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Sidi Touré – Toubalbero (2018)


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La musica è una delle principali risorse culturali del Mali. Risalendo a imperi tanto antichi come quello Mandingo, esiste una tradizione ricchissima di canti di lode. Queste canzoni di lode malinké o mandinghe sono dominio esclusivo dei griot (chiamati djeliw), musicisti ereditari, che sono allo stesso tempo genealologi e storici. Questa musica dei griot è sempre viva e cantata. Ma la musica maliana è molto più variegata e nuovi stili sono apparsi. Per esempio, c’è la musica bambara che è più ritmica, il mali blues di Kar Kar, il blues songhai di Ali Farka Touré, Afel Bocoum e Sidi Touré, appunto... silvanobottaro.it/archives/236…


Ascolta: album.link/i/1322730583



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Sidi Touré – Toubalbero (2018)


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La musica è una delle principali risorse culturali del Mali. Risalendo a imperi tanto antichi come quello Mandingo, esiste una tradizione ricchissima di canti di lode. Queste canzoni di lode malinké o mandinghe sono dominio esclusivo dei griot (chiamati djeliw), musicisti ereditari, che sono allo stesso tempo genealologi e storici. Questa musica dei griot è sempre viva e cantata. Ma la musica maliana è molto più variegata e nuovi stili sono apparsi. Per esempio, c’è la musica bambara che è più ritmica, il mali blues di Kar Kar, il blues songhai di Ali Farka Touré, Afel Bocoum e Sidi Touré, appunto... silvanobottaro.it/archives/236…


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Sidi Touré – Toubalbero (2018)


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La musica è una delle principali risorse culturali del Mali. Risalendo a imperi tanto antichi come quello Mandingo, esiste una tradizione ricchissima di canti di lode. Queste canzoni di lode malinké o mandinghe sono dominio esclusivo dei griot (chiamati djeliw), musicisti ereditari, che sono allo stesso tempo genealologi e storici. Questa musica dei griot è sempre viva e cantata. Ma la musica maliana è molto più variegata e nuovi stili sono apparsi. Per esempio, c’è la musica bambara che è più ritmica, il mali blues di Kar Kar, il blues songhai di Ali Farka Touré, Afel Bocoum e Sidi Touré, appunto... silvanobottaro.it/archives/236…


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cogliere una piccola morte

nello strappo di radice

dove altra ne nasce

dal suo grido

cogliere l'inesprimibile

di questo morire

che s'ingemma d'eterno

. Questo componimento è un viaggio interiore che abbraccia la dualità della vita e della morte. La “piccola morte” non è intesa come un atto finale, ma piuttosto come un passaggio, un momento in cui si assiste allo sgomento e alla simultanea germinazione di qualcosa di nuovo. L'immagine dello “strappo di radice” evoca il gesto profondo e quasi rituale di separarsi da un vecchio stato per fare spazio a una rinascita—un grido che annuncia il ciclo eterno di distruzione e creazione.

L’idea di “cogliere l’inesprimibile” ci sfida a dare forma alle emozioni e alle trasformazioni impossibili da spiegare con parole fatte. Qui il morire si intreccia con l'eterno, creando un legame in cui ogni frammento di fine diventa parte integrante di un disegno più grande, un eterno abbraccio tra il passato e il futuro. È un invito a riconoscere che anche nei momenti di crisi o di perdita, si cela la possibilità di una nuova vita, di una parte di noi che si rinnova.


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La chiamavamo Sprecavitelli



Non so, effetto Mandela o allucinazione collettiva in famiglia? Fatto sta che credevamo quella forra fosse in località Sprecavitelli. Non sapevamo neanche fosse una forra, per noi era un generico burrone. La vera Sprecavitelli è una località nei pressi del Lago Matese, mentre il ponte di Arcichiaro, questo il vero nome, svetta sul torrente Quirino, che siamo sicuri di non aver mai visto. Per gestire queste acque, successivamente, è stata costruita una diga, di cui non so granché, a parte il fatto che sembra i lavori siano iniziati a fine anni Novanta e completati all'italiana, solo parzialmente, almeno fino al 2023.

Allego un paio di foto d'epoca, della mia epoca, così ci togliamo il pensiero e potete smettere di leggere. Scattate con la mia solita reflex delle vacanze, classicamente 36 esposizioni da far durare dalle due alle quattro settimane.

Imbocco di una brevissima galleria, visibile a destra un tratto di strada e a sinistra l'esterno della stessa che si sporge sul vuoto ed è caratterizzata da alcune piante che crescono sulla nuda roccia.

Protagonista della foto, la brevissima galleria che introduce al ponte, sulla SP 331, Strada Provinciale del Matese, in territorio già molisano, nello specifico territorio di Guardiaregia. Proprio Guardiaregia era, probabilmente, la meta di queste nostre escursioni in Molise, una regione vicina ma che non ci siamo mai presi la briga di esplorare, se non per visita a Venafro, Isernia, Bojano e Castelpetroso.

Sporgendoci dal lato roccioso, l'impatto era impressionante, abituati come eravamo a panorami ben più cittadini: una profonda fenditura tra le rocce, un dislivello tale da dare le vertigini e esercitare quella morbosa attrazione per il vuoto, non penso sia solo una questione mia. Credo sia un panorama interessante e pericoloso anche per gente più avvezza a montagne più imponenti.

Profonda forra caratterizzata da una vegetazione alquanto scarsa, in una vecchia foto

Ebbene, per molto tempo ho cercato quella galleria su Maps, per ripercorrere almeno immaginariamente quella strada sospesa su un piccolo, relativo nulla, per rivivere quei momenti ancora una volta, perché non sarà giusto abbandonarsi ai ricordi, ma capita che i ricordi siano l'unico sprone a continuare. Non sono mai riuscito a risalire al punto, intenzionalmente: in molti casi, quando si cerca una cosa e non la si trova, si sta cercando nel posto sbagliato; era uno di quei casi, e da un caso è arrivata la soluzione.

Ho una bicicletta e sogno di usarla per viaggiare, al momento è assolutamente impossibile. Dovessi vivere abbastanza a lungo, perché non si sa mai, nella migliore delle ipotesi ne avrò la possibilità quando non avrò più forza per pedalare e permettermi certe distanze. Non che oggi percorra chissà quanti chilometri, ma ho diversi limiti a cui attenermi, la libertà può essere costretta da troppe pareti.

Stavo fantasticando sul percorso da fare per pedalare fino a San Gregorio Matese: tragitto fattibilissimo, in un giorno, da una persona allenata e io non sono quella persona, quindi dovrei spezzare in due. Il problema è la salita finale, circa 11 km con una pendenza media del 5,5% circa, potrei farcela ma c'è un “ma”.Più di uno, in realtà: la salita è alla fine del percorso, quindi ci arriverei già stanco, la soluzione potrebbe essere quella di sopra, ovvero fare due tappe. Il “ma” grosso, diciamo il MA, sta nell'irregolarità della pendenza e l'ostacolo insormontabile sarebbe uno strappo di circa 400 metri al 14% medio e punte del 18%, a cui seguirebbero altri strappetti analogamente ripidi ma brevi. Non avrei la condizione fisica per quello strappo, dovrei scendere e spingere su una strada stretta.

Come le so queste cose, dov'è che vado a fantasticare? Su Komoot, per esempio: è l'universo immaginario delle cose che mi piacerebbe fare e non farò mai. E sto fantasticando di tornare a Piedimonte, Castello, passare San Gregorio e raggiungere il lago, ormai ho perso la speranza di individuare la finta Sprecavitelli. Complice una zoomata non richiesta (ancora il caso), la mappa si rimpicciolisce e mi appaiono le altre icone dei punti di interesse, una delle quali con la dicitura “Ponte del Diavolo (Arcichiaro)”: di ponti del diavolo ne è pieno il mondo, ma fammici guardare... ed eccolo lì, il posto non può essere che questo. La vegetazione è più folta che nella mia testa e in quelle due foto, scopro che sotto c'è una diga, parte della montagna è stata grattata per ricavarne materiale da costruzione, i guardrail sono rinforzati nello scopo da griglie di contenimento. Cambiamenti estetici, l'essenza del ricordo è immutata.


log.livellosegreto.it/oreliete…



QOELET - Capitolo 3


Per tutte le cose c’è un tempo fissato da Dio1Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo.2C'è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare quel che si è piantato.3Un tempo per uccidere e un tempo per curare, un tempo per demolire e un tempo per costruire.4Un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per fare lutto e un tempo per danzare.5Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.6Un tempo per cercare e un tempo per perdere, un tempo per conservare e un tempo per buttar via.7Un tempo per strappare e un tempo per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare.8Un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace.9Che guadagno ha chi si dà da fare con fatica?10Ho considerato l'occupazione che Dio ha dato agli uomini perché vi si affatichino. 11Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo; inoltre ha posto nel loro cuore la durata dei tempi, senza però che gli uomini possano trovare la ragione di ciò che Dio compie dal principio alla fine. 12Ho capito che per essi non c'è nulla di meglio che godere e procurarsi felicità durante la loro vita; 13e che un uomo mangi, beva e goda del suo lavoro, anche questo è dono di Dio. 14Riconosco che qualsiasi cosa Dio fa, dura per sempre; non c'è nulla da aggiungere, nulla da togliere. Dio agisce così perché lo si tema. 15Quello che accade, già è stato; quello che sarà, già è avvenuto. Solo Dio può cercare ciò che ormai è scomparso.

Uomini e animali di fronte alla morte16Ma ho anche notato che sotto il sole al posto del diritto c'è l'iniquità e al posto della giustizia c'è l'iniquità. 17Ho pensato dentro di me: “Il giusto e il malvagio Dio li giudicherà, perché c'è un tempo per ogni cosa e per ogni azione”.18Poi, riguardo ai figli dell'uomo, mi sono detto che Dio vuole metterli alla prova e mostrare che essi di per sé sono bestie. 19Infatti la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa: come muoiono queste, così muoiono quelli; c'è un solo soffio vitale per tutti. L'uomo non ha alcun vantaggio sulle bestie, perché tutto è vanità. 20Tutti sono diretti verso il medesimo luogo: tutto è venuto dalla polvere e nella polvere tutto ritorna.21Chi sa se il soffio vitale dell'uomo sale in alto, mentre quello della bestia scende in basso, nella terra? 22Mi sono accorto che nulla c'è di meglio per l'uomo che godere delle sue opere, perché questa è la parte che gli spetta; e chi potrà condurlo a vedere ciò che accadrà dopo di lui?

_________________Note

3,1-15 Sotto i nostri occhi appare l’agire dell’uomo nella prospettiva del “polarismo”, cioè di azioni contrapposte ed estreme, che altrove nella Bibbia sono descritte con i verbi “entrare-uscire”, “sedersi-alzarsi”, ecc. Non si tratta di fatalismo, ma di una maturata consapevolezza che tutta la vita dell’uomo è nelle mani di Dio, affidata al ritmo dei suoi tempi.

3,19.21 soffio vitale: il respiro; in 12,7 si dirà che esso ritorna a Dio, da cui ha origine, e il corpo ritorna alla terra, dalla quale è stato tratto (Gen 2,7).

=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti


Qo 3,1-4,3. La sequenza 3,1-4,3 si sviluppa in modo parallelo, avendo la prima sotto-sequenza (3,1-18) un taglio più teologico, e la seconda sotto-sequenza 3,19-4,3) un taglio piuttosto antropologico. Entrambe le sotto-sequenze partono dal dato d'esperienza della morte (3,2; 3,19), davanti a cui non c'è altro bene se non l'allegria (3,12; 3,22); l'attenzione si concentra poi sull'iniquità umana (notiamo le ripetizioni martellanti in 3,16 e 4,1), per concludere nella prima sotto-sequenza con un riferimento di fede a Dio (3,17-18) e nella seconda sotto-sequenza con un elogio della morte e meglio ancora del non-nascere (4,2-3). In tutta la prima sotto-sequenza Qoelet pensa a Dio come al fondamento ultimo dell'esperienza umana, e nel suo ragionare egli cerca di combinare dati teologici tradizionali con la sua personale valutazione dell'esperienza. Poiché però in concreto non riesce a trovar conferma degli assunti teologici, nella seconda sotto-sequenza rinuncia a chiamare in causa Dio e si ferma al semplice dato umano. In questo modo egli perde ogni rassicurazione e non può più guardare con una certa fiducia la realtà umana, profondamente segnata dall'iniquità: questa diventa troppo pesante per le spalle dell'uomo, tanto da rendergli la vita stessa un peso.

vv. 1-9. Il “sonetto” iniziale (3,2-8) si apre con la coppia generare/morire; è da ricordare che la tradizione ebraica, a partire dal Midrash, ha sovente interpretato tutte le coppie seguenti nella medesima prospettiva (vita/morte, lutto/festa, guerra/pace).

vv. 10-11. L'alternarsi dei tempi, tanto ineluttabile quanto in tensione tra positività e negatività, sfugge alle possibilità di dominio dell'uomo; pertanto viene considerato come il modo in cui Dio esercita il suo controllo sul mondo. E l'uomo, strutturalmente limitato dal punto di vista conoscitivo (ricordiamo che in Gn 2-3 l'unico divieto era relativo proprio all'albero della conoscenza del bene e del male), non riesce a comprendere la logica dell'agire di Dio.

Il v. 11 è un punto-chiave per la comprensione di Qoelet. Se si segue l'interpretazione abituale, che traduce con «eternità», «globalità» i termine ebraico ha olam, non si capisce la logica del testo: se Dio ha fatto ogni cosa «bella», appropriata nel suo tempo, e ha posto pure l'eternità, la globalità nel cuore degli uomini, l'uomo dovrebbe avere tutto ciò che serve per capire l'opera di Dio dall'inizio alla fine, e non dovrebbe essere il contrario. Se invece olam è l'ignoranza, allora il discorso è perfettamente logico: il problema dell'occupazione che Dio ha imposto agli uomini (3,10) – occupazione già qualificata in precedenza come negativa (1,13) – deriva dal fatto che Dio ha fatto ogni cosa appropriata al suo tempo, ma ha posto l'ignoranza nel cuore degli uomini, così che l'uomo non riesce a comprendere l'opera di Dio da capo a fondo, e perciò non riesce a integrarvisi. Si può ancora ipotizzare una pregnanza di significato, un giocare intenzionale su due livelli semantici: il livello più superficiale implica il senso di “eternità”, così da integrarsi bene nel campo semantico del tempo che caratterizza buona parte del c. 3; il secondo livello di significato implica invece l'idea di “ignoranza”, così che si crea un gioco ironico: dove sembra che l'uomo riceva da Dio un “di più”, un'istanza conoscitiva (eternità, globalità) che in qualche modo lo assimila a Dio, in realtà – ed è il senso proprio del testo, l'unico che dà una coerenza logica – riceve un “di meno”, qualcosa che mette drammaticamente in evidenza il suo limite, la sua dissomiglianza da Dio.

vv. 12-13. Se il controllo dei tempi sfugge all'uomo, non gli resta che cercare di trarre il meglio dal presente; tuttavia il presente rientra nell'alternanza dei tempi, per cui anche la possibilità di gioire e di godere dipende da Dio e, visto che è positiva, viene letta come suo dono.

vv. 14-15. L'impossibilità di influire sull'alternarsi dei tempi viene spiegata riflettendo su chi è Dio, sulla sua eternità e sovranità, e questa riflessione porta al timore di Dio e alla certezza di non potergli sfuggire.

vv. 16-18. L'attenzione si sposta nuovamente sul mondo degli uomini, e si constata il crimine perfino là dove dovrebbe trionfare la giustizia (v. 16). Alla luce delle precedenti riflessioni su Dio, viene addotta la tradizionale certezza del giudizio di Dio, che rimetterà in ordine ogni cosa, emettendo un giudizio di condanna per gli uomini che si sono comportati come bestie gli uni verso gli altri.

vv. 19-21. Tuttavia non c'è alcuna conferma dell'intervento di Dio, poiché l'assimilazione dell'uomo alla bestia salta bruscamente dal piano etico al piano esistenziale, dal comportamento alla sorte comune: la morte, col grave dubbio che pure dopo non ci sia alcuna differenza tra l'uomo e la bestia. Le asserzioni tradizionali sul giudizio divino non vengono di per sé negate, però, poiché la loro realizzazione è localizzata nel futuro, e nel futuro dell'uomo c'è la morte e niente altro dopo di essa, è implicito che anche l'ansia di giustizia è un'esigenza del cuore umano (come altrove si è già visto la conoscenza) a cui la realtà non dà soddisfazione. Ecco perché si ritrova l'etichetta dello bebel: tutto è assurdo (v. 19).

v. 22. Ritorna in conclusione la sentenza «non c'è altro bene»: questa volta però non c'è più nessun riferimento a Dio; la riflessione sulla morte lo ha eliminato dall'orizzonte, poiché la relazione con Dio dura finché dura la vita, e per il «dopo» non c'è alcuna prospettiva. Pertanto la locuzione conclusiva «dopo» (’aharayw) difficilmente può indicare l'aldilà, mentre è più probabile che sia legata al problema dell'alternarsi imprevedibile e ininfluenzabile dei tempi: bisogna gioire nel presente, mentre si agisce, perché non si può sapere il prossimo “tempo” che cosa riserva.

(cf. PAOLO PAPONE, Qoelet – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Filosofia Perenne


di Ken Wilbertraduzione dallo spagnolo di @guaspito con il supporto di chatGPT#filosofia #psicologia #mistica #statidicoscienza #religioni #scienza #spiritualità

La Filosofia Perenne è quella visione del mondo condivisa dalla maggior parte dei principali maestri spirituali, filosofi, pensatori e perfino scienziati di tutto il mondo. Viene chiamata “perenne” o “universale” perché appare implicitamente in tutte le culture del pianeta e in tutte le epoche. La ritroviamo tanto in India, Messico, Cina, Giappone e Mesopotamia, quanto in Egitto, Tibet, Germania o Grecia. E ovunque essa si manifesti, presenta sempre gli stessi tratti fondamentali: un accordo universale su ciò che è essenziale.

Per noi, uomini contemporanei, che siamo praticamente incapaci di metterci d’accordo su qualsiasi cosa, ciò risulta difficile da credere. Come ha riassunto Alan Watts: “Siamo appena consapevoli dell’eccezionale singolarità della nostra stessa posizione, e perciò ci risulta assai difficile ammettere il fatto evidente che sia esistito un consenso filosofico unico, di ampiezza universale, sostenuto da molti (uomini e donne) che hanno condiviso le stesse esperienze e trasmesso essenzialmente gli stessi insegnamenti, oggi come seimila anni fa, dal Nuovo Messico nel lontano Occidente fino al Giappone nel lontano Oriente.”

Questo è davvero notevole. Credo che queste verità di natura universale costituiscano fondamentalmente l’eredità dell’esperienza universale dell’intera umanità, che in ogni tempo e luogo è giunta a un accordo su alcune verità profonde riguardanti la condizione umana e su come accedere al Trascendente. Questa è una maniera per descrivere ciò che è la Philosophia perennis.

TKW: Dici che la Filosofia Perenne è essenzialmente la stessa in culture molto diverse. Ma oggi si sostiene che siano il linguaggio e la cultura a modellare tutto il nostro sapere. Se questo fosse vero, e dato che le diverse culture e linguaggi sono molto differenti tra loro, sarebbe possibile che emergesse una qualche verità universale o collettiva sulla condizione umana? Da questo punto di vista non esisterebbe una condizione umana, in quanto tale, ma solo una storia umana; e quella storia sarebbe molto diversa in ogni caso. Cosa pensi di tutta questa nozione di relatività culturale?

KW: C'è molta verità in ciò. Esiste, senza dubbio, una diversità di culture che possiedono un diverso “sapere locale”, e lo studio di queste differenze è un’attività molto interessante. Ma sebbene la relatività culturale sia reale, essa non rappresenta tutta la verità.

Accanto alle evidenti differenze culturali, come possono essere il tipo di alimentazione, le strutture linguistiche o le usanze di accoppiamento, esistono anche molti altri fenomeni dell’esistenza umana che sono, in larga misura, universali o collettivi. Il corpo umano, per esempio, possiede duecento otto ossa, un cuore e due reni, sia che si tratti di un abitante di New York che di uno del Mozambico, e tanto oggi quanto migliaia di anni fa. Queste caratteristiche universali sono ciò che viene chiamato “strutture profonde”, perché sono essenzialmente le stesse ovunque.

Tuttavia, le diverse culture utilizzano queste strutture profonde in modi molto differenti: come i cinesi che fasciavano i piedi delle loro donne, o i popoli Ubangi che allungavano le loro labbra, oppure attraverso l’uso di tatuaggi, di abiti, nei giochi, nel sesso e nel parto, tutte pratiche che variano considerevolmente da una cultura all’altra. Tutte queste variabili vengono chiamate “strutture superficiali”, perché sono locali anziché universali.

Lo stesso avviene anche nell’ambito della mente umana. La mente umana possiede strutture superficiali che variano tra le diverse culture, e strutture profonde che restano essenzialmente identiche indipendentemente dalla cultura considerata. Ovunque la si trovi, la mente umana ha la capacità di formare immagini, simboli, concetti e regole. Le immagini e i simboli particolari possono variare da una cultura all’altra, ma la capacità di creare tali strutture mentali e linguistiche – e le strutture stesse – è sostanzialmente la stessa ovunque. Così come il corpo umano produce capelli, la mente umana produce simboli. Le strutture mentali superficiali variano ampiamente tra loro, ma le strutture mentali profonde sono, al contrario, straordinariamente simili.

Ebbene, allo stesso modo in cui il corpo umano produce universalmente capelli e la mente produce universalmente idee, anche lo spirito umano genera universalmente intuizioni sul Divino. E queste intuizioni e vislumbres (lampi di intuizione) costituiscono il nucleo delle grandi tradizioni spirituali di tutto il mondo. Ancora una volta, sebbene le strutture superficiali delle grandi tradizioni sapienziali siano, ovviamente, molto diverse tra loro, le loro strutture profonde sono invece molto simili, e talvolta identiche.

La Filosofia Perenne si occupa fondamentalmente delle strutture profonde dell’incontro umano con il Divino. Perché quelle verità sulle quali induisti, cristiani, buddisti, taoisti e sufi si trovano in completo accordo, tendono a riguardare qualcosa di profondamente importante, qualcosa che ci parla di verità universali e di significati ultimi, qualcosa che tocca l’essenza fondamentale della condizione umana.

TKW: A prima vista, è difficile vedere su cosa potrebbero essere d’accordo il buddismo e il cristianesimo. Quali sono, dunque, i principi fondamentali della Filosofia Perenne? Potresti elencare i suoi temi principali? Quante sono queste verità profonde e questi punti fondamentali di accordo?

KW: Sono molti, ma consideriamo i sette che ritengo più importanti:

  1. Lo Spirito esiste.
  2. Lo Spirito è dentro di noi.
  3. Nonostante ciò, la maggior parte di noi vive in un mondo di ignoranza, separazione e dualità, in uno stato di caduta illusoria, e non si accorge di quello Spirito interiore.
  4. Esiste una via d’uscita da questo stato di caduta, di errore o di illusione; esiste un Cammino che conduce alla liberazione.
  5. Se percorriamo questo Cammino fino in fondo, arriveremo a una Rinascita, a una Liberazione Suprema.
  6. Questa esperienza segna la fine dell’ignoranza fondamentale e della sofferenza.
  7. La fine della sofferenza conduce a un’azione sociale amorevole e compassionevole verso tutti gli esseri senzienti.

TKW: Hai detto molte cose! Procediamo passo dopo passo. Dici che lo Spirito esiste.

KW: Lo Spirito esiste, Dio esiste, esiste una Realtà Suprema, sia che la si chiami Brahman, Dharmakaya, Yahweh, Aton, Kether, Tao, Allah, Shiva: “Molti sono i nomi che riceve l’Uno”.

TKW: Ma come fai a sapere che lo Spirito esiste? I mistici dicono che esiste, ma su cosa basano questa affermazione?

KW: Sull’esperienza diretta. Le loro affermazioni non si basano su mere credenze, idee, teorie o dogmi, bensì sull’esperienza diretta, sull’esperienza spirituale reale.
Questa è la differenza tra i veri mistici e i religiosi dogmatici.

TKW: Ma cosa dire del fatto che si sostiene che l’esperienza mistica non sia una conoscenza valida perché è ineffabile e dunque incomunicabile?

KW: Certamente, l’esperienza mistica è ineffabile e non può essere tradotta completamente in parole, ma lo stesso vale per qualsiasi altra esperienza, che si tratti di un tramonto, del gusto di una fetta di torta o dell’armonia di una fuga di Bach.
In ognuno di questi casi, dobbiamo aver vissuto l’esperienza reale per sapere di cosa si tratta. Ma questo non significa che il tramonto, la torta o la musica non esistano o che siano esperienze non valide. Inoltre, anche se l’esperienza mistica è in gran parte ineffabile, può comunque essere comunicata o trasmessa. Ad esempio, così come la danza può essere insegnata anche se non può essere descritta compiutamente a parole, è possibile anche apprendere una determinata pratica spirituale sotto la guida di un maestro spirituale.

TKW: Ma quell’esperienza mistica che al mistico sembra così vera potrebbe essere semplicemente sbagliata. I mistici possono affermare di fondersi con Dio, ma ciò non garantisce affatto che ciò che affermano sia ciò che accade realmente. Nessuna conoscenza è assolutamente certa.

KW: Sono d’accordo che l’esperienza mistica non sia più certa di qualsiasi altra esperienza diretta. Ma questo argomento, lungi dal minare le affermazioni dei mistici, le eleva in realtà allo stesso livello che io, personalmente, accetto pienamente. In altre parole, lo stesso argomento che si può usare contro la conoscenza mistica può essere applicato a qualsiasi altra forma di conoscenza basata sull’esperienza evidente, inclusa l’esperienza empirica.
Credo di stare guardando la luna, ma potrei sbagliarmi; i fisici credono nell’esistenza degli elettroni, ma potrebbero sbagliarsi; i critici ritengono che Amleto sia stato scritto da un personaggio storico di nome Shakespeare, ma potrebbero essere in errore, e così via.
Come possiamo essere sicuri della veridicità delle nostre affermazioni?
Attraverso ulteriori esperienze.

Ebbene, questo è esattamente ciò che i mistici hanno fatto storicamente nel corso di decenni, secoli e millenni: verificare e affinare le proprie esperienze, un primato di costanza storica che fa impallidire persino la scienza moderna. Il fatto è che questo argomento, invece di screditare le affermazioni dei mistici, conferisce loro — a mio avviso — in modo estremamente adeguato, lo statuto di autentici esperti e conoscitori della loro disciplina, e di conseguenza, gli unici realmente qualificati per formulare affermazioni in materia.

TKW: Molto bene. Ma spesso ho sentito dire che la visione mistica potrebbe in realtà trattarsi di una patologia schizofrenica. Come risponderesti a questa accusa?

KW: Non credo che qualcuno metta in dubbio che certi mistici presentino tratti schizofrenici, o che ci siano schizofrenici che vivono intuizioni mistiche. Ma non conosco alcuna autorità in materia che creda che le esperienze mistiche siano fondamentalmente e primariamente allucinazioni schizofreniche.
È chiaro che conosco anche molte persone non qualificate che la pensano in questo modo, e sarebbe difficile convincerle del contrario nello spazio limitato di questa intervista. Dirò soltanto che le pratiche spirituali e contemplative utilizzate dai mistici – come la preghiera contemplativa o la meditazione – possono essere molto potenti, ma non abbastanza da attrarre un gran numero di uomini e donne normali, sani e adulti e, nel giro di pochi anni, trasformarli in schizofrenici deliranti.
Il Maestro Zen Hakuin trasmise il suo insegnamento a ottantatré discepoli che si incaricarono di rivitalizzare e organizzare lo Zen giapponese. Ottantatré schizofrenici allucinati non riuscirebbero nemmeno a mettersi d’accordo per andare in bagno... Che ne sarebbe stato dello Zen giapponese se fosse stato così?

TKW: (Risate) Un'ultima obiezione: non è forse possibile che la nozione di “essere uno con lo Spirito” non sia altro che un meccanismo di difesa regressivo per proteggere una persona dal panico davanti alla morte e all’impermanenza?

KW: Se “l’unità con lo Spirito” fosse semplicemente qualcosa in cui si crede, e quindi un’idea o una speranza, allora certamente potrebbe far parte della “proiezione d’immortalità” di una persona, cioè di un sistema di difesa progettato – come ho cercato di spiegare nei miei libri Dopo l’Eden e Un Dio socievole – per proteggersi in modo magico o regressivo dalla morte, sotto la promessa di un prolungamento o una continuazione della vita.
Ma l’esperienza di unità atemporale con lo Spirito non è un’idea né un desiderio; è una percezione diretta. E possiamo considerare questa esperienza diretta solo in tre modi diversi:
– affermare che si tratti di un’allucinazione, a cui ho appena risposto;
– sostenere che sia un errore, cosa che ho pure già confutato;
– oppure accettarla per ciò che dice di essere: un’esperienza diretta del nostro Sé Spirituale.

TKW: Da quello che dici, il misticismo genuino, a differenza della religione dogmatica, è scientifico, perché si basa sull’evidenza e sulla verifica sperimentale diretta. È così?

KW: Esattamente. I mistici ti chiedono di non credere in nulla in modo cieco, e ti offrono una serie di esperimenti da verificare nella tua stessa coscienza.
Il laboratorio del mistico è la propria mente, e l’esperimento è la meditazione.
Tu stesso puoi verificare e confrontare i risultati della tua esperienza con quelli di altri che abbiano svolto lo stesso esperimento.
Da questo insieme di conoscenze sperimentali, validate in modo consensuale, si giunge a certe leggi dello spirito, o a certe “verità profonde”, se preferisci chiamarle così.

TKW: E questo ci riporta di nuovo alla filosofia perenne, alla filosofia mistica e ai suoi sette grandi principi. Il secondo principio era: lo spirito è dentro di te.

KW: Lo spirito è dentro di te, c'è un intero universo dentro di te. Il messaggio sorprendente dei mistici è che, al centro stesso del tuo essere, tu vivi la divinità.
Strettamente parlando, Dio non è né dentro né fuori – poiché lo Spirito trascende ogni dualità – ma lo si scopre cercando profondamente dentro, fino a quando quel “dentro” finisce per diventare un “al di là”.
Il Chandogya Upanishad ci offre la formulazione più nota di questa verità immortale quando dice:

“Nell’essenza stessa del tuo essere non percepisci la Verità, ma in realtà essa è lì.
In ciò che è l’essenza sottile del tuo essere, tutto ciò che esiste È.
Quell’essenza invisibile è lo Spirito dell’intero universo.
Quella è la Verità, quello è l’Essere. E tu? Tu sei quello.”


