglio, il “fallito”. La sentenza tradizionale non sarà forse verificata dalla realtà dei fatti, tuttavia ha focalizzato e portato a coscienza esplicita un'intuizione dura e grave. La conclusione è un giudizio di vanità, una solenne affermazione dell'assurdità tanto della condizione umana, quanto di una sapienza tradizionale che pretende di dirne la verità.

Interpretazione globale della sequenza 1,12-2,26Qoelet vuole riflettere con sapienza su ciò che si fa sotto il sole; questo lavoro che Dio ha dato agli uomini perché vi lavorino è male (1,12-13).

Qoelet riflette innanzitutto sugli atteggiamenti che gli servono da strumenti conoscitivi: la sapienza che aumenta si rivela un tormento crescente (1,16-18), l'alternativa (allegria, riso, idiozia; 2, 1-3), per quanto volta alla ricerca del bene per l'uomo, e di un bene da “fare”, si rivela assurda.

Qoelet esplora dunque tutte le potenzialità del fare umano, espresse al massimo grado per concluderne l'assurdità e il tormento (2, 4-11).

Egli esamina ancora i diversi atteggiamenti che forse possono dare senso alla produzione dei beni, ma constata che la differenza significativa tra saggezza e idiozia è eliminata dalla morte (2,12-16). Ne conclude che l'agire umano, il fare che si fa sotto il sole, è male per lui, poiché tutto è assurdo e un tormento inutile (2,17).

Qoelet riprende a riflettere sui beni che aveva prodotto e sul fatto che, morendo, dovrà lasciarli a un successore che non li merita (2,18-21), il che è assurdo (2,19.21), come assurda è la condizione umana nel suo insieme (2,22-23).

Il lavoro umano, che in 1,13 era «male» (ra‘), qui è «afflizione» (ka‘as). E se in 2,1.3 si cercava un bene per l'uomo negli atteggiamenti umani di maggiore o minore saggezza, ora si afferma che non c'è altro bene per l'uomo se non nella fruizione immediata delle cose (2,24).

Ma neppure questo bene, per quanto minimo, è a disposizione dell'uomo, dal momento che sembra dipendere da Dio, e Dio sembra assegnarlo a chi è “buono davanti a lui”. L'uomo dovrebbe dunque cercare di essere “buono davanti a Dio” per avere il “bene”? Ma cosa significa essere “buoni davanti a Dio”? Di fatto l'esperienza mostra che le categorie teologiche sono insufficienti a rendere ragione della realtà, poiché lo stesso individuo è per un verso “buono davanti a Dio” e per l'altro “peccatore”. Perciò anche quest'ultimo ragionamento è un'assurdità e un tormento inutile.

(cf. PAOLO PAPONE, Qoelet – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Flusso di realtà


#economia #bioeconomia #società #decrescita #sostenibilità #mondonuovo

Ogni nostra azione è immersa in un flusso di connessioni. Se riciclo oppure getto la carta del gelato per terra o compro cibo biologico invece che al supermercato, tutto questo influisce su di me e sul pianeta intero.

Come?

Tutte queste scelte determinano il modo in cui io partecipo alla continua creazione del mondo in cui vivo, e in cui vivranno i miei figli. La carta seguirà un percorso diverso, la qualità dell’acqua che berremo e dell’aria che respiriamo sarà diversa.

Questo alcuni non l’hanno ancora compreso, molti altri si.

La domanda che potremmo ora porci è: quanto la mia scelta influisce sulla salute mia e dell’ambiente in cui vivo? Cosa, realisticamente, comporterà la mia scelta? A questo nessuno, o pochissimi, sa dare una risposta.

Come potremmo scoprirlo? E’ necessaria un’analisi sistemica dell’astronave Terra, una mappa dei percorsi naturali ed artificiali del flusso di connessioni al quale ognuno di noi partecipa. E’ importante perché il mondo possa finalmente agire con chiara consapevolezza*.


* [add 2025] Questi concetti sono approfonditi dalla “nuova” scienza della bioeconomia. Qui il lavoro seminale di N. Georgescu Roegen Bioeconomia Verso un'altra economia ecologicamente e socialmente sostenibile con introduzione di Mauro Bonaiuti, fondatore dell'Associazione Nicholas Georgescu-Roegen.


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✍️...Riflessioni ✨

Negli anni ho notato, ho percepito la necessità, il prevalere dell'idea di dover comunque apparire, più che essere realmente se stessi! Apparire sempre perfetti, in una forma fisica da invidiare, ed io per esempio soprattutto negli ultimi mesi, non so dove sia finita la mia di forma, ci ho rinunciato, ma è un altro discorso! Quindi essere sempre sistemate, uscire magari truccata, non è il mio caso, imparando a curare e magari a nascondere difetti e debolezze, ed io ne ho tanti e adesso che ne ho una anch'io di cicatrice, dovrei nasconderla e magari sentirmi imbarazzata e diversa! Si forse agli inizi, ma adesso quando vedo la mia bella cicatrice, sorrido e ne vado fiera, perché mi ricorda quello che ho affrontato e chi sono diventata adesso, diventando il mio punto di forza! Così l'essere imperfetta e diversa non appaga, non attrae, bensì isola e allontana, così ogni tanto sia volontariamente, che non, mi ritrovo a dovermi scontrare con una realtà, che non capisco e che mi vede totalmente al di fuori della normalità e tagliata dalla quotidianità, per idee, per pensieri, atteggiamenti, interessi, passioni, limiti, debolezze e adesso un po' anche perché sono ufficialmente una malata oncologica, in teoria diversa, più fragile, si, forse! Ma alla fine sono semplicemente una nuova versione di me, che vive, mangia, scrive, si dispera, gioisce a volte piange, altre ride e si diverte come tutti, come prima, come una persona “normale” e sana, che dipinge per pura passione, che non naviga nell'oro, ma vive con dignità e a volte con piccoli sacrifici!

