Fr.#16 / Un chip per pagare il caffè
Altro che contanti
Qualche giorno fa alcune testate giornalistiche hanno riportato la notizia di un chirurgo plastico che insieme a un’azienda di Zugo ha iniziato a impiantare chip sottocutanei per transazioni contactless col palmo della mano. In realtà non mi stupisce più di tanto — già ad aprile uscì la notizia di un uomo nei Paesi Bassi che aveva scelto di impiantarsi un chip di questo tipo.
Cercando un po’ online si possono trovare facilmente aziende che offrono questo tipo di servizio, che pare sia sempre più di moda. La procedura è semplice: acquista il chip, scarica l’app e collega il tuo chip, trova un chirurgo che possa impiantarlo.
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Dal sito di un’azienda specializzata chiamata Walletmor
Dal sito di un’azienda scopro che l’app è essenziale al funzionamento del chip. Oltre ad essere necessaria all’attivazione del chip, lo è anche per l’identificazione della persona e per l’acquisizione e trasmissione di tutti i dati relativi alle transazioni.
Il motivo è chiaro: il chip non è connesso con i network di pagamento, né con la banca —per processare la transazione serve un intermediario che possa trasmettere i dati ai vari soggetti della filiera.
Il funzionamento è quindi simile ai vari intermediari di pagamento tipo
PayPal o Stripe, dove l’utente può salvare le sue carte di pagamento. Anche i problemi sono simili: aumentano gli intermediari, aumenta la diffusione di dati personali, diminuisce la privacy e la sicurezza dei dati. L’azienda che ho preso come esempio ci tiene a sottolineare che utilizzano i più elevati standard di sicurezza di settore, ma come al solito è una questione di fiducia e di superficie di rischio: più aumentano gli intermediari, più aumenta il rischio.
C’è poi un altro problema: il chip funziona sono con l’app del produttore. Se l’azienda fallisce, che si fa? Temo che l’unica soluzione sarebbe un altro intervento chirurgico e la sostituzione fisica del chip.
Insomma non mi sembra una grandissima idea quella di vincolarsi fisicamente a un’azienda del genere. Il chip fa molto cyberpunk ma non credo sia questa la strada giusta. Piuttosto, mi sembra una trovata per spillare soldi a persone che non hanno cognizione del mondo che li circonda. A Milano farebbe successo.
E tu, lo faresti?
Fatemi sapere nei commenti cosa ne pensate sul tema, sono curioso! Sarebbe possibile uno strumento del genere, ma con collegamento a wallet Bitcoin?
Meme del giorno
Citazione del giorno
“When plunder becomes a way of life for a group of men in a society, over the course of time they create for themselves a legal system that authorizes it and a moral code that glorifies it.”
Frédéric Bastiat
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2 days ago · 6 likes · Matte | mrk4m1
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Libertà svelata
Non si fanno ammazzare per potere scoprire una ciocca di capelli. Accettano di mettere in gioco la propria vita pur di non rinunciare a quel che dalla vita non è separabile: la libertà. Compresa quella, per noi banale e per loro epocale, di scoprire una ciocca di capelli. Aggredendo l’Ucraina il criminale Putin ha aggredito il mondo libero, le democrazie, l’ordine mondiale. Non abbiamo altra scelta che essere dalla parte degli ucraini, perché loro sono parte stessa di noi. Arrestando, torturando, aprendo il fuoco contro chi non rinuncia alla libertà la teocrazia iraniana aggredisce l’umanità stessa.
Se scegliessimo di guardare altrove, di solidarizzare in modo distratto, se fossimo incapaci di cogliere il valore ideale di quello scontro, dimostreremmo di non capire che si sta reprimendo non la libertà di alcuni, ma quella di tutti. Perché la libertà è universale. Può essere conculcata con la violenza, ma è peggio se viene abbandonata. Se abbandonassimo gli iraniani in rivolta abbandoneremmo noi stessi.
Poi, certo, c’è da usare il realismo, da considerare gli equilibri dell’area e non ultimi quelli interni al mondo islamico. Considerate anche queste cose si aggiunge che la dittatura teocratica non si limita ad affliggere il proprio popolo, ma si propone di cancellare Israele dalla carta geografica, insegue l’arma atomica e fornisce droni assassini all’armata russa. Peggio, quindi.
Un buon numero di persone, fra noi occidentali, fra noi che viviamo nella parte più ricca e libera del mondo, ha preso gusto nel considerarci colpevoli di tutto. Siamo colpevoli per il passato, come se avessimo inventato il colonialismo e lo schiavismo (semmai abbiamo creato le istituzioni che li combattono). Siamo colpevoli se portiamo le nostre armi a presidio della convivenza, ma siamo colpevoli anche se le ritiriamo. Siamo colpevoli se in Afghanistan imponiamo il rispetto delle donne e siamo colpevoli se smettiamo di farlo. Siamo colpevoli per come parliamo, per il vocabolario che usiamo, per le continue offese che arrechiamo a tante sensibilità che abbiamo anche la colpa di non sapere o anche solo immaginare che potessero esistere.