Tat Tvam Asi – Tu sei Quello.
È superfluo dire che il “tu” che è “Quello”, il tu che è Dio, non è la tua identità individuale e separata, l’ego, questa o quella personalità, il Signor o la Signora Tal dei Tali.
Anzi, il sé individuale o ego è precisamente ciò che ci impedisce di prendere coscienza della nostra Identità Suprema.
Quel “tu”, al contrario, è la nostra essenza più profonda, o se preferisci, il nostro aspetto più elevato: l’essenza sottile – come la descrive l’Upanishad – che trascende il nostro ego mortale e partecipa direttamente al Divino.
Nel giudaismo viene chiamato Ruach, lo spirito divino e la supraindividualità che si trova in ognuno di noi, e che si distingue dal nefesh, l’ego individuale.
Nel cristianesimo, invece, è il pneuma, lo spirito che dimora in noi e che è della stessa natura di Dio, e non la psiche o anima individuale che, nel migliore dei casi, può solo adorare Dio.
Come ha detto Coomaraswamy, la distinzione tra lo spirito immortale ed eterno di una persona e la sua anima individuale e mortale (cioè l’ego) è un principio fondamentale della filosofia perenne.

TKW: San Paolo disse: “Vivo, ma non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me.” Stai dicendo che San Paolo ha scoperto la sua vera Identità, che era uno con Cristo, e che Cristo ha sostituito il suo vecchio piccolo ego, la sua anima o psiche individuale?

KW: Esattamente. Il tuo Ruach, o fondamento, è la Realtà Suprema, non il tuo nefesh, il tuo ego.
Se credi che il tuo ego individuale sia Dio, allora sei chiaramente nei guai. In effetti, soffriresti di una psicosi, una schizofrenia paranoide.
Non è certo questo ciò che intendevano i più grandi filosofi e saggi del mondo.

TKW: Ma allora, perché non c’è più gente consapevole di questo? Se lo spirito è davvero dentro di noi, perché non è evidente a tutti?

KW: Ottima domanda. E questo ci porta al terzo punto.
Se davvero sono uno con Dio, perché non me ne rendo conto?
Qualcosa mi separa dallo Spirito. Perché questa Caduta? Dov’è stato l’errore?

Le diverse tradizioni danno risposte differenti a questa questione, ma tutte fondamentalmente convergono su un punto:

“Non riesco a percepire la mia Vera Identità, la mia unione con lo Spirito, perché la mia coscienza è ottenebrata e ostruita da una certa attività; anche se riceve nomi diversi, si tratta semplicemente dell’attività di contrarre e concentrare la coscienza sul mio io individuale, sul mio ego personale.
La mia coscienza non è aperta, rilassata e centrata su Dio, ma chiusa, contratta e centrata su me stesso.
Ed è proprio l’identificazione con quella contrazione in me stesso e la conseguente esclusione di tutto il resto che mi impedisce di trovare o scoprire la mia identità originaria, la mia vera identità con il Tutto.”


La mia natura individuale – “l’uomo naturale” – è caduta e vive nell’errore, separata e alienata dallo Spirito e dal resto del mondo.
Sono separato e isolato dal mondo “là fuori”, un mondo che percepisco come completamente esterno, estraneo e ostile al mio essere.
Quanto al mio essere interiore, di certo non sembra essere uno con il Tutto, con tutto ciò che esiste, uno con lo Spirito Infinito, ma al contrario, resta chiuso e imprigionato tra le mura limitanti di questo corpo mortale.

TKW: Questa situazione viene solitamente chiamata “dualismo”, giusto?

KW: Esattamente. Mi divido in un “soggetto” separato dal mondo degli “oggetti” situati là fuori e, a partire da questo dualismo originario, continuo a dividere il mondo in ogni tipo di opposti in conflitto: piacere e dolore, bene e male, verità e menzogna, ecc.
Secondo la filosofia perenne, la coscienza dominata dal dualismo soggetto-oggetto non può percepire la realtà così com’è, la realtà nella sua totalità, la realtà come Identità Suprema.
In altre parole: l’errore è la contrazione di sé stessi, la sensazione di un’identità separata, l’ego.
L’errore non sta in qualcosa che fa il piccolo io, ma in qualcosa che è.

E c’è di più: quell’essere contratto, quel soggetto isolato “qui dentro”, non riconoscendo la propria vera identità con il Tutto, sperimenta una forte sensazione di mancanza, di privazione, di frammentazione.
In altre parole: la sensazione di essere separato, di essere un individuo separato, dà origine alla sofferenza, dà origine alla “Caduta”.
La sofferenza non è qualcosa che accade a causa della separazione: è qualcosa di intrinseco a quella condizione.
“Peccato”, “sofferenza” e “io” non sono altro che nomi diversi per uno stesso processo, che consiste nella contrazione e frammentazione della coscienza.

Per questo è impossibile salvare l’ego dalla sofferenza.
Come disse Gautama il Buddha: per porre fine alla sofferenza, devi abbandonare il piccolo io, l’ego; perché entrambi nascono e muoiono nello stesso momento.

TKW: Quindi questo mondo dualistico è il mondo della Caduta e del peccato originale, è la contrazione dell’essere, l’auto-contrazione presente in ognuno di noi. E stai dicendo che non sono solo i mistici orientali, ma anche quelli occidentali a definire il peccato e l’Inferno come qualcosa di inerente allo stato di identità separata?

KW: Al sé separato e alla sua avidità, al suo desiderio e alla sua fuga priva d’amore.
Sì, senza dubbio.
È vero che l’Oriente – e in particolare il buddismo e l’induismo – mette molto l’accento sull’identificare l’Inferno (o Samsara) con l’ego separato e individualista.
Ma anche negli scritti dei mistici cattolici, dei gnostici, dei quaccheri, dei cabalisti e dei mistici islamici troviamo gli stessi temi.
A tal proposito, il mio scritto preferito è di William Law, uno straordinario mistico cristiano inglese del XVIII secolo. Te lo leggo:

“Ecco la verità riassunta.
Ogni peccato, ogni morte, ogni condanna e ogni inferno non sono altro che il regno del sé, dell’ego.
Le varie attività del narcisismo, dell’amor proprio e dell’egoismo separano l’anima da Dio e la conducono alla morte e all’inferno eterno”.


Oppure le parole del sufi Abi l-Khayr:

“Non c’è Inferno se non nell’individualità, non c’è Paradiso se non nell’altruismo”.


Troviamo lo stesso tipo di affermazioni anche nei mistici cristiani, come dimostra la dichiarazione della Theologia Germanica secondo cui

“L’unica cosa che brucia all’Inferno è l’ego”.


TKW: Sì, capisco. Quindi la trascendenza del “piccolo io” porta alla scoperta del “grande Io”.

KW: Proprio così.
In sanscrito, questo “piccolo io” o anima individuale si chiama ahamkara, che significa “nodo” o “contrazione”; ed è proprio questo ahamkara, questa contrazione dualistica ed egocentrica della coscienza, a costituire la radice stessa dello stato di Caduta.

Arriviamo così al quarto grande principio della filosofia perenne: esiste un modo per superare la Caduta, un modo per cambiare questo stato di cose, un modo per sciogliere il nodo dell’illusione e dell’errore fondamentale.

TKW: Buttare via l’ego individualista.

KW (ride): Esattamente.
Arrendersi o morire a quella sensazione di essere un’identità separata, al piccolo io, alla contrazione su sé stessi.
Se vogliamo scoprire la nostra identità con il Tutto, dobbiamo abbandonare l’identificazione errata con l’ego isolato.
Ma questa Caduta può essere immediatamente dissolta comprendendo che, in realtà, non è mai avvenuta, perché esiste solo Dio e, di conseguenza, il sé separato non è mai stato altro che un’illusione.

Tuttavia, per la maggior parte di noi, questa condizione deve essere superata gradualmente, passo dopo passo.
In altre parole, il quarto principio della filosofia perenne afferma che esiste una Via e che, se la seguiamo fino in fondo, ci condurrà dallo stato di caduta allo stato di illuminazione, dal Samsara al Nirvana, dall’Inferno al Cielo.

TKW: La meditazione è quel Cammino?

KW: Bene. Potremmo dire che esistono diversi “cammini” che costituiscono ciò che io chiamo genericamente “il Cammino”, e ancora una volta si tratta di strutture superficiali differenti che condividono però la stessa struttura profonda.
Nell'induismo, ad esempio, si dice che ci sono cinque grandi cammini o yoga. Yoga significa semplicemente “unione”, l’unione dell’anima con la Divinità.
La parola inglese yoke, lo spagnolo yugo, l’ittita yugan, il latino jugum, il greco zugon e molte altre derivano dalla stessa radice.

In questo senso, quando Cristo dice: “Il mio giogo è leggero”,
sta intendendo dire: “Il mio yoga è facile”.

Ma forse possiamo semplificare tutto dicendo che tutti questi cammini, siano essi induisti o provenienti da qualsiasi altra tradizione di saggezza, si dividono in due grandi vie.

A tal proposito mi viene in mente una citazione per illustrare questo punto. È di Swami Ramdas:

“Ci sono due cammini: uno consiste nell’espandere il tuo ego fino all’infinito, l’altro nel ridurlo al nulla”;
il primo è una via della conoscenza, mentre il secondo è una via devozionale.


Un Jnani (saggio indù) dice: “Io sono Dio, la Verità universale”.
Un Devoto, invece, dice: “Io non sono nulla, oh Dio! Tu sei tutto”.
In entrambi i casi scompare la sensazione di identità separata.

La chiave della questione è che, in qualunque dei due casi, l’individuo che percorre il Cammino trascende o muore al piccolo io, e riscopre, o fa risorgere, la propria Identità Suprema con lo Spirito universale.
E questo ci porta al quinto grande principio della filosofia perenne: quello della Rinascita, della Resurrezione o dell’Illuminazione.
Il piccolo io deve morire affinché, dentro di noi, possa risorgere il grande Io.

Le varie tradizioni descrivono questa morte e rinascita con nomi molto diversi.
Così, ad esempio, nel cristianesimo si parla di Adamo – che i mistici chiamano l’“Uomo Vecchio” o “Uomo Esteriore”, colui che ha aperto le porte dell’Inferno – e di Gesù – l’“Uomo Nuovo” o “Uomo Interiore”, colui che apre le porte del Paradiso.
Secondo i mistici, la morte e resurrezione di Gesù rappresentano l’archetipo della morte dell’io separato e la rinascita a un destino nuovo ed eterno nel flusso della coscienza, ovvero l’Essere Divino o Crístico e la sua Ascensione.
Come disse Sant’Agostino:

“Dio si è fatto uomo affinché l’uomo potesse farsi Dio”.


Nel cristianesimo, questo processo di ritorno dalla condizione “umana” alla condizione “Divina”, dalla persona esterna alla persona interna, si chiama Metanoia, una parola che significa sia “pentimento” che “trasformazione”.
In questo caso, ci pentiamo del piccolo io (l’ego individualista) e ci trasformiamo nell’Essere (o in Cristo), così che, come affermava San Paolo,

“Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”.


Allo stesso modo, l’Islam chiama tawbah (che significa “pentimento”) e anche galb (che significa “trasformazione”) questa morte e resurrezione, che Al-Bistami riassume così:

“Dimenticare sé stessi è ricordare Dio”.


Sia nell’induismo che nel buddhismo, questa morte e rinascita viene sempre descritta come la morte dell’anima individuale (jivatman) e il risveglio alla vera natura della persona, che gli induisti descrivono metaforicamente come Totalità dell’Essere (Brahman) e i buddhisti come Apertura Pura (Shunyata).
Il momento in cui avviene questa rottura o rinascita si chiama illuminazione o liberazione (Moksha o Kaivalya).
Il Lankavatara Sutra descrive l’esperienza dell’illuminazione come

“una trasformazione completa nella stessa essenza della coscienza”.


Questa “trasformazione” consiste semplicemente nel disattivare la tendenza abituale a creare un io separato e sostanziale dove, in realtà, esiste solo una coscienza chiara, aperta e vasta.
Il Zen chiama Satori o Kensho questa trasformazione o Metanoia.

Ken” significa vera natura e “sho” significa “vedere direttamente”.

Vedere direttamente la nostra vera natura è diventare un Essere pienamente autorealizzato.
E come disse il Maestro Eckhart:

“In questa trasformazione ho scoperto che Dio e io siamo la stessa cosa.”


TKW: L'illuminazione si sperimenta realmente come una morte vera o si tratta solo di una metafora?

KW: In realtà, si tratta della morte dell’ego individualista.
I racconti di questa esperienza — che possono essere molto drammatici, ma anche estremamente semplici e per nulla spettacolari — affermano chiaramente che, all’improvviso, ti svegli e scopri che, tra le altre cose, e per quanto possa sembrare strano, il tuo vero essere è tutto ciò che hai osservato fino a quel momento, che letteralmente sei uno con tutto ciò che è manifestato, uno con l’universo.
E che, in verità, non è che diventi uno con Dio e con il Tutto, ma che prendi coscienza del fatto che da sempre sei stato quella unità, senza essertene mai accorto prima.
Ma accanto a questa percezione, insieme alla scoperta dell’Essere che tutto permea, si sperimenta anche una sensazione molto concreta: quella che il tuo piccolo ego è morto. Che è morto veramente.

Il Zen chiama il Satori “la Grande Morte”.
Eckhart era altrettanto categorico: “L’anima – diceva – deve donare se stessa”.
Coomaraswamy affermava: “Solo quando il nostro ego muore, comprendiamo finalmente che non c’è nulla con cui possiamo identificarci, e solo allora possiamo trasformarci realmente in ciò che già siamo”.

TKW: Trascendendo il piccolo ego, si scopre l’eternità?

KW (Lunga pausa): Sì, a condizione però di non intendere l’eternità come un tempo che non finisce mai, bensì come un momento senza tempo, il presente eterno, l’adesso atemporale.
L’ESSERE non risiede per sempre nel tempo, ma nel presente senza tempo, che è anteriore al tempo, alla storia, al cambiamento, alla successione.
Lo Spirito, l’Essere, è presente nel senso di Pura Presenza, non nel senso di essere immerso in un “ora” infinito — che è un concetto piuttosto inquietante.

In ogni caso, il sesto grande principio fondamentale della filosofia perenne afferma che l’illuminazione, o liberazione, pone fine alla sofferenza.
Ciò che causa la sofferenza è l’attaccamento e il desiderio della nostra identità separata;
e ciò che pone fine alla sofferenza è il cammino meditativo che trascende il piccolo io, il desiderio e l’attaccamento.
La sofferenza è intrinseca a quel nodo o contrazione chiamato ego, e l’unico modo per superarla è trascendere l’ego.

Non significa che dopo l’illuminazione — o dopo la pratica spirituale in generale — non si provino più dolore, angoscia, paura o ferite.
Si provano ancora, sì.
Ma ciò che cambia è che queste emozioni non minacciano più la tua esistenza, e quindi smettono di costituire un problema per te.
Non ti identifichi più con esse, non le drammatizzi più, non hanno più energia, non ti sembrano più minacciose.
Da un lato, non c’è più alcun ego frammentato che possa sentirsi minacciato;
dall’altro, nulla può minacciare quel grande Io dell’Essere originario e autentico, poiché, essendo il Tutto, non esiste nulla di esterno che possa fargli del male.

Questa consapevolezza produce un profondo rilassamento e una distensione del cuore.
Per quanto dolore possa sperimentare l’individuo, il suo vero Sé non si sente minacciato.
La sofferenza può sorgere e può svanire, ma ora la persona è saldamente radicata e sicura nella “pace che supera ogni comprensione”.
Il saggio sperimenta la sofferenza, ma questa non lo “ferisce”.
E poiché è consapevole della sofferenza, è spinto dalla compassione e dal desiderio di aiutare chi soffre e crede nella realtà della sofferenza.

TKW: Il che ci porta al settimo punto, la motivazione dell’illuminato.

KW: Sì. Si dice che la vera illuminazione sfoci in un’azione sociale ispirata dalla misericordia e dalla compassione, in un tentativo di aiutare tutti gli esseri umani a raggiungere la Liberazione Suprema.
L’attività illuminata non è altro che un servizio disinteressato.
Poiché siamo tutti uno nello stesso Essere, allora, servendo gli altri, sto servendo il mio stesso Sé.


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MÁS ALLÁ DE LA NACIÓN


DeoVanLongHouseLas ruinas de la casa del hijo del “saqueador” de Luang Prabang, provincia de Lau Chau, noroeste de Vietnam

Para los más empáticos, la ciudad de Luang Prabang podría resultar un descubrimiento placentero. Al sumergirse en su escucha, sus calles revelan campos magnéticos seductores, como si la comunidad que las habita estuviera atravesada por una fuerza femenina capaz de hechizar al viajero de paso. A primera vista, se nota inmediatamente que se trata de una ciudad “instagrameable”, llena de marcos perfectos para ser capturados en el “relato de Mí en el mundo” de las redes sociales. Al revisar YouTube, Instagram, WhatsApp, TikTok o Facebook, emerge un componente narcisista de los lugares que describe algunos aspectos de las fuerzas femeninas de las que quiero hablar.

De hecho, los habitantes de Luang Prabang pasan largos momentos de su jornada laboral manteniendo inalterado el paisaje, es decir, cuidando físicamente los espacios exteriores e interiores para limpiar continuamente los entornos donde se desarrolla y se teatraliza la experiencia “social” de los turistas en la ciudad. Las restauraciones vintage y las antiguas casas coloniales son imagen de una belleza que se auto-observa y se auto-relata en una narrativa social que posiciona la ciudad en un nicho del capitalismo postindustrial. El producto que se compra es un estar allí documentado digitalmente entre sus calles ordenadas y sobriamente coloridas. Esto ocurre en una región, el sudeste asiático, donde el turismo se está consolidando rápidamente como una de las principales industrias, tanto desde el punto de vista laboral como por sus sólidas conexiones con el sector de la construcción.

Existe además una estratificación adicional de las fuerzas femeninas que atraviesan los lugares. Este cuidado de los espacios es también cuidado del “sí mismo”, entendido aquí como cuerpo. En Luang Prabang, como ya sucede en muchas otras partes de la región, proliferan las llamadas economías de la intimidad o, en palabras de Foucault, del “cuidado de sí”. Entre estas, lo primero que salta a la vista para quienes observan con rapidez son los centros de masaje, que emplean principalmente a mujeres jóvenes. Pero una mirada más atenta no puede dejar de incluir en la categoría del “cuidado” también al “Templo Budista”. Aquí son acogidos jóvenes varones. Ambas instituciones están centradas en la hospitalidad y, aunque viven dentro de una clara división de género, parecen cumplir funcionalmente propósitos similares. Junto a miles de monjes, existen miles de masajistas. Así, aunque sigan trayectorias distintas, ambas instituciones se ocupan de la pacificación de los sentidos y de las fatigas existenciales.

Incluso históricamente, el templo budista y el centro de masajes estuvieron indisolublemente ligados. El masaje tailandés es hoy el más reconocido y recientemente ha sido incluido en el patrimonio cultural inmaterial de la humanidad. Se cuenta que nació precisamente en los templos budistas de Bangkok y Chiang Mai, donde se sistematizó un saber que provenía directamente del Buda, quien al parecer era masajeado por expertas masajistas durante sus peregrinaciones. Masajes “tradicionales” existen en toda la región, desde Birmania hasta Vietnam, desde el sur de China hasta Tailandia. Junto al templo budista, los centros de masajes forman una alianza de los sentidos en la que el cuidado de sí mismo se refiere a modos y formas de subjetivación.

Sucede entonces que, en el espacio público del encuentro entre visitantes, trabajadores y habitantes, además de la experiencia estética del paisaje para contemplar y dentro del cual “ser contemplado” o “instagrameado”, hay una dimensión igualmente importante, más íntima y subjetiva, en la que los empresarios locales están desarrollando servicios enfocados a la producción de bienestar. Existen, por ejemplo, hoteles “conscientes” y centros de masaje “energéticos” donde los trabajadores son formados para generar una profunda capacidad empática con el turista, hasta el punto, en algunos casos de excelencia local, de producir una experiencia de relajación total: desde el café de la mañana hasta la infusión antes de dormir. El desarrollo de este tipo de servicios se ha convertido en un auténtico factor competitivo, tanto a nivel regional como local, y abarca rutas de formación para la fuerza laboral que debe saber captar los matices más ocultos de los deseos del cliente. El objetivo del marketing es siempre vender una experiencia de acogida irrepetible y/o especial, y para sobresalir en esta tarea, algunos hoteles quieren que sus trabajadores vivan dentro de las mismas instalaciones en lugar de regresar a los barrios dormitorio donde normalmente se alojarían. Esta vida en común, obligatoria o altamente recomendada para quienes deseen trabajar en el sector de la hospitalidad, tendría como objetivo precisamente la incorporación del “servicio total”, es decir, una comprensión más completa de la experiencia de acogida que permita al trabajador responder a las necesidades de cuidado del turista casi con una mirada.

Sin embargo, para quienes, como yo, provienen de culturas marcadamente machistas además de patriarcales, en estos campos de fuerza también podría vislumbrarse algo más, como si esta magia de las calles fuera también el producto de organizaciones políticas y sociales peculiares cuyas raíces se hunden en épocas históricas muy anteriores al encuentro colonial. Intentaré en las próximas páginas aclarar mejor esta tercera estratificación de las fuerzas femeninas del lugar. Me parece importante describirlas antes de adentrarme en la “cuestión étnica laosiana”. Para ello, me moveré en un campo distinto de los que he recorrido hasta ahora. Me ocuparé del estudio de los mitos, tal como emergen tanto en el relato local como en la producción artística y literaria religiosa. El objetivo es mostrar la existencia en estas tierras de un matriarcado nunca completamente sometido a las estructuras políticas coloniales y neocoloniales. Mostraré entonces cómo el uso de las mujeres como “objeto diplomático” pero también como “objeto sacrificial” para establecer alianzas y fundar linajes y derechos de propiedad ha sostenido desde siempre sistemas políticos plásticos y altamente adaptables a las diversas condiciones del mundo. A partir de ahí, observaré el actual devenir-queer del liderazgo ciudadano como una continuidad histórica y como una modalidad política de la ciudad que responde, ayer como hoy, al miedo atávico de una enésima apocalipsis cultural, como quizá la definiría De Martino: el miedo a una invasión tanto ética como material que, según algunos, está amenazando la identidad de Luang Prabang y de Laos en general.

ImperturbabileBuda femenino en posición imperturbable de la escuela de Luang Prabang, Museo del Wat Ho Phra Keo, Vientián, Laos

Los Sistemas Galácticos


Cuando el primer explorador francés llegó al actual Laos, atravesó la meseta de Korat, en el norte de Tailandia, acompañado por dos elefantes y una pequeña caravana que le había sido proporcionada por el virrey de dicha región. Llevaba consigo una carta de salvoconducto que debía mostrar a los distintos jefes de clan laosianos. Además, se le habían entregado unos tambores con los que debía anunciar su llegada antes de ingresar a los poblados, a fin de asegurarse una acogida y hospitalidad apropiadas.

En 1846, Henri Mouhot, quien aún hoy es considerado por muchos europeos como el “descubridor” de los templos de Angkor, cruzó por primera vez el Mekong, probablemente sin saber que, veinte años antes de su llegada, la ciudad que se extendía por las tierras que ahora pisaba —más allá de la meseta de Korat y del Mekong—, Vientián, había sido completamente arrasada por el ejército de Siam, es decir, por el mismo virrey que le había entregado el salvoconducto. En sus diarios, Mouhot describe con asombro cómo los “primitivos” se alineaban dócilmente al oír los sonidos reales del Siam, y cómo los jefes de clan se prosternaban ante él tras recibir la misiva del virrey de Korat. En pocas semanas logró remontar el gran río hasta descubrir una ciudad, Luang Prabang, de la cual probablemente se enamoró, pero en la que poco después encontró la muerte a causa de la picadura de un mosquito.

Tras él, otros exploradores franceses llegaron a Luang Prabang y describieron su fascinante belleza. Entre todos ellos, el más destacado fue sin duda quien más tarde se convertiría en su vicecónsul: Auguste Pavie. En sus diarios, describió su ingreso a la ciudad como si se encontrara en algún lugar del lago de Como o del de Constanza, e incluso se imaginaba embellecer el paisaje con alguna que otra villa “francesa”. Pavie tardó diez días en reunirse oficialmente con el rey. Para la ocasión, se construyó una puerta de madera y bambú bajo la cual fue conducido, tras haber pasado los días anteriores “fuera” de la ciudad. Se alojó en una casa en la orilla derecha del Mekong, frente a la ciudad, en tierras que los reyes usaban para la caza y donde, desde la primera mitad del siglo XIX, también solían retirarse a meditar. Se le asignaron guías locales que se ocuparon de él mostrándole las aldeas de los alrededores, sin permitirle nunca acercarse al centro. También fue llevado a visitar la tumba de su predecesor, situada en una curva de un afluente del Mekong, accesible en aquella época únicamente por vía fluvial. En sus escritos, Pavie no parece consciente de todas las implicaciones rituales de su llegada a la ciudad. Sin embargo, la recepción que se le ofreció representaba, con toda probabilidad, un clásico rito de purificación o de paso, que culminó con una ceremonia pública frente a toda la población, en un espacio habilitado a lo largo de la calle principal de la ciudad, justo al lado de la residencia del rey.

En ese momento, ciertamente, ni el Rey Oun Kham ni Pavie sabían que, unas dos décadas después, ese tipo de encuentros “diplomáticos” se adecuarían a las normas “internacionales” y se realizarían en privado, en la sala del trono del Palacio Real, concebido por arquitectos franceses a principios del siglo XX. El edificio fue el primero de su tipo en la historia de la ciudad, pero también en toda la región del Mekong medio. Nunca antes una estructura arquitectónica de carácter civil había superado en imponencia y “eternidad” a los templos de la ciudad. El edificio se elevaba hacia el cielo como lo hacían las residencias imperiales de Huế en Vietnam, la Ciudad Prohibida de Pekín o los palacios reales del Siam. Sin embargo, en el Reino del Millón de Elefantes, el rey no cumplía esta función cosmológica. El rey de Luang Prabang, aunque procuraba representarse como Indra (divinidad) y como Bodhisattva (futuro Buda), coexistía con otros poderes locales y regionales que no permitieron que su institución se teocratizara ni que se indianizara de forma plena. La estupa que fue construida en el techo del palacio, justo sobre la posición del trono y que idealmente elevaba al rey de Luang Prabang hacia el cielo, era una decoración religiosa que jamás se había utilizado para la residencia de una persona, incluso una tan importante como el rey. Este y otros elementos arquitectónicos fueron introducidos por los franceses y marcaron una ruptura con el pasado de los sistemas políticos del Mekong central. Ciertamente, los reyes de Luang Prabang siempre estuvieron comprometidos con la creación de monasterios que pudieran elevar su estatus hacia la divinidad. Sin embargo, tal aspiración estaba dirigida principalmente hacia un reconocimiento local, donde los reyes competían con otros potentados y clanes. Otras familias influyentes del actual Laos, como por ejemplo el rey de Xieng Khouang (en la Llanura de las Jarras), que atravesaba procesos igualmente importantes de construcción de un “budismo estatal”, no reconocieron el nuevo “poder soberano” del rey de Luang Prabang. En sus diarios, Pavie no es consciente de estas implicaciones, y probablemente los administradores coloniales nunca se preocuparon por comprenderlas en profundidad. No menciona tampoco si, durante la fase de “purificación” en la que fue mantenido, se le permitió fumar opio o tener damas de compañía, como solía ofrecerse a los invitados más ilustres. Las mujeres de Luang Prabang cumplían, de hecho, múltiples funciones vitales para el reino y determinaban la propia capacidad de poder del rey.

El intercambio de “vírgenes” fue la base de alianzas entre pueblos prácticamente desde los tiempos más antiguos de la historia local. Los mitos fundacionales que he escuchado en torno a la ciudad coinciden casi todos en un detalle: para ocupar legítimamente tierras, los jefes debían ofrecer como prenda a una hija suya, o en otras versiones, a la mujer más hermosa del poblado, al rey de Luang Prabang. En la base de la alianza propuesta había, por tanto, un “derecho de propiedad” madurado mediante el sacrificio/donación de una mujer. La alianza también sancionaba la aceptación de una fuerza superior a la cual se solicitaba protección. Algunos textos redactados en los años setenta que investigan los cultos animistas de la región del Mekong central mencionan una tercera modalidad fundacional de un núcleo urbano: el sacrificio de una mujer embarazada, no al rey sino a los dioses (véase Condominas). Este tercer caso presenta varios elementos de interés, ya que podría evidenciar la existencia de centros urbanos organizados en torno a un matriarcado. El sacrificio/donación producía un espíritu imperecedero, llamado Phi, que permanecía para siempre ligado a los lugares donde ocurría el sacrificio. Aunque en formas distintas, tal culto subsiste aún hoy.

El Phi, es decir, posee una característica fundamental: es inmanente a los lugares y, al no tener una naturaleza ética —ni buena ni mala—, los eventuales ritos de “purificación” realizados por chamanes, exorcistas o magos no logran eliminarlo ni transformarlo. “El olvido” de ese Phi no tiene efectos concretos. Sin embargo, su recuerdo ayuda a mantener la paz y el equilibrio en los lugares. En otras palabras, el Phi de un lugar se asemeja a una memoria compartida del pasado mítico de los territorios. Su interpretación, como su olvido, es sin duda un acto político. Un poco como me ocurre a mí, que escribo sobre ello: los habitantes, en algún momento de sus vidas, simplemente “saben que allí hay un Phi” y actúan en consecuencia, llevando ofrendas o evitando esos lugares. Según los creyentes budistas, los Phi forman parte de un mundo supersticioso en el que los eventos pueden verse influidos por poderes ocultos de todo tipo. No obstante, una de las peculiaridades más notables del budismo de Luang Prabang es precisamente su persistencia en las prácticas religiosas cotidianas de la población (véase Holt). Lo que resulta especialmente interesante para los fines de este escrito es que algunos mitos fundacionales de los principales centros urbanos de la región tenían espíritus tutelares femeninos, como si se tratara de reminiscencias ancestrales de un matriarcado originario sobre el cual se organizaba la vida entre los pueblos antes de ser sustituido por el patriarcado real.

WatSimuangChao Mae Simuang, culto del espíritu tutelar femenino en el Wat Simuang, Vientián, Laos.

En el Reino de Lan Xang, varios edictos prohibieron expresamente el culto a los Phi e iniciaron campañas para su erradicación y sustitución, que incluyeron la construcción de altares y templos budistas sobre los lugares donde se recordaban a los Phi. Es importante subrayar, sin embargo, que a menudo el culto a un Phi estaba asociado a líderes carismáticos de diverso tipo que, en distintas fases históricas, podían aspirar a sustituir o competir con la familia real. En torno a los Phi podían surgir grupos que compartían un conjunto de ritos y cultos que daban origen a mitos totémicos y clanes ancestrales, frecuentemente en conflicto o competencia con aquellos celebrados por la familia real. Se trataba de verdaderas batallas cosmológicas libradas mediante rituales y creencias que, cuando no eran absorbidas por el budismo, podían desembocar en rebeliones y sublevaciones.

