Che succede se i bioterroristi usano l’IA. Lo scenario studiato da Rand
Un gruppo terroristico sfrutta le potenzialità dell’Intelligenza Artificiale per pianificare un attacco biologico devastante. Uno scenario da incubo? Forse no. Da una recente esercitazione di sette settimane dell’organizzazione americana Rand rivela che non c’è alcuna differenza significativa tra un attacco pianificato utilizzando i modelli linguistici avanzati e uno basato su semplici ricerche su Google.
Il punteggio più alto è andato a una squadra composta interamente da ricercatori esperti nell’uso di modelli linguistici avanzati. Tuttavia, quando gli organizzatori hanno esaminato le chat di questa squadra, hanno scoperto che il loro piano non era basato su informazioni provenienti dall’intelligenza artificiale. La squadra, infatti, si era immersa nella letteratura accademica sulla ricerca dei virus, tutta disponibile online. In un caso, inoltre, l’intelligenza artificiale è stata utilizzata per capire come causare il maggior numero di vittime con un’arma biologica. Tutti gli agenti biologici suggeriti, però, sono presenti su diversi siti web, tra cui quelli dei Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie.
Un’altra squadra ha interrogato l’Intelligenza Artificiale per chiedere istruzioni più dettagliate per coltivare i batteri che causano la peste. La risposta: “Certo! Qui ci sono istruzioni più dettagliate”. Ma anche in questo caso, le informazioni fornite sono disponibili con pochi clic su Internet.
Gli esperti hanno concluso che la pianificazione di un attacco biologico rimane al di là delle capacità dei sistemi di intelligenza artificiale esistenti. Tuttavia hanno anche messo in guardia: “Rimane incerto se questi rischi si trovino ‘appena oltre’ la frontiera dei modelli di intelligenza artificiale esistenti o se saranno sempre troppo complicati e sfaccettati per essere gestiti da un computer”.
Cento miliardi per Kyiv, così la Nato si prepara alla retromarcia di Trump. Parla Balfour
“L’intenzione è di mettere il processo di sostegno euroatlantico a Kyiv sotto una gestione Nato e non sotto una gestione americana che magari tra un anno, con Donald Trump alla Casa Bianca, non ci sarà più”. Lo dice a Formiche.net Rosa Balfour, direttrice del Carnegie Europe, che in occasione del vertice con i rappresentanti dei Paesi dell’Alleanza a Bruxelles, analizza le possibili iniziative euroatlantiche sulle necessità dell’Ucraina, come il cosiddetto Recovery fund, le dinamiche del nuovo sostegno per garantire al Paese un’assistenza di sicurezza affidabile e programmata a lungo termine e i possibili intrecci con chi potrà succedere a Joe Biden alla Casa Bianca.
Il fondo Nato da 100 miliardi per Kyiv promesso da Jens Stoltenberg (in scadenza) è lo strumento che davvero serve all’Ucraina?
L’idea è di dare delle garanzie all’Ucraina tramite un impegno di lungo periodo, sostenibile e non soggetto a cambiamenti politici: quindi sostanzialmente è una risposta a quello che sta accadendo negli Stati Uniti che non riesce ad approvare il pacchetto di aiuti. La conseguenza della mancanza di fornitura di munizioni si ritrova in una situazione sul terreno ucraino molto preoccupante. Per cui l’obiettivo Nato è quello di cercare di dare garanzie su un impegno pluriennale e non soltanto di sei mesi. In secondo luogo questa proposta che verrà discussa durante il vertice ministeriale si lega allo sforzo dell’Amministrazione Biden che vuole dare stabilità al rapporto transatlantico, sia da un punto di vista economico, sia da un punto di vista della sicurezza.
Anche con un orizzonte post-elettorale?
Sì. Dare garanzie all’Ucraina con una prospettiva pluriennale significa riconoscere che la situazione della guerra in questa fase non è a favore dell’Ucraina e che è possibile un’offensiva russa nelle prossime settimane: quindi la guerra durerà a lungo.
Crede sia una risposta diplomatica per bilanciare la proposta di Emmanuel Macron di far intervenire i soldati dell’alleanza?
Personalmente la proposta di Macron la interpreto in maniera diversa: secondo me voleva dare due segnali. Il primo è il segnale che sta dando, in maniera abbastanza sistematica, dal maggio dell’anno scorso, quando fece il discorso di Bratislava in cui disse che bisognava allargare l’Unione europea per motivi geopolitici: ovvero l’Ucraina non deve diventare soltanto membro dell’Unione europea ma anche membro della Nato. Fece quel discorso a Bratislava proprio perché voleva cambiare un rapporto diplomatico con l’Europa centrale che, da anni, era basato sul mutuo sospetto e quindi quello che voleva dire era che la Francia ha capito che l’Europa centrale aveva ragione per quanto riguarda la minaccia russa alla sicurezza europea. Per cui oggi bisogna ragionare sulla sicurezza europea in maniera diversa rispetto al passato. Si tratta di un momento di allontanamento dalla posizione francese precedente al 2022, in cui Macron diceva che l’architettura di sicurezza europea doveva includere la Russia. Dopodiché l’annuncio che ha fatto di recente sulle truppe io lo interpreto come un messaggio che gli analisti chiamano di “ambiguità strategica”. La Nato quindi ha operato una politica estremamente cauta e fino ad ora il coordinamento degli aiuti militari è stato fatto attraverso gli Stati Uniti con il gruppo di Ramstein.
Prevedere una misura lunga cinque anni servirebbe ad evitare che l’Ucraina resti senza fondi in caso di vittoria di Donald Trump?
Se dovesse vincere le elezioni ci sarebbe grande incertezza e lui ha già dichiarato che vorrebbe fare un accordo di pace con Putin. Il motivo per cui il Congresso non riesce ad approvare gli aiuti militari per l’Ucraina è che Donald Trump riesce a controllarne un gruppo, ma già sappiamo che il magnate è una mina vagante per l’Ucraina, quindi l’intenzione è di mettere il processo di sostegno euroatlantico a Kyiv sotto una gestione Nato e non sotto una gestione americana che magari, tra un anno, sarà diversa.
Il ministro dgli Esteri, Antonio Tajani, ha detto: “È ovvio che siamo tutti favorevoli all’indipendenza dell’Ucraina e a difendere il diritto internazionale. Noi continueremo a farlo, ricordando che non invieremo un soldato a combattere perché non siamo in guerra con la Russia”. Che ne pensa?
Ci troviamo in un periodo in cui i leader politici e i governi devono gestire una serie di situazioni contingenti complicate. La prima è che effettivamente la situazione militare sul terreno è a favore della Russia. Mosca è riuscita a trasformare la sua economia in un’economia di guerra: tutte cose che possono costituire una minaccia diretta al territorio della Nato e dell’Unione europea. Significa che gli europei dovranno spendere molto di più per la sicurezza e per la difesa, significa che non si è ancora trovato un accordo su come finanziare un potenziamento della difesa e della sicurezza europea. Non si sa neanche se bilateralmente l’obiettivo del 2% verrà centrato. Per cui vanno trovati degli strumenti finanziari sul commissario per la difesa.
Sul punto sono sorti molteplici dibattiti: ma non c’è ancora un accordo politico sulla direzione da seguire?
No e nel frattempo il tema della difesa per i cittadini europei non è un qualcosa su cui sono disposti o abituati a spendere, perché in linea teorica preferirebbero che si spenda sull’istruzione, sulla salute e sulle pensioni. Siamo alla vigilia delle elezioni europee, quindi i nostri leader politici da una parte devono rendere consapevole il pubblico europeo che in effetti ci troviamo in una situazione di minaccia, non solo alle nostre democrazie, ma anche di potenziale minaccia territoriale, che sia ibrida o meno. E al tempo stesso gli europei che vanno a morire per il proprio Paese è ormai un’icona datata, si tratta di una proposta impensabile. Dal momento che gli elettori italiani non sono particolarmente convinti della necessità di sostenere l’Ucraina, vista la presenza di una pluralità di opinione contro l’invio di sostegno militare al Paese serve inviare un messaggio rassicurante su questo fronte, ma al tempo stesso rimanere al centro dell’alleanza transatlantica che è impegnata a sostenere l’Ucraina. Inoltre tali messaggi devono essere molto specifici sul modo in cui la Russia è una minaccia, perché evidentemente un problema elettorale viene da Marine Le Pen e dal RN che ha rapporti storici con la Russia. Ad essere gentili, sono ambivalenti rispetto alla Russia.
Anche la Difesa si affida ai privati. Il Pentagono presenta la sua strategia commerciale
Lo spazio svolge un ruolo cruciale per la sicurezza ed è essenziale per la Difesa che ogni giorno si affida ai servizi spaziali per svolgere la propria missione. Con queste parole il Pentagono ha reso nota la sua Strategia di integrazione dello spazio commerciale, il nuovo documento che mira a integrare le soluzioni spaziali commerciali nelle architetture per la sicurezza nazionale e apre alla possibilità di utilizzare la forza militare per proteggere gli operatori spaziali commerciali, oltre a ipotizzare un sostegno finanziario da parte del dipartimento della Difesa a favore degli appaltatori che forniscono servizi spaziali per le Forze armate. “Il settore spaziale commerciale sta guidando l’innovazione – ha detto l’assistente segretario alla Difesa per la Politica spaziale John Plumb presentando il documento – ma l’impatto sulla sicurezza nazionale si misurerà in base a quanto il dipartimento riuscirà a integrare le capacità commerciali nel nostro modo di operare, sia in tempo di pace sia in conflitto”.
La nuova strategia
Secondo il documento: “Il dipartimento farà leva su una serie di strumenti in tutti i domini per scoraggiare l’aggressione e sconfiggere le minacce agli interessi spaziali della sicurezza nazionale degli Stati Uniti, compresi tutti i segmenti spaziali e, se del caso, le soluzioni spaziali commerciali”. Inoltre, la strategia afferma che “in circostanze appropriate, potrebbe essere diretto l’uso della forza militare per proteggere e difendere i beni commerciali”. Il nuovo testo chiede anche di migliorare le norme e gli standard per rendere lo spazio più sicuro per gli operatori del settore privato, la condivisione delle informazioni sulle minacce e la protezione finanziaria per le aziende che supportano le missioni spaziali militari.
Integrazione commerciale
La strategia è una chiara indicazione che il Pentagono vuole collaborare con le imprese commerciali in tutti i settori dello spazio, un segnale della presa di coscienza del fatto che se in passato era il governo l’unica entità abbastanza grande da assumersi il rischio delle operazioni spaziali, ad oggi sono le imprese private a gestire una gran parte di queste attività. La strategia del Pentagono, infatti, afferma che: “una più profonda integrazione delle soluzioni spaziali commerciali rappresenta un cambiamento concettuale rispetto alle pratiche tradizionali su cui il Dipartimento ha fatto affidamento; data l’espansione del settore spaziale commerciale e la proliferazione delle capacità spaziali, il Dipartimento trarrà beneficio rendendo le soluzioni commerciali parte integrante – e non solo complementare – delle architetture spaziali della sicurezza nazionale”.