E mentre questo circo della colpa manda in pista i numeri più avvincenti e divertenti, finiamo con il macchiarci della colpa più seria: non accorgersi che tutti gli uomini liberi vorrebbero vivere come da noi. Perché nella nostra fortunata e preziosa imperfezione, nel nostro non cedere all’incubo dei sistemi perfetti, sta il nostro essere migliori.
Fra noi ci sono quelli che pur di non fare i conti con il padre che hanno sono pronti a innamorarsi e difendere lo zio pazzo e assassino, che ci descrive come tutti in preda alla lussuria omosessuale. Che se fosse vero sarebbe anche sollazzevole, non fosse che l’accusa stessa, nella sua strampalata minchioneria, è segno di un onanismo dittatoriale incapace di giungere ad altro compimento che non sia la distruzione di quelli che si invidiano.
Fra noi ci sono quelli che al sorgere di qualsiasi integralismo sono già pronti a descriversi come soccombenti, sopraffatti, perdenti. Ma guardate in giro per il mondo, osservate le brache dei giovani, orecchiate quel che hanno in cuffia, osservate quel che guardano negli smartphone (e lo smartphone): è il nostro modello ad attrarre. A qualcuno ricorderà l’“omologazione” di pasoliniana memoria, a me ricorda che il costume della libertà globale è migliore della miseria autarchica.
Non possiamo dichiarare guerra alle ingiustizie del mondo. Sarebbe già apprezzabile cancellassimo le nostre. Non siamo colpevoli per ogni libertà negata, da altri. Lo saremmo se ne ce dimenticassimo, se considerassimo un “popolo” inadatto alla libertà o meno afflitto dal dispotismo. Anche perché useremmo “popolo” per imbrogliarci, visto che si tratta di “individui” e nessuno, di qualsiasi fede, può mai rinunciare alla libertà.
In Ucraina ci stanno sparando. Ci stanno sparando anche in Iran. Non c’è nulla da rispettare in chi spara contro la libertà. Ma è deprecabile anche chi non lo condanna.
L'articolo Libertà svelata proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
SIRIA. Il narcos napoletano Bruno Carbone e la normalizzazione di Al Qaeda
di Michele Giorgio –
Pagine Esteri, 21 novembre – Intriga i media arabi la vicenda di Bruno Carbone, narcotrafficante originario di Giugliano, in Campania. Camorrista, latitante da quasi venti anni, a capo di una rete internazionale di spaccio di stupefacenti, Carbone sarebbe stato catturato nell’aeroporto di Dubai, negli Emirati, e subito estradato in Italia. Questa almeno è la versione delle autorità di Roma. Il ministro della giustizia Carlo Nordio ha anche ringraziato gli Emirati: «Questo ennesimo arresto testimonia un consolidamento dei rapporti di cooperazione giudiziaria tra Italia ed Emirati arabi uniti. Negli ultimi tempi questi rapporti – anche grazie agli accordi bilaterali in vigore – si sono notevolmente intensificati. Per questo nuovo slancio, vorrei ringraziare il mio omologo emiratino Abdallah al Nouaimi». Carbone, che manteneva rapporti diretti con i narcos colombiani, avrebbe trascorso gran parte della latitanza a Dubai dove peraltro è stato arrestato nel 2021 il suo socio e boss Raffaele Imperiale.
L’accaduto non sembra così chiaro come vorrebbero farlo apparire le autorità italiane. Sui media arabi continuano a riferire, con nuovi particolari, un’altra versione dei fatti, quella di Ha’ayat Tahrir al Sham (Hts), ossia l’ex Fronte al Nusra, il bracco siriano di Al Qaeda negli elenchi internazionali delle organizzazioni terroristiche, responsabile negli anni della guerra in Siria di atrocità a danno di civili, soldati dell’esercito regolare di Damasco e anche di militanti di organizzazioni politiche e militari legate alle varie espressioni dell’opposizione siriana. Nei mesi scorsi Hts ha tentato di fare piazza pulita del cosiddetto Esercito siriano libero, la milizia finanziata dalla Turchia, nella provincia siriana di Idlib, la porzione di territorio siriano che, nel silenzio di Usa ed Europa, il gruppo legato ad Al Qaeda, tiene in gran parte sotto il suo controllo «amministrativo». Se la versione non ufficiale della cattura di Carbone fosse confermata si tratterebbe della prima estradizione nota avvenuta tra un gruppo terroristico e uno Stato occidentale.