En los estudios antropológicos regionales existe una categoría política específica, la del “Big Man”, que describe organizaciones jerarquizadas en torno a estas figuras de poder, a menudo paralelas o entrelazadas con las más formales del rey budista. En la cúspide de estas estructuras se encontraban hombres que, además de riquezas, se decía poseían capacidades curativas y por ello eran considerados “hombres de poder”. En la historia local, muchos de estos líderes carismáticos terminaron por apoyar y organizar rebeliones que, aunque esporádicas, constituyen hasta hoy los únicos momentos conocidos de oposición pública masiva al poder político de las comunidades lao.

Los procesos de indianización del rey estaban dirigidos principalmente a ordenar estos cultos menores y subordinarlos a una religión que debía ser considerada verdadera y justa, es decir, el budismo. Por ello, el rey debía encarnar todos sus preceptos éticos. Sin embargo, durante largos períodos históricos, el budismo fue la religión de la nobleza, que distinguía a la familia real del resto del pueblo, el cual mezclaba animismo y budismo.

En esta conflictividad cosmológica probablemente se oculta la sustitución del matriarcado originario, del cual aún hoy persisten huellas en los sistemas hereditarios de las comunidades lao. A un patriarcado carismático se añadió, para luego imponerse, un sistema de leyes kármicas budistas que encontraba su culminación en el rey indianizado. Pero como se ha señalado anteriormente, en Luang Prabang esta asimilación nunca fue completa; fue más bien la Colonia francesa la que intentó completar el proceso por evidentes razones de control territorial.

Lo que sí sucedió con certeza fue que, en el paso del matriarcado al patriarcado, la mujer, de centro focal de la estructura organizativa, asumió un valor tanto económico como de intercambio y simbólico. El rey de Luang Prabang, para ser considerado “rey”, debía poseer muchas mujeres, y estas debían provenir de todos los reinos y de las principales casas nobles de la región: las acumulaba y las intercambiaba. Cuando Pavie llegó a Luang Prabang, escribió que el rey Oun Kham tenía al menos 60 concubinas, con las cuales había tenido un número difícil de cuantificar de hijos e hijas, todos ellos residiendo en lo que hoy se conoce como la “Península UNESCO”. Sin embargo, poseer mujeres no era solo una medida del poder. El rey de Luang Prabang desempeñaba también una importante función reproductiva: debía garantizar la supervivencia eterna de su pueblo en una región que a menudo había conocido el aniquilamiento de aldeas y ciudades. Representaba así la continuación de una genealogía mítica que algunas leyendas totémicas remontaban a Khoun Boulom, el fundador de un reino legendario que abarcaba desde el río Rojo y el Dai Viet hasta el Irrawaddy y Pegu, pasando por el Mekong central. En los hechos, el rey era por tanto el padre fundador de una ciudad-aldea de poco más de 3000 habitantes, que entre ellos eran, ante todo, consanguíneos. Por esta razón, la ciudad UNESCO estaba poblada por una estirpe “real”, los lao, donde la palabra “lao” no definía una homogeneidad sanguínea o “étnica”, sino que establecía una relación dinástica y regia por la cual todos los habitantes de Luang Prabang estaban ligados al primer líder totémico, Khoun Boulom, cuyas gestas continuaba el rey.

Un aspecto significativo de estos relatos es que la primera “Reina” nunca era originaria de Luang Prabang. Se trataba, más bien, de la esposa que el rey recibía como obsequio por parte de la familia real más influyente en un determinado momento histórico. Así, por ejemplo, el primer rey del Lan Xang, Fa Ngum, tuvo como primera reina a una princesa Khmer nacida y criada en Angkor. Pero junto a ella, había mujeres provenientes de Chiang Mai, Chiang Rai, Sukhothai, del Dai Viet, de Pegu, etc., además de otras regiones y aldeas del actual Laos. El hecho de que las esposas del rey procedieran de todo “el mundo” constituye un elemento característico de las estructuras políticas de estos territorios, y se refleja en diversos mitos de carácter también religioso. La historia de la penúltima encarnación del Buda antes de alcanzar la iluminación, esculpida en la fachada de uno de los templos más importantes de Luang Prabang, el Wat Mai, narra un momento culminante en el que el príncipe Vissanthara se despoja definitivamente de todas sus posesiones y se convierte finalmente en “pueblo” sólo después de haber regalado a su esposa y a sus hijos a un comerciante. Nos encontramos en territorios donde el tráfico de personas ha constituido, desde hace siglos, una de las principales actividades económicas. El ejército del Siam fue uno de los mayores saqueadores de estas tierras, y en Phnom Penh se hallaba el principal mercado de esclavos de la región. Por ello, el acto de desposesión más alto posible para un rey era precisamente entregar su propia dinastía a un mercader. De manera especular, en las paredes del Wat Sisaket en Vientián, construido en la segunda década del siglo XIX, está pintada la historia del Buda Balasankaya, es decir, del mítico fundador de una ciudad cuyo ejército estaba compuesto por 30.000 monjes (exguerreros) y por 94.000 mujeres, todas ellas esposas del Buda.

El Balansakaya no es exactamente un Jataka, aunque afirma relatar una vida anterior del Buda. Podríamos decir que se trata de un “tipo de Jataka” que forma parte de tradiciones literarias budistas profundamente locales. Una copia del manuscrito fue hallada en la zona de Chiang Mai, en el norte de Tailandia, y su desciframiento se convirtió casi en una historia de espionaje en los círculos de la arqueología laosiana. De hecho, su contenido fue divulgado por una publicación de tirada muy limitada producida con ocasión de la última restauración del Wat Sisaket. El texto no se limita a describir cuestiones técnicas del trabajo de restauración, sino que publica por primera vez los resultados de una investigación llevada a cabo durante varios años por la EFEO de Vientián. Sin embargo, dicha divulgación se realizó sin su consentimiento y a partir de datos sustraídos. Lo cierto es que la historia del Buda Balansakaya no forma parte del currículum monástico. Por eso no se la considera un Jataka. No se encuentra en las bibliotecas de los templos y no es mencionada en ninguna de las ediciones en inglés o francés de los Jataka disponibles actualmente. Parece más bien pertenecer a una tradición budista muy localizada, emanación de alguna escuela de Chiang Mai. Para comprender las dimensiones a las que nos referimos, podríamos afirmar que el texto podría formar parte de una auténtica secta budista que, durante un determinado período, llegó a convertirse en el “Budismo del Reino de Lan Xang”. Esta afirmación se basa en el hecho de que la historia de este Buda fue representada en el sim del templo más importante construido por el rey de Vientián y de Luang Prabang, Chao Anouvong, cuando el Reino de Lan Xang era un protectorado del Imperio del Siam. Probablemente, su construcción tenía como objetivo afirmar una autonomía cósmica respecto al budismo siamés y, al mismo tiempo, reivindicar una forma local de budismo no subordinada a la de Bangkok. Lo que ahora resulta relevante destacar es que la pintura narra la historia de un reino mítico de más de dos mil años que vivió en una condición de paz mientras a su alrededor reinaban las guerras y las luchas por el poder. Esta paz fue posible gracias a la voluntad de los dioses, pero sobre todo mediante un arte diplomático sutil, fundamentado en el “budismo del Reino”, o mejor dicho, en la figura del Rey-Buda, en las relaciones de parentesco y en el intercambio de mujeres.

De hecho, estas zonas centrales del Mekong se caracterizaban por una debilidad estructural que durante mucho tiempo ha fascinado a los historiadores. El Mekong, si bien constituía una vía de comunicación esencial, nunca fue completamente navegable debido a las cataratas de Khone Phapheng, actualmente situadas entre el sur de Laos y Camboya. Por esta razón, la región del Mekong central permaneció, en cierto modo, aislada. Las tecnologías bélicas que hacían de las zonas costeras espacios más habituados a las guerras y a las conquistas llegaban a estas regiones con cierto retraso. La supervivencia de las formas locales de gobierno dependía, por tanto, no solo de aspectos económicos y comerciales —como el ciclo de las estaciones agrícolas o la capacidad de desarrollar productos manufacturados de cierto interés—, sino también del desarrollo de una forma sofisticada de soft power.

Para distinguir las categorías políticas de esta región de las europeas, suele utilizarse la expresión “sistemas galácticos” (para una discusión más detallada véase Tambiah). Así se designan aquellos reinos y estados que no ejercían un poder soberano sobre territorios delimitados, sino que operaban dentro de un sistema relacional en el cual, además del pago de tributos y de las alianzas militares, se mantenían vínculos religiosos y de parentesco. De este modo, cada centro urbano funcionaba como una fuerza gravitacional en torno a la cual se generaban fenómenos de urbanización y de homogeneización cultural. Más allá de un radio aproximado de 70 kilómetros, la influencia del centro cambiaba de forma y se inscribía en un mundo simbólico entre la mitología y la religión, cuya credibilidad dependía de los distintos momentos históricos. Por lo tanto, las alianzas y tratados requerían para su validación un intrincado intercambio diplomático basado en creencias, en reyes que se asemejaban a Budas, y en mujeres ofrecidas como dones.

Tomados en conjunto, los elementos organizativos delineados producían un sistema político plástico que, más que elaborar estructuras para garantizar su perpetuidad (más allá de la filiación), encontraba modos de adaptarse continuamente a los cambios. Esto ocurría a partir de una consciencia clara de la debilidad estructural que impedía a los habitantes del Lan Xang incluso imaginar grandes campañas militares de conquista y saqueo. Al menos hasta la llegada, primero, de la colonia francesa y, después, de las fuerzas paramilitares estadounidenses, las ciudades de Luang Prabang y Vientián fueron reiteradamente saqueadas y destruidas, y se sabe poco sobre expediciones militares exitosas que no se limitaran a territorios cercanos. Sin embargo, las dificultades logísticas derivadas de comunicaciones y transportes extremadamente lentos impedían que los ejércitos extranjeros se convirtieran en fuerzas de ocupación permanente.

El mito (o pesadilla) de la invasión extranjera —que desde siempre representa la experiencia traumática por excelencia de estas áreas geopolíticas— tomó históricamente en Luang Prabang la forma de saqueos, ocupaciones súbitas, generalmente resueltas mediante intercambios de dones, estatuas y mujeres ofrecidas como esclavas. Estos eventos reducían ciertamente el poder del rey, pero no lo anulaban. En parte, estas tierras parecen confirmar lo que Edmund Leach describía en los estados Kachin de Birmania, donde las organizaciones sociales locales oscilaban constantemente entre formas políticas autoritarias y modelos más abiertos e incluyentes. Esto podía suceder en periodos breves, como si las poblaciones hubiesen aprendido el arte de adaptarse a los encuentros, las cosechas y la buena fortuna.

No obstante, estos procesos de adaptación nunca hacían desaparecer los elementos profundamente localistas. Como en el caso del Jātaka “apócrifo”, tales localismos podían, en determinados momentos históricos, convertirse incluso en “religiones oficiales de los Lao”, o ser preservados bajo la forma de espíritus del lugar —los Phi—, custodiados por algunas casas nobiliarias que habrían mantenido soterradamente su propio poder carismático. Por tanto, reminiscencias y memorias sobrevivían tanto a los edictos reales que los prohibían como a saqueos repentinos, conquistas de pocos años, o al constante trabajo de borrado activado por la difusión del budismo Theravāda “oficial” y por la llegada de la modernidad.

El Encuentro Colonial


Laos e AnnamMapa político de Laos y del norte de Vietnam en la década de 1930

En resumen, Luang Prabang estaba gobernada por formas decididamente peculiares, y de algún modo estas rarezas le permitieron convertirse en un centro regional de importancia media, reconocido en todas partes. Sin embargo, la historiografía colonial centró sus investigaciones no en la plasticidad de los sistemas políticos locales, sino en la debilidad inherente, tanto militar como burocrática, de los reinos del Mekong central. Las estructuras político-administrativas encontradas eran en su mayoría descritas como el resultado de procesos de imitación y asimilación (para más detalles, véase Lieberman). Todo impulso innovador —tanto económico-cultural como político u organizativo— se consideraba marginal y en cualquier caso inestable. La sustancial oralidad de las poblaciones y su escaso uso de sistemas sofisticados de recolección de información que protegieran los archivos estatales tanto de desastres naturales como de saqueos, contribuyó ciertamente a reforzar esta atmósfera intelectual general. Y, como en muchas otras partes del mundo, la ausencia de una historia escrita autóctona pareció confirmar la existencia de sistemas políticos fragmentarios e incapaces de construir una imagen coherente y duradera de sí mismos (véase al respecto Lorillard). Indochina —nombre dado por el gobierno francés a los protectorados que había conquistado en los actuales Laos, Camboya y Vietnam a finales del siglo XIX— representa bien esta idea “colonialista” de lugar “débil”, definido por el encuentro de culturas milenarias —China e India— pero sin capacidad propia para influir en las trayectorias políticas y comerciales de la época.

La llegada de los franceses al Laos parece además paradigmática de una visión salvadora de la Colonia. En los textos de aquella época puede leerse, por ejemplo, que la “Colonia” había pacificado tierras marcadas por el caos y las disputas, que a menudo culminaban en el aniquilamiento total de los adversarios políticos; o que “el hombre blanco”, el falang, había devuelto la seguridad a ciudades que eran periódicamente saqueadas por bandas de asaltantes y bandidos; o incluso que había construido y perfeccionado las vías de comunicación, permitiendo un renovado crecimiento del comercio. La “Colonia”, en otras palabras, “trajo paz y bienestar”, pero al hacerlo redujo esencialmente la variedad de entidades políticas que existían a lo largo de los principales ríos de la región, sometiéndolas a un orden bien definido y jerarquizado, en cuya cúspide se encontraban las estructuras burocrático-militares y las empresas comerciales gestionadas generalmente por un pequeño grupo de falang. El relato del encuentro que vinculará de manera indisoluble a la familia real de Luang Prabang con el gobierno francés describe de forma casi paradigmática este ambiente intelectual.

El vicecónsul Auguste Pavie, en la historiografía colonial, desempeñó un papel esencial al salvar al rey Ounkam, en 1887, de una “banda de saqueadores chinos” conocida como el ejército de las “Banderas Negras”, comandada por un “señor de la guerra chino”, Deo Van Tri. Según relatos de este tiempo, la banda entró en Luang Prabang destruyendo gran parte de las estructuras arquitectónicas de la ciudad, pero el rey fue salvado por una embarcación que Pavie había preparado para trasladarlo a una ciudad más al sur, Paklay, también a orillas del Mekong, pero a más de 200 km de distancia. Como resultado de este acto heroico, a los franceses se les permitió reemplazar al reino de Siam como “protectores” del reino de Luang Prabang. Y aunque el nuevo protectorado no fue reconocido por otros reinos laosianos —especialmente por el Reino de Xiengkhouang— al menos hasta finales de los años 30, los franceses establecieron una nueva nación subordinada a la familia real de Luang Prabang, es decir, a sus aliados más fieles.

Estudios más recientes (véase aquí y aquí) han mostrado que podrían existir otras perspectivas sobre aquellos acontecimientos. En la historiografía laosiana, la época de anarquía y bandidaje que encontraron los franceses se denomina genéricamente como las “Guerras Ho” (Ho Wars), es decir, una serie de rebeliones, guerras civiles y saqueos que se originaron en el norte del país como consecuencia de amplios procesos migratorios en China durante la segunda mitad del siglo XIX. Por lo tanto, se refieren a un Otro general —los Ho— que eran poblaciones de origen chino, aunque con historias y procedencias muy diversas entre sí. Por esta razón, el término “Guerras Ho” tiende a representar, desde el punto de vista “laosiano”, una serie de trastornos económicos y demográficos profundos iniciados en China, resultado tanto del encuentro colonial (la difusión del cristianismo y el comercio con Inglaterra y Francia), como de las rebeliones locales contra las burocracias imperiales Qing. En los estados del sur y sureste de China, en un lapso de treinta años, de 1839 a 1873, murieron más de 30 millones de personas. Esta cifra —probablemente subestimada— se calcula sumando las víctimas de las dos Guerras del Opio contra Inglaterra (1839-42 y 1856-60), la Rebelión Taiping (1849-61), la guerra entre los clanes Punti y Hakka (1855-68) y la Rebelión Panthay (1856-1873). El impacto de estos eventos sobre las regiones del interior y las montañas de Vietnam y Laos ha sido escasamente estudiado. Por esta razón, el saqueo de Luang Prabang de 1887 ha sido considerado un producto periférico de transformaciones mucho más amplias. La narrativa colonial lo interpretó como una simple manifestación de bandidaje vinculada a la época de “anarquía”, es decir, a las Guerras Ho que precedieron la llegada de los franceses. En realidad, la historia era considerablemente más compleja.

Lo que hoy sabemos sobre el saqueo de Luang Prabang es que, en 1887, la Banda de las Banderas Negras ya no existía desde al menos cinco años atrás y, según algunos historiadores, era imposible considerarlos una banda: más bien se habían convertido en un cuerpo militar del ejército imperial vietnamita. La fusión definitiva con el ejército oficial se produjo durante la guerra de conquista de la Bahía de Tonkín por parte de los franceses (1884-85), pero ya desde antes habían estado al servicio de la administración imperial, gestionando diversos territorios alrededor del río Rojo, es decir, en la vía fluvial que conectaba China con Hanói. Tras la derrota vietnamita, su capitán, Liu Yungfu, junto con otros miembros de la Banda, se dispersaron. Algunos de ellos se refugiaron en las montañas del noroeste de Vietnam, lo cual podría haber confundido a Pavie y con él a toda una generación de historiadores franceses. Lo que probablemente confundió a Pavie fue la guardia personal de Deo Van Tri, compuesta efectivamente por soldados de la etnia Zhuang, algunos de los cuales procedían del cuerpo militar vietnamita y, en un pasado relativamente lejano, habían formado parte de las “Banderas Negras”.

Es interesante observar que, antes de enfrentarse a los franceses, la banda había formado parte del heterogéneo ejército de los Taiping, es decir, un ejército evangélico de carácter mesiánico que se rebeló contra la dinastía Qing y que, en poco tiempo, logró reunir un vasto conjunto de actores armados ajenos al ejército imperial chino. Su comandante supremo, Hong Xiuquan, tras haber estudiado con misioneros británicos, llegó a considerarse una especie de reencarnación china de Jesucristo. Los comandantes militares se reunían con él en asambleas de oración durante las cuales dialogaban con Dios y definían las estrategias militares a seguir. Su objetivo, más allá de la liberación respecto a la dinastía Qing, era la creación del “Reino Celestial” en China. La noción de “Reino Celestial” es de suma importancia para comprender los movimientos militares mesiánicos del sudeste asiático que acompañaron la construcción colonial en la región. No obstante, me detendré más en este punto en otra ocasión. Por ahora, baste decir que la derrota de la rebelión Taiping, junto con la muerte de millones de personas, generó movimientos migratorios a gran escala y presiones sin precedentes sobre la organización de la tierra. Todo esto ocurrió mientras la liberalización de la producción de opio, impuesta por los británicos, provocaba una igualmente inédita conversión productiva de los campos agrícolas hacia el cultivo de la adormidera. En pocos años, esta planta y su derivado, el opio, se convirtieron en la producción predominante en todo el sur de China. Evidentemente, los territorios fronterizos como Vietnam y Laos también se vieron profundamente afectados por esta rápida transformación. Por ende, resulta evidente que la categoría macrohistórica de las llamadas “Guerras Ho” aún está pendiente de una comprensión más profunda en la historiografía regional.

Deo Van Tri e Auguste PavieEn la foto se puede ver a Deo Van Tri junto a Auguste Pavie y la escolta Zhuang

Volviendo al saqueo de Luang Prabang, y una vez aclarada la naturaleza militar —y no meramente bandolera— de la expedición que atacó la ciudad, resulta pertinente redefinir también la narrativa en torno a la figura del “señor de la guerra chino”. Deo Van Tri, si bien descendía de chinos —su padre era un comerciante chino que se había casado con una princesa Tai Dam—, había nacido en Hanói y era considerado en aquella época como un rey Tai Dam. Por tanto, no puede ser clasificado estrictamente como un señor de la guerra chino. Además, su papel político fue, desde un inicio, de vital importancia para la colonia francesa. La amistad entre Deo Van Tri y Pavie, documentada, por ejemplo, en el reciente trabajo de Le Founnier, constituye probablemente uno de los vínculos más estrechos que desarrolló el vicecónsul de Luang Prabang durante la expedición colonial en la llamada “Indochina”. El clan Deo sería tan crucial para la administración colonial francesa precisamente por su capacidad para controlar el tráfico de opio en la región. Cuando, en 1954, los franceses fueron expulsados de Vietnam, el hijo de Deo Van Tri, Deo Van Long, fue trasladado con toda su familia a Francia, concretamente a Marsella, donde aún hoy residen sus descendientes.

Sin embargo, esta particular intimidad entre el clan Deo y ciertos emisarios coloniales no fue bien vista por todos en Luang Prabang. En particular, despertó sospechas en el virrey Phetsharat, quien, en diversos memoriales redactados por él mismo en la década de 1940 y basados en testimonios directos de personas que presenciaron los acontecimientos de 1887, cuestionó el papel desempeñado por Pavie en el saqueo de Luang Prabang. Según su interpretación, Pavie salvó al rey no porque estuviera previamente informado de los hechos, sino porque, de alguna manera, él mismo había contribuido a crear las condiciones que los hicieron posibles. Para no complicar aún más la narraciòn, bastará decir aquí que, antes del saqueo de Luang Prabang, el ejército de Siam había iniciado una operación militar a gran escala, apoyada por los británicos. Su objetivo era consolidar el control sobre el Mekong central y algunos de sus principales afluentes, como el Nam Ou, con el fin de gestionar más eficazmente la distribución del opio y, al mismo tiempo, establecer una zona de amortiguamiento que limitara el avance de las migraciones que caracterizaron aquella época. Luang Prabang fue utilizada como base de apoyo para la expedición militar que ascendió el río Ou hasta llegar a las regiones de Lao Cai, de las cuales Deo Van Tri, junto con su padre, era señor por derecho dinástico, tras los matrimonios con las mencionadas princesas. Allí, tras varios meses de guerra y la captura de al menos cinco miembros de la familia de Deo Van Tri, el ejército siamés se replegó y regresó a Bangkok. Según el testimonio del virrey Phetsharat, Pavie habría sugerido a Deo Van Tri que sus familiares capturados se encontraban precisamente en Luang Prabang, ciudad que Deo Van Tri conocía muy bien, ya que su padre lo había enviado a estudiar allí cuando era adolescente, en uno de sus templos principales. No por casualidad, los asesinados por Deo Van Tri no fueron los civiles que transitaban por las calles, sino precisamente aquellas personas que lo habían traicionado, es decir, aquellos más cercanos a él en la ciudad, como el entonces virrey Souvhanna Poumma, acusado de no haberle advertido a tiempo del peligro inminente.

La reconstrucción de otras perspectivas historiográficas sobre este episodio nos permite proponer algunas conclusiones lo suficientemente generales como para no forzar las evidencias históricas disponibles. En primer lugar, más que tratarse de un grupo de bandidos, el saqueo de Luang Prabang fue una expedición militar en toda regla, cuyo objetivo consistía en castigar a las altas autoridades políticas de la ciudad por su traición y por el apoyo brindado al ejército siamés. En segundo lugar, el asesinato de los aliados de Lao Cai provocó una fractura irreparable que impidió restablecer el statu quo mediante el cual Luang Prabang solía mantener relaciones tanto con Bangkok como con Lao Cai. Sin embargo, en lugar de acercarla más al Siam, esta fractura facilitó la instalación del poder colonial francés. Es decir, la división produjo el más clásico de los “divide et impera”. Al desconectar entre sí las zonas montañosas del norte y los vínculos históricos entre el río Ou y el río Negro, los franceses lograron gestionar con mayor facilidad los ingresos procedentes del tráfico de opio en esa región, sin necesidad de compartirlos con intermediarios demasiado poderosos, salvo el clan Deo en el río Negro y la familia real de Luang Prabang en el Nam Ou.

Los más perjudicados fueron sobre todo los pueblos dedicados al cultivo de adormidera, en particular los Hmong. A pesar de haber intentado en repetidas ocasiones rebelarse contra los nuevos acuerdos comerciales y contra los precios de venta más bajos, los Hmong quedaron divididos entre las dos zonas de influencia creadas por los franceses (véase Mai Na Lee). En efecto, esta fragmentación impidió que los líderes Hmong se consolidaran como intermediarios de referencia en la distribución del “petróleo de la época”, es decir, el opio, al menos hasta la llegada de la CIA. En tercer lugar, la necesidad estratégica de “cortar” las relaciones comerciales y políticas entre estas dos regiones geográficas constituyó una constante tanto en la época colonial como durante las dos guerras de Indochina. Los acontecimientos de Dien Bien Phu en 1954 podrían demostrarlo con bastante claridad, aunque este no es el objetivo del presente texto. Baste señalar, por ahora, que las fronteras impuestas entre ambas regiones impactaron directamente en el control del Mekong central, ya que impidieron la formación de poderes locales suficientemente ambiciosos y autónomos con respecto a los aliados del poder colonial. En otras palabras, los flujos de los sistemas galácticos fueron interrumpidos en beneficio de los intereses franceses.

En cuarto lugar, la “pequeña” mentira de Pavie tuvo un impacto considerable en la historiografía oficial de la Colonia. Sobre este punto conviene detenerse un poco más. A raíz de los acontecimientos de 1887, todos los textos franceses de la época colonial sustentan una idea fundamental para la legitimidad de la administración de París: la supuesta aceptación generalizada por parte de la población local. Podría entonces afirmarse que nos encontramos ante una situación antropológica comparable a la del Capitán Cook, tal como fue formulada por uno de los referentes de la antropología poscolonial, Marshall Sahlins. Sin embargo, de esta presunta benevolencia derivó una larga serie de hipótesis historiográficas que no solo sirvieron como justificación ideológica del proyecto colonial, sino que también establecieron las bases jurídicas y políticas para las posteriores intervenciones militares francesas en la región. Por esta razón, resulta necesario dar un pequeño salto temporal hasta la Segunda Guerra Mundial con el fin de retomar algunas cuestiones aún no resueltas del encuentro colonial.

LaLiberazionePortada de un texto (1985) de propaganda militar durante la Guerra Fría en Laos

En síntesis, si la población local era feliz con la presencia francesa y las crónicas de la época apenas lograban registrar episodios de revuelta o rebelión, incluso en las zonas más remotas del país, ¿por qué surgió entonces un movimiento antifrancés? El nacionalismo lao y los sentimientos antifranceses de los años treinta, organizados en torno al movimiento (también armado) del Lao Issara, fueron reducidos por la administración colonial a un proyecto político elitista con escasa difusión entre la población. En aquellos años, en la cúspide del movimiento se encontraba el virrey de Luang Prabang, Phetsarat. No por casualidad, su cargo fue suprimido por la administración colonial. Su figura conservaba un valor simbólico dentro de la ciudad, pero ya no poseía ningún valor “nacional”. En efecto, el virrey habría sucedido al rey en caso de fallecimiento, pues existía un sistema de transmisión del poder que seguía líneas de consanguinidad también horizontales y no exclusivamente por filiación directa.

Entre los miembros del Lao Issara se encontraba también el llamado “Príncipe Rojo”, Souphanouvong, nacido de la relación furtiva entre el padre de Phetsarat y una empleada doméstica de su residencia, y gran amigo de Ho Chi Minh. El conflicto entre las dos facciones alcanzó su punto más dramático el 12 de octubre de 1945, fecha simbólica para el indigenismo mundial, cuando Phetsarat, en calidad de Primer Ministro, declaró la independencia de Laos con respecto a Francia. El rey Sisavang Vong no ratificó la declaración y, por el contrario, emitió una orden de arresto contra Phetsarat y Souphanouvong, acusándolos de traición a la monarquía. Ambos permanecerían en prisión por muy poco tiempo, ya que las mismas guardias les permitieron escapar hacia Tailandia. Allí, junto a otros miembros del Lao Issara, comenzaron a organizar la resistencia armada contra los franceses y contra la familia real de Luang Prabang.

En pocas semanas, lograron reconquistar dos ciudades clave del centro-sur del país, Thakhek y Savannakhet. En estas localidades, junto a restos del ejército ocupante japonés y voluntarios vietnamitas, construyeron barricadas para defenderse de las represalias del ejército francés, que para entonces había salido de la esfera de influencia alemana y recibido armamento y suministros de los británicos.

Según diversos textos de historia militar francesa —citados en la ya mencionada obra de Mai Na Lee— las alianzas en clave antifrancesa y “anti-hombre blanco” que el Lao Issara forjó, especialmente con los remanentes de las fuerzas japonesas y con el grupo armado Viet Minh de Ho Chi Minh, proporcionaron a los franceses y a mercenarios hmong el mandato “histórico” de llevar la guerra contra el nazi-fascismo también en Laos. En otras palabras, las campañas militares de 1945-46 —durante las cuales se cometieron un número aún impreciso de masacres— fueron inscritas en la historiografía oficial como parte de la cruzada global contra el nacionalsocialismo y como operaciones para la “liberación de Laos”.

Entre dichas acciones, la más significativa fue la masacre de Thakhek (vease el reciente trabajo del historiador Vattana Polsena, donde, en pocas horas, la aviación franco-británica exterminó a varios miles de personas que, sin haber visto nunca antes un avión, intentaron refugiarse en el Mekong, convirtiéndose en blanco fácil. El general francés Jean Boucher de Crèvecœur —quien ocuparía importantes cargos militares en Europa hasta la década de 1980 y que comandaba aquella expedición— calificó la masacre como una victoria fundamental contra el nazi-fascismo. La matanza de Thakhek, ocurrida el 21 de marzo de 1946, es considerada hoy por los historiadores del Partido Comunista Laosiano como el acontecimiento que dio inicio a la Primera Guerra de Indochina en Laos, y que marcó de forma decisiva el apoyo popular a las guerrillas.

Lo que, sin embargo, debe subrayarse a modo de conclusión para los fines de este escrito, es que en el relato colonial, la gendarmería francesa llegó a estas tierras primero como salvadora y luego como liberadora, al menos hasta 1954, cuando fue finalmente expulsada.