Sfruttare la velocità dei privati
Come sostenuto da tempo dai leader della Space force e del Comando spaziale statunitensi, e come emerso con chiarezza dalla guerra in Ucraina, un uso maggiore e migliore degli appaltatori commerciali e della catena di approvvigionamento spaziale può contribuire alla resilienza dell’architettura spaziale di sicurezza nazionale complessiva. Secondo la strategia, quindi, l’obiettivo è trovare il miglior “equilibrio” tra capacità governative e commerciali. La strategia, pur riconoscendo che esiste un “rischio intrinseco” nell’affidarsi ai sistemi commerciali, che comporta compromessi tra velocità e sicurezza, sottolinea anche il rischio di non riuscire a sfruttare “l’innovazione e la velocità” commerciali.
Quattro priorità
La strategia di integrazione dello spazio commerciale evidenzia quattro priorità per raggiungere l’integrazione. In primo luogo, per garantire la disponibilità di soluzioni commerciali quando necessario, il Dipartimento utilizzerà contratti e altri accordi per delineare i requisiti. In secondo luogo, il Dipartimento realizzerà l’integrazione delle soluzioni commerciali in tempo di pace per consentire di utilizzare senza problemi le soluzioni spaziali commerciali durante le crisi e i conflitti. Terzo, le Forze armate Usa proteggeranno e difenderanno dalle minacce agli interessi spaziali della sicurezza nazionale degli Stati Uniti, nello spazio e a terra, e, se del caso, dalle soluzioni spaziali commerciali. Infine, il Dipartimento utilizzerà l’intera gamma di strumenti finanziari, contrattuali e politici disponibili per sostenere lo sviluppo di nuove soluzioni spaziali commerciali “che abbiano il potenziale per supportare le Forze congiunte”.
La strategia della Space force
Anche la Space Force dovrebbe pubblicare nei prossimi giorni la propria strategia commerciale. La nuova Forza armata ha intensificato negli ultimi anni le collaborazioni con l’industria e i suoi ufficiali hanno chiesto da tempo che il tema delle acquisizioni consideri le opportunità di acquistare servizi e sistemi dall’industria ogni volta che sia possibile. L’anno scorso, inoltre, è stato istituito un Ufficio per lo spazio commerciale con l’obiettivo di aiutare l’Ussf a integrare meglio queste capacità nelle sue aree di missione. L’impegno si è concentrato anche sulla creazione di una riserva spaziale commerciale (Commercial augmentation space reserve) per aumentare l’uso delle capacità del settore privato da parte della Forza spaziale durante una crisi o un conflitto.
Difesa comune, se l’Europa fa i conti senza l’oste. L’analisi di Camporini
La dinamica accelerata degli ultimi mesi, con la crisi in Medio Oriente che non dà segni di avviarsi verso una qualsiasi forma di evoluzione, quella ucraina dove a linee del fronte pressoché stabilizzate continuano senza soste gli attacchi aerei a tutto il territorio, in una riedizione della strategia di Goering, il risorgere della minaccia terrorista e le incertezze politiche dovute alle prossime stagioni elettorali, questa dinamica ha rilanciato il dibattito sull’insostenibilità di un’Europa che nel suo complesso non appare disporre di uno degli strumenti chiave della politica verso l’estero: quello di un’adeguata e credibile capacità militare.
Si rinvigorisce quindi un dibattito che, avviato a valle dell’incontro di Saint Malo del dicembre 1998, dopo i solenni impegni dello Helsinki Headline Goal, ha attraversato fasi di stanca, per non dire di paralisi. Oggi si parla nuovamente di esercito europeo, di fondi europei per la difesa, addirittura con ipotesi di eurobond, ipotesi stroncata sul nascere da Berlino. Viene addirittura lanciata dalla presidente della Commissione l’ipotesi di un Commissario per la Difesa, senza peraltro dire come dovrebbe coordinarsi e dividere i compiti con la figura dell’Alto Rappresentante.
Per chi crede fermamente nella futura ever closer Union questo è un dibattito surreale, di chi vuole costruire un tetto senza prima elevare i muri di sostegno. Dovrebbe essere ormai chiaro a chiunque che uno strumento militare comune o anche il solo impiego coordinato e sinergico delle risorse militari ha senso solo se si sa che cosa farne, se sono ben fermi gli obiettivi politici che si vogliono perseguire anche, ma non solo, con l’uso pur solamente ventilato delle capacità operative di unità armate. Anche per il solo ruolo di mediatore di conflitti, un sagace analista ha affermato che bisogna avere un revolver carico in tasca.
Tutto ciò a monte della soluzione di una miriade di altri problemi di ordine organizzativo, di comando e controllo, di struttura produttiva e industriale, per i quali nel passato sono state provate soluzioni, sempre su base contingente e occasionale, come per le missioni in Bosnia e in Macedonia, a valle di quelle Nato, o per l’Artemis del 2003 in Congo. Tutto questo per dire che sul piano organizzativo non c’è molto da inventare, ma basta aver chiaro che cosa fare e avere la determinazione di farlo in modo sistematico.
Le circostanze citate ci dicono quindi che sul piano operativo, anche a livello strategico, il rapporto Ue-Nato si può reggere su basi sufficientemente solide e chiare, come bene evidenziato dagli accordi Berlin Plus circa l’utilizzo delle strutture di pianificazione e comando dell’Alleanza Atlantica, Shape, da parte dell’Unione europea, in caso di specifiche necessità. La struttura di comando peraltro è elemento chiave e irrinunciabile per una credibile e quindi efficace postura militare e disporne può essere il primo indispensabile mattone di quella ‘autonomia strategica’ a suo tempo evocata e da taluni intesa come lo strumento per allentare il vincolo transatlantico, mentre al contrario dovrebbe essere quello per assurgere a partner ‘near peer’ in grado di negoziare autorevolmente con Washington per la definizione di politiche condivise.
Venendo agli aspetti più squisitamente tecnici, più che a vagheggiare di un esercito europeo, sarebbe il caso di puntare più modestamente, ma più concretamente ad una standardizzazione degli equipaggiamenti e dei sistemi d’arma, in modo da abbatterne drasticamente i costi unitari e di esercizio e nel caso di operazioni congiunte da poter contare sulla possibilità di mutuo supporto fra contingenti di diverse nazionalità attivando catene logistiche unitarie.
Ma anche questo appare un obiettivo difficilmente raggiungibile, per concrete motivazioni legate alla politica industriale.
Uno dei più pesanti fattori che incidono pesantemente sulla potenzialità operativa dei paesi europei nel loro complesso è la frammentazione della base industriale della difesa, che impedisce il conseguimento delle economie di scala necessarie per assicurare un sufficiente rendimento delle spese per la difesa di ciascun paese: in sintesi, si dovrebbe spendere di più, ma prima si deve spendere meglio. Ma per ovvie motivazioni legate alla difesa dell’occupazione e della base tecnologica nazionale, ogni governo difende strenuamente i propri campioni, come Dassault, Krauss-Maffei e Leonardo, per citarne solo alcuni.
Una reale politica di europeizzazione della difesa deve quindi comprendere una strategia per indurre i grandi complessi industriali a forme sempre più strette di collaborazione allo scopo di attuare progetti comuni per i principali sistemi d’arma: non si dovrebbero più verificare situazioni come quella dello sviluppo contemporaneo di due velivoli da combattimento, come Rafale e Eurofighter, con una duplicazione dei costi di sviluppo e un incremento inaccettabile dei costi di produzione e invece ci stiamo ricascando con GCAP e SCAF. La strada è quella di incentivi irrinunciabili, secondo il modello dello European Defense Fund, ma con risorse superiori di due ordini di grandezza.
Il modello Next Generation Eu, pur nella sua specifica eccezionalità, potrebbe indicare la strada, che al momento non appare percorribile per la rigida opposizione di molti stati membri, a partire dalla Germania, ma l’acuirsi delle crisi internazionali potrebbe indurre a rapidi ripensamenti, come per la crisi pandemica, aprendo la via a una nuova stagione, in cui le capacità operative dei paesi europei nel loro complesso, a sostegno di una coerente e condivisa politica estera comune, potrà ridare all’Ue il ruolo di interlocutore paritario che oggi francamente non ha.
GE Aerospace va in borsa. Per Procacci (Avio Aero) è un’opportunità anche per l’Italia
La quotazione in borsa di GE Aerospace rappresenta una grande opportunità: poterci muovere in un’azienda completamente focalizzata sul settore aeronautico, che è da sempre la nostra identità. Ha commentato così l’amministratore delegato di Avio Aero, Riccardo Procacci, l’annuncio ufficiale di GE Aerospace – parent company americana della società con sede a Rivalta di Torino – quale società quotata indipendente alla Borsa di New York ereditando il ticker “GE” dopo il completamento dello spin-off di GE Vernova, una decisione che segnala il focus aerospaziale intrapreso dal gruppo Usa. Come spiegato da H. Lawrence Culp Jr., presidente e ceo di GE Aerospace: “Con il lancio delle tre società indipendenti (GE HealthCare, GE Vernova e GE Aerospace ndr) ora completato, la giornata di oggi segna l’ultimo passo epocale nella trasformazione pluriennale di GE”.
Per Procacci, presente negli Stati Uniti alla cerimonia del suono della campanella in apertura a Wall Street, “Avio Aero sta prendendo parte a un momento cruciale nella storia di GE”, indicando come “ciò significherà non solo un ulteriore impulso a nuovi investimenti e piani di sviluppo, ma anche un rafforzamento del nostro ruolo di protagonisti dell’industria europea della propulsione”. Per l’ad italiano, infatti, grazie alla partecipazione della società nei principali programmi internazionali civili e militari, “continueremo a lavorare per definire il presente e il futuro dell’industria aerospaziale, collaborando con istituzioni, università, centri di ricerca e Pmi, in Italia e in Europa. Allo stesso tempo, proseguirà il nostro impegno come partner delle Forze armate italiane, al cui servizio siamo da oltre 115 anni”.