Ma poi mi rendo conto che l'essere perfetta, non mi appartiene, perché il mio scopo nella vita non lo e, ma essere libera, vera, insomma me stessa, nel bene, nel male, ovunque, in compagnia, in solitudine, senza dovermi preoccupare di compiacere o di apparire chi non sono! Così , negli anni e soprattutto negli ultimi mesi, mi sono resa conto che la verità a volte stanca, non viene apprezzata, anzi allontana, che il parlare e confrontarsi sulla malattia, a lungo andare può stancare e rendere un rapporto inutile da portare avanti e ridotto ad un bollettino medico!(E già mi sono sentita dire questo e apprezzo la sincerità, ma chissà quanti mi hanno messa all'angolo per questo motivo! Nonostante non sia una che ne ha parlato troppo, ma probabilmente quel po', ha infastidito e reso sterile, anche il semplice saluto.) E si ..perché a volte ero triste, confusa, fragile e con la necessità di avere qualcuno con cui parlare, scrivere, ricevere anche solo un saluto o una parola di incoraggiamento. La verità è che ogni giorno in cui mi alzo, attendo l'alba, anche se ho dormito poco e male, anche se mi sento persa, confusa e stanca, è proprio allora che divento più forte e consapevole, più propensa ad andare avanti con determinazione e coraggio.

Non posso aspettare di essere pronta, guarita, di nuovo in forma, per andare avanti, so che la serenità, una cosa bella, una parola, una visita, un abbraccio, arrivano proprio quando meno te lo aspetti, in silenzio e senza preavviso. La felicità, ma io la definisco più semplicemente, la serenità, arriva, prima o poi, dopo un momento difficile, di smarrimento, perché nonostante tutto si decide di lottare, andare avanti e di camminare anche su strade sconosciute, buie e impervie, per arrivare a completare quel puzzle, di cui adesso ancora manca qualche pezzo.

Ecco perché il mio voler bene alla luna, il mio trovare conforto e pace, in un tramonto, un' alba, un volo, dare importanza e priorità ai piccoli gesti, ogni giorno. una semplice parola detta sottovoce, un sorriso, anche un silenzio, una canzone...tenere fede ad una promessa fatta, o un obiettivo da raggiungere! Non posso sperare di cambiare, ma essere migliore si, continuare ad essere umile, accettandomi così come sono, ogni giorno sempre più forte e sicura e pronta sempre, a ricominciare!


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Ma poi mi rendo conto che l'essere perfetta, non mi appartiene, perché il mio scopo nella vita non lo e, ma essere libera, vera, insomma me stessa, nel bene, nel male, ovunque, in compagnia, in solitudine, senza dovermi preoccupare di compiacere o di apparire chi non sono! Così , negli anni e soprattutto negli ultimi mesi, mi sono resa conto che la verità a volte stanca, non viene apprezzata, anzi allontana, che il parlare e confrontarsi sulla malattia, a lungo andare può stancare e rendere un rapporto inutile da portare avanti e ridotto ad un bollettino medico!(E già mi sono sentita dire questo e apprezzo la sincerità, ma chissà quanti mi hanno messa all'angolo per questo motivo! Nonostante non sia una che ne ha parlato troppo, ma probabilmente quel po', ha infastidito e reso sterile, anche il semplice saluto.) E si ..perché a volte ero triste, confusa, fragile e con la necessità di avere qualcuno con cui parlare, scrivere, ricevere anche solo un saluto o una parola di incoraggiamento. La verità è che ogni giorno in cui mi alzo, attendo l'alba, anche se ho dormito poco e male, anche se mi sento persa, confusa e stanca, è proprio allora che divento più forte e consapevole, più propensa ad andare avanti con determinazione e coraggio.

Non posso aspettare di essere pronta, guarita, di nuovo in forma, per andare avanti, so che la serenità, una cosa bella, una parola, una visita, un abbraccio, arrivano proprio quando meno te lo aspetti, in silenzio e senza preavviso. La felicità, ma io la definisco più semplicemente, la serenità, arriva, prima o poi, dopo un momento difficile, di smarrimento, perché nonostante tutto si decide di lottare, andare avanti e di camminare anche su strade sconosciute, buie e impervie, per arrivare a completare quel puzzle, di cui adesso ancora manca qualche pezzo.

Ecco perché il mio voler bene alla luna, il mio trovare conforto e pace, in un tramonto, un' alba, un volo, dare importanza e priorità ai piccoli gesti, ogni giorno. una semplice parola detta sottovoce, un sorriso, anche un silenzio, una canzone...tenere fede ad una promessa fatta, o un obiettivo da raggiungere! Non posso sperare di cambiare, ma essere migliore si, continuare ad essere umile, accettandomi così come sono, ogni giorno sempre più forte e sicura e pronta sempre, a ricominciare!

@Marti75@snowfan.masto.host




[escursioni]portatile ma con il ricavato [creano un tunnel sicuro tra due dispositivi dice] della spiegazione o esplora] cumuli santelle-area market le Ande fanno da sfondo poi] le Alpi le fanno in cartongesso i fiumi fuori] scala


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