Asimismo, es necesario aclarar que en Laos tuvo lugar, ante todo, una larga guerra civil que comenzó el 12 de octubre de 1945 y concluyó el 3 de diciembre de 1975 con la proclamación de la República Democrática Popular Lao. Inmediatamente después, se inició una fase de “limpieza social” que, si bien no desembocó en un genocidio como en la Camboya de Pol Pot, sí provocó un vasto flujo de expulsiones y exilios de todas aquellas personas consideradas colaboradoras de la CIA o de la monarquía de Luang Prabang. La antigua capital del reino de Lan Xang se convirtió en pocos años en una “ciudad fantasma”, como la definió un urbanista francés de la UNESCO cuando pudo ingresar en ella a inicios de la década de 1990.

Junto con el abandono de algunas zonas del país, muchas otras habían sido completamente arrasadas. De ciudades y monumentos no quedaban más que ruinas en todo el antiguo Reino de Xiengkhuang. Lo mismo ocurrió en el centro-sur de Laos. No obstante, la reconstrucción no se benefició de ningún fondo ni capital extranjero. Sus aliados, China y Vietnam, atravesaban también graves dificultades, y la URSS ya había entrado en su fase de declive, presionada por el sostenimiento de un aparato militar sobredimensionado. A excepción del arroz y unos pocos recursos básicos, los aliados de la recién nacida República Popular no pudieron impedir una trágica hambruna debida quizás más a la presencia de minas y bombas sin detonar esparcidas por los arrozales de los valles fluviales que a la colectivización de las tierras, la cual, en todo caso, duró apenas un quinquenio.

La gestión de esta fase extremadamente compleja y dolorosa, marcada tanto por la expulsión de sectores sociales como por la reconstrucción nacional, recayó en el comandante del Ejército de Liberación de Laos, Kaysone Phomvihane, nacido en Savannakhet de padre traductor vietnamita y madre campesina laosiana. Kaysone había participado desde las primeras horas en las revueltas antifrancesas y en el movimiento Lao Issara, y su historya constituye hoy una de las leyendas fundacionales del país.

La excepción de Kaysone


KaysoneEstatua de Kaysone Phomvihane expuesta en el museo dedicado a las guerras de liberación de Laos, Vientián, Laos

Hoy en día, para quienes sostienen posturas marcadamente nacionalistas y nostálgicas del período monárquico, el comandante del Ejército de Liberación de Laos es considerado vietnamita y no laosiano. Esta afirmación posee una doble dimensión. Para algunos, los más radicalizados, Kaysone sería un usurpador del poder de los Lao, que no respetó los acuerdos de paz y accedió al poder mediante un golpe de Estado. Ello ocurrió como resultado de una voluntad política “externa”, atribuida a la Internacional Comunista, y no de una decisión colegiada tomada por la Asamblea Nacional. En efecto, estos sectores no consideran a Kaysone un héroe que, junto a unos pocos compañeros, luchó gran parte de su vida por la independencia política de Laos. Por el contrario, lo ven como el artífice de su sometimiento al comunismo. Esta postura me ha sido reiterada en múltiples ocasiones, de manera informal, por exponentes del movimiento democrático laosiano más radical, es decir, aquellos que aspiran a instaurar una monarquía constitucional en el país, al estilo tailandés.

Existe, sin embargo, una segunda interpretación, más sofisticada, sobre la “impureza” del antiguo comandante guerrillero. El padre de Kaysone era vietnamita y llegó a Savannakhet junto a los franceses, desempeñándose en la administración y la burocracia local en representación de éstos. Durante la época colonial, fueron varios miles los vietnamitas que migraron a Laos por decisión expresa de las autoridades francesas. No poseo elementos suficientes para calificarlas como deportaciones, pero algunos habitantes del centro-sur del país las recuerdan en esos términos. Su fuerza laboral contribuyó sustancialmente a la construcción de la mayoría de las vías de comunicación y residencias coloniales en esa región de Laos. El padre de Kaysone contrajo matrimonio con una mujer laosiana de origen humilde de un poblado cercano a Savannakhet. Además, era profundamente budista, y Kaysone fue educado desde pequeño en un monasterio, viviendo como novicio hasta los 16 años. Posteriormente, su padre decidió enviarlo a estudiar a Vietnam, donde residió varios años en Hanói. A diferencia de las historias anteriores y de las dinastías reales, la biografía de Kaysone se presenta desde el inicio como una excepción.

Se trata de la historia de un laosiano común cuya laocidad, su “sangre lao”, no le proviene del padre, sino de la madre. No estudia en las escuelas coloniales francesas, sino en un monasterio; es padre devoto y esposo enamorado de su única mujer, alejado de cualquier forma de concubinato. Incluso las fotografías que lo retratan ya como Primer Ministro de Laos lo muestran en una vivienda modesta, con una mesa de ping pong y vestido con ropas populares, sin ostentar jamás el poder que había alcanzado. Todo esto se distancia enormemente de la estética del poder real que caracterizó a la monarquía, especialmente tras la llegada de los franceses. Difícilmente una persona como él habría podido acceder a las altas esferas del poder nobiliario de Luang Prabang o Vientián. Y es precisamente este haber venido de “fuera del Reino” lo que lo convierte, a los ojos de los nacionalistas monárquicos, en un “vietnamita” y no en un “laosiano”, una condición de impureza compartida hoy por muchas personas nacidas de relaciones entre falang y mujeres laosianas.

Cabe señalar que no nos hallamos ante un culto al líder típico de los regímenes totalitarios, como suele afirmarse de forma apresurada respecto al Museo de la Resistencia que le fue dedicado. Nos encontramos más bien ante una ruptura con el pasado colonial, en la cual el país es narrado desde otras perspectivas, invirtiendo precisamente ese culto que históricamente había sido reservado a los Reyes-Buda. La historia de Kaysone propone una nueva laocidad: popular, ascética y carismática, dado que su amor patriótico no nace del deseo de poder dentro de un palacio real, sino entre las barricadas de Savannakhet y luego de Thakhek, en su haber vivido diez años en un monasterio y diez años de guerra en una caverna, junto a otras 30.000 personas, en la ciudad secreta de Viengxai. Su trayectoria es, en definitiva, una historia de rebelión que recorre un camino budista. Más que un culto personalista, el retrato que se presenta adquiere los rasgos de un ejemplo a seguir y recuerda a las nuevas generaciones del Partido Comunista —a menudo poco atentas a las lecciones de la historia— los elementos fundamentales del ser guerrillero encarnado por Kaysone.

Comitate Centrale ClandestinoComité Central Clandestino del Ejército de Liberación de Laos, Vienxay, distrito de Huaphan, Laos

Si se pretende ir aún más allá y profundizar la reflexión, es posible vincular este relato sobre Kaysone con una específica producción mítica y literaria laosiana, compuesta por héroes del pueblo que, gracias a la sabiduría adquirida durante sus viajes, logran cumplir hazañas extraordinarias. Estos mitos se distinguen de los budistas o regios por la ausencia de linaje en sus protagonistas. Algunos han sido incorporados a la cosmología budista, otros subsisten como relatos orales. Entre los primeros destaca el de Sieu Savath, representado en la “Capilla Roja”, junto al monasterio más importante de la ciudad, el Wat Xieng Thong. Narra la historia de un joven campesino que decide partir a conocer el mundo y, tras múltiples peripecias, logra convertirse en consejero del rey, a pesar de su ignorancia y de no pertenecer a ninguna casa noble. Lo consigue gracias a una inteligencia innata y una aguda comprensión de las situaciones que enfrenta.

En la segunda categoría de relatos, especialmente en el área de Luang Prabang, puede identificarse otro grupo mitológico, centrado en poblaciones originarias que habitan los bosques y no practican la agricultura. Estas poblaciones son a menudo denominadas “Kha”, término que históricamente designó a pueblos no lao, frecuentemente subordinados o esclavizados. En otros casos, las leyendas tratan sobre los Nyak, demonios del bosque, probablemente así llamados por lo cruento de sus rituales. Como ya se mencionó, con el paso del tiempo estos ritos fueron prohibidos, eliminados o absorbidos por la religión del Reino. En conjunto, estos relatos podrían representar reminiscencias del pasado premonárquico, o bien una pacificación cosmológica nunca culminada en el Mekong central. Desde esta perspectiva, la historia de Kaysone constituiría una auténtica inversión ontológica: marcaría el repliegue de la mitología fundacional de la ciudad sobre un héroe popular que finalmente supera las prácticas monárquicas.

Sin forzar en exceso las conclusiones, la leyenda de las doce hermanas —ya atribuible al período monárquico, aunque con reminiscencias de una época anterior— insinúa la posibilidad de que Luang Prabang posea también un espíritu tutelar femenino. Se trata de una “Reina Indígena”, Nang Kwang Hi, demonio del bosque e hija de la reina del reino de los Nyak, Nang Khong Bhali, cuyo nombre retoma el término “khong”, que en lao contemporáneo significa mono. El mono es un animal recurrente en la mitología local. En la versión laosiana del Ramayana —poema épico indio vinculado, no por casualidad, al rapto de una mujer— no es Hanuman, la deidad hinduista hombre-mono, quien asiste a los héroes, sino un ejército de monos. Además, en esta versión, los dos protagonistas, Phra Lak y Phra Lham, se transforman en monos tras ingerir una raíz venenosa, y durante su búsqueda del demonio y de su amada fundan numerosos poblados a lo largo del Mekong, reclutando así el ejército que derrotará al demonio. En la leyenda de las doce hermanas, en cambio, la princesa nyak se enamora del hijo de la menor de las doce hermanas, Buddhasen, héroe popular laosiano célebre por su éxito en el juego y las peleas de gallos. Ambos mueren de un amor irrealizable que no produce descendencia. En la muerte, son sepultados juntos. La tumba de Nang Kwang Hi sería la montaña situada en la margen derecha del Mekong, frente al centro urbano, conocida como Phu (montaña) Nang (mujer). La tumba de Buddhasen es la montaña adyacente, llamada Phu Thao (hombre). No obstante, la leyenda cuenta que Buddhasen murió a los pies de Nang Kwang Hi, pero que Indra (el dios), al ver en esta superioridad femenina un mal augurio para el futuro del reino —dado que ella era un demonio— decidió invertir sus posiciones, colocando a la mujer a los pies del hombre.

Este mito contiene varios elementos relevantes, sobre todo si se compara con los que conciernen a las familias nobiliarias de Luang Prabang. En primer lugar, a una dinastía de demonios/indígenas que se extingue corresponde la de Khoun Bhulom, el ancestro totémico de la familia real, cuyo hijo, Khoun Lo, conquistó Muang Swa (nombre original de Luang Prabang) en nombre de su padre. Probablemente, Khoun Lo arrebató la ciudad a los Kha o Nyak. En segundo lugar, la historia de Nang Kwang Hi describe claramente el final de un sistema matrilineal por voluntad divina. No sabemos si esto constituye una codificación mítica de la consanguineidad patrilineal como “regla del reino”. Asimismo, este mito no justifica necesariamente el intercambio de mujeres como práctica de gobierno. Tampoco conocemos con certeza si, y cómo, en el caso particular de Luang Prabang, los Kha se convirtieron en Lao. En este sentido, los archivos coloniales de las diversas expediciones posteriores a las de Pavie continuaron utilizando el término “Kha” para referirse a ciertas poblaciones no lao. A inicios del siglo XX, parece que la palabra tenía un valor peyorativo y se empleaba de manera racista para designar a personas que vivían en condiciones de esclavitud de facto (véase Schliesinger). En cualquier caso, en los relatos de la ciudad, ambos mundos permanecen separados cuando uno —el real y budista— no logra imponerse sobre el otro. El relato sobre Kaysone parece entonces reinscribirse en un mundo mítico históricamente sometido o suprimido. Sería interesante reinterpretar la compleja cuestión étnica laosiana partiendo de este campo “indígena” vencido pero redescubierto en el Laos moderno, más allá de la dialéctica entre rey indianizado y líder carismático. De este modo, podríamos volver a apreciar sistemas políticos que no necesariamente se ajustan a las categorías politológicas modernas, y reconsiderar vínculos y relaciones que la prolongada guerra civil del país ha desgarrado profundamente. Escribiré más al respecto en cuanto sea posible.


noblogo.org/from-balvano-to-th…



NOVITÀ DI VENERDÌ 30/5/25.


Anche in questa puntata inserirò il carico San Paolo.

NOIR, GIALLI E THRILLER:

  • I COLLEZIONISTI di Paolo Regina (Neri Pozza). Prima indagine del vicequestore Gaia Innocenti. Un antiquario inglese viene rinvenuto strangolato a mani nude in un padiglione della fiera Antiquitates di Trani. Trasferita in Puglia dalla Romagna, la vicequestore Gaia Innocenti indaga sul caso, che nasconde parecchi segreti. Per saperne di più: scheda libro.

FUMETTI, MANGA E GRAPHIC NOVEL:

  • OCCHI di Soshiki Tonari, illustrazioni di Junji Ito (J-Pop). In realtà non è propriamente un fumetto: si tratta più che altro di un albo, illustrato da un maestro del manga horror. Racconta la storia di un bambino, ossessionato dalle facce e dagli occhi che, piano piano, compaiono ovunque intorno a lui e lo guardano. Terrificante. Per saperne di più: scheda libro.

SAGGISTICA:

  • SUPERBLOOM di Nicholas Carr (Raffaello Cortina). Un saggio sui meccanismi che regolano i social network e gli strumenti di messaggistica, e di come queste piattaforme favoriscano il conflitto, la ristrettezza della comunicazione, l'aggressività, e di come la “superfioritura” di dati e informazioni rischia di distorcere la percezione della realtà. Per saperne di più: scheda libro.
  • LA STRAGE DI USTICA di Massimo De Angelis (Newton Compton). Cosa accadde a quel DC-9 Itavia, il 27 giugno 1980? A distanza di 45 anni, manca ancora un colpevole, e i depistaggi e le bugie si sono accumulate fino a coprire completamente la verità. Massimo De Angelis, quel giorno, si trovava proprio a Ustica e, dal suo punto di vista, racconta in questo libro tutti i fatti che è stato possibile accertare. Per saperne di più: scheda libro.
  • NICEA 325 di Andrea Cavallini (San Paolo). Di nuovo, un volume sul Concilio che 1700 anni fa ha stabilito i dogmi e i fondamenti teologici della dottrina cristiana. Per saperne di più: scheda libro.
  • Sempre da San Paolo: AMA CIÒ CHE FAI di Stefano Bartoli, Simona Milanese e Lara Ventisette. Un manuale di auto-aiuto psicologico, che indica come uscire dalle trappole che bloccano l'esistenza: l'inseguimento della produttività, del successo, dell'approvazione altrui, eccetera. Si può aumentare il proprio benessere, proprio trasformando quelle trappole psicologiche e le difficoltà della vita in opportunità di crescita, amando ciò che si fa e ciò che si è. Per saperne di più: scheda libro.

INFANZIA E RAGAZZI:

  • Per Librido Gallucci, ecco qualche titolo:
    • STICKER SPESSI – UNICORNI (scheda libro) e STICKER SPESSI – FATTORIA (scheda libro): due raccolte di stickers (attacca-stacca) grossi e spessi, facili da prendere, con 4 scenari dove poterli collocare. Illustrazioni e disegni di Lucile Ahrweiller. Per i lettori dai 3 anni.
    • IL CANTIERE RINNOVA IL QUARTIERE di Sherri Duskey Rinker e A.G. Ford (scheda libro): il quartiere era bello e accogliente, ma adesso le case abbandonate e la spazzatura accumulata creano disagi e degrado. Come si può fare per ritrovare la bellezza della zona? Ci vuole un progetto (e un gioco di squadra) per ripulire tutto: una storia in rima per raccontare a cosa servono e come funzionano i vari macchinari stradali e automezzi. Età di lettura: dai 3 anni.
    • LE MIE CREAZIONI – LANTERNE DI CARTA di Julie Mercier (scheda libro): un manuale completo di carta decorata (10 fogli) per creare ghirlande e lanterne luminose (sono incluse anche le luci led). Età di lettura: dagli 8 anni.


  • MANI IN PASTA CUORI FELICI di Valeria Bedeschi (Mimep-Docete). Una raccolta di attività creative (cucina, giardinaggio, bricolage) per passare qualche ora lontano dallo schermo di televisione, videogiochi e smartphone. Età di lettura non indicata: a mio parere, dai 7 anni.
  • Per la casa editrice Buk Buk, abbiamo due libri di Sara Benecino, della collana Provo anch'io (età di lettura: dai 7 anni):
    • IL PICCOLO MANUALE DELLE DIFFERENZE (scheda libro): un volume per apprezzare le differenze e le qualità che ci rendono unici.
    • IL PICCOLO MANUALE DEI MESTIERI (scheda libro): un “compendio” delle professioni e dei mestieri per scoprire cosa vogliamo fare da grandi.


  • LA VITA COMINCIA ALLE MEDIE – 2. IDRISSA di Alice Boutaud (La Nuova Frontiera Junior). La Banda dei Tonni è composta da 5 amici inseparabili. In questo secondo volume della serie, il protagonista (e voce narrante) è Idrissa: il classico “primo della classe”, intelligente, con gli occhiali e tutto il resto. Ultimamente, però, gli stanno accadendo cose un po' strane: i suoi genitori gli dicono che stanno per separarsi, e un gatto fantasma comincia a fargli visita... Il sostegno dei suoi amici della Banda dei Tonni è più che mai necessario! Età di lettura: dai 10 anni. Per saperne di più: scheda libro.

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Sigur Rós - Kveikur (2013)


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Dopo il non troppo brillante Valtari, album in certi momenti soporifero, i Sigur Ròs ritornano con una veste rinnovata e questa volta convincono. Kveikur, il settimo album in studio della band islandese attiva dal 1994, si muove su strade più dinamiche ed effervescenti, evidenziando subito la diversità dai lavori precedenti, infatti, Kveikur è forse l'album più avventuroso dei Sigur Rósl e può davvero essere visto come un nuovo inizio per la band... artesuono.blogspot.com/2014/10…


Ascolta: album.link/i/1447442983



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Sigur Rós - Kveikur (2013)


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Dopo il non troppo brillante Valtari, album in certi momenti soporifero, i Sigur Ròs ritornano con una veste rinnovata e questa volta convincono. Kveikur, il settimo album in studio della band islandese attiva dal 1994, si muove su strade più dinamiche ed effervescenti, evidenziando subito la diversità dai lavori precedenti, infatti, Kveikur è forse l'album più avventuroso dei Sigur Rósl e può davvero essere visto come un nuovo inizio per la band... artesuono.blogspot.com/2014/10…


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Chi cambierà la scuola? Coloro a cui non piace!


di khule wampe


Oggi vorrei parlare della storia del cosiddetto boicottaggio dell’esame di stato del secondo ciclo di istruzione e della conseguente repressione esplicita e implicita a cui abbiamo assistito a livello politico e mediatico. Per farlo, oltre al racconto della vicenda di attualità, aggiungerò due piccoli contributi: il mio esame di stato del 2005 e un film tedesco sceneggiato da Brecht nel 1932 (da cui deriva il nome di questo blog e il mio nickname).

Vent’anni fa, in Molise


Nel 2005 ero in quinta liceo scientifico e, un po’ come tuttə lə compagnə della mia classe, pensavo a come sarebbe andato l’esame di stato. Avevo in realtà tenuto una buona media dei voti nel triennio (tirata notevolmente su solo da due materie: matematica e fisica) e quindi avevo a disposizione il massimo dei crediti. Massimo che però, nel 2005, era di 20 punti. C’era molto da fare per arrivare a 60!

La prima prova, il tema di italiano, fu un colpo di fortuna: quando arrivo il foglio con le tracce ministeriali volevo spararmi, tra Dante e altri testi. Poi, per fortuna, l’ultima traccia sui 100 anni della teoria della relatività di Albert Einstein mi salvò la vita.

Feci quella. E così andò bene, 15 su 15. La seconda prova, come previsto, fu una passeggiata: 15 su 15 e aiutai pure tutta la mia 5D a combinare qualcosa (e aiutai anche la 5C…). La terza prova, quella più rognosa, anche andò abbastanza bene: sbagliai qualcosina e presi 13 su 15.

Insomma, alla fine degli scritti avevo già 62. Mi ricordo benissimo quando andai a Campobasso con alcunə della mia classe a vedere gli esiti degli scritti: ero inebriato dal fatto che fossi, praticamente, già diplomato! Quasi quasi…“e se non andassi all’orale?” Fu un pensiero che mi balenò in testa, lo ammetto. Non avevo proprio alcuna velleità di ottenere un voto alto, anche perché, onestamente, mi era davvero indifferente rispetto a ciò che avrei fatto qualche mese dopo (l’accesso al corso di laurea in astronomia a Bologna era libero e non esistevano test d’ingresso e TOLC, ma di questo ne parliamo un’altra volta).

Alla fine, ovviamente, era impossibile per me all’epoca trovare il coraggio di non andare all’orale. Quindi andai e me la cavai abbastanza bene.

Perciò in questi giorni del 2025, quando ho letto di due studentə che hanno deciso di fare, volontariamente, scena muta al loro esame di stato, ho cercato di immaginare dove avessero trovato il coraggio. Mi sembrava impossibile l’avessero fatto. Poi mi sono detto che forse l’avevano trovato il coraggio perché, dopo anni, non ne potevano più e volevano farlo sapere al mondo intero.

Con una protesta pacifica e plateale, con delle ragioni profondamente politiche dietro.

Diplomati e “mazziati”: cos’è successo in questi giorni a chi ha boicottato l’esame di stato


Anche Gianmaria Favaretto, a Padova, aveva 62 già prima dell’orale. E il giorno della sua prova orale ha preso coraggio e ha deciso non rispondere alle domande della commissione (alla fine però ci sarà un compromesso sullo svolgimento dell’esame e arriverà a 65/100). Ha portato la sua protesta in sede d’esame perché per lui «l’esame di maturità per me è una sciocchezza, non rispecchia la reale capacità dei ragazzi, figuriamoci la loro maturità». E inoltre: «in classe c’è molta competizione. Ho visto compagni diventare addirittura cattivi per un voto».

Maddalena Bianchi, a Belluno, ha portato una protesta simile il giorno del suo orale, poiché con i voti degli scritti era già promossa. All’orale ha detto che protestava per andare contro «i meccanismi di valutazione scolastici, l'eccessiva competitività, la mancanza di empatia del corpo docente».

Per prima cosa bisogna fare tanto di cappello a questə ragazzə: hanno avuto davvero un coraggio fuori dal comune. Del resto, per contrastare lo status quo di questi tempi serve fare qualcosa di straordinario.

E infatti la prova definitiva dell’importanza della loro protesta è arrivata a stretto giro con le dichiarazioni del ministro dell’istruzione Valditara: chi in futuro boicotterà l’esame, come hanno fatto Favaretto e Bianchi, verrà bocciato. Taaaac. Intervistato da Fanpage.it il ministro aggiunge una dichiarazione, a mio avviso, sconcertante. Alla domanda “Perché pensate a una misura così dura?” la risposta di Valditara è stata:

Dura? È una misura necessaria. Atteggiamenti che deliberatamente intendano boicottare gli esami sono offensivi verso il lavoro dei commissari, e sono offensivi nei confronti di quei compagni che hanno studiato e si sono impegnati. Sono anche offensivi verso la scuola, che è una cosa seria.


Repressione totale dal cuore del sistema


Quindi, anziché mettersi in ascolto delle istanze portate avanti da Favaretto e Bianchi, il governo decide di reprimere subito questa manifestazione coraggiosa, ma tutto sommato pacifica, di dissenso. Mi sarei aspettato un commento più sprezzante, à la mangino brioche di mariantonettiana memoria, ovvero qualcosa come “se a loro sta bene buttare via un potenziale 100 e lode, che facciano pure”.

Invece no. Repressione. E sapete perché? Perché la protesta ha colpito al cuore del sistema.

L’esame di stato è stata un’idea del primo governo fascista, nel 1923, con il ministro dell’istruzione Giovanni Gentile. Innanzitutto si chiamava esame di maturità e si trattava di un esame tostissimo (ne ho parlato in questo post su Instagram, dateci un’occhiata se volete approfondire). L’idea di fondo era quella di selezionare la classe dirigente. Gli stessi fascisti, pensate, qualche hanno dopo hanno dovuto un po’ ammorbidirlo, per dire, a causa dell’incredibile tasso di persone bocciate nei primi anni.

Questo retaggio fascista, decisamente ammorbidito e modificato, lo abbiamo ancora oggi. E l’idea che c’è dietro è ancora quello di selezionare, classificare. Idea che, peraltro, permea ogni secondo della vita scolastica con i suoi voti, le note disciplinari, le sospensioni, il voto in condotta. Favaretto e Bianchi hanno puntato il dito contro questo. Infatti loro due sono esempi di studenti che tutto sommato andavano bene a scuola, avevano buoni voti e hanno fatto anche buone prove scritte all’esame. Favaretto e Bianchi hanno usato il loro privilegio di persone già tecnicamente diplomate per parlare anche a nome dellə loro compagnə di scuola che invece hanno dovuto sostenere l’orale con tutti i crismi perché il diploma era ancora da guadagnare.

Favaretto e Bianchi hanno fatto notare, con la loro protesta, che a scuola germogliano i semi di ciò che poi, fuori nella società, è causa di disuguaglianze e problemi: competitività, meritocrazia, meccanismi valutativi per qualsiasi cosa per cui si ha la pretesa che sia “misurabile”. Dovrebbe farci riflettere davvero tanto il fatto che siano state due persone di 19 anni a far emergere con forza questi aspetti per cui noi adulti ormai ci abbiamo fatto il callo come se fosse inevitabile. Loro hanno detto, per un attimo, “basta” e hanno rinunciato alla consuetudine, a un momento che per tantissimə altrə studenti è stata una giornata di festa e gioia.

Solidarietà negativa a tutto campo


Ma se la reazione del governo è tutto sommato comprensibile, in quanto difensore supremo dell’autoritarismo insito nelle nostre istituzioni educative e non, un po’ meno comprensibile è stata la reazione di docenti e società “civile”. Alcune persone, bisogna dirlo, hanno solidarizzato con lə studenti e hanno chiesto al governo di ascoltare le ragioni di cui si sono fattə portavoce Favaretto e Bianchi; ma una grossa fetta di persone ha insistito su due aspetti su cui vorrei soffermarmi con voi: la solidarietà negativa e la necessità di adattarsi.

La solidarietà negativa è stata espressa da quelle persone che hanno detto: “va beh, ci siamo passatə tuttə, non vedo perché non ci debbano passare anche loro”. A me sembra assurdo sentire ragionamenti del genere. Semmai è il contrario: proprio perché io ho sofferto, allora non voglio che altre persone soffrano. Evidentemente sono io a pensare nel modo sbagliato.

La necessità di adattarsi invece è stato espressa da quelle persone che hanno detto: “Eh, ma poi voglio vederli questə quando vanno nel mondo del lavoro!”. Questo tipo di commento, secondo me, è ancora più feroce della solidarietà negativa perché ci si aspetta un’inevitabile gigantesca sofferenza futura per chi oggi è studente. E di chi è la colpa? Della scuola, ovviamente, perché non prepara al mondo che c’è la fuori.

E qui veniamo alla nota dolente: questa è anche la posizione di moltə docenti. E infatti per questo, così chiudiamo il cerchio, è il motivo per cui Favaretto e Bianchi hanno protestato. Infatti spesso, a scuola, moltə docenti si lamentano del fatto che lə studenti prendano male un voto negativo come 3 o 4. “Dovrebbero abituarsi alla vita fuori dalla scuola, è un modo per imparare a crescere!” il commento che ho sentito più spesso nelle aule insegnanti dalla bocca dellə miə colleghə. Ma questo è esattamente ciò che hanno detto Favaretto e Bianchi: la scuola allena alla competizione, insegna ad adattarsi tramite i meccanismi di valutazione in uso. È proprio questo il punto!

Una crepa nello status quo


Questo è il motivo per cui nessunə ha veramente prestato attenzione a queste proteste. Perché Favaretto e Bianchi hanno creato una crepa nello status quo. Ma lo status quo siamo noi: ripensare ai meccanismi di valutazione, al motivo per cui valutiamo e al come lo facciamo, allora dobbiamo ripensare anche alle nostre vite, al motivo per cui insegniamo a scuola, fare pura pratica di autocoscienza e guardare in faccia il mondo che ci circonda per immaginarne uno diverso. Fare questo, per tantissime persone, costa. Non è indolore. Vuol dire mettere in discussione una vita intera, tanti privilegi e soprattutto ridiscutere il futuro individuale che, giorno dopo giorno, ogni persona si sta costruendo solo ed esclusivamente per sé stessa. Anche lavorare in una scuola competitiva, che seleziona e reprime, pur sembrando un lavoro per la collettività, in realtà non fa altro che cristallizzare il mondo in cui determinate persone hanno determinati lavori, posizioni e privilegi.

In questo quadro di manutenzione dello status quo, chi non vuole scalfire la situazione generale pur sembrando mostrare un minimo di empatia animato dalle migliori intenzioni, in realtà svela il suo lato più repressivo.

È stato il caso di docenti-influencer molto famosi che pur riconoscendo le ragioni del boicottaggio dell’esame di stato, hanno avuto da ridire su come è stata fatta la protesta. E questo credo sia qualcosa di assurdo. Docenti che sui social hanno milioni di follower, anche mostrando una loro certa visione della scuola, hanno anche la pretesa di spiegare allə studenti come avrebbero dovuto protestare per avere un risultato “più efficace” (secondo loro…).

Oppure, addirittura, un docente molto seguito ha scritto un post per dire “che è facile protestare quando hai già 60”. Non ci sono parole. Non vi metto i link, li potete trovare su Instagram (per le prossime 24 ore anche nelle storie del mio profilo…).

Chi cambierà il mondo, allora?


Tutto questo mi ha ricordato un film che ho visto nel 2021 al festival del Cinema Ritrovato organizzato ogni anno dalla Cineteca di Bologna. Era una mattina di giugno e quell’anno non ero commissario dell’esame di stato perché non avevo avuto una classe quinta e, causa pandemia, tuttə lə commissariə erano interne. Una di quelle mattine di fine giugno quindi mi svegliai presto e decisi di andare a vedere un film tedesco che mi aveva incuriosito: Khule Wampe. Sembrava interessante per diversi motivi: era sceneggiato da Bertolt Brecht ed era stato realizzato nel 1932, pochi mesi prima dell’avvento del nazismo in Germania.

Nell’ultima scena, durante un viaggio in treno, si discute di economia internazionale e prezzi del caffé brasiliano. La discussione si accende perché ci sono persone di varie estrazioni sociali. Le persone, per capirci vista l’epoca, borghesi discutono delle strategie per avere un caffé a prezzo basso e addirittura una persona arriva a pensare che la soluzione è colonizzare il Brasile! Un ragazzo, per capirci, proletario, che viaggiava con un gruppo di amici proletari, si lamenta perché il borghese dice sempre “noi” mentre a lui sembra che ci sia una evidente disuguglianza nello stato delle cose. Il dibattito si accende, vola qualche offesa. Quando gli animi si placano, si vedono altre persone provare a discutere del prezzo del caffé ma emerge la rassegnazione perché, dice un viaggiatore a un suo compagno di viaggio sul treno “non saremo noi due a cambiare il mondo”.