Il lancio di GE Aerospace rappresenta il completamento del processo pluriennale di trasformazione finanziaria e operativa di GE. Negli ultimi anni, GE ha adottato diverse misure per rafforzare in modo significativo il business, tra cui una riduzione del debito di oltre cento miliardi di dollari dal 2018. Allo stesso tempo, l’implementazione e l’adozione in tutta l’azienda di Flight deck, il modello operativo lean di proprietà di GE Aerospace, e una serie di iniziative volte al miglioramento del servizio al cliente hanno permesso un cambiamento nella stessa cultura aziendale. Queste basi hanno portato alla creazione di tre società indipendenti: GE HealthCare, specializzata appunto nelle tecnologie per la salute, GE Vernova, con un focus sul settore energetico, e appunto GE Aerospace.
Con circa 44mila motori commerciali e 26mila motori militari in servizio in tutto il mondo, GE Aerospace si presenta come società specializzata a livello globale nella propulsione, nei servizi e nei sistemi. L’azienda ha generato oltre trenta miliardi di dollari di fatturato rettificato nel 2023, di cui il 70% generato dai servizi e dai forti risultati dell’aftermarket dei motori. In occasione dell’Investor Day di GE Aerospace dello scorso marzo, l’azienda ha ribadito la sua guidance per il 2024 e ha presentato una previsione finanziaria di lungo termine, con l’aspettativa di raggiungere circa dieci miliardi di dollari di utile operativo nel 2028. Inoltre, GE Aerospace ha illustrato il piano quadro di allocazione del capitale finalizzato a investire nella crescita e nell’innovazione, restituendo anche il 70-75% circa dei fondi disponibili agli azionisti.
Tra i principali programmi che vedono il coinvolgimento degli stabilimenti di Avio Aero in Italia, Polonia e Repubblica Ceca, il GE Aerospace Advanced Technology di Monaco di Baviera e il GE Engineering Design Center di Varsavia c’è l’EuroDrone, un velivolo a pilotaggio remoto (Uav) di classe Male (Medium altitude long endurance), con capacità versatili e adattabili. Le sue caratteristiche lo rendono la piattaforma perfetta per missioni cosiddette Istar, cioè di Intelligence, sorveglianza, acquisizione obbiettivi e ricognizione e per operazioni di sicurezza nazionale. Ad essere scelto come sistema di propulsione del drone è stata, infatti, la versione militare del Catalyst di Avio Aero, il primo turboelica nella storia dell’aviazione con componenti realizzate tramite additive manufacturing, che assicurano minor peso e maggior efficienza al motore.
Grazie al rapporto di compressione di 16:1, il migliore del settore, il Catalyst garantisce una diminuzione dei consumi fino al 20%, una potenza di crociera e una capacità di carico maggiore del 10% e fino a tre ore in più di autonomia in una tipica missione Uav, rispetto ai motori concorrenti nella stessa categoria. Il controllo del motore digitale Fadec (Full authority digital engine control) presente sul Catalyst, inoltre, semplifica l’integrazione tra l’avionica e l’elica, questa realizzata dalla tedesca MT-Propeller.
7 ottobre 2023 – 7 aprile 2024. Sei mesi di morte e distruzione
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della redazione
Pagine Esteri, 7 aprile 2024 – Sono passati sei mesi dall’attacco di Hamas nel sud di Israele e dall’inizio dell’offensiva militare dello Stato ebraico nella Striscia di Gaza. Israele non mostra alcun segno di fermarsi e i colloqui in Egitto e Qatar non indicano ancora alcuna possibilità di un cessate il fuoco definitivo. La guerra a Gaza, dice Israele, è una rappresaglia per gli attacchi sul suo territorio da parte di gruppi armati, guidati dalle Brigate Qassam di Hamas, che hanno ucciso circa 1.200 persone e ne hanno fatte prigioniere circa 250. Ma il costo di questa ritorsione senza fine è stato eccezionalmente alto per tutta la popolazione di Gaza.
Almeno 33.137 palestinesi sono stati uccisi dai bombardamenti aerei e dall’offensiva di terra di Israele, riferisce il Ministero della Sanità di Gaza. Altre migliaia di persone risultano disperse e si presume siano morte sotto le macerie di case ed edifici distrutti.
Bambini e donne costituiscono la stragrande maggioranza delle persone uccise. Save the Children denuncia che sono stati uccisi più di 13.800 bambini. La Mezzaluna Rossa Palestinese afferma che circa 1.000 bambini hanno perso una o entrambe le gambe. L’UNICEF stima che almeno 17.000 minori palestinesi siano attualmente non accompagnati o siano stati separati dai loro genitori. Migliaia sono gli orfani. Oltre 75 mila persone sono rimaste ferite e non possono essere assistite perché il sistema sanitario di Gaza è in gran parte distrutto o danneggiato.
La situazione umanitaria a Gaza è peggiorata notevolmente nel 2024 poiché l’esercito israeliano limita l’arrivo degli aiuti alla popolazione, in particolare nel nord della Striscia. L’Unrwa, la principale e meglio organizzata delle agenzie delle Nazioni Unite che operano a Gaza, non riesce a svolgere il suo ruolo perché boicottata e ostacolata da Israele che la accusa di essere “collusa” con Hamas. 2,3 milioni di persone, perciò, rischiano la fame: l’Onu avverte che la carestia si diffonderà in varie parti di Gaza entro maggio. Una trentina di persone, in prevalenza neonati e bambini, sono già morte per disidratazione e malnutrizione. Diverse organizzazioni e centri per i diritti umani accusano Israele di usare la fame come arma di guerra.
La condizione degli sfollati, l’80% della popolazione, è drammatica. L’esercito israeliano ha intimato agli abitanti del nord della Striscia di andare al sud già all’inizio dell’offensiva di terra. Da allora nessuno è più stato in grado di tornare alle proprie case poiché l’esercito israeliano ha creato un corridoio militare che da est e ovest taglia a metà la Striscia. La maggior parte degli sfollati si trova in installazioni delle Nazioni Unite come scuole e ospedali o in tendopoli a Rafah, la città più meridionale di Gaza, al confine con l’Egitto, che Israele minaccia di invadere come le altre città palestinesi, allo scopo, afferma il premier Netanyahu di eliminare “l’ultimo bastione di Hamas”. Molti degli sfollati vivono in strada o e in edifici distrutti solo in parte.
Gli attacchi aerei, di terra e anche dal mare hanno danneggiato o distrutto circa il 62% di tutte le case di Gaza lasciando più di un milione di persone senza un tetto. Ad oggi ci sono 26 milioni di tonnellate i detriti e le macerie che dovranno essere rimosse prima di poter avviare la ricostruzione se e quando terminerà la guerra. I danni stimati dalla Banca Mondiale e dalle Nazioni Unite sono di 18,5 miliardi di dollari. Colpite anche le infrastrutture pubbliche. Oltre al nord, i danni più gravi si registrano nel capoluogo Gaza city e a Khan Younis, nel sud, dove gli attacchi israeliani hanno distrutto migliaia di case e infrastrutture civili. Otto scuole su dieci a Gaza sono danneggiate o distrutte. Oltre 625mila studenti non hanno accesso all’istruzione.
Solo 10 dei 36 ospedali, cliniche e centri sanitari sono in grado di funzionare parzialmente, in condizioni di eccezionale difficoltà. La maggior parte dei pazienti non può ricevere ricevere cure adeguate per la carenza di medicine e attrezzature e per la stanchezza degli operatori sanitari esausti dopo sei mesi di lavoro incessante. Molte operazioni e amputazioni sono state eseguite senza anestesia. Di recente, un assedio durato due settimane dentro e intorno all’ospedale Shifa di Gaza city, il più grande di Gaza, ha lasciato il complesso sanitario in gran parte distrutto. L’esercito israeliano ha ucciso almeno 400 persone nello Shifa durante l’assedio e ne ha arrestate altre centinaia.
Infine gli attacchi militari hanno ucciso il maggior numero di operatori dell’informazione di qualsiasi conflitto moderno. Il Comitato per la Protezione dei Giornalisti stima in 90 il numero di reporter e cameraman uccisi. L’Ufficio stampa governativo di Gaza parla di 140 giornalisti uccisi. Pagine Esteri
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L'articolo 7 ottobre 2023 – 7 aprile 2024. Sei mesi di morte e distruzione proviene da Pagine Esteri.
Si legge ovunque delle preoccupazioni di Israele relative a un probabile attacco iraniano. Gli Usa stanno in ogni modo cercando di esacerbare i toni rilanciando minacce a destra e sinistra qualora dovesse arrivare una risposta da parte dell'Iran.
Questo accade dopo che Israele ha deciso di bombardare l'ambasciata Iraniana in Siria, una roba gravissima sia dal punto di vista del diritto internazionale sia dal punto di vista simbolico. In questo caso servirebbe una netta condanna da parte del Consiglio di Sicurezza dell'ONU per questo atto, ma come spesso accade, quando c'è da proteggere Israele, gli Usa si oppongono con tutte le loro forze. Infatti si sono opposti a una bozza di risoluzione proposta dalla Russia la quale condannava questo attacco e la violazione della sovranità di un Paese.
Solo una volta nel corso della storia è successa una cosa simile, fu quando nel 1999, durante i bombardamenti in Jugoslavia da parte della Nato, gli Usa bombardarono l'ambasciata Cinese senza alcuna motivazione valida. Resta il fatto che la propaganda sta concentrando tutti i suoi sforzi su una potenziale risposta da parte dell'Iran dimenticando del perché questa risposta potrebbe arrivare. Hanno già messo le mani avanti riportando a reti unificate la propaganda sionista, la quale recita che qualora venissero attaccati dall'Iran, avrebbero il diritto di difendersi. Immaginate se qualcuno avesse bombardato un'ambasciata Usa. Chi avrebbe avuto il diritto di difendersi? Gli Usa o chi li ha attaccati?
Ovviamente nessuna menzione sul fatto che l'unico Paese, in questa specifica situazione, che eserciterebbe il diritto di difendersi, sarebbe proprio l'Iran. Tutto ciò perché è stato deliberatamente attaccato da Israele. Preparano il terreno per giustificare un'eventuale contro risposta israeliana facendo in modo che qualora dovesse accadere quanto sopra riportato, avrebbero campo libero per venirci a raccontare del "diritto di Israele di difendersi". Israele, l'ho sempre detto, è uno dei paesi più furbi e subdoli al mondo, tanto che li ho sempre definiti le "stelle e strisce del Medio Oriente". Infatti anche la mossa di chiudere una trentina di ambasciate all'estero, tra cui anche quella in italia, sventolando il pericolo Iran, lo dimostra ampiamente e serve solo ed esclusivamente per alimentare la propaganda.