Allora il ragazzo proletario di prima precisa che sul treno nessuno di loro cambierà il mondo, soprattutto il personaggio borghese con cui aveva litigato perché al borghese “piace il mondo così com’è”. A questo punto il borghese chiede al gruppo di proletari: “E allora chi cambierà il mondo?”. E qui, una ragazza proletaria risponde decisa: “Lo cambieranno coloro a cui questo mondo ora non piace!”.

Smascheriamo lo status quo e pensiamo alle alleanze


Questa scena scritta da Brecht riesce a colpire diritto al cuore della faccenda. C’è chi difende lo status quo perché gode di privilegi e benefici e chi invece subisce l’oppressione dello stato delle cose e tenta di cambiare il mondo. Naturalmente, chi cambierà il mondo lo farà in un modo che non piacerà a chi difende lo status quo.

Questo è un dato di fatto: a cambiare la scuola non saranno i ministri e, purtroppo, non saremo neanche noi prof. A cambiare la scuola saranno coloro a cui non piace veramente, coloro che sognano una scuola diversa. Coloro che, per svariati motivi, la scuola vuole tenere fuori, emargina, declassa. Solo loro potranno cambiare le cose.

Forse siamo molto lontanə anche solo dall’immaginare un mondo diverso, migliore. Ma la protesta di Favaretto e Bianchi è stata davvero efficace perché loro due hanno usato il loro di privilegio di persone non emarginate dal sistema scolastico e lo hanno messo al servizio di una discussione più ampia, con coraggio. La loro protesta ha infatti, non a caso, immediatamente messo in crisi lo status quo e ha richiesto un intervento immediato e totalmente repressivo dell’autorità. Questo per capire quanto fosse precisa e giusta la loro modalità di protesta, malgrado ciò che dicono boomer e professori boomer in giro sui social network.

In fondo, le proteste di Favaretto e Bianchi hanno fatto la cosa più importante di tutte: hanno smascherato lo status quo, hanno costretto chi si stringe attorno ai propri privilegi a uscire allo scoperto.

Quindi in realtà ciò che è accaduto è stato un modo utile per far scoprire ancora di più le carte a coloro il cui mondo piace così com’è. Grazie a proteste di questo tipo è più facile capire quali sono le persone che difendono lo status quo per i loro interessi e quali sono le persone con cui invece lavorare insieme per tentare di costruire le alleanze che porteranno alla creazione di nuove prassi da usare nel mondo che cambieremo. La protesta di Favaretto e Bianchi ha dimostrato che c’è una crepa, una faglia, in cui possiamo immergerci per iniziare a immaginare un mondo nuovo e che ci sono tante persone che hanno voglia di attraversare insieme questo spazio.


log.livellosegreto.it/khulewam…




QOELET - Capitolo 2


Vanità dei piaceri, delle ricchezze e del lavoro1Io dicevo fra me: “Vieni, dunque, voglio metterti alla prova con la gioia. Gusta il piacere!”. Ma ecco, anche questo è vanità.2Del riso ho detto: “Follia!” e della gioia: “A che giova?”.3Ho voluto fare un'esperienza: allietare il mio corpo con il vino e così afferrare la follia, pur dedicandomi con la mente alla sapienza. Volevo scoprire se c'è qualche bene per gli uomini che essi possano realizzare sotto il cielo durante i pochi giorni della loro vita. 4Ho intrapreso grandi opere, mi sono fabbricato case, mi sono piantato vigneti. 5Mi sono fatto parchi e giardini e vi ho piantato alberi da frutto d'ogni specie; 6mi sono fatto vasche per irrigare con l'acqua quelle piantagioni in crescita. 7Ho acquistato schiavi e schiave e altri ne ho avuti nati in casa; ho posseduto anche armenti e greggi in gran numero, più di tutti i miei predecessori a Gerusalemme. 8Ho accumulato per me anche argento e oro, ricchezze di re e di province. Mi sono procurato cantori e cantatrici, insieme con molte donne, delizie degli uomini. 9Sono divenuto più ricco e più potente di tutti i miei predecessori a Gerusalemme, pur conservando la mia sapienza. 10Non ho negato ai miei occhi nulla di ciò che bramavano, né ho rifiutato alcuna soddisfazione al mio cuore, che godeva d'ogni mia fatica: questa è stata la parte che ho ricavato da tutte le mie fatiche. 11Ho considerato tutte le opere fatte dalle mie mani e tutta la fatica che avevo affrontato per realizzarle. Ed ecco: tutto è vanità e un correre dietro al vento. Non c'è alcun guadagno sotto il sole.

C’è una stessa sorte per tutti12Ho considerato che cos'è la sapienza, la stoltezza e la follia: “Che cosa farà il successore del re? Quello che hanno fatto prima di lui”. 13Mi sono accorto che il vantaggio della sapienza sulla stoltezza è come il vantaggio della luce sulle tenebre:14il saggio ha gli occhi in fronte, ma lo stolto cammina nel buio. Eppure io so che un'unica sorte è riservata a tutti e due. 15Allora ho pensato: “Anche a me toccherà la sorte dello stolto! Perché allora ho cercato d'essere saggio? Dov'è il vantaggio?”. E ho concluso che anche questo è vanità. 16Infatti, né del saggio né dello stolto resterà un ricordo duraturo e nei giorni futuri tutto sarà dimenticato. Allo stesso modo muoiono il saggio e lo stolto.

Perché faticare, per poi lasciare tutto a un altro?17Allora presi in odio la vita, perché mi era insopportabile quello che si fa sotto il sole. Tutto infatti è vanità e un correre dietro al vento. 18Ho preso in odio ogni lavoro che con fatica ho compiuto sotto il sole, perché dovrò lasciarlo al mio successore. 19E chi sa se questi sarà saggio o stolto? Eppure potrà disporre di tutto il mio lavoro, in cui ho speso fatiche e intelligenza sotto il sole. Anche questo è vanità! 20Sono giunto al punto di disperare in cuor mio per tutta la fatica che avevo sostenuto sotto il sole, 21perché chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare la sua parte a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e un grande male.22Infatti, quale profitto viene all'uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole? 23Tutti i suoi giorni non sono che dolori e fastidi penosi; neppure di notte il suo cuore riposa. Anche questo è vanità! 24Non c'è di meglio per l'uomo che mangiare e bere e godersi il frutto delle sue fatiche; mi sono accorto che anche questo viene dalle mani di Dio. 25Difatti, chi può mangiare o godere senza di lui? 26Egli concede a chi gli è gradito sapienza, scienza e gioia, mentre a chi fallisce dà la pena di raccogliere e di ammassare, per darlo poi a colui che è gradito a Dio. Ma anche questo è vanità e un correre dietro al vento!

_________________Note

2,24 mangiare e bere: tra le modeste gioie della vita, la più frequentemente ricordata è la gioia della tavola, intesa come benedizione predisposta dal Signore per l’uomo (3,12-13).

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Approfondimenti


vv. 1-3. Il vino (2,3) è il simbolo di tutto ciò che rallegra la vita dell'uomo (Sal 104,15), dell'allegria stessa, del piacere. E anche l'esperienza del piacere è presentata nell'eccesso, laddove si rivela il suo limite, la sua incapacità a soddisfare le attese che aveva suscitato. Pure questa apparente perversione è posta sotto il segno della sapienza, dal momento che mira a scoprire che cosa sia il bene per l'uomo. E una ricerca spinta fino all'eccesso della perversione è giustificata dall'incombere della morte, che la rende urgente, urgente di un'urgenza cronologica (i giorni della vita sono pochi; cfr. Sal 90, 10) e di un'urgenza filosofica, esistenziale (la fragilità dei figli di Adamo, sempre sul punto di ritornare a quella terra ’adamah, da cui sono stati tratti).

vv. 4-8. Qoelet enumera i frutti del suo agire. Tra i beni immobili bisogna notare i «parchi»: il termine ebraico è pardēsîm, una parola presa in prestito dal persiano (da cui il nostro “paradiso”); il primo a creare dei parchi fu Tiglat-Pilezer I, re d'Assiria (XII-XI sec. a.C.), che vi radunava animali esotici in una vegetazione lussureggiante, come simbolo del suo dominio universale; con i Persiani il “paradiso” diventa parte dell'immagine regale, tanto che i satrapi vollero avere ciascuno il suo parco, per essere simili al gran re (e quest'idea vale probabilmente anche in Qo 2,5).

v. 9. Osserviamo che la sapienza, che in 1,16 era l'oggetto accumulato, dopo l'enumerazione di tutti gli oggetti che il cuore umano può concupire, diventa il soggetto di un'avversativa: «eppure mi era rimasta la mia sapienza». Quasi a dire che, se da un lato solo l'eccesso permette al sapiente di discernere chiaramente l'assurdità, dall'altro è molto difficile conservare la sapienza attraversando gli eccessi.

v. 10. L'assenza di limite al desiderio, punto focale del pezzo in esame, risulta evidente dalla doppia negazione dei verbi indicanti rifiuto. La motivazione che si dà di questo non-rifiuto riflette non un edonismo decadente, ma un vero atteggiamento sapienziale (il “godere” di 2,10 è in parallelo con il “conservare la sapienza” di 2,9). Abbandonato il piano esteriore, ci si muove solo più su quello interiore: l'allegria è vista come un'attitudine interiore durevole (il verbo è un participio), dunque: «il mio cuore si rallegrava sempre», «il mio cuore sapeva rallegrarsi».

v. 11. I vv. 9-10 sono un riassunto dell'enumerazione e dell'accumulazione di beni di 2,4-8 ed esprimono la sintesi massima del desiderabile: avere tutto quel che poté avere un Salomone, ma senza perdere la testa (v. 9; c'è forse qui una punta d'ironia nei confronti del grande sovrano che si era lasciato traviare dalle sue donne, cfr. 1Re 11,1-13); avere tutto quel che si può desiderare, oggetti e stati d'animo, essere ricchi e saperne godere (v. 10). Eppure Qoelet si volta a guardare ciò che ha realizzato, la ricchezza per cui ha faticato (v. 11), e il suo sguardo diventa un giudizio quanto mai negativo e disilluso (v. 11: assurdità totale, tormento inutile). Tale giudizio è per ora immotivato, ma è solo l'anticipazione di quanto verrà esposto nelle pericopi seguenti.

vv. 12-16. In 2,11 veniva anticipato un giudizio di generale assurdità e assenza di vantaggio. In 2,12 viene introdotto un elemento nuovo: la successione, che implica la morte. Contro la morte si scontrano tutte le realtà comparse nei versi precedenti, e la morte ne manifesta il non-senso. In 2,13 si trova una tesi contraddittoria rispetto al giudizio di 2,11 («pare che un vantaggio ci sia...»), appoggiata dalla tradizione con il proverbio di 2,14; ma lo stesso v. 14 aggiunge subito un dato d'esperienza che smentisce radicalmente la tesi tradizionale: non c'è vantaggio del saggio sullo stolto, perché tutti muoiono. Il centro del chiasmo è davvero il perno intorno al quale ruota l'intero discorso: la scoperta della morte – una scoperta non astratta ma esistenziale, coinvolgente – appiattisce la differenza tra saggezza e idiozia, e pertanto rende assurdo lo sforzo del saggio. Nei versetti che seguono viene sviluppata proprio quest'ultima idea, dapprima in chiave di coinvolgimento personale (v. 15), il che acuisce la coscienza dell'assurdità; viene poi la prospettiva dell'oblio: se il ricordo poteva sembrare una scappatoia dalla fine di tutto, in realtà non lo è; e se non ci sono scappatoie, non resta che il grido, il lamento (v. 16).

vv. 17-23. La parte 2,17-23 è ritmata in senso longitudinale dal ritornello della «vanità», dell'assurdità, alternando forma ampliata (17 e 21) e forma breve (19 e 23); tuttavia la struttura della parte, se si tralasciano i ritornelli, è concentrica. Se in 2,3 ci si impegnava a indagare che cosa fosse “bene” per l'uomo fare nei pochi giorni della sua vita, in 2,17 ecco la risposta (in ordine inverso): la vita è odiosa. perché è “male” tutto ciò che si fa sotto il sole. Il v. 17 chiude la pericope precedente e apre al tempo stesso quella seguente. Il vero problema non è l'eredità, né per chi lascia, né per chi riceve, stolto o saggio che sia; il dramma è dover morire, e l'eredità ne è solo un corollario. La radice che più ricorre in questa pericope è ‘ml (dieci volte in cinque versetti), ovvero la fatica e il suo frutto. Abbiamo, inoltre, già notato il martellare del ritornello «anche questo è vanità». Possiamo allora concludere che il motivo del lascito e dell'erede non è il tema della pericope, ma soltanto un modo di esprimere il non-senso della fatica umana davanti alla morte. Osserviamo infine che, se in filigrana c'è ancora l'immagine di Salomone, non è difficile pensare che questo erede sia simbolicamente il figlio Roboamo, definito dal Siracide «pieno di stoltezza e vuoto di senno» (Sir 47,23, tr. Vaccari dal testo ebraico).

vv. 24-26. In 2,26 (non consideriamo ora il giudizio conclusivo) si combinano uno schema parallelo – evidenziato dai due “dare” di Dio – e uno schema chiastico, agli estremi del quale si trova «colui che è gradito a Dio», mentre in centro compare il «peccatore» (che letteralmente vuol dire «fallito»). Non è senza significato questo gioco tra lo schema parallelo e quello chiastico: infatti, sotto il velo di una sentenza tradizionale riguardo alla retribuzione temporale (schema parallelo), si rivela un'intuizione angosciata: il «peccatore-fallito» (centro del chiasmo) è Qoelet stesso. Ricordiamo come in 2,20-21 Qoelet era disperato a motivo di tutto ciò per cui aveva faticato nella sua vita, perché avrebbe dovuto darlo a un altro che non vi aveva faticato per nulla. Eppure il motivo della disperazione non erano i beni. La sua fatica si era qualificata per sapienza, competenza e perizia (cfr. 2,21), proprio quelle qualità che sembrano essere dono di Dio a chi gli è gradito (cfr. 2,26b: al posto della perizia c'è la gioia), e invece il dover faticare per poi dare tutto a un altro, lo identifica con il peccatore, o meglio, il “fallito”. La sentenza tradizionale non sarà forse verificata dalla realtà dei fatti, tuttavia ha focalizzato e portato a coscienza esplicita un'intuizione dura e grave. La conclusione è un giudizio di vanità, una solenne affermazione dell'assurdità tanto della condizione umana, quanto di una sapienza tradizionale che pretende di dirne la verità.

Interpretazione globale della sequenza 1,12-2,26Qoelet vuole riflettere con sapienza su ciò che si fa sotto il sole; questo lavoro che Dio ha dato agli uomini perché vi lavorino è male (1,12-13).

Qoelet riflette innanzitutto sugli atteggiamenti che gli servono da strumenti conoscitivi: la sapienza che aumenta si rivela un tormento crescente (1,16-18), l'alternativa (allegria, riso, idiozia; 2, 1-3), per quanto volta alla ricerca del bene per l'uomo, e di un bene da “fare”, si rivela assurda.

Qoelet esplora dunque tutte le potenzialità del fare umano, espresse al massimo grado per concluderne l'assurdità e il tormento (2, 4-11).

Egli esamina ancora i diversi atteggiamenti che forse possono dare senso alla produzione dei beni, ma constata che la differenza significativa tra saggezza e idiozia è eliminata dalla morte (2,12-16). Ne conclude che l'agire umano, il fare che si fa sotto il sole, è male per lui, poiché tutto è assurdo e un tormento inutile (2,17).

Qoelet riprende a riflettere sui beni che aveva prodotto e sul fatto che, morendo, dovrà lasciarli a un successore che non li merita (2,18-21), il che è assurdo (2,19.21), come assurda è la condizione umana nel suo insieme (2,22-23).

Il lavoro umano, che in 1,13 era «male» (ra‘), qui è «afflizione» (ka‘as). E se in 2,1.3 si cercava un bene per l'uomo negli atteggiamenti umani di maggiore o minore saggezza, ora si afferma che non c'è altro bene per l'uomo se non nella fruizione immediata delle cose (2,24).

Ma neppure questo bene, per quanto minimo, è a disposizione dell'uomo, dal momento che sembra dipendere da Dio, e Dio sembra assegnarlo a chi è “buono davanti a lui”. L'uomo dovrebbe dunque cercare di essere “buono davanti a Dio” per avere il “bene”? Ma cosa significa essere “buoni davanti a Dio”? Di fatto l'esperienza mostra che le categorie teologiche sono insufficienti a rendere ragione della realtà, poiché lo stesso individuo è per un verso “buono davanti a Dio” e per l'altro “peccatore”. Perciò anche quest'ultimo ragionamento è un'assurdità e un tormento inutile.

(cf. PAOLO PAPONE, Qoelet – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Flusso di realtà


#economia #bioeconomia #società #decrescita #sostenibilità #mondonuovo

Ogni nostra azione è immersa in un flusso di connessioni. Se riciclo oppure getto la carta del gelato per terra o compro cibo biologico invece che al supermercato, tutto questo influisce su di me e sul pianeta intero.

Come?

Tutte queste scelte determinano il modo in cui io partecipo alla continua creazione del mondo in cui vivo, e in cui vivranno i miei figli. La carta seguirà un percorso diverso, la qualità dell’acqua che berremo e dell’aria che respiriamo sarà diversa.

Questo alcuni non l’hanno ancora compreso, molti altri si.

La domanda che potremmo ora porci è: quanto la mia scelta influisce sulla salute mia e dell’ambiente in cui vivo? Cosa, realisticamente, comporterà la mia scelta? A questo nessuno, o pochissimi, sa dare una risposta.

Come potremmo scoprirlo? E’ necessaria un’analisi sistemica dell’astronave Terra, una mappa dei percorsi naturali ed artificiali del flusso di connessioni al quale ognuno di noi partecipa. E’ importante perché il mondo possa finalmente agire con chiara consapevolezza*.


* [add 2025] Questi concetti sono approfonditi dalla “nuova” scienza della bioeconomia. Qui il lavoro seminale di N. Georgescu Roegen Bioeconomia Verso un'altra economia ecologicamente e socialmente sostenibile con introduzione di Mauro Bonaiuti, fondatore dell'Associazione Nicholas Georgescu-Roegen.


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✍️...Riflessioni ✨

Negli anni ho notato, ho percepito la necessità, il prevalere dell'idea di dover comunque apparire, più che essere realmente se stessi! Apparire sempre perfetti, in una forma fisica da invidiare, ed io per esempio soprattutto negli ultimi mesi, non so dove sia finita la mia di forma, ci ho rinunciato, ma è un altro discorso! Quindi essere sempre sistemate, uscire magari truccata, non è il mio caso, imparando a curare e magari a nascondere difetti e debolezze, ed io ne ho tanti e adesso che ne ho una anch'io di cicatrice, dovrei nasconderla e magari sentirmi imbarazzata e diversa! Si forse agli inizi, ma adesso quando vedo la mia bella cicatrice, sorrido e ne vado fiera, perché mi ricorda quello che ho affrontato e chi sono diventata adesso, diventando il mio punto di forza! Così l'essere imperfetta e diversa non appaga, non attrae, bensì isola e allontana, così ogni tanto sia volontariamente, che non, mi ritrovo a dovermi scontrare con una realtà, che non capisco e che mi vede totalmente al di fuori della normalità e tagliata dalla quotidianità, per idee, per pensieri, atteggiamenti, interessi, passioni, limiti, debolezze e adesso un po' anche perché sono ufficialmente una malata oncologica, in teoria diversa, più fragile, si, forse! Ma alla fine sono semplicemente una nuova versione di me, che vive, mangia, scrive, si dispera, gioisce a volte piange, altre ride e si diverte come tutti, come prima, come una persona “normale” e sana, che dipinge per pura passione, che non naviga nell'oro, ma vive con dignità e a volte con piccoli sacrifici!

Ma poi mi rendo conto che l'essere perfetta, non mi appartiene, perché il mio scopo nella vita non lo e, ma essere libera, vera, insomma me stessa, nel bene, nel male, ovunque, in compagnia, in solitudine, senza dovermi preoccupare di compiacere o di apparire chi non sono! Così , negli anni e soprattutto negli ultimi mesi, mi sono resa conto che la verità a volte stanca, non viene apprezzata, anzi allontana, che il parlare e confrontarsi sulla malattia, a lungo andare può stancare e rendere un rapporto inutile da portare avanti e ridotto ad un bollettino medico!(E già mi sono sentita dire questo e apprezzo la sincerità, ma chissà quanti mi hanno messa all'angolo per questo motivo! Nonostante non sia una che ne ha parlato troppo, ma probabilmente quel po', ha infastidito e reso sterile, anche il semplice saluto.) E si ..perché a volte ero triste, confusa, fragile e con la necessità di avere qualcuno con cui parlare, scrivere, ricevere anche solo un saluto o una parola di incoraggiamento. La verità è che ogni giorno in cui mi alzo, attendo l'alba, anche se ho dormito poco e male, anche se mi sento persa, confusa e stanca, è proprio allora che divento più forte e consapevole, più propensa ad andare avanti con determinazione e coraggio.

Non posso aspettare di essere pronta, guarita, di nuovo in forma, per andare avanti, so che la serenità, una cosa bella, una parola, una visita, un abbraccio, arrivano proprio quando meno te lo aspetti, in silenzio e senza preavviso. La felicità, ma io la definisco più semplicemente, la serenità, arriva, prima o poi, dopo un momento difficile, di smarrimento, perché nonostante tutto si decide di lottare, andare avanti e di camminare anche su strade sconosciute, buie e impervie, per arrivare a completare quel puzzle, di cui adesso ancora manca qualche pezzo.

Ecco perché il mio voler bene alla luna, il mio trovare conforto e pace, in un tramonto, un' alba, un volo, dare importanza e priorità ai piccoli gesti, ogni giorno. una semplice parola detta sottovoce, un sorriso, anche un silenzio, una canzone...tenere fede ad una promessa fatta, o un obiettivo da raggiungere! Non posso sperare di cambiare, ma essere migliore si, continuare ad essere umile, accettandomi così come sono, ogni giorno sempre più forte e sicura e pronta sempre, a ricominciare!


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✍️...Riflessioni ✨


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Negli anni ho notato, ho percepito la necessità, il prevalere dell'idea di dover comunque apparire, più che essere realmente se stessi! Apparire sempre perfetti, in una forma fisica da invidiare, ed io per esempio soprattutto negli ultimi mesi, non so dove sia finita la mia di forma, ci ho rinunciato, ma è un altro discorso! Quindi essere sempre sistemate, uscire magari truccata, non è il mio caso, imparando a curare e magari a nascondere difetti e debolezze, ed io ne ho tanti e adesso che ne ho una anch'io di cicatrice, dovrei nasconderla e magari sentirmi imbarazzata e diversa! Si forse agli inizi, ma adesso quando vedo la mia bella cicatrice, sorrido e ne vado fiera, perché mi ricorda quello che ho affrontato e chi sono diventata adesso, diventando il mio punto di forza! Così l'essere imperfetta e diversa non appaga, non attrae, bensì isola e allontana, così ogni tanto sia volontariamente, che non, mi ritrovo a dovermi scontrare con una realtà, che non capisco e che mi vede totalmente al di fuori della normalità e tagliata dalla quotidianità, per idee, per pensieri, atteggiamenti, interessi, passioni, limiti, debolezze e adesso un po' anche perché sono ufficialmente una malata oncologica, in teoria diversa, più fragile, si, forse! Ma alla fine sono semplicemente una nuova versione di me, che vive, mangia, scrive, si dispera, gioisce a volte piange, altre ride e si diverte come tutti, come prima, come una persona “normale” e sana, che dipinge per pura passione, che non naviga nell'oro, ma vive con dignità e a volte con piccoli sacrifici!

Ma poi mi rendo conto che l'essere perfetta, non mi appartiene, perché il mio scopo nella vita non lo e, ma essere libera, vera, insomma me stessa, nel bene, nel male, ovunque, in compagnia, in solitudine, senza dovermi preoccupare di compiacere o di apparire chi non sono! Così , negli anni e soprattutto negli ultimi mesi, mi sono resa conto che la verità a volte stanca, non viene apprezzata, anzi allontana, che il parlare e confrontarsi sulla malattia, a lungo andare può stancare e rendere un rapporto inutile da portare avanti e ridotto ad un bollettino medico!(E già mi sono sentita dire questo e apprezzo la sincerità, ma chissà quanti mi hanno messa all'angolo per questo motivo! Nonostante non sia una che ne ha parlato troppo, ma probabilmente quel po', ha infastidito e reso sterile, anche il semplice saluto.) E si ..perché a volte ero triste, confusa, fragile e con la necessità di avere qualcuno con cui parlare, scrivere, ricevere anche solo un saluto o una parola di incoraggiamento. La verità è che ogni giorno in cui mi alzo, attendo l'alba, anche se ho dormito poco e male, anche se mi sento persa, confusa e stanca, è proprio allora che divento più forte e consapevole, più propensa ad andare avanti con determinazione e coraggio.

Non posso aspettare di essere pronta, guarita, di nuovo in forma, per andare avanti, so che la serenità, una cosa bella, una parola, una visita, un abbraccio, arrivano proprio quando meno te lo aspetti, in silenzio e senza preavviso. La felicità, ma io la definisco più semplicemente, la serenità, arriva, prima o poi, dopo un momento difficile, di smarrimento, perché nonostante tutto si decide di lottare, andare avanti e di camminare anche su strade sconosciute, buie e impervie, per arrivare a completare quel puzzle, di cui adesso ancora manca qualche pezzo.

Ecco perché il mio voler bene alla luna, il mio trovare conforto e pace, in un tramonto, un' alba, un volo, dare importanza e priorità ai piccoli gesti, ogni giorno. una semplice parola detta sottovoce, un sorriso, anche un silenzio, una canzone...tenere fede ad una promessa fatta, o un obiettivo da raggiungere! Non posso sperare di cambiare, ma essere migliore si, continuare ad essere umile, accettandomi così come sono, ogni giorno sempre più forte e sicura e pronta sempre, a ricominciare!

@Marti75@snowfan.masto.host




[escursioni]portatile ma con il ricavato [creano un tunnel sicuro tra due dispositivi dice] della spiegazione o esplora] cumuli santelle-area market le Ande fanno da sfondo poi] le Alpi le fanno in cartongesso i fiumi fuori] scala


noblogo.org/lucazanini/escursi…



dammi Signore

un collante di passione

-atto di fede

che snudi il giorno per

fissare nel blucielo

brandelli d'amore

pezzetti

di me .

Questo componimento trasuda un'intensità emotiva e una ricerca spirituale profonda. Le parole si intrecciano come in un atto di fede, quasi un dialogo intimo con il divino, in cui il “collante di passione” diventa quello strumento che unisce frammenti dell'essere, delle esperienze e delle emozioni. L'immagine del “blucielo” è particolarmente evocativa: il cielo si fa tela su cui fissare, con gesti quasi rituali, i “brandelli d'amore” e quei “pezzetti” che, insieme, rappresentano un'identità in continua costruzione e fatta di speranze.

Questa poesia invita a riflettere sulla nostra condizione di frammentati, alla ricerca di legami capaci di dare un senso compiuto alla vita. Invoca il divino non tanto come figura di autorità, ma come partner nell'atto creativo che dà forma e significato a ciò che altrimenti sembrerebbe sparsi e disordinato. È un inno alla passione, a quel desiderio di raccogliere e custodire le parti di sé che, pur essendo dispersive, insieme compongono il mosaico dell’identità.


noblogo.org/norise-3-letture-a…



Editors - Weight of your Love (2013)


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Abbandonando una strada per certi aspetti sperimentale e originale, gli Editors con questo quarto album ne imboccano una più facile e meno rischiosa. La band britannica all'attivo da una decade, più che arrampicarsi, preferiscono discendere in sonorità già conosciute e di facile presa, non a caso, i riferimenti musicali a gruppi come i Depeche Mode e gli U2 non mancano. Probabilmente il gruppo sta vivendo un periodo un po' confuso dove ancora non ha chiarito il suo percorso artistico, è da sperare solo che non imbocchi questa strada, potrebbe essere uno dei tanti modi per scomparire. “Io spero che mi sbaglio”... artesuono.blogspot.com/2014/10…


Ascolta: album.link/i/642890298



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Editors - Weight of your Love (2013)


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Abbandonando una strada per certi aspetti sperimentale e originale, gli Editors con questo quarto album ne imboccano una più facile e meno rischiosa. La band britannica all'attivo da una decade, più che arrampicarsi, preferiscono discendere in sonorità già conosciute e di facile presa, non a caso, i riferimenti musicali a gruppi come i Depeche Mode e gli U2 non mancano. Probabilmente il gruppo sta vivendo un periodo un po' confuso dove ancora non ha chiarito il suo percorso artistico, è da sperare solo che non imbocchi questa strada, potrebbe essere uno dei tanti modi per scomparire. “Io spero che mi sbaglio”... artesuono.blogspot.com/2014/10…


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QOELET - Capitolo 1


TITOLO DEL LIBRO (1,1)

1Parole di Qoèlet, figlio di Davide, re a Gerusalemme.

PROLOGO (1,2-11)

Tutto è vanità, vuoto immenso2Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità: tutto è vanità.3Quale guadagno viene all'uomo per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole?4Una generazione se ne va e un'altra arriva, ma la terra resta sempre la stessa.5Il sole sorge, il sole tramonta e si affretta a tornare là dove rinasce.6Il vento va verso sud e piega verso nord. Gira e va e sui suoi giri ritorna il vento.7Tutti i fiumi scorrono verso il mare, eppure il mare non è mai pieno: al luogo dove i fiumi scorrono, continuano a scorrere.8Tutte le parole si esauriscono e nessuno è in grado di esprimersi a fondo. Non si sazia l'occhio di guardare né l'orecchio è mai sazio di udire.9Quel che è stato sarà e quel che si è fatto si rifarà; non c'è niente di nuovo sotto il sole.10C'è forse qualcosa di cui si possa dire: “Ecco, questa è una novità”? Proprio questa è già avvenuta nei secoli che ci hanno preceduto.11Nessun ricordo resta degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà memoria presso quelli che verranno in seguito.

L’UOMO DI FRONTE AI SUOI LIMITI (1,12-6,12)

Il sapere, inutile fatica12Io, Qoèlet, fui re d'Israele a Gerusalemme. 13Mi sono proposto di ricercare ed esplorare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo. Questa è un'occupazione gravosa che Dio ha dato agli uomini, perché vi si affatichino. 14Ho visto tutte le opere che si fanno sotto il sole, ed ecco: tutto è vanità e un correre dietro al vento.15Ciò che è storto non si può raddrizzare e quel che manca non si può contare.

16Pensavo e dicevo fra me: “Ecco, io sono cresciuto e avanzato in sapienza più di quanti regnarono prima di me a Gerusalemme. La mia mente ha curato molto la sapienza e la scienza”. 17Ho deciso allora di conoscere la sapienza e la scienza, come anche la stoltezza e la follia, e ho capito che anche questo è un correre dietro al vento. 18Infatti: molta sapienza, molto affanno; chi accresce il sapere aumenta il dolore.

_________________Note

1,2 Vanità delle vanità: è una forma di superlativo, propria della lingua ebraica. Il termine ebraico corrispondente a “vanità” (hebel) indica il soffio, il vuoto, il nulla; il superlativo si potrebbe tradurre: “assoluta vanità”, “perfetto nulla”. Il termine “vanità” ricorre una trentina di volte in questo libro.

1,12-6,12 Il contenuto di questa prima ampia sezione prende in esame tutto ciò che si fa sotto il cielo (1,13). Nelle vesti del re Salomone, Qoèlet coglie i limiti di quanto la tradizione ha sempre considerato fonte della felicità dell’uomo.

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Approfondimenti


vv. 1-2. Il primo versetto sembra essere un titolo posticcio, applicato da uno scriba posteriore forse per catalogare l'opera tra gli scritti sacri. La formula «Parole di...» è molto antica; la si trova, per esempio, in Am 1,1; Ger 1,1; Pr 30,1; 31,1; Ne 1,1. Il v. 2 invece è con buona probabilità il titolo originale del libro, opera di Qoelet stesso. Infatti il versetto ha un ritmo chiaramente poetico, ed è quasi identico a 12,8 che conclude il libro (12,9-14 costituiscono un epilogo composto da altra mano); abbiamo cosi tra 1,2 e 12,8 una grande inclusione poetica che mette in evidenza il tema dell'opera («Vanità delle vanità», o, più esattamente, «completa assurdità» e contiene pure la firma dell'autore («dice Qoelet»).

«completa assurdità»L'espressione emblematica di Qoelet «vanità delle vanità» è talmente entrata nel nostro modo di parlare, che ci risulta difficile proporre e accogliere una traduzione più fedele all'originale ebraico. La parola hebel (che ricorre 38 volte in Qo e più o meno altrettante in tutto il resto dell'AT) ha una vasta gamma di significati, tanto che risulta essere piuttosto vaga. Come quasi tutti i termini ebraici, il primo senso è concreto: «alito», «vapore», insomma qualcosa che ha una consistenza minima, effimera. Il Targum del Salmo 90, al v. 9 parla di «vapore di fiato nell'inverno». E questo carattere di apparenza-inconsistenza che ha portato alla traduzione latina che ci è familiare, vanitas vanitatum, quasi ad affermare l'inganno e il non-senso, l'illusione e la delusione di ogni realtà. Poiché le nostre lingue non hanno parole che possano riflettere insieme la concretezza vaporosa e l'astratto non-senso dell'originale ebraico, siamo obbligati a operare una scelta, e tale scelta cade sull'accezione di «assurdità», precisamente in quanto implica l'incapacità della ragione umana di cogliere il senso di ciò che accade, il nesso di causalità tra i fenomeni, la corrispondenza tra la realtà e le aspettative che si intrecciano nel cuore dell'uomo. La frase ebraica habēl habālîm è un superlativo assoluto dello stesso tipo di «Cantico dei Cantici» (Ct 1,1), cioè «il cantico supremo», «malvagità delle malvagità» (Os 10,15), cioè «la più atroce malvagità»; possiamo pertanto rendere l'espressione ebraica con «completa assurdità». Il problema di Qoelet non è la vanitas, l'evanescenza di una vita su cui sempre incombe la morte, perché questo rientra nell'ordine della natura; in questione è piuttosto il “senso” di una vita che è fatica, una fatica di cui la morte evidenzia tutta l'inutilità. È questo “senso” che Qoelet non riesce a trovare, e perciò, tormentato, è costretto ad arrendersi all'assurdità. Tuttavia l'assurdità non si situa per Qoelet a livello della realtà – infatti mai si mette in dubbio la libertà e la sovranità di Dio, garanzia di un senso che noi chiameremmo “ontologico” – ma a livello della comprensione umana, che, limitata per volere del creatore, non riesce a cogliere il disegno che soggiace al fluire degli eventi (cfr. 3,11).

v. 3. La ricerca di Qoelet riguarda ciò che accade «sotto il sole»: si tratta della vita umana e del suo senso. L'essere umano è indicato con il termine ’adam, e dunque si sottolinea l'aspetto effimero, mortale, di quello che è stato tratto dalla terra (’adamah) e deve ritornare alla terra. È dunque propriamente una meditazione sapienziale sul muoversi di tutte le cose e più in particolare dell'uomo, un muoversi che è fatica, una fatica che dovrebbe produrre qualcosa. Ma che cosa produce, in realtà? Qual è il senso di tutto l'affannarsi della natura e dell'uomo? La domanda è retorica, poiché il versetto precedente ha già dato una risposta negativa globale e radicale; ora inizia la dimostrazione.

v. 4. Le generazioni si succedono su una terra che resta sempre uguale malgrado l'affannarsi degli uomini. Se nella tradizione la terra era una terra-madre, ora è una madre indifferente al nascere e al morire dei suoi figli, niente di più di un palcoscenico.

v. 5. Il sole non è più la divinità della giustizia, come nelle antiche religioni mesopotamiche e cananaiche, né tantomeno il dio supremo del faraone Akhenaton: non è che un servo solerte nel suo lavoro monotono.

v. 6. Il moto del vento che gira da sud a nord si incrocia con quello del sole, da est a ovest, e così tutta l'estensione della terra diviene luogo di movimento perenne. Ma c'è qualcosa di più di un moto incrociato: il voltarsi del vento da sud a nord è il primo passo di una danza che inizia a volteggiare fino a diventare vorticosa e affascinante.

v. 7. Tutti i torrenti corrono verso il mare, senza riempirlo mai. Appena vi giungono riprendono la loro corsa instancabile che dall'abisso li riporta per canali sotterranei alle polle sorgive: così pensavano gli antichi, che non conoscevano con precisione il meccanismo dell'evaporazione.

v. 8. Ci sono buone probabilità che il membro iniziale del versetto funga da perno per la parte 1,5-8, giocando sui due significati della radice dbr: nel senso di «cosa» indica gli elementi della natura dei vv. 5-7; nel senso di «parola» apre al mondo dell'uomo cui si accenna nel seguito del v. 8. Si passa così dal macrocosmo che ha la terra per palcoscenico al microcosmo che si recita nell'uomo. Il vento diviene il parlare, un inutile parlare al vento; il sole diventa l'occhio, mai sazio di percorrere una terra sempre uguale; il mare è ora l'orecchio, che sempre riceve ondate di suoni e rumori e non ne ha mai abbastanza.

v. 9. La visuale si allarga dall'uomo al teatro del suo agire, cioè alla storia: un monotono ripetersi di avvenimenti e di imprese. Nel mondo umano («sotto il sole») è impossibile qualunque novità. Se una qualche novità poteva lasciare aperta la possibilità di un “profitto” per il vivere dell'uomo, basta uno sguardo retrospettivo per spazzar via anche questa possibilità.

v. 10. Qoelet si contrappone provocatoriamente alla tradizione profetica che annunciava una novità, una novità preparata da Dio (cfr. Is 43,19; Ger 31,22); l'esperienza non trova nessuna novità «sotto il sole», e sopra il sole, cioè nel mondo di Dio, non è dato all'uomo di spingere lo sguardo.

v. 11. Ritorna il succedersi delle generazioni, come al v. 4. L'indifferenza della terra al passare degli uomini diviene qui l'oblio della storia. Vedremo più avanti (2,16) che la solennità austera di questo preludio maschera in realtà il dramma lancinante dell'uomo davanti alla morte, quando prende coscienza che non resterà proprio nulla di lui, neppure il ricordo.

vv. 12-13. Notiamo che all'espressione del TM «applicare il cuore a ricercare» l'AT ha sempre applicato l'oggetto «Dio», «JHWH», «legge», «comandamenti» (Dt 4,29; Ger 29,13; Sal 69,33; 119,2; Esd 7,10; 1Cr 22,19; 2Cr 12,14; 15,12; 19,3; 22,9; 30,19; 31,21). Qoelet cambia l'oggetto di questa ricerca che lo coinvolge totalmente (il cuore è il luogo e il simbolo dell'interiorità, soprattutto in quanto intelligenza e volontà). Non è più JHwH, il Dio rivelatosi a Israele, che Qoelet cerca, ma «ciò che si fa sotto il cielo». Dio viene invece citato come il responsabile della fatica e del dolore umano, poiché l'uomo non può rinunciare a cercare un senso al suo agire, anche se tale ricerca, radicata nella condizione umana e nella volontà creatrice divina, è fallimentare quanto l'agire stesso.

v. 14. Il parallelismo tra il v. 13 e il v. 14 lascia ambiguo il referente di «un'occupazione penosa»: può essere tanto il conoscere quanto il fare, e d'altra parte nel mondo semitico lo scopo della sapienza e sempre essenzialmente pratico.

v. 15. La struttura simmetrica e il ritmo identico dei due stichi fanno pensare a un proverbio che ha la funzione di amplificare e spiegare il fallimento del fare/conoscere ribadendo, in posizione finale, l'impotenza umana («non si può»). Il versetto diventa più esplicito se si considera la somiglianza di 1,15 con 7,13, «Osserva l'opera di Dio: chi può raddrizzare ciò che egli ha fatto curvo?», dove i soggetti sono Dio, che fa qualcosa curvo, e l'uomo, che non lo può raddrizzare.

vv. 16-18. La parte 1, 16-18 ruota intorno al v. 17, che oppone la coppia sapienza-scienza alla coppia stoltezza-follia; abbiamo così un binomio di totalità (si citano gli estremi per riferirsi a tutta la gamma compresa tra essi) che sottolinea la massima estensione dell'impegno conoscitivo. Dal parallelismo tra il v. 16 e il v. 18 si ricava che quanto più sapere si accumula, tanto più se ne vede il limite e l'illusorietà. È nell'eccesso che si manifesta l'assurdità latente di ogni realtà umana, poiché l'uomo è abituato a motivare l'inadeguatezza di ciò che vive con la brevità o la pochezza delle opportunità; si illude che, se ne avesse di più (non importa di che cosa), allora la sua sarebbe vita vera e piena. Bisogna sperimentare l'eccesso per capire che questo non è vero. Notiamo che in tutti gli altri giudizi della pericope ricorre il termine hebel, o, meglio, «vanità», «assurdità», mentre qui si trova solamente l'espressione più rara «inseguire il vento», cioè «un tormento inutile»: di tutto si può affermare l'assurdità, tranne della saggezza, poiché essa è lo strumento conoscitivo, e come tale non può smentire se stesso; se ne può tuttavia dichiarare l'assillo, l'angoscia, come sarà confermato da 3,11: comprendere è per l'uomo un'esigenza tanto irrinunciabile quanto fallimentare, a motivo della sua strutturale limitatezza di creatura.

(cf. PAOLO PAPONE, Qoelet – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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A Roma il Corso CEPOL di formazione-per-formatori per lo scambio di informazioni dell'UE


Il Corso CEPOL Train-the-Trainer 54/2025/ONS sugli sstrumenti per lo scambio di informazioni dell'UE si è svolto recentemente a Roma; l'attività è stata ospitata dalla Scuola di Perfezionamento per le Forze di Polizia, che è l'Unità Nazionale Italiana CEPOL.

Il corso, dal portfolio del Centro di conoscenza CEPOL sulla cooperazione tra le forze dell'ordine (CEPOL CKC), sullo scambio di informazioni e sull'interoperabilità, è stato incentrato sul dotare i professionisti della formazione delle forze dell'ordine degli strumenti necessari per progettare e svolgere la formazione nazionale, trasmettere conoscenze e sviluppare competenze degli utenti finali confrontati con lo scambio di informazioni e l'uso dei rispettivi strumenti e strumenti dell'UE. In totale, 24 partecipanti provenienti da 15 Stati membri dell'UE e 1 paese associato sono stati formati da esperti della Commissione europea, Polonia, Europol, eu-LISA e CEPOL.

Il corso è iniziato con un'intera giornata di sessioni che hanno riguardato gli strumenti, gli strumenti e i meccanismi per lo scambio di informazioni tra le forze dell'ordine disponibili a livello europeo. Comprendeva inoltre un corso di aggiornamento sulla base giuridica per la cooperazione nell'ambito della componente di scambio di informazioni, compreso il ruolo delle agenzie GAI, la qualità e la protezione dei dati e la tutela dei diritti fondamentali. Nei giorni successivi, il programma di attività si è arricchito di conferenze e numerose esercitazioni pratiche relative alle metodologie di progettazione dei prodotti formativi in conformità con principi chiave, approcci e un processo che è alla base di un'efficace progettazione ed erogazione della formazione.

#CEPOL è l'Agenzia dell'Unione europea per la formazione delle autorità di contrasto, è un'agenzia dell'UE istituita nel 2005 1 per offrire corsi di formazione alle forze di polizia e altri funzionari delle autorità di contrasto. La sua missione è migliorare la sicurezza dell'UE attraverso attività di formazione e condivisione delle conoscenze. Il CEPOL CKC (Centro di conoscenza sulla cooperazione tra le forze dell'ordine, sullo scambio di informazioni e sull'interoperabilità) riunisce esperti degli Stati membri e degli organismi competenti dell'UE per progettare il portafoglio di formazione di CEPOL in questo settore specifico. Ciò include il curriculum per ciascuna attività di apprendimento, i risultati dell'apprendimento, una descrizione dei gruppi target nonché il profilo dei formatori che svolgono le attività. Il CEPOL Knowledge Center (CKC) fornisce inoltre consulenza sui risultati della ricerca scientifica e su particolari approcci metodologici per ciascuna attività di formazione. Il portafoglio di formazione è pluriennale e viene rivisto su base annuale per rispondere alle minacce emergenti e ai nuovi sviluppi a livello strategico e operativo e per soddisfare le esigenze di formazione in evoluzione.


noblogo.org/cooperazione-inter…


A Roma il Corso CEPOL di formazione-per-formatori per lo scambio di...


A Roma il Corso CEPOL di formazione-per-formatori per lo scambio di informazioni dell'UE


Il Corso CEPOL Train-the-Trainer 54/2025/ONS sugli sstrumenti per lo scambio di informazioni dell'UE si è svolto recentemente a Roma; l'attività è stata ospitata dalla Scuola di Perfezionamento per le Forze di Polizia, che è l'Unità Nazionale Italiana CEPOL.

Il corso, dal portfolio del Centro di conoscenza CEPOL sulla cooperazione tra le forze dell'ordine (CEPOL CKC), sullo scambio di informazioni e sull'interoperabilità, è stato incentrato sul dotare i professionisti della formazione delle forze dell'ordine degli strumenti necessari per progettare e svolgere la formazione nazionale, trasmettere conoscenze e sviluppare competenze degli utenti finali confrontati con lo scambio di informazioni e l'uso dei rispettivi strumenti e strumenti dell'UE. In totale, 24 partecipanti provenienti da 15 Stati membri dell'UE e 1 paese associato sono stati formati da esperti della Commissione europea, Polonia, Europol, eu-LISA e CEPOL.

Il corso è iniziato con un'intera giornata di sessioni che hanno riguardato gli strumenti, gli strumenti e i meccanismi per lo scambio di informazioni tra le forze dell'ordine disponibili a livello europeo. Comprendeva inoltre un corso di aggiornamento sulla base giuridica per la cooperazione nell'ambito della componente di scambio di informazioni, compreso il ruolo delle agenzie GAI, la qualità e la protezione dei dati e la tutela dei diritti fondamentali. Nei giorni successivi, il programma di attività si è arricchito di conferenze e numerose esercitazioni pratiche relative alle metodologie di progettazione dei prodotti formativi in conformità con principi chiave, approcci e un processo che è alla base di un'efficace progettazione ed erogazione della formazione.

#CEPOL è l'Agenzia dell'Unione europea per la formazione delle autorità di contrasto, è un'agenzia dell'UE istituita nel 2005 1 per offrire corsi di formazione alle forze di polizia e altri funzionari delle autorità di contrasto. La sua missione è migliorare la sicurezza dell'UE attraverso attività di formazione e condivisione delle conoscenze. Il CEPOL CKC (Centro di conoscenza sulla cooperazione tra le forze dell'ordine, sullo scambio di informazioni e sull'interoperabilità) riunisce esperti degli Stati membri e degli organismi competenti dell'UE per progettare il portafoglio di formazione di CEPOL in questo settore specifico. Ciò include il curriculum per ciascuna attività di apprendimento, i risultati dell'apprendimento, una descrizione dei gruppi target nonché il profilo dei formatori che svolgono le attività. Il CEPOL Knowledge Center (CKC) fornisce inoltre consulenza sui risultati della ricerca scientifica e su particolari approcci metodologici per ciascuna attività di formazione. Il portafoglio di formazione è pluriennale e viene rivisto su base annuale per rispondere alle minacce emergenti e ai nuovi sviluppi a livello strategico e operativo e per soddisfare le esigenze di formazione in evoluzione.


Segui il blog e interagisci con i suoi post nel fediverso. Scopri dove trovarci:l.devol.it/@CoopIntdiPoliziaTutti i contenuti sono CC BY-NC-SA (creativecommons.org/licenses/b…)Le immagini se non diversamente indicato sono di pubblico dominio.



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✍️I miei Numeri... Anche oggi il numero 4 accompagna ricordi, attese, speranze, sogni e non sono numeri da giocare, sono da ricordare, forse dimenticare! Ma io non dimentico, anche quando vorrei, ogni numero porta con sé un' immagine, un pensiero, un ricordo, una persona, un gesto.... consapevolezza... Poi..niente un numero come tanti, un giorno come altri, però vissuto, atteso, affrontato e poi lasciato, come se stessi sfogliando un libro, ogni giorno una pagina nuova, diversa da vivere, da colorare, da riempire con emozioni, immagini, amici, piccoli attimi vissuti, che rendono ogni pagina speciale, unica e diversa da quella di ieri e probabilmente anche da quella che leggeremo o scriveremo domani! Così anche oggi aspetto, non sono in ansia, sono ferma, è come se avessi rallentato anche me stessa, i miei pensieri, timori e paure, di ritornare in quel luogo dove ho affrontato con coraggio e forza, una fase di questo mio percorso! La più difficile, pesante, ma che ho affrontato meglio, il dopo non è stato facile, anzi, è il dopo che bisogna imparare ad accettare, affrontare, è quel dopo che spesso fa paura, isola, allontana, si cambia inevitabilmente, ci si adatta ad essere diversi, a volte fragili e indifesi, a volte spenti e stanchi.... Poi basta semplicemente guardare a quello che ho già affrontato, ed è li che nasce e si moltiplica il coraggio, guardo mio figlio e mi impongo di lottare , di sperare, di amare, perché la mia missione serve non solo a me, ma anche e soprattutto a lui,! E allora aspetto e so che ci vorrà tempo, per sentire quelle parole, che la mia mente vuol fare allontanare... così aspetto di voltare anche questa pagina...IMG-20250804-080008.jpg


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Counting Crows — Underwater Sunshine (2012)


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A quattro anni dal loro ultimo disco “Saturday Nights and Sunday Mornings”, i Counting Crows ritornano con un nuovo lavoro e questa volta è un disco di cover, spiazzando ancora una volta i loro fan. Ad Adam Duritz & co. infatti, una cosa su cui non si discute è la libertà di “scelta”, in poche parole fanno quello che gli pare senza filtri e costrizioni di sorta. Questa loro “scelta” gli permette di spaziare non solo con dischi variegati; dal vivo, in studio, di cover ma soprattutto con i tempi da loro scelti in base alle loro esigenze e non quelli dettati dalle Majors di turno. Dimostrazione è la scelta dei quindici brani che non appartengono ad un repertorio di canzoni famose o di facile ascolto ma scelte tra quelle che più piacevano a loro. Come risponde Duritz in una intervista: “Io sono un grande credente di una semplice regola, che qui non ci sono regole”. Insomma un gruppo “indipendente” nelle scelte e nelle esecuzioni della serie “prendere o lasciare”... silvanobottaro.it/archives/430…


Ascolta: album.link/i/1169968863



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Counting Crows — Underwater Sunshine (2012)


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A quattro anni dal loro ultimo disco “Saturday Nights and Sunday Mornings”, i Counting Crows ritornano con un nuovo lavoro e questa volta è un disco di cover, spiazzando ancora una volta i loro fan. Ad Adam Duritz & co. infatti, una cosa su cui non si discute è la libertà di “scelta”, in poche parole fanno quello che gli pare senza filtri e costrizioni di sorta. Questa loro “scelta” gli permette di spaziare non solo con dischi variegati; dal vivo, in studio, di cover ma soprattutto con i tempi da loro scelti in base alle loro esigenze e non quelli dettati dalle Majors di turno. Dimostrazione è la scelta dei quindici brani che non appartengono ad un repertorio di canzoni famose o di facile ascolto ma scelte tra quelle che più piacevano a loro. Come risponde Duritz in una intervista: “Io sono un grande credente di una semplice regola, che qui non ci sono regole”. Insomma un gruppo “indipendente” nelle scelte e nelle esecuzioni della serie “prendere o lasciare”... silvanobottaro.it/archives/430…


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PROVERBI - Capitolo 31


Insegnamenti di Lemuèl1Parole di Lemuèl, re di Massa, che apprese da sua madre.2Che mai, figlio mio! Che mai, figlio del mio grembo! Che mai, figlio dei miei voti!3Non concedere alle donne il tuo vigore, né i tuoi fianchi a quelle che corrompono i re.4Non conviene ai re, Lemuèl, non conviene ai re bere il vino, né ai prìncipi desiderare bevande inebrianti,5per paura che, bevendo, dimentichino ciò che hanno decretato e tradiscano il diritto di tutti gli infelici.6Date bevande inebrianti a chi si sente venir meno e il vino a chi ha l'amarezza nel cuore:7beva e dimentichi la sua povertà e non si ricordi più delle sue pene.8Apri la bocca in favore del muto, in difesa di tutti gli sventurati.9Apri la bocca e giudica con equità, rendi giustizia all'infelice e al povero.

ELOGIO DELLA DONNA VIRTUOSA (31,10-31)

È la felicità del maritoAlef 10Una donna forte chi potrà trovarla? Ben superiore alle perle è il suo valore.Bet 11In lei confida il cuore del marito e non verrà a mancargli il profitto.Ghimel 12Gli dà felicità e non dispiacere per tutti i giorni della sua vita.

È intraprendente e laboriosaDalet 13Si procura lana e lino e li lavora volentieri con le mani.He 14È simile alle navi di un mercante, fa venire da lontano le provviste.Vau 15Si alza quando è ancora notte, distribuisce il cibo alla sua famiglia e dà ordini alle sue domestiche.Zain 16Pensa a un campo e lo acquista e con il frutto delle sue mani pianta una vigna.Het 17Si cinge forte i fianchi e rafforza le sue braccia.Tet 18È soddisfatta, perché i suoi affari vanno bene; neppure di notte si spegne la sua lampada.Iod 19Stende la sua mano alla conocchia e le sue dita tengono il fuso.Caf 20Apre le sue palme al misero, stende la mano al povero.Lamed 21Non teme la neve per la sua famiglia, perché tutti i suoi familiari hanno doppio vestito.Mem 22Si è procurata delle coperte, di lino e di porpora sono le sue vesti.Nun 23Suo marito è stimato alle porte della città, quando siede in giudizio con gli anziani del luogo.Samec 24Confeziona tuniche e le vende e fornisce cinture al mercante.Ain 25Forza e decoro sono il suo vestito e fiduciosa va incontro all'avvenire.Pe 26Apre la bocca con saggezza e la sua lingua ha solo insegnamenti di bontà.Sade 27Sorveglia l'andamento della sua casa e non mangia il pane della pigrizia.

È lodata dai figliKof 28Sorgono i suoi figli e ne esaltano le doti, suo marito ne tesse l'elogio:Res 29“Molte figlie hanno compiuto cose eccellenti, ma tu le hai superate tutte!“.Sin 30Illusorio è il fascino e fugace la bellezza, ma la donna che teme Dio è da lodare.Tau 31Siatele riconoscenti per il frutto delle sue mani e le sue opere la lodino alle porte della città.

_________________Note

31,1-9 Lemuèl: questo sapiente che ora entra in scena, egli pure sconosciuto come Agur, probabilmente era il capo autorevole di un clan. L’insegnamento che trasmette è quello che ha ricevuto dalla madre, mentre nei capitoli precedenti, come in tutta la tradizione sapienziale, era il padre ad avere la prerogativa dell’insegnamento.

31,10-31 Il ritratto della donna ideale, come era vista nell’antica società patriarcale, suggella il libro. La forma della composizione è quella “acrostica”, ossia del poemetto alfabetico: ciascuna delle 22 lettere dell’alfabeto ebraico, nella loro successione, apre un versetto. Il discepolo, ora che ha terminato la propria formazione alla scuola della sapienza e si prepara alla vita, cerca di scoprire e trovare la sua donna ideale.

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Approfondimenti


vv. 1-9. Una tipica istruzione rivolta al re (sull'esempio di quelle note dall'Egitto e dalla Mesopotamia). Il fatto insolito è che a impartire tale istruzione sia una donna, la madre del re. Il TM chiama Lemuel «re di Massa» e ciò induce a ritenere che ci troviamo di fronte a un testo sapienziale non israelitico (forse edomitico) che i saggi hanno accolto. Due pericoli vede in agguato la madre per il figlio re: le donne, che come nel caso di Salomone (cfr. 1Re 11,14; Sir 47,19-20), possono determinare la sua politica, se lascia campo agli intrighi covati nell'harem; il vino, che non consente al re di assolvere ai suoi doveri, in particolare quello di amministrare la giustizia.

vv. 10-31. Si tratta di un poema alfabetico, in cui ogni versetto inizia con una lettera diversa e che perciò si compone di 22 versetti, quante sono appunto le lettere dell'alfabeto ebraico (per questa forma letteraria cfr. Sal 119; Lam 1; Sir 51,13-20). La struttura è già formalmente espressa dall'acrostico, ma ciò potrebbe dare un'impressione di artificiosità. Un'osservazione più attenta permette di mettere in rilievo ulteriori aspetti formali che illustrano il movimento del testo. Anzitutto si può rilevare che i due versetti conclusivi (vv. 30-31) non hanno la funzione descrittiva dei precedenti e perciò rappresentano una coda generalizzante. Il corpo del poema è dunque costituito dai vv. 10-29 in cui possiamo evincere indizi di un procedimento di inclusione tra i vv. 10-11 e i vv. 28-29, nella ripresa del vocaboli ḥayil (tradotto dapprima con «forte», v. 10, e poi con «cose eccellenti», v. 29) e ba‘ᵉlāh («suo marito»). Al centro del poema è riconoscibile nei vv. 19-20 una disposizione chiastica, sulla base dei vocaboli yādêāh šillᵉḥàh («stende la sua mano», vv. 19a.20b) e kapêâh/kapāh («dita... mani», vv. 19b.20a) e questa piccola unità funge da perno a tutto il carme. Ne risulta perciò la seguente divisione: a) Unità con nove versetti (vv. 10-18). b) Chiasmo (vv. 19-20). c) Unità con nove versetti (vv. 21-29). d) Conclusione (vv. 30-31). Tra le unità a) e c) troviamo inoltre numerose corrispondenze tematiche: l'incomparabilità della donna (vv. 10.29), il vantaggio per suo marito (vv. 11.23), le sue qualità morali (vv. 12.26), la sua abilità nei lavori manuali (v. 13.22.24), in quelli domestici (vv. 15.27) e nel commercio (vv. 16.24). Degna di nota è infine la ricorrenza degli stessi vocaboli in queste due sezioni. La breve sezione centrale mette in rilievo due qualità essenziali della donna: la sua laboriosità e la sua generosità verso i poveri e queste si collocano entrambe a livello del «fare». Inoltre il poema si concentra quasi del tutto su ciò che fa la donna: il verbo “fare” e il sostantivo “azione” ricorrono nei vv. 13.24.29.31. Il poeta non canta la bellezza della donna, ma loda le sue mani (vv. 19.20.31), il palmo (vv. 13.16.19.20), le braccia (v. 17). La sua attività è instancabile: fila (v. 19) e vende ciò che ha filato (v. 24), acquista provviste (v. 14.16) e pianta vigneti (v. 16), si alza presto (v. 15) e si corica tardi (v. 18). Perché il libro termina con questo canto di lode alla donna eccellente? Si deve osservare in particolare un dato che immediatamente risalta: il rilievo dato al femminile in Pr 1-9 e in tutto il c. 31. E ciò induce a ritenere che questi testi non siano stati posti casualmente all'inizio e alla fine del libro. Osserviamo i collegamenti stilistici e tematici tra le due parti:

1) L'insegnamento della madre (Pr 1,8) ricompare tematicamente in 31,1-9, presentato appunto come istruzione della madre di Lemuel, e pure in 31, 26, dove si parla della saggezza della donna.

2) La donna perfetta è reputata in 31,10 «ben superiore alle perle», come la sapienza in 3,15 e 8,11.

3) A colui che «trova» la donna perfetta (31,11) o la sapienza (3,13; 8,17) non mancherà il profitto (31,11; 3,14; 8,21).

4) Anche un sentimento e un legame profondi nei confronti di queste figure femminili trovano espressione nei testi: alla sapienza ci si stringe (3,18), la si stima e la si abbraccia (4,8) e a lei è diretto l'amore (4,6; 8,17.21); così è della donna: di essa ci si invaghisce (5,19) e in lei si confida (31,11).

5) Come la sapienza invita le persone alla sicurezza, alla felicità e al benessere della sua casa (8,34; 9,1-6), anche l'attività della donna perfetta assicura non solo il benessere e la pace della sua famiglia (31,21), ma estende tale abbondanza anche al povero e al bisognoso (31,20).

6) Come la sapienza proclama il suo messaggio alle porte della città (1,21; 8,3), così le opere della donna perfetta la lodano in quell'ambito (31,31).