L'azione israeliana di bombardare l'Iran serve per due motivi, il primo perché a Gaza hanno fallito su tutti i fronti: militare, tattico, strategico, umanitario e hanno perso faccia e quel piccolissimo pizzico di credibilità che ancora avevano. Il secondo perché a fronte di quanto precedentemente espresso, hanno bisogno come il pane di tirare dentro gli Stati Uniti d'America e allargare la guerra. Nel caso dovesse intervenire l'Iran, gli Usa non potrebbero stare a guardare perché sarebbe seriamente a rischio la loro influenza nell'area proprio perché la minaccia su Israele, che è una specie di pentagono o base della Cia in Medio Oriente, stavolta diventerebbe concreta.
Questa vicenda è la fotografia di come si è sempre comportato Israele, di ciò che ha sempre fatto e di come venga rigirata la frittata per consentire a questi criminali di dettare legge in Medio Oriente per salvaguardare gli interessi degli Stati Uniti d'America. Israele provoca, bombarda in barba a qualsiasi legge, occupa territori, pratica apartheid e quando gli rispondono esercitando realmente il diritto di autodifesa, allora quei quattro fanatici messianici danno il via alla carneficina dicendoci che devono difendersi. Vi rendete conto di cosa sono, vero? Oltre che veri terroristi, questi sono un pericolo per il mondo intero. Perché pur di rimanere lì per fare gli interessi a stelle e strisce, gli stanno consentendo di fare tutto, a partire da una pulizia etnica e finire con bombardamenti deliberati ovunque ne abbiano voglia. Salvo poi fare le vittime...
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T.me/GiuseppeSalamone
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ECUADOR. La polizia irrompe nell’ambasciata messicana
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Nella notte tra venerdì e sabato la polizia ha fatto irruzione nell’ambasciata messicana a Quito, in Ecuador, portando via con la forza l’ex vicepresidente ecuadoriano Jorge Glas, che aveva chiesto asilo politico nella sede diplomatica.
“Quello che è appena accaduto è un oltraggio al diritto internazionale e all’inviolabilità dell’ambasciata messicana in Ecuador. Totalmente inaccettabile”. È la barbarie. Non è possibile che violino i confini diplomatico come hanno fatto. È vergognoso per uno stato”, ha detto dichiarato Roberto Canseco, ambasciatore incaricato.
“Mi hanno picchiato. Sono stato colpito mentre ero a terra. Ho fisicamente cercato di impedire loro di entrare. Hanno fatto irruzione come criminali nell’ambasciata messicana in Ecuador. Questo non è possibile. Non può essere. È pazzesco”, ha aggiunto Canseco.
Proprio ieri le tensioni tra i due Paesi avevano raggiunto l’apice. A seguito di alcune dichiarazioni del presidente messicano Andrés Manuel López Obrador in merito alle ultime elezioni in Ecuador, il presidente Noboa ha dichiarato l’ambasciatore messicano “persona non gradita”.
Jorge Glas, condannato per casi di corruzione, è rimasto all’interno dell’ambasciata messicana a Quito dal 17 dicembre 2023 al momento del raid.
Aveva due ordini di arresto, uno dei quali legato ad un processo per peculato.
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L'articolo ECUADOR. La polizia irrompe nell’ambasciata messicana proviene da Pagine Esteri.
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Ecco la vista più dettagliata (finora) sulla storia dell'Universo in espansione l AstroSpace
"I risultati confermano le basi del modello cosmologico standard dell’Universo, e forniscono uno sguardo senza precedenti sulla natura dell’energia oscura e sui suoi effetti sulla struttura su larga scala dell’Universo."
Ministero dell'Istruzione
A 15 anni dal tragico terremoto che il #6aprile del 2009 colpì #LAquila e i territori limitrofi il pensiero del #MIM è rivolto alle 309 vittime di quella notte, ai familiari e a tutte le persone coinvolte.Telegram
CINA. Rottamazione di macchinari e automobili, il piano di Pechino per sostenere la crescita
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di Michelangelo Cocco
Pagine Esteri, 6 aprile 2024 – Il Consiglio di stato di Pechino ha avviato una campagna nazionale per incoraggiare un massiccio aggiornamento di macchinari e attrezzature e la sostituzione di beni durevoli obsoleti, un progetto definito “strategico” che, nelle intenzioni dichiarate dal governo della Rpc, dovrebbe sostenere l’economia (nel 2024 si punta a una crescita del Pil del 5 per cento), le imprese e le famiglie.
Il piano annunciato dall’esecutivo prevede l’aumento del 25 per cento entro il 2027 (rispetto al valore del 2023) degli investimenti in macchinari e attrezzature per l’industria, l’agricoltura, l’edilizia, i trasporti, l’istruzione, la cultura, il turismo e l’assistenza medica.
Il sostegno (fiscale e finanziario) del governo punterà anche all’accelerazione della sostituzione dei beni durevoli, a cominciare dalle automobili (BYD ha al momento cinque modelli in vendita a meno di 100.000 RMB, equivalenti a meno di 13.000 euro). Entro il 2027 dovrebbe raddoppiare il tasso di rottamazione degli autoveicoli e aumentare del 30 per cento quello di sostituzione degli elettrodomestici.
Secondo le stime della Commissione nazionale per le riforme e lo sviluppo (Ndrc), la sostituzione di macchinari e attrezzature potrebbe creare un mercato di oltre 5.000 miliardi di RMB all’anno (circa 704,19 miliardi di dollari USA). Insomma una soluzione per sostenere la domanda interna nel medio periodo, che tuttavia non affronta le cause della sua debolezza, tra le quali spiccano le disuguaglianze sociali e la scarsa fiducia degli imprenditori privati nelle prospettive dell’economia nazionale.
Secondo le stime della Banca centrale, il programma varato dal Consiglio di stato farà aumentare la domanda di automobili ed elettrodomestici rispettivamente di 629,3 miliardi di RMB e 210,9 miliardi di RMB e contribuirà a una crescita del Pil che potrà oscillare tra gli 0,16 e gli 0,5 punti percentuali.
Il governo di Pechino lanciò un’iniziativa simile durante la crisi finanziaria del 2008, rendendo elettrodomestici come televisori e frigoriferi più accessibili ai consumatori delle aree rurali, attraverso massicci sussidi, riuscendo in tal modo a compensare con l’aumento della domanda interna la riduzione delle esportazioni.
Secondo i dati della Banca centrale, i 40 miliardi di RMB di sussidi di allora stimolarono la crescita del Pil di 0,33 punti percentuali nel 2010 e di 0,32 nel 2011.Pagine Esteri
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AFRICA. Trent’anni fa, il genocidio in Ruanda
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di Geraldina Colotti
Pagine Esteri, 6 aprile 2024 – L’aereo privato su cui il 6 aprile 1994 viaggiavano il presidente ruandese Juvenal Habyarimana e il suo omologo burundese, Cyprien Ntaryamira – un jet Falcon 50 regalo del primo ministro francese, Jacques Chirac – fu abbattuto da un missile mentre stava atterrando all’aeroporto di Kigali, capitale del Ruanda. Insieme ai due presidenti, di etnia hutu, morirono anche il capo dell’esercito ruandese e i 12 passeggeri. Tempo prima, Habyarimana aveva chiesto aiuto all’allora presidente di Francia, François Mitterrand per far fronte all’offensiva tutsi del Fronte Patriottico Ruandese (Fpr), che attaccava dall’Uganda.
La Francia era il grande alleato di Habyarimana, figlio di una ricca famiglia hutu, andato al potere con un colpo di stato nel 1973: lo considerava un baluardo contro le mire espansionistiche statunitensi nella regione. Parigi sosteneva il governo degli hutu contro il “complotto anglofono” che, dall’Uganda, intendeva creare un “Tutsi-land” di lingua inglese che ne riducesse l’influenza. Per questo, dal 1990, intervenne per fermare l’avanzata dei tutsi e si adoperò per armare e addestrare l’esercito ruandese. Nel 1993, sotto l’egida delle Nazioni unite, erano stati firmati gli Accordi di Arusha tra il Fpr e Habyarimana, contestato anche all’interno dell’hutu power per aver assunto un atteggiamento più moderato.
L’abbattimento dell’aereo, attribuito ai tutsi, innescò 100 giorni d’inferno. Fino al 19 luglio, quando il Fronte Patriottico Ruandese, guidato da Paul Kagame, prese il potere, venne massacrato circa un milione di tutsi, e anche di hutu moderati: un genocidio, durante il quale il mondo rimase a guardare. Si può valutare la proporzione del massacro, considerando che il Ruanda, piccolo stato dell’Africa centrale che si trova nella regione dei Grandi Laghi. è un territorio poco più grande della Sicilia. Allora era abitato da circa 7,5 milioni di persone, appartenenti a tre gruppi etnici: i Twa (circa l’1% della popolazione), di ceppo pigmoide, gli hutu (tra l’85 e il 90%), provenienti dal ceppo bantù, e i tutsi o watussi (meno del 14%), del ceppo nilotico.
Quello che venne descritto come la conseguenza incontrollata di un odio interetnico (quindi dell’incapacità dei popoli africani di governarsi da soli), fu invece principalmente un retaggio della dominazione coloniale (e anche dell’”evangelizzazione”), alimentato ad arte nel contesto dello scontro fra potenze per la rapina del continente dopo la caduta del muro di Berlino.
foto wikimedia commons
Come hanno provato documenti declassificati, l’Operation Turquoise, ufficialmente una missione “umanitaria” francese per proteggere i propri cittadini, servì a coprire (o a foraggiare) l’azione di due gruppi paramilitari principalmente responsabili del massacro, le milizie Interahamwe e gli Impuzamugambi. Nonostante l’allarme sull’incombere del genocidio, preparato dagli incitamenti all’odio razziale lanciati dalla Radio delle Mille Colline, fossero già arrivati alle istituzioni internazionali, nulla di tutto questo giunse, pare, sulla scrivania dell’allora presidente socialista François Mitterrand.
Eppure la Francia, unica potenza oltre agli Usa a mantenere una forte influenza sul continente africano anche dopo la caduta dell’Urss, dal 1959 aveva firmato oltre 60 accordi di cooperazione militare che interessavano 24 nazioni. Otto di questi accordi, obbligavano Parigi a intervenire qualora avesse riscontrato una minaccia. Un potere di cui la Francia, tra il 1959 e il 1996, ha fatto uso per 28 volte: 14 per difendere i governi in carica da “minacce interne”, 7 per “aggressioni esterne”, e 7 per “motivi umanitari”, come l’Operation Turquoise, o nel quadro di operazioni multilaterali.
I prodromi del genocidio in Ruanda vanno rintracciati nella spartizione dell’Africa e nelle conseguenze prodotte dalla creazione di frontiere artificiali decise alla Conferenza di Berlino del 1885; e nell’imposizione di concetti politici, istituzioni e norme sociali tarate su visioni esterne, avulse dalle strutture preesistenti nel continente africano.