Vi è dunque una serie consistente di indizi che provano come le figure femminili di Pr 1-9 e 31 siano il frutto di una intenzionale opera redazionale del libro, per creare una specie di cornice attorno alla collezione dei detti. Aver attorniato le collezioni di Pr con i poemi sulla sapienza personificata e sulla donna di valore attua un riorientamento delle stesse: la loro funzione non è più di essere un manuale scolastico per studenti, perché sono trasformate in un testo che appartiene a una letteratura religiosa. Perché questo espediente letterario della personificazione? Si possono individuare alcune funzioni che essa assolve: anzitutto attira l'attenzione sull'unità del soggetto trattato, serve cioè a unificare i differenti tipi di sapienza presenti nel testo; permette di risalire dalla molteplicità delle esperienze umane al loro significato universale (dal singolo al tipico); unisce a un soggetto puramente letterario un attributo metaforico (in questo caso la donna). Per l'editore finale del libro il referente della personificazione è dunque la collezione dei Proverbi. Non va infine dimenticato che la sapienza personificata non svolge solo una funzione letteraria: come mostrano soprattutto i poemi sulla sapienza, essa avanza anche una pretesa religiosa, poiché afferma che la sua opera è rafforzata e autenticata da JHWH. In tal senso in essa si può altresì riconoscere un simbolo religioso autorevole, la cui funzione è di mediare tra l'esperienza vissuta e una visione religiosa particolare del mondo. Nella Giudea postesilica, in un contesto culturale frammentato, in cui ormai la voce dei grandi profeti non risuona più, la voce della sapienza si propone ora come quella che avvicina Dio agli uomini e che permette loro di integrarsi armoniosamente nell'ordine che Dio ha instaurato nel creato. Alle molteplici sfide che l'Israele postesilico ha di fronte (i culti pagani e le loro filosofie, così come il rischio dell'assimilazione etnica), i saggi oppongono un sapere che viene dall'alto e che attira a sé gli uomini per il suo fascino: la priorità non va quindi all'esecuzione del comandamento, ma all'assunzione responsabile di un progetto esistenziale, che nasce dall'ascolto di una parola che si impone per la sua capacità di rendere ragione dell'esperienza umana. Il discepolo del saggio non è un puro esecutore, ma uno che è invitato a diventare come il maestro, capace cioè di rendere ragione dell'esperienza. Perciò la sapienza non è soltanto la regina, ma l'amante, la compagna della vita, colei che si sceglie per amore, perché accanto a lei si può godere della benedizione che Dio riversa sull'umanità.

(cf. FLAVIO DALLA VECCHIA, Proverbi di Salomone – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Sole


Predicazione estiva sul sole e su Dio sole di giustizia

castopod.it/@jhansen/episodes/…
Siamo in estate. Come ogni anno, in questa stagione si parla tantissimo del tempo. C’è chi dice che fa troppo caldo. Altri vanno in vacanza e trovano solo pioggia. Qualcuno si lamenta per il troppo sole, altri per il troppo poco sole. E c’è anche chi si dispera perché non riesce ad abbronzarsi.

Poi c’è chi ha paura per il buco dell’ozono, che fa passare i raggi più pericolosi del sole… e intanto, nelle nostre città, l’ozono a volte è fin troppo, e ci fa mancare il respiro.

Insomma, in estate, tutti parlano del tempo. E, inevitabilmente, tutti parlano del sole.

Il sole è vita. Senza di lui non ci sarebbe nulla: niente piante, niente calore, niente ossigeno, niente vita. Per questo, fin dall’antichità, il sole è diventato un simbolo forte di Dio, del suo splendore, della sua forza, della sua luce. Le antiche civiltà lo avevano capito. Gli Egizi lo adoravano come Aton. I Greci lo chiamavano Helios. Gli Aztechi e gli Inca lo onoravano come una divinità. I Romani gli dedicavano feste. E la data del nostro Natale, il 25 dicembre, non cade a caso: era la festa del solstizio d’inverno, quando il sole ricomincia piano piano a vincere il buio. Anche i giapponesi lo hanno messo sulla loro bandiera: un sole rosso che sorge.

Il sole ha lasciato tracce anche nella Bibbia. E anche nella nostra fede. Per me, il sole è un’immagine concreta della grazia di Dio, che ci arriva con una generosità… sovrabbondante.

Il sole ci ricorda anche quanto siamo piccoli. Pensiamo un attimo a cosa abbiamo sopra le nostre teste:

Il sole esiste da 4 miliardi e mezzo di anni. E non è nemmeno a fine corsa: è a metà della sua vita. Ha una temperatura che va da migliaia a milioni di gradi. È una stella gigantesca: più di 100 volte il diametro della Terra. La sua luce impiega circa 8 minuti a raggiungerci.

Dentro il sole, ogni secondo, avviene un’enorme reazione: quattro atomi di idrogeno si fondono in uno di elio, e da lì nasce un’energia immensa. Pensate: in un solo secondo, il sole emette tanta energia quanta ne produrremmo con 150 milioni di centrali elettriche. Ogni secondo!

Ma sapete quanto di tutta quell’energia ci arriva davvero? Appena mezzo milionesimo. Il resto si disperde nel cosmo. Eppure, è più che sufficiente per dare vita a tutto.

Questa si chiama sovrabbondanza. Il sole dà senza misura, senza trattenere nulla. Proprio come fa Dio nella sua grazia. Dio non ci dona il minimo indispensabile. No. Ci riempie, ci circonda, ci nutre con la sua bontà e bellezza.

Quando Gesù, nel sermone sul monte, parla dell’amore verso i nemici, dice: “Dio fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi, e manda la pioggia sui giusti e sugli ingiusti.”

È la grazia sovrabbondante. Un dono che arriva a tutti anche a chi non se lo aspetta.

Dio ci dona la vita, il creato, la forza delle mani, il respiro e i pensieri. E allora, come facciamo col sole d’estate, esponiamoci alla sua grazia. Stiamo lì, davanti a lui. Lasciamo che il suo amore ci scaldi, come i raggi sulla pelle.

Senza il sole non c’è vita. Letteralmente. La nostra pelle, grazie al sole, produce serotonina, quella sostanza che ci aiuta a non cadere nella depressione. I raggi UVB ci permettono di produrre la vitamina D. E il nostro corpo riesce ad assorbire meglio l’ossigeno.

È come guardare il volto buono di Dio, come sentire la sua grazia sulla pelle. Il sole scioglie la tristezza. Scioglie i nostri dubbi sul nostro valore, sulle nostre colpe, sulle occasioni perse.

Come il sole, anche Dio si dona. Ma non si consuma. Anzi: si ritrova nel dono. In Cristo, Dio si è dato, completamente. E non si è svuotato. Si è rivelato.

Per tanto tempo abbiamo pensato che la Terra fosse il centro dell’universo. Poi abbiamo scoperto che non lo è. Nemmeno il sole è il centro. È solo una stella, tra miliardi. Una stella grande per noi… ma piccola nel cosmo. E questo ci fa capire quanto siamo piccoli anche noi.

Sì, possiamo inventare mille cose, ma senza il sole non possiamo fare nulla. Neanche il petrolio è altro che energia solare conservata da millenni. E quando il sole ha i suoi cambiamenti, ce ne accorgiamo. Ogni undici anni circa, si formano delle macchie solari. Da lì partono vere e proprie esplosioni di energia, che influenzano il clima, i satelliti, le comunicazioni… persino il nostro umore.

Non stupisce che i popoli antichi, davanti a tanta potenza, abbiano finito per divinizzare il sole. Quando l’uomo sente di appartenere a qualcosa di più grande, di misterioso, di vitale… cerca un dio.

Ma noi, che abbiamo conosciuto il Dio della Bibbia, sappiamo che è Dio ad aver creato il sole. Il sole ci parla della grandezza di Dio, ma non è Dio. È un segno, un riflesso.

E questo Dio ha voluto donarci tutto: la luce, la vita, e anche suo Figlio, perché potessimo conoscere la sua luce più da vicino. Eppure, il sole ha anche un lato oscuro.

Nelle giornate torride, quando la temperatura supera i 40 gradi, soprattutto chi ha problemi di cuore ne soffre. Troppo sole secca, brucia, crea deserti. Conosciamo anche la questione del buco dell’ozono. Solo quello strato, sottile ma prezioso, ci protegge dalla parte distruttiva del sole.

E poi c’è una cosa che tutti sappiamo: non si può guardare il sole a occhio nudo. È troppo forte. Ci brucerebbe gli occhi.

Anche Dio ha, per così dire, un lato “oscuro. Non nel senso che sia cattivo, ma nel senso che è troppo grande per noi. La Bibbia lo chiama: santità. È un fuoco che consuma. Nessuno può avvicinarsi a Dio e restare com’era. Nella Bibbia, nel tempio di Gerusalemme, solo il sommo sacerdote poteva entrare nel luogo più sacro, e solo una volta all’anno.

Noi esseri umani, con i nostri limiti, non possiamo avvicinarci a Dio da soli. Ma è Dio che ha scelto di avvicinarsi a noi.

E lo ha fatto in Gesù di Nazaret.

Lui è la luce che brilla nelle tenebre. Ma non ci brucia. Non ci acceca. Non ci consuma. La sua luce illumina, riscalda, ama. È luce per tutti. È luce che vuole essere riflessa.

Gesù ci dice: “Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché vedano le vostre opere buone e rendano gloria a Dio.”

Questo è il nostro compito: riflettere la luce del sole, portarla a chi vive nel freddo, nel buio, nel dubbio. Portarla a chi pensa che Dio non esista più. Come disse il re Salomone: “Il Signore ha dichiarato che abiterà nell’oscurità.” Anche noi, a volte, ci sentiamo così. Dentro a giornate buie. In momenti in cui Dio sembra lontano, silenzioso, irraggiungibile. E allora nasce la paura. Ci manca la fiducia.

Da bambino, quando pioveva, dicevo: “Oggi non c’è il sole”. Ma il sole c’è sempre. Anche dietro le nuvole. Anche quando non lo vediamo. La sua luce passa comunque, illumina comunque.

E così è Dio: c’è sempre, anche quando non lo sentiamo. Allora portiamo questa luce. Portiamola a chi vive nel buio. A chi ha perso speranza. A chi ha smesso di credere.

Il sole è un’immagine bellissima per Dio. Ci mostra la sua grandezza, la sua luce, il suo calore. E ci ricorda che anche noi, se ci esponiamo alla sua grazia, possiamo diventare portatori della sua luce.


noblogo.org/jens/sole



[vortex]diversi plessi luce&gas] lo stesso con effetto l'ottocento i] claustri tonnare ottani semilavorati verde bottiglia] [benzopirine mai distillate doppia a doppia voce treccani il Balestra con] attenzione o punto levigatissimo in] aprile incide con licenza nei] modi nelle dodici battute dei laboratori un caso di] abbandono di reperti a] regime sono

[non sono il capitano il tanto tannico agognato


noblogo.org/lucazanini/vortex-…



Super-Organismi Verso una Nuova Alleanza


Riporto l'#estratto di un libro che mi ha illuminato

formicaio

Nel corso della storia delle civiltà umane, i grandi S.O. sociali hanno utilizzato varie forme di condizionamento per costringere la vita psichica degli individui all’interno di particolari regioni del loro spazio mentale in modo da poterli meglio controllare (e ottenere quella che lo psicologo Charles Tart chiama ‘trance consensuale’ [34] e che F.Varela e H.Maturana – i già citati teorici dell’autopoiesi – chiamano ‘coordinazione comportamentale consensuale’ [35]). Il più semplice, ovvio e primitivo meccanismo di controllo sociale è certamente il metodo coercitivo basato sulla forza diretta, il quale fa leva sui bisogni di basso livello dell’essere umano, quali l’istinto di sopravvivenza e la tendenza ad evitare dolore e sofferenza (D.C. filogenetici), attaccando fisicamente quei membri che si comportano in modo deviante, ferendoli, torturandoli o uccidendoli. Questo tipo di controllo fondato su pene e punizioni, se pur probabilmente tra i più usati nel corso dell’intera storia umana (e in gran parte ancora oggi), è tuttavia molto costoso, in quanto richiede che alcuni membri del gruppo sociale dedichino il proprio tempo a vigilare sugli altri e devono essere mantenute a spese della comunità. Le culture più evolute hanno quindi sviluppato dei meccanismi di controllo e condizionamento più raffinati, basati essenzialmente sul naturale bisogno di accettazione degli individui (e quindi sull’attivazione di D.C. di tipo emozionale), riducendo così la richiesta di risorse umane e fisiche (polizie e penitenziari). Uno di questi meccanismi è utilizzato nelle cosiddette ‘culture della vergogna’, in cui i bambini vengono educati e condizionati a sentirsi davvero male quando l’armonia del gruppo sociale a cui appartengono viene infranta: se la gente sapesse che avete fatto una cosa proibita, provereste una grande vergogna, gettereste discredito su tutti gli altri (la vostra famiglia, la vostra ditta, etc.) oltre che su voi stessi e l’armonia della comunità ne sarebbe distrutta. Non solo una speciale classe di poliziotti, bensì chiunque vi vedesse compiere quell’azione proibita applicherebbe la propria censura: e voi, per paura di essere messi alla gogna evitereste di fare ciò che è proibito. Avendo la sicurezza che nessuno verrà a saperlo, tuttavia, la tentazione di fare qualcosa di proibito rimane grande. Quindi, facendo appello all’ulteriore bisogno di autostima dell’individuo, le cosiddette ‘culture della colpa’ sono andate oltre nello sviluppo dei meccanismi di controllo sociale: attraverso l’attivazione di opportuni domini cognitivi, soprattutto di tipo emozionale ma anche logico-simbolico (che giocano il ruolo del ‘Super-Ego’ freudiano), queste culture sono in grado di punirvi anche solo per il fatto che state semplicemente pensando di trasgredire una qualche norma, che state ‘peccando in cuor vostro’, e vi fanno sentire male per aver giusto contemplato l’idea di compiere l’atto in questione: se poi fate davvero qualcosa che è proibito, il super-ego continuerà a punirvi con i sensi di colpa anche se nessuno saprà mai che siete stati voi. In queste culture le Religioni e la Chiese, arruolate dal S.O. sociale, prendono spesso il posto del Legislatore e delle forze di polizia nell’operare il condizionamento e esercitare, attraverso il loro specifico patrimonio memetico, il controllo sulle menti, e quindi sulle azioni, degli individui coinvolti: a quale altro scopo servirebbero memi quali i ‘Comandamenti’ o il ‘Peccato originale’ e strumenti quali la confessione o la scomunica? Questi tre tipi di condizionamento si basano evidentemente sulla creazione di un ‘feedback negativo’, nel senso che mirano ad inibire negli individui eventuali tendenze comportamentali devianti o con l’uso della forza e della punizione, o anche seguendo la più ortodossa via dell’educazione (familiare, scolastica, religiosa). Altre forme di condizionamento – come vedremo meglio in seguito – mirano invece ad alimentare l’orgoglio e la sete di fama, ricchezza e potere individuali, realizzando dei ‘feed-back positivi’ mediante un ponderato sistema di premi e ricompense, vincite e lotterie, elogi e promozioni, medaglie e riconoscimenti. Insomma, attraverso – sostanzialmente – le due principali forme di condizionamento note agli psicologi, quello ‘operante’ (che induce l’obbedienza infliggendo o minacciando sanzioni, oppure offrendo incentivi e ricompense) e quello ‘classico’ di tipo pavloviano (che si serve dell’educazione e sfrutta i sensi di colpa e di vergogna), i grandi super-organismi sociali hanno progressivamente perfezionato la loro abilità nel tenere gli individui mentalmente confinati all’interno della regione mentale circoscritta dalla loro cultura di appartenenza (i cui limiti sono stabiliti dalla condivisione di un vasto patrimonio memetico), mantenendoli quindi in quello stato collettivo di ‘trance consensuale’ necessario per controllarne il comportamento. Nel corso del ventesimo secolo, peraltro, con la rapida evoluzione dei mezzi di comunicazione di massa (i cosiddetti ‘media’: libri, riviste, telefoni, radio, televisione e oggi, soprattutto, computer collegati in reti informatiche globali su scala planetaria), un nuovo, sottile e potente meccanismo di condizionamento è entrato in possesso dei super-organismi: la persuasione occulta. Oggi infatti qualsiasi tipo di informazione, cioè qualsiasi meme o gruppo di memi, che sia prodotto dalla mente di un singolo individuo o da un qualsiasi super-organismo, può raggiungere e ‘contagiare’, praticamente in tempo reale, un enorme numero di individui: così, ad esempio, un’intera nazione può essere rapidamente ‘invasa’ dai memi di una nuova moda o di un nuovo spot pubblicitario di tendenza, dal meme rappresentato dal discorso di fine anno del presidente della repubblica, dalle parole del Papa all’Angelus, o dall’immagine di un goal decisivo segnato in una finale dei mondiali di calcio, trasmessa in diretta televisiva oppure ‘on line’ su Internet...

Da Super-Organismi – verso una nuova alleanza di A. Pluchino, pagg 43-44pluchino.it/blablabla.htm

#superorganismi #società #psicologia #memi #complessità #sistemica


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Prima del Big Bang


Quando mi trovo a fare, ogni tanto, serate di divulgazione scientifica, una delle domande più gettonate è sempre: cosa c’era prima del Big Bang?

Il Big Bang, traducibile in italiano come Grande Botto, è un termine che spesso usiamo per riferirci alla “nascita” del nostro Universo. Tecnicamente, il termine più corretto da usare sarebbe Teoria del Big Bang. Questo perché, sempre tecnicamente, l’universo non è iniziato né con un botto né tantomeno con un’esplosione. Tuttavia in passato (ma ancora oggi a volte) sia i libri scolastici sia grandi personaggi della comunicazione scientifica hanno perseverato più volte con il concetto di “esplosione” per descrivere come è iniziato l’universo.

Parliamo un attimo della teoria del Big Bang


Mettiamo in ordine alcuni fatti, allora. Oggi sappiamo che sicuramente l’Universo ha avuto un inizio, precisamente 13,79 miliardi di anni fa. Lo sappiamo grazie ai dati della radiazione cosmica di fondo raccolti dal satellite ESA Planck del 2018. Non starò oggi a parlare della radiazione cosmica di fondo, ma vi basta sapere che si tratta dell’evidenza scientifica numero uno della Teoria del Big Bang, di cui parlerò brevemente tra pochissimo.

Infatti, negli anni Venti del secolo scorso non si conoscevano molte cose sull’universo. Non si sapeva neanche se quella che oggi sappiamo essere la Galassia di Andromeda fosse davvero un’altra galassia oppure no. Però in quel periodo avvennero due cose fondamentali: da una parte Albert Einstein aveva messo a punto la teoria della Relatività, teoria che si poteva applicare a tutto l’universo in quanto capace di descrivere come funziona la gravità su distanze molto grandi; dall’altra parte, grazie allo sviluppo tecnologico, si è avuta la possibilità di avere strumenti molto precisi per misurare le distanze delle galassie (che, all’epoca, ancora non sapevamo fossero tali).

Alla fine, nel 1924, l’astronomo americano Edwin Hubble dimostrò che Andromeda era un’altra galassia e quindi l’Universo era fatto di tante galassie come la nostra; poi nel 1929, Hubble dimostrò che le galassie si allontanano da noi. Quest’ultimo fatto, apparentemente inspiegabile, trovava un quadro teorico proprio nella teoria di Einstein: le galassie si allontanano non perché si muovono loro, bensì perché è lo spazio in mezzo a espandersi.

Pazzesco. Eppure una teoria che sembra così assurda spiega perfettamente i dati di Hubble. Altre teorie non sono capaci di farlo.

Non solo: Georges Lemaitre, un prete belga con un PhD in astrofisica, formulò in quegli anni una teoria ulteriore: se l’Universo oggi si espande e le galassie si allontanano, allora vuol dire che in passato le galassie dovevano essere molto più vicine, quindi l’Universo doveva essere molto più denso di oggi…

Questa idea non fu accettata dalla comunità scientifica dell’epoca. Lo scienziato inglese Fred Hoyle per esempio non poteva accettare l’idea che in passato l’universo fosse una specie di “uovo primordiale” ultra-denso (come diceva Lemaitre) e quindi ipotizzò un’altra teoria: secondo Hoyle l’Universo non era più denso in passato e meno denso oggi, ma è sempre stato così come lo vediamo, con la stessa densità. Per bilanciare il calo di densità di galassie a causa dell’espansione, secondo Hoyle ogni tanto nell’Universo si forma (dal nulla!) un po’ di materia. Secondo questa teoria, l’Universo vive in un perenne Stato Stazionario.

Pazzesca teoria anche questa, vero? Eppure andò per la maggiore.

Da dove nasce il nome “Big Bang”?


Addirittura, pensate, Hoyle il 28 marzo 1948 alle 18:30 ora di Londra rilasciò un’intervista alla BBC Radio dove stigmatizzò fortemente la teoria di Lemaitre e inventò, per l’occasione, anche un nomignolo per la teoria del prete belga. Disse Hoyle: “earlier theories… were based on the hypothesis that all the matter in the universe was created in one big bang at a particular time in the remote past.” che tradotto suona così “le precedenti teorie [Hoyle già dava per scontata che la sua teoria fosse giusta – nda] erano basate sull’ipotesi che la materia nell’Universo fosse creata in un grande botto in un particolare istante del remoto passato”.

Ecco! Il nome teoria del Big Bang quindi non viene dalle persone che hanno lavorato su questa teoria, ma proviene dal suo principale detrattore.

Alla fine però risultò che Hoyle aveva torto: nel suo Universo stazionario non c’è spazio per una radiazione cosmica di fondo (di cui vi parlerò un’altra volta), la quale invece era perfettamente prevista nella teoria, cosiddetta, del Big Bang. Quando nel 1964 la radiazione cosmica di fondo fu osservata arrivò il momento in cui la comunità scientifica finalmente accettò la teoria di Georges Lemaitre come la teoria più accredidata a spiegare l’origine dell’Universo.

Che cosa c’era prima del Big Bang?


Quindi eccoci qua: al momento riteniamo che l’Universo non sia stato sempre così come lo vediamo, bensì abbia avuto un’origine nel passato e fosse più denso allora rispetto a oggi (a causa dell’espansione). Non sappiamo esattamente come sia nato l’Universo e non sappiamo neanche se l’Universo è finito o infinito in realtà. Sappiamo solo che l’Universo ha avuto un inizio e che in passato la densità era altissima e quindi, di conseguenza, anche le temperature erano elevatissime. Per semplicità, oggi, chiamiamo questa teoria come il modello Big Bang, ma dobbiamo essere consapevolə che non si tratta di un’esplosione e soprattutto che siamo ancora molto ignoranti su un sacco di cose.

Ma se la teoria del Big Bang comunque ci dice che l’Universo ha avuto un inizio nel tempo, viene spontaneo chiedersi: che cosa c’era prima? Comunque, la risposta più bella che si può dare a questa domanda è, per una volta, un’altra domanda: se il tempo inizia con il cosiddetto Big Bang, ha senso parlare di un prima?

Beh, innanzitutto, bisogna accettare un fatto: anche se ci fosse stato qualcosa prima, non avrebbe potuto in alcun modo influenzare il dopo, perché il tempo per come lo conosciamo ha avuto inizio proprio con l’inizio a cui conduce la teoria del Big Bang. Ora, di sicuro qui abbiamo a che fare con qualcosa che scava in profondità della nostra esperienza umana. Noi viviamo nel tempo e ci sembra impossibile pensare a un tempo senza tempo. D’altra parte, anche solo immaginare che tutto ciò che ci circonda non sia esistito per sempre, ecco, aggiunge un tocco di inquietudine e provvisorietà alla nostra già fragile esperienza umana.

Pensiamo mai al prima?


C’è da dire, però, che è davvero notevole che la mente umana sia stata in grado di concepire una teoria che fissa l’inizio del tempo. Come molti aspetti scientifici, alla fine sono le cose che osserviamo nell’Universo a metterci dei paletti; al momento, per quanto incredibile possa essere, ciò che vediamo nell’Universo ci dice che il tempo ha avuto un inizio. Per quanto pazzesco possa essere, c’è stato un istante della storia dell’Universo che probabilmente non ha avuto un istante precedente.

Ma è davvero pazzesco per l’esperienza umana? Forse ciò che dice la teoria del Big Bang è molto più vicino a ciò che viviamo ogni giorno di quanto pensiamo. Prendiamo, per esempio, questa citazione dal libro L’amica geniale di Elena Ferrante, Lenù riporta un pensiero molto profondo elaborato dalla sua amica Lila:

“Ritornò così il tema del “prima”, ma in modo diverso che alle elementari. Disse che non ne sapevamo niente, né da piccole né adesso, che perciò non eravamo nella condizione di capire niente, che ogni cosa del rione, ogni pietra o pezzo di legno, qualsiasi cosa, c’era già prima di noi, ma noi eravamo cresciute senza rendercene conto, senza mai nemmeno pensarci. Non solo noi. Suo padre faceva finta che non c’era mai stato niente prima. Lo stesso faceva sua madre, mia madre, mio padre, anche Rino. Eppure la salumeria di Stefano prima era la falegnameria di Peluso, il padre di Pasquale. Eppure i soldi di don Achille erano stati fatti prima. E così anche i soldi di Solara. Lei aveva fatto la prova con suo padre e sua madre. Non sapevano niente, non volevano parlare di niente. Niente fascismo, niente re. Niente soprusi, niente angherie, niente sfruttamento.”


Al contrario del sentimento popolare nei confronti del Big Bang, dove il prima è quasi un’ossessione, un mistero da risolvere, quasi fossimo tuttə assetatə di conoscenza, in questo frammento del libro di Ferrante il prima, invece perfettamente alla portata di chiunque, subisce un forte rimosso che indurisce lo stato, direi fortemente stazionario, delle cose. Quasi una rivincita per la teoria di Hoyle.

Il Big Bang a scuola


La negazione del prima non è solo un problema di Lila. È anche un problema di noi insegnanti. Quando entriamo in classe a settembre possono accadere due situazioni: 1) è la prima volta che vediamo quella classe; 2) abbiamo visto l’ultima volta quella classe all’inizio di giugno. Partiamo dal caso 1), quello che conosco meglio in quanto precario alla secondaria di secondo grado. In questo caso io imparo a conoscere delle nuove persone, di cui non so nulla veramente della loro vita scolastica e neanche del loro essere umani ogni giorno. Questo prima non è mai davvero oggetto di riflessione didattica. Chi entra in classe, davanti allə prof, deve essere solo pronto per il dopo: non è contemplato avere avuto una vita fino a quel momento.

In sostanza, ogni giorno di scuola è un Big Bang: ogni giorno si creano nuove condizioni di partenza per affrontare l’evoluzione dei giorni successivi. È quello che è successo prima? Come nella teoria del Big Bang, il prima non può più influenzare il dopo. Frasi come “Prof, ma io ho studiato…e tanto!” non hanno alcun potere di influenza se alla verifica hai preso 4. Perché quel votaccio è il nuovo Big Bang. E così noi prof ci dimentichiamo anche che, anche con le migliori intenzioni, ogni mattina, quando entriamo in classe, non sappiamo nulla di ciò che è successo il pomeriggio precedente alle persone che abbiamo davanti e che ogni giorno crescono e scoprono il mondo: tutto il focus è sulla “lezione”. Per la scuola del Big Bang tutto questo non importa: ogni mattina riparte il tempo della lezione, non importa più il prima. Anche nel caso 2) il prima viene trascurato. In questo caso si trascura tutta l’estate, tutte l’incredibile varietà di emozioni, sensazioni, nel bene e nel male, che possono aver sperimentato durante la stagione senza scuola. A settembre si riparte: Big Bang!

Eppure i rapporti, le relazioni, i corpi, tutto ciò ha un prima che non può essere trascurato quando si entra in aula. Georges Lemaitre sarebbe fiero di noi che ogni giorno, pur senza magari avere troppe conoscenze di astrofisica, mettiamo in pratica ciò che dice la teoria del Big Bang: c’è un sempre un nuovo inizio e quell’istante non conosce un istante precedente.

Naturalmente qui non sto facendo un discorso contro chi insegna. È chiaro che noi prof ce la mettiamo veramente tutta per andare contro il Big Bang scolastico. Ma la scuola sembra essere stata plasmata proprio per creare dei continui Big Bang: a volte è solo l’estate, si cresce, si cambia; a volte sono lə docenti che cambiano, perché precariə; a volte cambia la scuola, a volte il grado, a volte lə compagnə di classe. Tutti eventi che invece di essere visti come un flusso temporale di eventi connessi, la scuola e la società ci abituano a vedere sempre e solo come “nuovi inizi”, come tanti piccoli Big Bang, appunto.

Un triste esempio: il genocidio palestinese


Perché il prima ha sempre un suo importante peso specifico. Non solo nel nostro piccolo della scuola, ma anche in un contesto più ampio, nel contesto della Storia. L’umanità deve sempre fare i conti con il prima, anche quando decide, coscientemente, di rimuoverlo. Un caso eclatante e recente di questa rimozione collettiva è avvenuto con la questione palestinese, dove una narrazione capziosa e prettamente coloniale, ha deciso di fissare l’inizio di tutti i guai al 7 ottobre 2023.

Ovviamente sappiamo tuttə benissimo che esiste un prima fondamentale nella questione palestinese, un contesto temporale fondamentale per comprendere che in questa storia c’è sempre stato un solo popolo oppresso, quello palestinese; un prima che viene rimosso proprio come, per certi versi, fanno gli abitanti del rione ne L’amica geniale; un prima che, invece, Lila cerca di far emergere perché ritiene necessario per innescare un cambiamento dello stato delle cose. Invece, nel caso della questione palestinese, la narrazione coloniale ha deciso di usare un surrogato della teoria del Big Bang e far nascere tutti i problemi il 7 ottobre 2023, dimenticando ciò che è stato prima e molto prima, dimenticando l’occupazione illegale israeliana e il regime di apartheid a cui è sottoposto il popolo palestinese da decenni.

E la scelta di usare un Big Bang, dimenticando il prima, di volta in volta nel corso degli anni, ci ha reso e ci rende sempre più complici di quello che è un vero e proprio genocidio in atto in diretta sui nostri smartphone.

Avere tempo per un nuovo tempo


La teoria del Big Bang è una teoria che prova a descrivere come funziona ed evolve tutto l’universo. Questa teoria, almeno per come è fatta ora, ci impone di farci domande sul concetto di tempo. Molto più precisamente, l’esistenza di un istante iniziale sembra a noi inconcepibile: l’idea di un Universo che non sia sempre esistito ci mette a profondo disagio. Eppure, incredibilmente, quando parliamo di fatti più umani non esitiamo a dimenticarci di ciò che accaduto prima. Decidiamo, proprio come fa l’Universo a nostra insaputa, di fissare arbitrari punti di partenza come ci fa più comodo, nelle relazioni, a scuola, persino nella Storia, sensibile più di ogni altro contesto alla scelta di inizi arbitrari.

Nei fatti, ciò che fa la teoria del Big Bang è farci riflettere sul concetto stesso di tempo nella sua versione antropocentrica. L’esperienza umana, a qualsiasi livello, è costellata di prima e dopo, causa ed effetto senza soluzione di continuità e in modo estramemente complesso.

In questo senso, assurdo che – per quanto ne sappiamo oggi – l’Universo stesso abbia un arbitrario istante iniziale ci spiazza e ci ricorda che, per quanto tendiamo in tutti i modi di curvare il flusso temporale dei fatti sul nostro pianeta, in realtà siamo solo figliə impotenti del tempo che scorre. Non solo dobbiamo riflettere sul concetto di tempo e tener conto del prima, ma forse dovremmo anche iniziare finalmente a immaginare come coltivare rapporti, tra persone e tra popoli, dove non esiste la necessità di fissare un punto di inizio che azzera il prima, ma che siano capaci di inserirsi in un flusso temporale in cui il passato agisce in ogni istante.

Anche in questo dovremmo imparare dall’Universo: perché nonostante esso contenga un istante iniziale insormontabile, tuttavia tutto ciò che vediamo oggi manifesta un profondo legame evolutivo con il suo passato. Tutto il contrario di ciò che facciamo noi, purtroppo continuamente proiettati a decostruire il passato al fine di dimenticarlo, nelle relazioni, a scuola, nella Storia.


log.livellosegreto.it/khulewam…



Fame


Avere o essere

Predicazione su Giovanni 6,30-35

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Chi di noi non ha mai provato fame? Non parlo solo di quella fisica — dello stomaco che brontola. Parlo di una fame più profonda: quella di sentirsi al sicuro, di avere un senso, di sapere che la nostra vita vale. Una fame di amore, di pace, di giustizia, di relazione vera.

Viviamo in un mondo in cui ci viene detto, fin da piccoli, che questa fame si placa possedendo: cose, titoli, sicurezze, garanzie. Ma poi, anche quando abbiamo tanto… ci accorgiamo che qualcosa manca ancora.

Il brano che abbiamo letto oggi ci parla proprio di questo:

Parla di una folla. Gente che ha camminato, alla ricerca, che ha fame. Ma non solo fame di cibo: fame di senso, di speranza, di sicurezza. Quella folla ha appena visto Gesù fare un miracolo straordinario: ha moltiplicato il pane e ha sfamato cinquemila persone. E allora lo cercano di nuovo. Ma perché? Gesù lo dice chiaramente qualche versetto prima:

«Mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato del pane e siete stati saziati» (Gv 6,26).

La gente vuole ancora quel pane. Vuole sicurezza, vuole che il miracolo si ripeta. E allora fa una domanda:

«Quale segno fai, dunque, affinché ti crediamo? I nostri padri mangiarono la manna nel deserto…»

Questa richiesta è interessante. La folla paragona Gesù a Mosè. Gli dice: “Va bene, ci hai dato pane una volta. Ma Mosè ha dato la manna ogni giorno per quarant’anni. Tu che fai di più?”

Ma Gesù li corregge. Dice che non è stato Mosè a dare il pane dal cielo, ma Dio stesso. E aggiunge una cosa fondamentale:

«Il Padre mio vi dà il vero pane che viene dal cielo… Io sono il pane della vita».

1. Che pane cerchiamo?

Questa è la prima domanda che il testo ci pone: che pane cerchiamo?

Viviamo in un mondo dove siamo spinti continuamente ad avere: avere più cose, più soldi, più comfort, più tempo, più successo. Abbiamo perfino fatto del pane – cioè del necessario – un oggetto di ansia. Abbiamo paura di non avere abbastanza. Così accumuliamo, risparmiamo, ci proteggiamo. E pensiamo: “Quando avrò tutto il necessario, allora sarò tranquillo. Allora sarò felice”.

Ma Gesù ci invita a un’altra logica: quella dell’essere. Non del possesso, ma della relazione. Non del controllo, ma della fiducia.

Erich Fromm, un sociologo e psicoanalista del secolo scorso, lo spiegava con un’immagine semplice: un bicchiere blu è blu perché lascia passare il blu, non perché lo trattiene. Così anche noi siamo davvero noi stessi non per ciò che tratteniamo, ma per ciò che doniamo, che siamo, che condividiamo.

2. Avere o essere?

Fromm parla di due modi di vivere: la modalità dell’avere e quella dell’essere. La modalità dell’avere è quella del possesso: “Questa casa è mia. Questo tempo è mio. Questi soldi sono miei. E li difendo”. Ma in realtà, come dice Fromm, quello che possediamo spesso finisce per possedere noi. Viviamo nella paura di perdere ciò che abbiamo.

La modalità dell’essere, invece, è un altro stile di vita. È fatto di fiducia, di apertura, di relazione. È vivere sapendo che la vita è un dono da ricevere e da donare, non qualcosa da controllare.

Quando la folla chiede a Gesù:

«Dacci sempre di questo pane»,

non ha ancora capito bene. Pensa a un pane che si può avere, conservare, magari mettere da parte. Ma Gesù risponde con un invito radicale:

«Io sono il pane della vita. Chi viene a me non avrà più fame, chi crede in me non avrà più sete».

Non è un pane da possedere, è un pane da vivere. È una relazione. È fede. È fiducia. È essere in Cristo.

3. Un Dio che si dona

Gesù non ci offre una cosa, ci offre sé stesso. Dice: “Io sono il pane”. Si fa cibo, si fa nutrimento, si fa dono.

Come la manna nel deserto, che non poteva essere conservata per il giorno dopo, anche la fede è un pane che si riceve ogni giorno, nella fiducia. Non si mette da parte, non si gestisce. Si vive.

Il vero miracolo non è la moltiplicazione dei pani. Il vero miracolo è che Dio si dona. Si dona ogni giorno. A chi lo cerca. A chi si fida. A chi, anche nella sua fame, non cerca più cose… ma cerca Dio stesso.

4. E noi, cosa scegliamo?

Il mondo oggi ci insegna a vivere nella logica del “sempre di più”: più risorse, più denaro, più sicurezza, più controllo. Ma tutto questo non sazia davvero la fame profonda del cuore, anzi, la logica del “sempre di più” alla fine ci distrugge, distrugge il Creato e distrugge le relazioni. Non dona vita, senso, amore. La vita, il senso, l’amore non crescono sull’arido suolo dell’avere, del possedere.

Gesù ci dice: “Fermati. Vieni a me. Fidati. Io sono il pane della vita”. Non è una promessa di comodità. È una promessa di vita piena, di libertà dal bisogno di avere, per imparare a essere.

Concludo

La ricerca di un pane terreno che sazi a lungo può essere interpretata, secondo Erich Fromm, come un modo di esistere basato sull'avere: le persone sperano di diventare felici quando non devono più preoccuparsi del cibo quotidiano. Il racconto della manna contiene già una chiara critica di questo desiderio di possesso: Mosè ordina alle persone nel deserto di raccogliere solo la quantità di pane necessaria alla famiglia per un giorno (Esodo 16,16) – chi pensa di dover fare scorte, la mattina dopo si ritrova davanti a un mucchio puzzolente pieno di vermi (Esodo 16,20). Già nel racconto della manna, quindi, il modo di esistere dell'avere si contrappone al modo di esistere dell'essere, caratterizzato dal fatto che le persone si accontentano di ciò di cui hanno bisogno per un giorno e, per quanto riguarda il futuro, si affidano a Dio.

Domande finali:

Di quanta sicurezza materiale abbiamo bisogno in un mondo attualmente molto incerto? Cosa è sufficiente per vivere e cosa serve per una vita “buona” o “riuscita”? Dove cerchiamo oggi di soddisfare la nostra profonda fame di vita con il pane materiale (e altri beni materiali) che non possono placare questa fame? Chi o cosa può diventare oggi per noi il vero pane della vita? Quanta fede o fiducia in Dio è necessaria per questo?


noblogo.org/jens/fame



la vita ha in tasca la morte

-siamo noi

divino seme:

non è che un perpetuo

tramare

“cospirazioni” del nascere

miracolo d'amore

. Questo componimento racchiude un'intensa riflessione circa l'intrinseca intimità tra vita e morte, come se l'una custodisse per sempre l'altra. La frase “la vita ha in tasca la morte” evoca l'idea che l'esistenza non è altro che il mantenimento, anche se inconsapevole, di quella forza universale che ne sancisce la sua fine. In questo modo, il “divino seme” di cui parliamo non è solo l'inizio di qualcosa, ma contiene in sé la promessa – e l'ineluttabilità – di un destino già scritto, in cui la nascita è parte di un “perpetuo tramare”, ovvero del continuo intessersi di eventi misteriosi che traducendosi in vere e proprie “cospirazioni” del nascere, danno vita a quella che è definita come il “miracolo d'amore”.

Questa visione poetica ci invita a riconoscere che ogni esistenza è un perfetto connubio di luce e ombra, dove l'atto di vivere è intrinsecamente collegato a quel momento in cui l'ordine cosmico si rivela nell'impossibilità di separare il principio dalla fine. È come se il destino, benevolo e al contempo implacabile, orchestrasse un continuo ciclo in cui ogni seme divino porta con sé la potenzialità di un amore che va oltre il tempo e, allo stesso tempo, abbraccia il fato irremovibile della morte.

Il poema apre uno spiraglio verso una meditazione più ampia sul senso dell'esistenza: la vita, in tutta la sua bellezza e fragilità, si rivela un'opera d'arte in cui ogni inizio comprende già la sua fine, condizionando e dando forma a un percorso fatto di contrasti e continuità. Questa visione, che richiama simboli antichi come il serpente che si morde la coda o l'equilibrio inscritto nello Yin e Yang, spinge a interrogarsi su come le proprie esperienze quotidiane si inseriscano in quest'ordine cosmico.

Hai mai percepito, nella tua esperienza, quella sottile sensazione che ogni attimo di vita sia un miracolo intriso di una dolce consapevolezza dell'inevitabilità della fine? È un invito a riflettere sul potere trasformativo dell'amore, inteso non solo come sentimento romantico, ma come forza primordiale che dà senso a ogni nascita e ogni addio. Mi piacerebbe approfondire insieme se questo intreccio di opposti ti richiama anche ad altre tradizioni poetiche o filosofiche che hanno esplorato il mistero del vivere e del morire.


noblogo.org/norise-3-letture-a…



Kurt Vile - Wakin On A Pretty Daze (2013)


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Se “Smoke Ring For My Halo” era il tuffo dalla rupe (per vari motivi), “Wakin’ On A Pretty Daze” si svolge interamente, e per settanta minuti, nei pochi secondi che passano dall’entrata in acqua al riaffioramento. In questo breve e dilatatissimo lasso di tempo, i raggi di sole rifratti illuminano un universo subacqueo imperturbabile, una pletora di meduse e filamenti d’alghe ondeggianti con la corrente. Il nuovo disco di Kurt Vile non è certamente il disco prepotente che era il precedente, ma lo supera probabilmente in fascino col suo andamento rallentato, post-sbornia appunto, come sembra suggerire il titolo... ondarock.it/recensioni/2013_ku…


Ascolta: album.link/i/1589250882



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Kurt Vile - Wakin On A Pretty Daze (2013)


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Se “Smoke Ring For My Halo” era il tuffo dalla rupe (per vari motivi), “Wakin’ On A Pretty Daze” si svolge interamente, e per settanta minuti, nei pochi secondi che passano dall’entrata in acqua al riaffioramento. In questo breve e dilatatissimo lasso di tempo, i raggi di sole rifratti illuminano un universo subacqueo imperturbabile, una pletora di meduse e filamenti d’alghe ondeggianti con la corrente. Il nuovo disco di Kurt Vile non è certamente il disco prepotente che era il precedente, ma lo supera probabilmente in fascino col suo andamento rallentato, post-sbornia appunto, come sembra suggerire il titolo... ondarock.it/recensioni/2013_ku…


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[dodici]dovrei un po' staccarmi da queste cose, dodici potrebbe essere il numero perfetto, fare i miei otto pezzi di broccato, passare a quelli, così simili, così diversi, rendersi conto della dimostrazione dei teoremi, prendersi il tempo per pulire le cose con attenzione, per oliarle una a una, nettare tutto, l'uomo prima nomina le cose, poi le lecca, infine le copre con cera protettiva, solcando con il coltello sotto la pelle per fare spazio per piccoli oggetti, il corpo è una sacca, la comunicazione la selezione di un vocabolario base, non ho così tanta voglia di fare, è arrivato il momento in cui fermarsi, prendersi del tempo per non fare niente, un vocabolario base con cui la gente si capisce, con cui si addomestica, con cui si rende comprensibile, iniziando a mentire si rende comprensibile di qualcosa che non è, ricominciamo, una sacrosanta volta emozionale che trasuda dalla periferia dell'immaginario, ecco, siamo piccole cose, io sono una piccola cosa eppure questa piccola cosa che sono è l'ambiente all'interno del quale vivo, vedo attraverso questa piccola cosa, mangio nei fori di questa piccola cosa, soffro e godo con le arterie e le estremità di questa piccola cosa, tutto il mondo creato è allestito nell'ambiente di questa piccola cosa, per quel che ne sappia io, non c'è niente fuori questa piccola cosa – un po' come quando discutevo su cosa ci fosse fuori dall'universo e lui si incazzava e diceva, niente fuori dall'universo, per quanto ne sai dicevo io, niente fuori dall'universo, benissimo dico io, allora anche niente fuori dalla piccola cosa che sono, anche lui è dentro la mia piccola cosa, anche tu sei dentro la mia piccola cosa, tutto è dentro questo ambiente, lo capisco bene seduto sul divano mentre vedo quello che tengo in mano, sulle gambe, tra le dita, giro la testa per guardare la porta, il vano del salotto, la testa azzurra di una ragazza, è tutto lì dentro, qua dentro, all'interno del mio ambiente, cosa c'è oltre l'universo? ma tutti gli altri universi, tutti gli altri ambienti delle altre piccole cose che resteranno per sempre aliene le une alle altre, puoi infilare la lingua sottocutanea alla lingua del tuo fratello, della gemellanza umana, ma quello resterà dalla sua parte dell'ambiente, inchiavardato dentro la sua piccola cosa, e tu dall'altra parte, nel tuo ambiente, tutto dentro la tua piccola cosa, per sempre alieni gli uni agli altri, per questo alla morte tutto viene smembrato e fatto a pezzi, un vocabolario base, vedi, per allestire questo canale di comunicazione, per superare il disturbo, è una cosa di un attimo, questo stupido grosso clitoride che eiacula pozze di linguaggio animale inintellegibile che è lì incastrato dentro da sempre, tra la veglia e il sonno, anche lui comunica, hyke!


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PROVERBI - Capitolo 30


INSEGNAMENTI DI ALTRI SAGGI (30,1-31,9)

Insegnamenti di Agur1Detti di Agur, figlio di Iakè, da Massa. Dice quest'uomo: Sono stanco, o Dio, sono stanco, o Dio, e vengo meno,2perché io sono il più stupido degli uomini e non ho intelligenza umana;3non ho imparato la sapienza e la scienza del Santo non l'ho conosciuta.4Chi è salito al cielo e ne è sceso? Chi ha raccolto il vento nel suo pugno? Chi ha racchiuso le acque nel suo mantello? Chi ha fissato tutti i confini della terra? Come si chiama? Qual è il nome di suo figlio, se lo sai?5Ogni parola di Dio è purificata nel fuoco; egli è scudo per chi in lui si rifugia.6Non aggiungere nulla alle sue parole, perché non ti riprenda e tu sia trovato bugiardo.7Io ti domando due cose, non negarmele prima che io muoia:8tieni lontano da me falsità e menzogna, non darmi né povertà né ricchezza, ma fammi avere il mio pezzo di pane,9perché, una volta sazio, io non ti rinneghi e dica: “Chi è il Signore?”, oppure, ridotto all'indigenza, non rubi e abusi del nome del mio Dio.10Non calunniare lo schiavo presso il padrone, perché egli non ti maledica e tu non venga punito.11C'è gente che maledice suo padre e non benedice sua madre.12C'è gente che si crede pura, ma non si è lavata della sua lordura.13C'è gente dagli occhi così alteri e dalle ciglia così altezzose!14C'è gente i cui denti sono spade e le cui mascelle sono coltelli, per divorare gli umili eliminandoli dalla terra e togliere i poveri di mezzo agli uomini.

Proverbi numerici15La sanguisuga ha due figlie: “Dammi! Dammi!”. Tre cose non si saziano mai, anzi quattro non dicono mai: “Basta!”:16il regno dei morti, il grembo sterile, la terra mai sazia d'acqua e il fuoco che mai dice: “Basta!”.17L'occhio che guarda con scherno il padre e si rifiuta di ubbidire alla madre sia cavato dai corvi della valle e divorato dagli aquilotti.18Tre cose sono troppo ardue per me, anzi quattro, che non comprendo affatto:19la via dell'aquila nel cielo, la via del serpente sulla roccia, la via della nave in alto mare, la via dell'uomo in una giovane donna.20Così si comporta la donna adultera: mangia e si pulisce la bocca e dice: “Non ho fatto nulla di male!”.21Per tre cose freme la terra, anzi quattro non può sopportare:22uno schiavo che diventa re e uno stolto che si sazia di pane,23una donna già trascurata da tutti che trova marito e una schiava che prende il posto della padrona.24Quattro esseri sono fra le cose più piccole della terra, eppure sono più saggi dei saggi:25le formiche sono un popolo senza forza, eppure si provvedono il cibo durante l'estate;26gli iràci sono un popolo imbelle, eppure hanno la tana sulle rupi;27le cavallette non hanno un re, eppure marciano tutte ben schierate;28la lucertola si può prendere con le mani, eppure penetra anche nei palazzi dei re.29Tre cose hanno un portamento magnifico, anzi quattro hanno un'andatura maestosa:30il leone, il più forte degli animali, che non indietreggia davanti a nessuno;31il gallo pettoruto e il caprone e un re alla testa del suo popolo.32Se stoltamente ti sei esaltato e se poi hai riflettuto, mettiti una mano sulla bocca,33poiché, sbattendo il latte ne esce la panna, premendo il naso ne esce il sangue e spremendo la collera ne esce la lite.

_________________Note

30,1 INSEGNAMENTI DI ALTRI SAGGI (30,1-31,9) Nei capitoli 30-31 confluisce altro materiale proveniente dal patrimonio della letteratura sapienziale dei popoli del Vicino Oriente antico, come sembrano indicare i nomi dei personaggi sulle cui labbra sono poste queste massime (Agur, figlio di Iakè, da Massa e Lemuèl, re di Massa, vedi 30,1 e 31,1).

30,1-14 Insegnamenti di Agur – Questa breve serie di massime ricorda l’insegnamento dei saggi racchiuso in 22,17-24,34. Agur: è personaggio sconosciuto; Massa è il nome di una tribù dell’Arabia settentrionale (vedi Gen 25,14): gli Arabi erano rinomati per la loro sapienza. Ma la versione è incerta. Alcuni intendono la parola ebraica Massa non come nome di tribù, ma nel senso di “oracolo” (o anche “carico”, “peso”). I LXX collocano i vv. 1-30 all’interno del c. 24: vv. 1-14 dopo 24,22; vv. 15-33 dopo 24,34.

30,15-33 Proverbi numerici – Alcune massime ritmate sul gioco dei numeri erano già presenti in 6,16-19. Si tratta di un espediente letterario, con il quale si cercava di favorire la memoria. Era già conosciuto dalle antiche popolazioni cananee, come documenta l’opera Storia e massime di Achikàr (risalente al V sec.).

30,20 mangia e si pulisce la bocca: la frase può essere compresa nel significato di darsi al piacere.

30,26 iràci: piccoli mammiferi delle dimensioni di un coniglio.

=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti


vv. 1-14. Non vi è accordo tra gli interpreti sulla delimitazione esatta dei detti di Agur (v. 4? v. 6? o v. 14?). Nei LXX questo capitolo è spezzato, per cui 30, 1-14 segue 22, 17-24, 22 e 1 vv. 15-33 seguono 24, 23-24. Si è generalmente d'accordo sulla necessità di emendare il TM del v. 1b (cfr. nota al testo).

vv. 1-6. Nel v. 2 Agur afferma di essere piuttosto un animale che un uomo e che egli non possiede né intelligenza né perspicacia e il v. 3 mostra che con ciò egli intende dire che non possiede la conoscenza di Dio. Non va escluso un deliberato intento ironico in queste affermazioni, quasi a contrastare l'atteggiamento di altri che presumono invece con le loro speculazioni di essere in grado di far luce sui misteri divini (cfr. v. 4). Contro coloro che parlano di Dio con tale sicumera da sembrare di essergli familiari e di non avere alcun dubbio al riguardo, Agur afferma che l'uomo da solo non è in grado di conoscere Dio. Affermazioni dello stesso tenore ricorrono altrove nella letteratura sapienziale (cfr. Gb 11,7-9; 38-40; Sir 18,3-6; Bar 3,9-4,4). Il saggio tuttavia non si ferma qui: se la ricerca umana da sola fallisce, non per questo l'essere umano deve dimenticare che Dio stesso ha parlato e che dunque attraverso questa parola egli ha accesso a Dio: citando un salmo (v. 5, cfr. Sal 18,31) e riprendendo un'ingiunzione presente nei testi legislativi (cfr. Dt 4,2), Agur mostra che vi è una conoscenza di Dio concessa all'uomo, che tuttavia è ben diversa da quella che ritengono di possedere coloro che il saggio contesta (nello stesso senso si veda Gb 28,20-28).

vv. 7-9. La preghiera cui si volge ora il saggio collega la condizione sociale dell'uomo al suo modo di parlare di Dio: il contesto mostra che con «falsità e menzogna» non si ha di mira soltanto il rapporto interumano, ma anche il parlare di Dio in modo corretto. Il saggio non ha pretese di arricchirsi, perché è consapevole che la ricchezza può rendere l'uomo arrogante e indurlo a credersi autosufficiente, disprezzando perciò il potere di Dio. D'altro canto l'indigenza potrebbe indurre l'uomo a dubitare della provvidenza divina e della sua giustizia.

vv. 11-14. Una serie di detti in forma constatativa: non si tratta però soltanto di un quadretto descrittivo, ma con molta probabilità di un'accusa che il saggio lancia ai suoi contemporanei.

vv. 15-33. Sui detti numerici, cfr. il commento a 6,16-19.15-16. Si osservi in tutta questa pericope l'efficace osservazione del mondo fisico e animale, da cui il saggio sa trarre orientamenti per la condotta umana. Dopo un detto che intende illustrare plasticamente la bramosia e la cupidigia (v. 15a), si introduce il primo detto numerico, che tuttavia non è ben riuscito dal punto di vista formale, dato che è appesantito da inutili spiegazioni. Significativo è l'accostamento tra grembo sterile e terra: la terra è come una madre e l'acqua è l'elemento che la feconda.

vv. 18-19. Una quaterna molto efficace, anche sotto il profilo ritmico e sonoro, dove l'accento cade sul quarto elemento, che non è una pura osservazione di un fatto naturale, dato che il «sentiero» (derek) in questo caso non è più soltanto un fenomeno fisico, ma riguarda la condotta, il comportamento (un ulteriore significato del vocabolo ebraico). Il volo di un'aquila, il guizzo del serpente sulla roccia, il passaggio di una nave sul mare sono meravigliosi e misteriosi: sono movimenti attraenti e allo stesso tempo sorprendenti. Il quarto elemento che viene evocato si collega ai precedenti proprio per queste caratteristiche: si tratta dell'irresistibile e inesplicabile attrazione naturale che porta l'uomo a unirsi alla donna. La riflessione verte dunque sul mistero della sessualità umana.

(cf. FLAVIO DALLA VECCHIA, Proverbi di Salomone – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Rime in R

Russa un rantolo reale nera razza dei rottami, Roso a riva un remo arreso ride in radica di rana.

Ronza un rospo nella rada D’un ramarro che rampogno, Torvo il Ragno trova trame Rosse Requie di risacca

Fresca rena Risuona resa, Resta in Rotta Raffio in Rada.

Rubo un granchio Ringhia il ratto Resta ritto Il morto astratto

Rido Gratto E m'arrabatto.


noblogo.org/ilgallo/rime-in-r



Una premessa doverosa.

Dato che qualcuno potrebbe anche incappare in quanto scrivo, meglio precisare che:

1) scrivo per me, per una necessità di “mettere ordine”.

2) scrivo delle mie esperienze personali nella ricerca della fede.

3) scrivo di teologia perché mi appassiona. Precisamente scriverò dei miei studi di teologia.

Quindi: non desidero mettermi in cattedra, diffondere verità assolute o insegnare niente a nessuno, ma se vorrete parlare con me di ciò che scrivo, ne sarò immensamente felice.

Due note su di me: 56 anni, collaboratrice scolastica, diplomata in Ragioneria. Neanche una parola di inglese. Rapporto tumultuoso con la tecnologia. A dire poco...

Visto: lo dicevo che non bisogna prendermi sul serio! :–)

Un abbraccio al mondo.


log.livellosegreto.it/loredana…



Words are lies, the Master said. But these are true: I cheated on my wife, In my mind. Then it was over. And now I find myself, alone, In a cozy corner of my own hell.


noblogo.org/chiaramente/words-…



Gabbie

La luce brilla, elettrica. Lo sciame, attorno al punto di attenzione Entrano un poco alla volta, si accalcano.

Non ci sarabbe fatica nell'attesa, sapendo di poter entrare.

Quanto dolore in un solo no: siete in ritardo, siete di troppo.

Lasciare libere le persone. Non chiudere i cancelli. Non costruire gabbie.

Nelle gabbie si può solo scappare, o morire, o covare rabbia.


noblogo.org/ilgallo/gabbie



Appartenere


Registrazione per la RAI FVG

castopod.it/@jhansen/episodes/…
In tempi incerti e un mondo complicato, una parola ci accompagna più spesso di quanto pensiamo: “appartenenza”. Forse non la diciamo spesso, ma la sentiamo. Tutti, in fondo, abbiamo questo bisogno profondo: appartenere. A una famiglia, a un gruppo, a una comunità, a un luogo dove sentirci riconosciuti, accettate,amati. Quando questo manca, c’è la solitudine, e la solitudine pesa. Ci si può sentire fuori posto perfino in mezzo alla gente. A volte ci si può sentire stranieri nella propria casa, nella propria città, persino nella propria pelle.

Questo bisogno di appartenere non è un capriccio. È qualcosa che ci costituisce. È il segno che siamo stati creati per la relazione. Ma attenzione: l’appartenenza non è mai un privilegio da difendere. È una porta da aprire agli altri, non un muro da alzare.

Nel passo della Lettera agli Efesini che abbiamo appena ascoltato, l’autore scrive a una comunità molto varia. Alcuni venivano dal giudaismo, altri dal mondo greco-romano, con storie, abitudini e religioni diverse, in fondo si trovavano in una situazione simile alla nostra: mondi che si incontrano, culture che si intrecciano, e a volte si scontrano. Ma l’autore con il nostro versetto dice qualcosa di rivoluzionario:

“Così dunque non siete più né stranieri né ospiti; ma siete concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio.” Non siete più stranieri. Non siete più ospiti. Siete a casa. Siete famiglia.

E questo vale per tutt*. Non solo per chi era “dentro” fin dall’inizio, ma anche per chi è arrivato dopo. Non ci sono più noi e loro. Non ci sono più barriere etniche, culturali, religiose. C’è un popolo nuovo, unito non dal sangue, ma dall’amore di Dio.

Essere “membri della famiglia di Dio” non è però una condizione da difendere con gelosia. È un dono da condividere. Perché se Dio ci ha accolti quando eravamo stranieri, anche noi siamo chiamati ad accogliere lo straniero. Se Dio ci ha dato un posto nella sua casa, anche noi dobbiamo fare spazio. Lo dice la Scrittura dall’inizio alla fine:

“Lo straniero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso” (Levitico 19,34).

La vera appartenenza, quella che nasce da Dio, non esclude, non separa, non seleziona. Al contrario: unisce, abbatte i muri, crea fraternità.

Oggi, in un mondo in cui si alzano di nuovo barriere e si divide il mondo in buoni e cattivi, in noi e loro, abbiamo bisogno di riscoprire questo messaggio. Perché si può appartenere a una chiesa, a una religione, a un gruppo… eppure continuare a costruire muri. Si può sentirsi “dentro”, ma trattare gli altri come “fuori”. E allora ci chiediamo: che famiglia è quella che non apre la porta ai fratelli?

Forse la fede comincia proprio da qui: non da un insieme di regole, non da un’identità da difendere, ma da una voce che dice: “Tu appartieni. E con te appartiene anche il tuo prossimo.”

Nella casa di Dio c’è posto per tutti. E chi ha conosciuto questa accoglienza… non può più vivere da buttafuori che decide chi entra e chi no, ma solo da fratello.


noblogo.org/jens/appartenere



[filtri]un] sofisticato sistema ma dentro è [nervoso di] sofisticati nervi di origine condizione di uno] alla [prima un] rompicapo freestyle in ritardo un luminista retrodatato lo] stanno con un congegno su misura lo ammette lo scrivente ricostruzione in calce in parte] del tutto per [mobilità


noblogo.org/lucazanini/filtri-…



Phosphorescent - Muchacho (2013)


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Devo sinceramente ammettere che i Phosphorescent sono stati la più bella scoperta di questo duemilatredici, anche se questa band statunitense originaria di Athens in Georgia è attiva da un decennio e questo Muchacho è il loro sesto album. Ascoltati per caso in una radio on-line, fin dalle prime note ho capito di aver trovato uno di quei gruppi che ti rimangono dentro, e così sono andato alla scoperta dell'intero album di questo ennesimo gruppo. Traccia dopo traccia erano sempre più soddisfacenti, non chiedetemi perché le ballate di Matthew Houck colpiscano la mia emotività in maniera così forte e lascino un segno che decine di altri musicisti non hanno capacità di incidere nel profondo neppure dopo decine d canzoni. Chiamatelo “colpo di fulmine” se volete... artesuono.blogspot.com/2014/09…


Ascolta: album.link/i/598968577



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Phosphorescent - Muchacho (2013)


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Devo sinceramente ammettere che i Phosphorescent sono stati la più bella scoperta di questo duemilatredici, anche se questa band statunitense originaria di Athens in Georgia è attiva da un decennio e questo Muchacho è il loro sesto album. Ascoltati per caso in una radio on-line, fin dalle prime note ho capito di aver trovato uno di quei gruppi che ti rimangono dentro, e così sono andato alla scoperta dell'intero album di questo ennesimo gruppo. Traccia dopo traccia erano sempre più soddisfacenti, non chiedetemi perché le ballate di Matthew Houck colpiscano la mia emotività in maniera così forte e lascino un segno che decine di altri musicisti non hanno capacità di incidere nel profondo neppure dopo decine d canzoni. Chiamatelo “colpo di fulmine” se volete... artesuono.blogspot.com/2014/09…


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