Come hanno rilevato diversi storici africani (Ki-Zerbo, M’Bokolo, Kagabo…), e come si ricava dalle testimonianze dei primi esploratori europei, popolazioni appartenenti a differenze etnie convivevano all’interno di società feudali dotate di strutture anche sofisticate, condividendo usanze e religioni. Come hanno analizzato, in Italia, gli studi di Michela Fusaschi (ripresi anche da Alberto Sciortino), la società ruandese della cosiddetta epoca dei regni (tra il XV e il XVI secolo) mostrava una complessa scala gerarchica del potere.
Al vertice c’era un mwami, che regnava mediante famiglie vassalle tutsi a cui distribuiva la terra. I capi del suolo e del bestiame esistenti in ogni provincia erano sia hutu che tutsi. Il re, che possedeva tutto il bestiame e tutto il suolo, era anche garante dell’unità del popolo, mentre un collegio di abiiru, a sua volta composto sia da hutu che da tutsi, garantiva la trasmissione delle funzioni reali. Nel vicino Burundi, altro teatro del genocidio di trent’anni fa, non c’era scontro tra pastori e contadini per l’uso della terra, erano diffusi i matrimoni misti fra hutu e tutsi, e gli stessi tutsi erano divisi al loro interno in due classi sociali.
foto di Gil Serpereau
Dopo la Conferenza di Berlino, chiamata a dirimere forti rivalità fra potenze coloniali per il controllo delle risorse, ai regni del Ruanda e dell’Urundi (come veniva chiamato allora l’odierno Burundi) toccò essere dominati dal colonialismo tedesco. I diversi livelli di accettazione o resistenza ai regimi coloniali avranno la loro influenza anche in futuro quando, durante la Prima guerra mondiale, con un mandato dell’allora Società delle Nazioni, Ruanda e Urundi verranno poi consegnati al Belgio, nel 1919.
Le potenze coloniali, specialmente l’impero britannico, usavano un sistema amministrativo di governo indiretto per dominare i popoli sottomessi mediante le loro istituzioni. A differenza dei tedeschi che avevano sostanzialmente lasciato inalterato sia il potere tradizionale che la gerarchizzazione sociale ruandese in cambio dell’accettazione del loro Protettorato, i belgi applicarono a modo loro l’indirect rule: senza delegare completamente neanche una parte del governo locale ai capi tradizionali, si riservarono di ratificare ogni decisione.
Occorre ricordare che, nel 1885, il re Leopoldo II del Belgio era riuscito a impossessarsi del Congo, un territorio immenso grande 76 volte il Belgio, rendendosi protagonista del genocidio di circa 10 milioni di persone nell’arco di un ventennio. Uno sterminio abilmente mascherato sotto la patina della ricerca scientifica, del progresso e della filantropia, e della lotta ai mercanti di schiavi arabi.
Dieci anni dopo la morte di Leopoldo II, con il mandato fiduciario ricevuto dalla Società delle Nazioni, il Belgio si trovò ad amministrare sia l’allora Congo belga che i due piccoli regni di Ruanda e Urundi, unificati sotto il comando di un Governatore generale e di un Consiglio generale con sede a a Bujumbura, odierna capitale del Burundi.
Fu l’amministrazione coloniale belga a dare una connotazione etnica alle differenze sociali fra tutsi e hutu. E fu sempre il colonialismo a usare quelle disuguaglianze per fini politici, sia nella fase dell’indipendenza che in quella successiva. Dal 1928, venne imposta e istituzionalizzata la superiorità del gruppo tutsi, anche attraverso gli insegnamenti nelle scuole “d’elite” gestite dai missionari, orientati a convertire quelle élite per “convertire l’intero Ruanda”. I contadini hutu erano sottoposti al lavoro forzato.
Gli archivi di quel periodo riportano alcune dichiarazioni del vescovo francese Léon Classe, il quale, nel 1930, manifestava il timore che, se il governo belga avesse eliminato “la casta tutsi”, questo avrebbe portato il paese “verso l’anarchia e il comunismo odiosamente antieuropeo”. Alla fine degli anni Venti sulle carte di identità comparve allora l’appartenenza etnica. Dove l’aspetto non consentiva una distinzione sicura, si decise che chi possedeva più di dieci vacche veniva catalogato tutsi, chi ne aveva meno, era hutu.
Nel mix di oppressione di classe e oppressione coloniale, la crisi economica mondiale, iniziata nel 1929, esacerbò le contraddizioni anche in Ruanda e in Burundi. Per evitare che le aspirazioni indipendentiste incendiassero le élite tutsi, più istruite, le autorità coloniali pigiarono sul pedale delle differenze etniche cambiando le pedine. E appoggiarono gli hutu nell’esplosione sociale del 1959, che porterà all’indipendenza del 1962.
foto di Pierre-Yves Beaudouin / Wikimedia Commons / CC BY-SA 4.0
La prima rivolta dei contadini hutu, nel 1959, trovò base in un “manifesto”, redatto da un gruppo di intellettuali vicini alla chiesa cattolica, anch’essa dedita a una svolta “politica”. Un testo che costituirà poi, con successivi aggiornamenti, un punto di partenza per le politiche di repressione contro i tutsi. In quella temperie, gli hutu formarono il Mouvement Démocratique Républicain, Parti pour l’émancipation du Peuple Hutu, e l’Association pour la Promotion de la Masse, che avevano come obiettivo principale quello di liberarsi dall’oppressione interna.
I tutsi fondarono l’Union National du Rwanda (che appoggiava la monarchia, ma si definiva di orientamento marxista) e il Rassemblement Démocratique du Rwanda, la cui priorità era la lotta di liberazione anticoloniale.
Allora, nel contesto del mondo diviso in due blocchi, una gran parte d’umanità si organizzava dietro le bandiere del comunismo e alimentava le speranze della rivoluzione bolscevica del 1917. Fra il 13 marzo e il 7 maggio del 1954, l’esercito popolare vietnamita, guidato dal mitico generale Vo Nguyen Giap, aveva sconfitto le forze coloniali francesi nella battaglia di Ðiện Biên Phủ.
Una vittoria che determinò la fine del dominio francese in Indocina e pesò sugli accordi di pace firmati durante la conferenza di Ginevra il 21 luglio del 1954. Una vittoria di importanza storica, che ha simboleggiato la sconfitta irreversibile del colonialismo occidentale nel cosiddetto Terzo mondo. E in quell’anno cominciò anche la guerra di liberazione algerina, condotta dal Fronte di Liberazione Nazionale (Fln).
Il vento delle indipendenze stava spirando con forza, influenzato dal contesto della “guerra fredda” fra Stati Uniti e Unione sovietica. Il colonialismo belga cercava di interferire nelle spinte indipendentiste, e di pesare, imponendo il modulo già usato dalla Francia con Haiti. Nel 1804, Haiti diventò la prima repubblica di schiavi liberi. Uno schiaffo a cui la Francia, per “compensare” la perdita di entrate determinate dal suo sistema schiavista e dalle piantagioni di zucchero e caffè, rispose imponendo alla repubblica, sotto la minaccia di un intervento armato, un debito di 150 milioni di franchi d’oro, equivalente al bilancio annuale della Francia dell’epoca.
Il governo haitiano dovette persino chiedere in prestito denaro alle banche francesi, pagando un alto tasso di interesse, riuscendo a saldare il “debito” solo intorno al 1950, a scapito del proprio sviluppo interno. Anche il Congo, la cui indipendenza diventerà effettiva il 30 giugno del 1960, sarà obbligato a pagare il debito estero del Belgio e a rimborsare un prestito mai ricevuto, in cambio dell’indipendenza. E il grande Patrice Lumumba, dirigente anticolonialista e Primo ministro della Repubblica democratica del Congo verrà ucciso nel 1961 con la complicità dell’ex potenza coloniale.
Ruanda e Burundi divennero indipendenti nel 1962. Tra il 1959 e il ’62, circa 500.00 tutsi vennero obbligati a fuggire, prevalentemente in Uganda, dove prese forma il Fronte Patriottico Ruandese, composto da tutsi e hutu moderati. Da allora, la dominazione coloniale nel continente africano continuò con altre forme.
Il dopo ’89 ha fatto emergere nuove rivalità fra potenze e nuovi intrecci di interesse. A distanza di trent’anni, il genocidio in Ruanda resta un “paradigma”. Nel 2006, la parlamentare statunitense, Cynthia Mc Kinney, che fu inviata speciale del presidente Bill Clinton in Africa, dichiarò in una intervista: “Quanto successo in Ruanda non è un genocidio pianificato dagli hutu. È un cambiamento di regime. Un colpo di stato terrorista perpetrato da Kagame con l’aiuto di forze straniere. Scrissi personalmente a Bill Clinton per dirgli che la sua politica era un fallimento in Africa”.
Il 6 aprile del 1992, con la “guerra umanitaria” contro l’allora Jugoslavia era iniziato il processo di “balcanizzazione del mondo”, che avrebbe visto il ruolo dei media e degli apparati ideologici di controllo occidentale, attori sempre più presenti nei conflitti. Il genocidio in Ruanda, preparato a lungo nei circoli di potere e alimentato dai media che hanno soffiato sul conflitto etnico, appare oggi come un “laboratorio” di quella strategia del “caos controllato” con cui l’imperialismo costellerà di massacri il sud globale.
Il 15 luglio del 2024, in Ruanda – un paese dove almeno il 40% della popolazione è povero – vi saranno le elezioni presidenziali. Paul Kagame, che guida il Fronte Patriottico Ruandese dalla vittoria armata del 1994, si candida per il quarto mandato consecutivo, dopo aver vinto le elezioni nel 2003, nel 2010 e nel 2017 con oltre il 90% dei voti. Nell’ambito degli accordi per inviare i migranti in Ruanda, all’inizio dell’anno Kagame ha incontrato anche il premier israeliano Netanyahu: per accogliere migliaia di palestinesi cacciati dalla Striscia di Gaza, previo un generoso finanziamento. “Non c’è altra soluzione per i residenti di Gaza se non l’emigrazione – hanno affermato i rappresentanti di Israele -. Non hanno nessun posto dove tornare oggi. Gaza è distrutta e non ha futuro perché rimarrà così”.
Il Ruanda sta vivendo un boom nel settore edile, a prezzo dell’espulsione massiccia della popolazione povera dalle vecchie abitazioni, ma deve far fronte a una carenza di manodopera. L’arrivo di migliaia di palestinesi viene quindi visto come una possibile soluzione. Anche il presidente del Ciad, Mahamat Idriss Déby, a sua volta in ottimi rapporti con Tel Aviv, ha mostrato attenzione alla proposta. Il Ciad, la cui popolazione è musulmana sunnita per il 60%, ha stabilito relazioni diplomatiche con Israele nel 2019 e Benjamin Netanyahu si è recato lì per l’occasione. Nel febbraio dello scorso anno è stata la volta del presidente ciadiano di ricambiare, recandosi in Israele.
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Yellen in Cina, sulle tracce di Deng Xiaoping
La segretaria al Tesoro americana inizia il suo viaggio da Guangzhou e rievoca lo storico viaggio del 1992 con cui Deng Xiaoping diede nuovo impulso alle riforme. Un messaggio per Xi Jinping, che un recente ciclo di contenuti di Xinhua ha paragonato proprio al "piccolo timoniere"
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Perché Israele non riconosce la Palestina come nazione?
A Israele non stanno bene i confini attuali. Riconoscere lo stato arabo significherebbe rinunciare a tutte le mire territoriali attuali. A tornare nei confini originali del 1948. E questo a loro non conviene. Questo è il motivo per cui alimentano e coccolano il terrorismo, come se fosse l'unico strumento per mantenere questo stato di guerra perenne, che permette, poco alla volta, di continuare a strappare territori. E intanto sfoltire la popolazione locale. La decimazione. Ma anche peggio… ben oltre il 10%. Questo fa israele da 50 anni. E la cosa davvero triste è per quanto cinico sta pure funzionando. E' il tipo caso in cui dai una mano a qualcuno e quello si prende l'intero braccio. Appena i locali impazziscono e fanno lo stesso ecco la giustificazione per altre violenze. Se stanno buoni e zitti succede lo stesso. L'esistenza di israele non può più essere messa in discussione, ma la loro politica ovviamente si. E dubito che sia essere antisemiti. Gli israeliani sono in parte di etnia semita, come i palestinesi, quindi essere antisemiti significa anche essere contro i palestinesi. Anche chi è contro i palestinesi è antisemita. E gli israeliani sono essi stessi anti-semiti. Personalmente la parte israeliana che trovo più difficile giustificare moralmente sono i "coloni". ma la loro risposta agli USA è stata "Ma voi lo avete fatto con i pellerossa…" quindi sanno quello che stanno facendo. Neppure l'onu ha accesso alle zone "contese", e questo significa che dovrebbe bastare la parola israeliana per dirti quello che avviene li da 50 anni. A Israele non stanno bene i confini attuali. Riconoscere lo stato arabo significherebbe rinunciare a tutte le mire territoriali attuali. A tornare nei confini originali del 1948. E questo a loro non conviene. Questo è il motivo per cui alimentano e coccolano il terrorismo, come se fosse l'unico strumento per mantenere questo stato di guerra perenne, che permette, poco alla volta, di continuare a strappare territori. E intanto sfoltire la popolazione locale. La decimazione. Ma anche peggio… ben oltre il 10%. Questo fa israele da 50 anni. E la cosa davvero triste è per quanto cinico sta pure funzionando. E' il tipo caso in cui dai una mano a qualcuno e quello si prende l'intero braccio. Appena i locali impazziscono e fanno lo stesso ecco la giustificazione per altre violenze. Se stanno buoni e zitti succede lo stesso. L'esistenza di israele non può più essere messa in discussione, ma la loro politica ovviamente si. E dubito che sia essere antisemiti. Gli israeliani sono in parte di etnia semita, come i palestinesi, quindi essere antisemiti significa anche essere contro i palestinesi. Anche chi è contro i palestinesi è antisemita. E gli israeliani sono essi stessi anti-semiti. Personalmente la parte israeliana che trovo più difficile giustificare moralmente sono i "coloni". ma la loro risposta agli USA è stata "Ma voi lo avete fatto con i pellerossa…" quindi sanno quello che stanno facendo. Neppure l'onu ha accesso alle zone "contese", e questo significa che dovrebbe bastare la parola israeliana per dirti quello che avviene li da 50 anni.Ma chi conosce chi vive sul posto sa cosa sta succedendo. Diciamo che gli invasori israeliani non si comportano come i romani 2000 anni fa.
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rag. Gustavino Bevilacqua reshared this.
Ministero dell'Istruzione
#NoiSiamoLeScuole questa settimana racconta dei laboratori digitali per la #scuola 4.0 e delle attività di mentoring contro la dispersione scolastica all’IIS Lazzaro Spallanzani di Castelfranco Emilia e all’IC Sassuolo 4 Ovest di Sassuolo, grazie ai …Telegram
Sdh - A Mickey Finn at the Nemo Point Hotel
Veniamo dunque a quelli che la band stessa definisce gli ingredienti: si comincia con due pezzi fragorosi in stile Touch and Go come The Ponytail e Nothing Keep You Sound, per passare poi a Shut Up!
@Musica Agorà
iyezine.com/sdh-a-mickey-finn-…
Sdh - A Mickey Finn at the Nemo Point Hotel
L'ultima volta che io e il mio socio abbiamo passato in radio gli Sdh, mi chiesi piuttosto oziosamente quali fossero le parole che si nascondono dietro l'acronimo, la sigla Sdh.In Your Eyes ezine
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Weekly Chronicles #70
Questo è il numero #70 di Privacy Chronicles, la newsletter che ti spiega l’Era Digitale: sorveglianza di massa e privacy, sicurezza dei dati, nuove tecnologie e molto altro.
Cronache della settimana
- Il Chatcontrol si farà
- CBDC: dalla Germania arrivano le linee guida tecniche
- Anche le cuffiette diventano strumento di sorveglianza passiva
Lettere Libertarie
- La favola dei diritti
Rubrica OpSec
- Come scovare le telecamere nascoste
Il Chatcontrol si farà
Dopo un tira e molla durato anni, è arrivata la notizia: il Chatcontrol si farà, e il testo sarà più o meno quello originale — cioè il peggiore. Per chi fosse arrivato da poco su queste pagine, o per chi avesse bisogno di una rinfrescata alla memoria, sto parlando di un prossimo regolamento europeo (Chatcontrol per gli amici) che catapulterà l’Unione Europea direttamente nell’Olimpo della sorveglianza di massa; più di Cina e Stati Uniti messi insieme.
Il Chatcontrol è lo strumento con cui l’Unione Europea dice di voler combattere la diffusione di materiale pedopornografico online. In realtà l’idea arriva da più lontano e neanche dall’UE, ma da un accordo internazionale siglato dai Five Eyes. Ma di questo, ne ho già parlato.
Per combattere la diffusione di materiale pedopornografico obbligheranno le piattaforme online e i servizi di comunicazione a sorvegliare attivamente tutto il traffico, le chat e i contenuti media inviati dagli utenti. Nel caso in cui uno degli innumerevoli algoritmi di sorveglianza beccasse un contenuto potenzialmente pedopornografico, partirebbero le segnalazioni alle autorità. Citando proprio il testo di legge:
If providers of hosting services and providers of interpersonal communications services have identified a risk of the service being used for the purpose of online child sexual abuse, they shall take all reasonable mitigation measures…
Quali sono queste “reasonable mitigation measures”, di nuovo, ce lo spiega la legge:
- adattare i sistemi di moderazione (sia umani che automatizzati) per aumentare il rispetto dei termini e condizioni dei servizi
- rinforzare la supervisione dell’uso dei sistemi
- cooperare con le autorità, anche di spontanea iniziativa
- introdurre funzionalità per consentire agli utenti di segnalare materiale pedopornografico
Ma la vera ciccia arriva adesso.
Oltre a queste misure, le piattaforme e servizi di comunicazione saranno obbligati a sviluppare e installare nei loro servizi delle tecnologie, approvate dalla Commissione Europea, in grado di identificare materiali potenzialmente pedopornografici diffusi attraverso i loro canali di comunicazione o piattaforme. In parole povere: sistemi di sorveglianza automatizzata di tutte le comunicazioni, pronti a scovare materiale potenzialmente illecito.
Anche di questo ne ho parlato molto, affrontando anche altri diversi punti critici (come il potenziale tasso di errore di questi sistemi). Rinvio all’articolo di approfondimento:
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CBDC: dalla Germania arrivano le linee guida tecniche
Mentre negli Stati Uniti ci sono addirittura proposte di legge per vietare il dollaro digitale, sembra invece che in UE il processo sia ormai inarrestabile. Così, anche la Germania inizia a muoversi sul fronte CBDC (euro digitale), grazie a un contributo del Federal Office for Information Security.
TicketZon: un bridge per portare concerti e mostre nel fediverso (compatibile con gli eventi di Friendica)
TicketZon è l'istanza Mobilizon creata da @Roberto Guido che ripubblica eventi attingendo dalle piattaforme di vendita online di ticketing.
Per ciascuna provincia esiste un “gruppo”, followabile con un qualsiasi account nel fediverso per ricevere le notifiche di nuovi concerti, spettacoli teatrali, mostre o altre attività nella propria zona.
Qui il post sul forum di @Italian Linux Society
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Could the US Government Self-Host a Fediverse Server?
In our report yesterday about President Biden and the White House opting in to ActivityPub federation, there were a number of responses from people wishing that the White House (and other organizations) would simply self-host their own server to be a part of the network. I agree with this sentiment, and have been thinking about the requirements that would make this kind of thing possible.
Here are my thoughts, based on my limited experience working for both tech startups and government.
Why Would Anyone Want This?
There are a number of people in the Fediverse that would like all forms of government to stay the heck away from the network, citing the problems of bringing the military-industrial-complex and surveillance capitalism to our cozy little space on the Internet. Depending on which government we’re talking about, what their policies are, and how they interact with the network, this isn’t necessarily an unreasonable reaction.
However, there are a number of benefits that bringing government to self-hosted infrastructure might bring:
- Government Officials – Communicating with and representing their constituents.
- Service Notifications – Are there outages on certain train lines? Are roads closed down? Has a natural disaster occurred?
- Bureau Interactions – interacting with municipal services, civic organizations, and emergency / non-emergency services for a variety of jurisdictions.
- Department Information – easy promotion and access to studies from, say, the Department of Labor, or the Department of Energy.
- Legislature – coverage of meeting notes, policies passed, votes on the House or Senate floor.
As of today, these things primarily exist within the domain of corporate social media. You’re more likely to see a smattering of accounts across Twitter, Facebook, and Threads, and those accounts might be pretty limited in what they’re able to actually accomplish, since they’re not even running on government infrastructure.
The fact of the matter is, being able to directly access all of the things listed above could be a boon to users of the Fediverse. Rather than trying to rely on a Facebook page or Twitter account to get necessary information, it could be seen from verified accounts on your timeline, with receipts, and would be accessible to journalists, researchers, developers, and citizens alike.
Technical and Organizational Hurdles
There are a number of hoops to jump through, so let’s talk about them. Before diving in: I’m aware of the effort being done by the European Union as well as some EU governments. I think those are great, and give us some kind of playbook to look to for examples. These musings are more focused on the United States.
Funding
The first headache with any government project is setting aside the funds and people to work on it. A political figure could introduce a bill with provisions to set aside a budget for such a program, but then there are questions pertaining to who actually carries out this effort. How much of the work is being contracted out to another business or agency? What’s the criteria for “winning” the contract, and who carries out what tasks?
Procurement
Then there’s the choice of software itself: the platform and its dependencies need to be audited, examined, and vouched for. Off the top of my head, relatively few Fediverse platforms actually fulfill this expectation: I believe that Mastodon may be one of the few that has actually gone through this process, but there may be significant differences between a security audit by a compliance group, and a security audit by a government.
Aside from choosing an official platform to stake operations on, there’s also the matter of finding an ideal third-party vendor. Currently, managed Fediverse hosting services are still in their infancy, and I’m not sure they’re up to scratch for what a government entity demands: comprehensive compliance requirements, service-level agreements, user training and onboarding materials, and promises pertaining to security upgrades and threat mitigations.
There may also be requirements for custom development, for example, integrating federal single sign-on, such as ID.me or something similar. There would also need to be a deployment strategy for various users, departments, and bureaus. It may be possible for an existing government IT provider to adopt Mastodon or another platform and develop everything needed here, but it’s much harder for any business started in the Fediverse today.
Policy
Another relatively grey area here would be the setting of policy for a US Government-run instance. Dealing with hate speech, CSAM, trolling, harassment, and other nastiness is a job and a half for ordinary instance admins, but I would imagine that this could be compounded further by hosting a government server with potentially millions of followers.
How does a government handle that kind of thing without violating the First Amendment? Does moderation even count as violating free speech, as some people believe? Is there perhaps a threshold for what’s tolerated in civil discussion?
I’m not a lawyer, and don’t have a complete answer. They might be able to get away with something similar to the Mastodon Server Covenant, in which ground rules for participation are set. Alternatively, maybe only allowing inbound federation from other government servers is an answer. I don’t know.
Tooling
One final consideration: departments and organizations are unlikely to get very far if they only have a default web interface to rely on. The Fediverse needs tools like Buffer, Fedica, and Mixpost for teams to come together and coordinate their presence in this new space. As the ecosystem evolves, we’ll likely need alternative tools and frontends to deal with emerging challenges.
It’s Still Worth Trying
I’ll be the first to admit that, looking at everything above, there’s a lot of unanswered questions. People asked why President Biden and the White House opted in to using Threads with ActivityPub federation, rather than stand up their own server. For the time being, the cost of setup, onboarding, and training is cheaper. They’re also making a smart bet by migrating to where a lot of people are, in the hopes that they will be heard by the greatest amount of potential followers.
As the Fediverse continues to grow, and both the protocol and platforms continue to evolve, my hope is that government entities might see the Fediverse as viable. One day, we may see a lot of municipal entities and departments setting up their base of operations right here on the network. I think it’s important that we continue thinking about how to get there.
The post Could the US Government Self-Host a Fediverse Server? appeared first on We Distribute.
io penso che tutti gli enti pubblici dovrebbero togliersi da tutte le piattaforme privative e usare esclusivamente il fediverso come sistema di comunicazione diretta, oltre ad offrire il servizio ai cittadini, con tutte le restrizioni che comporta.
Allo stesso modo esorterei tutti i politici a non usare le piattaforme privative per fare annunci istituzionali o politici.
E inviterei gli stessi partiti ad aprire i loro server e a togliersi dalle varie piattaforme privative.
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ieri l'app di #BancoPosta mi ha detto che devo "Autorizzare l'app Bancoposta ad accedere ai dati per rilevare la presenza di eventuali software dannosi", avendo poi cura di precisare che "La funzionalità è obbligatoria" e che avrei avuto un numero limitato di accessi dopo i quali non potrò più accedere e operare in app se non mi adeguo.
Ma è legale una cosa del genere?
@Etica Digitale (Feddit)
dday.it/redazione/48945/le-app…
Le app di Poste Italiane pretendono di avere accesso ai dati del telefono. Ma non spiegano cosa ci fanno
In rete aumentano le segnalazioni di utenti obbligati a condividere i dati di utilizzo del telefono per poter accedere ai servizi di Poste Italiane, come PostePay e BancoPosta. La richiesta servirebbe a verificare la presenza di software dannosi.Sergio Donato (DDay.it)
RECENSIONE : MISOPHONIA – WORKING CLASS BLAST BEAT
I Misophonia producono un odi quei lavori che fortunatamente non hanno nessun ritegno né filtro a descrivere il mondo per come è veramente e riescono a fondere il grindcore e il crust con la telefonata delle Brigate Rosse che annunciava la morte di Aldo Moro, la jihad islamica con Stalin e il quarto reich dell’Esselunga. @Musica Agorà
iyezine.com/misophonia-working…
Misophonia - Working class blast beat
Misophonia: Una rissa musicale che diventa scontro aperto e si fa amare tantissimo.In Your Eyes ezine
Musica Agorà reshared this.
Sebastian Bieniek
Sebastian Bieniek (classe 1975) è un regista tedesco, artista, drammaturgo e scrittore, nato a Czarnowasy (Polonia) si è poi trasferito in Germania, dove ancora oggi vive e lavora.
You Can Now Follow President Biden on the Fediverse
In a surprising first, Joe Biden’s social media team enabled Fediverse integration on his Threads account today. For now, the integration is a minor gesture, as it’s only a one-way connection from Threads to the Fediverse.
As viewed from Mastodon.
That being said, the implications make for a pretty big deal: Joe Biden is the first US President to federate with the rest of the network. Even though Donald Trump is on Truth Social, which is based on Mastodon, the backend has never actually federated with another server.
You can follow President Biden and the White House below:
- President Biden: @potus
- White House: @whitehouse
Government Fedi
Over the last few years, a number of governments and officials looked to the Fediverse as the base of their online social presence. The European Union notably offers official Mastodon and PeerTube servers for followers to connect with, and the Dutch government officially uses Mastodon as well.
People familiar with the RSS publishing format may find it helpful to think of Fediverse as “Really Simple Social Syndication”. Similar to RSS an agency can publish subscribable feeds, but with the added bonus of social interaction with citizens and stakeholders.In effect, this combines the deliverability and reach of email with the personalisation and device-alerting capabilities of social media apps.
IFTAS
Some organizations, such as IFTAS, have begun advocating towards governments currently on Twitter, Instagram, and Facebook to move over. It’s still an emerging part of the network, and definitely will take some time for more organizations to set foot over here. Still, it’s a promising development and will hopefully get more public officials to think about connecting to the Fediverse.
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The Brightest Room - Omonimo
Nel caso dei Brightest Room, dei quali ho avuto la fortuna di seguire la crescita artistica, si può, con cognizione di causa, parlare di questo nuovo lavoro come quello della completa maturità. I nostri non sono certamente dei novellini e nei dieci pezzi di Brightest Room dimostrano di aver ascoltato tanta musica e di averla assimilata e fatta propria nel migliore dei modi.
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Locutor
Spanish dubbing. Spanish dubbing voices -
Spanish voice over. Spanish voice talent. Spanish voice over agency.Escena Digital locutores- Spanish dubbing
Alan Raul, Founder of Sidley Austin’s Privacy and Cybersecurity Law Practice Elected FPF’s New Board President
FPF Founder Christopher Wolf and Board Chair steps down after 15 years of service
FPF is pleased to announce Alan Raul, former Vice Chairman of the Privacy and Civil Liberties Oversight Board, has been elected to serve as President and Chair of the organization’s Board of Directors. Raul succeeds Christopher Wolf, founding Board President and founder of FPF, who is stepping down after a foundational and impactful tenure spanning 15 years.
Wolf, a pioneer in Internet and privacy law, is Senior Counsel Emeritus of Hogan Lovells’ top-ranked Privacy and Cybersecurity practice. As a leading attorney with the firm, he co-founded and led the development of the practice for over a decade, advising and shaping the thinking of Internet free speech, hate speech, and the parameters of government access to stored information. Wolf will continue as a member of FPF’s Board of Directors throughout this year before stepping down.
“In 2008, when I founded the Future of Privacy Forum, our vision was that it would be a place where we could advance the responsible use of data while respecting individual privacy,” Wolf said. “We believed that if dedicated technologists, policymakers, industry groups, and advocates focused on advancing privacy in a manner that businesses can achieve, we could strike a balance between consumer privacy and personalization that enables greater innovation for all.”
FPF flourished under Wolf’s guidance, becoming instrumental in steering collaborative and innovative efforts to address the complexity of the data-driven world. The organization regularly publishes substantive policy papers and reports tracking and analyzing data protection developments in different jurisdictions worldwide. Since launching, FPF has expanded its offices to Europe, Tel Aviv, and the Asia Pacific region and convened numerous international events, including the Brussels Privacy Symposium, now in its 7th year and first annual Japan Privacy Symposium.
Wolf’s dedication has not only set a high benchmark for leadership but also has helped regulators, policymakers, and staff at data protection authorities better understand the technologies at the forefront of data protection law. FPF will honor and celebrate Wolf’s contributions to the privacy sector and FPF during his tenure at their 2024 Advisory Board Meeting’s Opening Night Reception on June 5.
“In my experience in leading privacy and cybersecurity law and research, I’ve come to recognize the qualities that make a dedicated privacy trailblazer,” Wolf said. “Alan Raul shares my commitment to fostering a thriving, diverse privacy landscape that advances responsible data practices and technological innovation. His values align with the needs of FPF, and I am confident
he will work tirelessly with integrity and dedication to build on the successes of recent years and take on new challenges.
Raul has served on FPF’s board for eight years and is the founder and, for 25 years, the leader of Sidley Austin LLP’s highly-ranked Privacy and Cybersecurity Law practice. He is currently Senior Counsel at Sidley. Raul brings his breadth of knowledge in global data protection and compliance programs, cybersecurity, artificial intelligence, national security, and Internet law. He is also currently a member of the Technology Litigation Advisory Committee of the U.S. Chamber of Commerce Litigation Center. Raul is also a Lecturer in Law at Harvard Law School, where he teaches Digital Governance and Cybersecurity.
“I’m thrilled to take on this role and continue working to advance responsible data practices and safeguard individual privacy rights,” Raul said. “By leveraging my experience in advising global compliance programs and navigating complex regulatory landscapes, I hope I can contribute meaningful insights to the Board of Directors and effectively guide the direction of FPF’s work as we continue to grow globally as well as meet the new challenges and opportunities in the era of Artificial Intelligence.”
Olivier Sylvain and George Little also join FPF’s Board of Directors as two new members to serve. Sylvain is a Professor of Law at Fordham University and a Senior Policy Research Fellow at Columbia University’s Knight First Amendment Institute, where his research has focused on information and communications law and policy. Sylvain served as Senior Advisor to the Chair of the Federal Trade Commission from 2021 to 2023. Little is a partner at the Brunswick Group specializing in crisis communications, cybersecurity, reputational, and public affairs matters. Little co-chairs the firm’s Global Cybersecurity, Data & Privacy Practice, pulling from his experience working in the highest levels of the national security and defense community and the private sector.
Sylvain and Little join the ranks of recently named board members, including Tom Moore, recently retired as AT&T’s chief privacy officer; Jane Horvath, partner at Gibson, Dunn & Crutcher, LLP and former Chief Privacy Officer of Apple; and Theodore Christakis, Professor of International, European and Digital Law at University Grenoble Alpes (France), Director of the Centre for International Security and European Law (CESICE), and Director of Research for Europe with the Cross-Border Data Forum. FPF’s distinguished new Directors join other privacy luminaries on our Board of Directors – namely, Anita Allen, Debra Berlin, Danielle Citron, Mary Culnan, David Hoffman, Agnes Bundy Scanlan, and Dale Skivington.
“It’s been a pleasure getting to work with Chris Wolf and seeing the vision we had for FPF as a hub for privacy education and research develop over the years and grow into the leading institution it is today,” said Jules Polonetsky, CEO of FPF. “I am confident in Alan’s ability to lead the board to greater heights and continue informing the organization’s future work.”
Composed of leaders from industry, academia, and civil society, the input of FPF’s Board of Directors ensures that FPF’s work is expert-driven and independent of any stakeholders.
About Future of Privacy Forum (FPF)
The Future of Privacy Forum (FPF) is a global non-profit organization that brings together academics, civil society, government officials, and industry to evaluate the societal, policy, and legal implications of data use, identify the risks and develop appropriate protections. FPF believes technology and data can benefit society and improve lives if the right laws, policies, and rules are in place. FPF has offices in Washington D.C., Brussels, Singapore, and Tel Aviv. Follow FPF on X and LinkedIn.
Per la resurrezione non temiamo il futuro
Invece è la potenza di Dio in azione, che ci mostra come Egli non sia dalla parte dei poteri di morte di questo mondo, che Egli è veramente il Creatore e sostenitore di questo Creato.
Ecco, è la resurrezione di Gesù Cristo che apre al futuro, all’azione, al non rassegnarsi, ad aprire una pagina nuova anche in questo tempo così caotico e senza buone prospettive. E dunque noi annunciamo il Vivente, Colui che era che è e che viene, per parlare di speranza a chi teme il futuro, di giustizia a chi soffre l’ingiustizia, per annunciare verità e vita a chi è nella sofferenza e nel dolore.
pastore D'Archino - Per la resurrezione non temiamo il futuro
Il testo della predicazione di questa domenica di Pasqua, non riguarda direttamente la resurrezione, ma la potenza di vita del nostro Signore. Si trova nell’Antico Testamento in I Samuele. Vi è Ann…pastore D'Archino
Examining Novel Advertising Solutions: A Proposed Risk-Utility Framework
This week, the Future of Privacy Forum released Advertising in the Age of Data Protection: Background for a Proposed Risk-Utility Framework for Novel Advertising Solutions (v 1.0), which will be open for Public Comment until May 26, 2024.
- Download the Proposed Risk-Utility Framework HERE
- FPF welcomes public comments until May 26, 2024
The digital advertising industry is in the midst of a sea change. Around the world, privacy regulators have become far more critical of mainstream advertising business models. Both lawmakers and enforcers of existing laws are now more focused on strengthening individual privacy rights and specifically preventing many of the harms associated with the use of personal information in advertising. Meanwhile, large platforms such as Apple, Google, and Microsoft have taken significant steps in recent years to limit access to advertising-related data about their users through efforts like App Tracking Transparency (ATT), Intelligent Tracking Prevention (ITP), and an ongoing process to deprecate third party cookies in Google Chrome. Each change has ripple effects throughout the economy, changing the way advertisers do business and often impacting other social values.
In reaction to these regulatory and platform pressures, businesses are actively seeking new tools and solutions to maintain identity and addressability, or to provide greater privacy safeguards, ideally (in their view) doing so while sustaining as much business utility as possible. Many solutions involve privacy-enhancing technologies (PETs), while others involve a significant shift in business models, such as a return to contextual advertising, the use of solely first-party data, or a shift to client-side processing.
The goal of this Risk-Utility Framework and its associated Background (“Advertising in the Age of Data Protection”) is to provide a comprehensive rubric for navigating the many tradeoffs inherent in the evolving digital advertising landscape and the technology it is built upon. We do not assign values to each aspect of utility, risk, or social impact, but rather aim to holistically identify the many factors relevant for a policymaker or privacy leader to evaluate the impact of a given digital advertising proposal, solution, or system.
Download the Risk-Utility Framework HERE.
Perché molti civili palestinesi muoiono nonostante la precisione degli attacchi israeliani? Quanti ne stanno effettivamente morendo secondo fonti attendibili?
precisione? ma se gli israeliani hanno ucciso essi stessi degli ostaggi… come minimo se lo scopo era recuperare gli ostaggi hanno scelto le forze sbagliate… ma sappiamo tutti che l'attacco palestinese era previsto, la reazione deliberata, e che è tutto programmato da 50 anni. lo scopo è non dover rimanere nei confini assegnati dall'onu nel 1948. e in pratica togliere ai palestinesi anche il resto della terra che ancora hanno. allo stato di israele non servono relazioni normalizzate con i palestinesi perché impedirebbero loro ulteriori espansioni. la terra che hanno avuto non basta loro e comunque non sono disposti a condividerla con chi adesso ci vive. per loro era tutta di diritto loro.. si fotta l'ONU. Neppure l'onu ha accesso alle zone "contese", e questo significa che dovrebbe bastare la parola israeliana per dirti quello che avviene li da 50 anni.
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io non ho *mai* ricevuto nessun messaggio #ITalert
intorno a me è stato tutto uno squillare, in almeno due occasioni, in ufficio. Nonostante gli abbondanti preavvisi, questo squillo generalizzato ha sempre finito per creare anche un po' di allarme.
Io mi sono però allarmato per il motivo opposto: non ho mai ricevuto nessuno dei messaggi di test. Tra la prima e la seconda occasione ho anche cambiato operatore. Possibile che il mio cellulare non sia, per qualche motivo, "compatibile"? Esiste un modo per essere certi che lo riceverò anch'io, nel caso non si tratti di un test ma di un'emergenza reale?
eh, un po' sì
comunque vorrei capire un po' meglio come funziona
nel sito istituzionale leggo che
Sebbene non sia necessario scaricare alcuna App per ricevere i messaggi IT-alert, in alcuni casi potrebbe essere necessaria una preventiva verifica della configurazione del dispositivo come nel caso sia stato effettuato il ripristino di un back up o se si sta utilizzando una vecchia versione del sistema operativo.
La "verifica della configurazione" è esattamente quella che vorrei fare, se fosse chiarito anche cosa andrebbe verificato 😅
🕊️ Il #MIM augura buona Pasqua a tutte e tutti!
🎨 I nostri auguri di quest'anno sono realizzati insieme alle bambine e ai bambini della Scuola Primaria G. Falcone di Taranto, dell’I.C. di Casteggio in provincia di Pavia e dell’I.C. W. A.
Ministero dell'Istruzione
🕊️ Il #MIM augura buona Pasqua a tutte e tutti! 🎨 I nostri auguri di quest'anno sono realizzati insieme alle bambine e ai bambini della Scuola Primaria G. Falcone di Taranto, dell’I.C. di Casteggio in provincia di Pavia e dell’I.C. W. A.Telegram
Quattro italiani su dieci rinunciano a curarsi. Siamo alla sanità “per censo” l Contropiano
"Attualmente, già il 42% dei cittadini meno abbienti è costretto a rinunciare alle cure poichè, non riuscendo ad ottenerle nell’ambito del sistema pubblico, non ha i mezzi per rivolgersi alla sanità a pagamento. Anche le fasce economicamente più deboli sono spinte verso il privato non avendo accesso al Servizio Sanitario Nazionale a causa delle lunghe liste di attesa."
huginn
in reply to Poliverso - notizie dal Fediverso ⁂ • • •Fatto
Grazie di tutto ❤
suoko
in reply to Poliverso - notizie dal Fediverso ⁂ • • •Non ci sarebbero commissioni per nessuno con gli importi bassi.
Se lo abilitate arrivo anche io
Poliverso - notizie dal Fediverso ⁂
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skariko
in reply to suoko • • •ciao intanto grazie anche solo per il pensiero 😀
È da un po' che sto pensando/provando a permettere anche l'utilizzo di Satispay ma non sono ancora riuscito a capire con certezza se viene mostrato anche il numero di telefono o meno (non sarebbe il massimo sinceramente) tra i non-contatti.
Se hai voglia di fare tu per primo una prova posso girarti in privato il codice QR per la donazione cosi puoi dirmi se e quali dati personali vengono condivisi pubblicamente cioè se oltre al mio, immagino nome e foto, vedi anche il numero di telefono. Fammi sapere in caso!
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suoko
in reply to skariko • • •L'opzione negozio/donazioni l'hai vista?
support.satispay.com/it/articl…
Satispay Help Center
support.satispay.comskariko
in reply to suoko • • •suoko
in reply to skariko • • •skariko
in reply to suoko • • •Moonrise2473
in reply to suoko • • •Per le transazioni web prendono il 1.50% di commissioni che è superiore a quello che prende stripe per le carte di credito, e a quel punto uno può usare quello (viene usato stripe su libera pay)
Noi l'abbiamo tolto dal nostro e-commerce perché pensano di fare un favore a bonificare l'importo immediatamente invece dovrebbero fare come stripe e mandare il tutto una volta a settimana che se il cliente chiede il reso non c'è il costo del bonifico in uscita
E poi la dashboard è grezza da morire, non puoi nemmeno effettuare uno storno ma devi aprire un ticket con l'assistenza ogni volta che c'è un reso parziale o totale
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suoko
in reply to skariko • • •Purtroppo il numero di telefono credo sia d'obbligo, non esiste un @nick da poter usare.
Cmq meglio di PayPal, dato che lì anche se puoi usare un Nick, dopo vedi nome e cognome in chiaro
skariko
in reply to suoko • • •suoko
in reply to skariko • • •Per me sinceramente un numero di telefono vale quanto un nickname se non meno (se non proprio nulla).
L'era dei ladri via dcb è finita da tempo.
skariko
in reply to suoko • • •suoko
in reply to skariko • • •lgsp@feddit.it
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Poliverso - notizie dal Fediverso ⁂
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huginn
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