Alcuni giornali arabi riferiscono maggiori particolari rispetto a quanto apparso sui media italiani. Poco dopo l’annuncio delle autorità italiane di qualche giorno fa, sul suo account Telegram la sicurezza di Hts ha comunicato di aver arrestato «uno dei più grandi narcotrafficanti del mondo». Ha spiegato che Carbone avrebbe lasciato l’Europa per la Turchia fingendosi cittadino russo, quindi è entrato nella Siria nordoccidentale dove sarebbe stato arrestato lo scorso marzo a Kaftin. Il narcotrafficante sarebbe stato «interrogato per mesi» dagli uomini del «ministero dell’interno» del «governo di salvezza» messo in piedi da Hts a Idlib, prima di essere «consegnato alle autorità del suo paese, con la mediazione turca». Carbone, scrive il libaneseL’Orient Le Joursi sarebbe presentato ai miliziani siriani come un messicano in fuga dal suo paese per aver gestito un traffico di orologi di lusso. A sostegno della sua versione, Hts ha diffuso una foto del ministro dell’interno del governo di salvezza, Mohammad Abdel Rahman, mentre legge il comunicato stampa con accanto la foto di Carbone che indossa la maglia da galeotto a righe.
Il resoconto di Hts non è così inverosimile. Tenendo conto degli accordi tra Roma e Dubai, Carbone potrebbe aver pensato di trasferirsi temporaneamente in territorio siriano, luogo giusto dove far perdere le sue tracce per un po’ ed evitare l’arresto. Poco credibile è invece la spiegazione data da una parte dei media arabi sull’interesse di Carbone per il Tramadol e Captagon, i farmaci antidolorifici largamente usati come stupefacenti in diversi paesi del Medio oriente. Un narcotrafficante di alto livello come il camorrista di Giugliano difficilmente può provare interesse per traffici poco redditizi rispetto a quello della cocaina. Quello che è certo è che il leader di Hts, Abu Mohammad al Jolani, sta provando in tutti i modi ad avviare rapporti amichevoli con l’Occidente. L’anno scorso è apparso più volte accanto al giornalista americano Martin Smith. E se fosse vera la sua versione dell’estradizione di Carbone, vorrebbe dire che al Qaeda comincia ad essere normalizzata, almeno il suo ramo siriano.
L'articolo SIRIA. Il narcos napoletano Bruno Carbone e la normalizzazione di Al Qaeda proviene da Pagine Esteri.
Non esiste democrazia senza lavoro
"In definitiva, oggi, mentre leggete queste parole, in Italia è tollerato il furto di lavoro, il furto di ciò che serve ovviamente per guadagnarsi da vivere, ma non solo: serve per guadagnarsi la propria stessa libertà e la propria dignità (l’art. 36 della Costituzione infatti recita: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa»). Un contesto di questo tipo, assai intuibilmente, rende praticamente impossibile la partecipazione democratica delle persone con gravi ricadute in termini di democrazia costituzionale. Non solo, per inciso è bene precisare che questo contesto rende praticamente inattuabili molte altre regole in materia di lavoro, prime fra tutte quelle relative a salute e sicurezza sui luoghi di lavoro."
Il paese delle armi. Falsi miti, zone grigie e lobby nell’Italia armata
Questo libro affronta il tema della produzione, del commercio e dell’uso delle armi “comuni” nel nostro Paese: demolisce falsi miti, fa luce su zone
magozine.it/il-paese-delle-arm…
#Recensionilibri #armi #Beretta #Fiocchi #Italia #lobby #omicidio #patriarcato
Mondiali in Qatar, Hrw chiede un risarcimento per i lavoratori
di Michele Giorgio* –
Pagine Esteri, 18 novembre 2022 – Non solo proteste e articoli di stampa. Chiedono un risarcimento alla FIFA e al Qatar i lavoratori migranti, in gran parte asiatici, che con litri di sudore e la forza delle braccia hanno costruito gli stadi e le infrastrutture che ospiteranno da domenica i Mondiali. Altrettando reclamano le famiglie delle migliaia di manovali morti sul lavoro. A farsi carico di questa richiesta è Human rights watch (Hrw) che ieri ha presentato un video in cui parlano soprattutto lavoratori e tifosi del Nepal, paese dal quale sono partiti migliaia di uomini attirati in Qatar dalla possibilità di percepire un salario e mantenere le loro famiglie in patria. Ottenere quel risarcimento sarà faticoso, come il lavoro di 12 anni che è stato necessario per dotare il piccolo ma ricco regno del Qatar degli impianti sportivi che ospitano il Mondiale.
Hrw spiega che se i regnanti di Doha, dopo proteste e denunce, hanno istituito un fondo per risarcire, anche se solo una parte, delle famiglie dei morti sul lavoro e gli operai che non sono stati retribuiti dalle imprese di costruzioni, al contrario la FIFA ha ignorato i problemi legati all’organizzazione del Mondiale in un paese che pure è noto per le violazioni dei diritti umani e dei diritti dei lavoratori stranieri. Eppure, sottolinea il centro per i diritti umani, la Federazione mondiale del gioco del calcio si prepara ad incassare miliardi dal torneo che prende il via il 20 novembre. «La strategia della FIFA di seppellire la testa sotto la sabbia e di guadagnare tempo, sperando che l’entusiasmo per il gioco offuschi le violazioni dei diritti umani, è destinata a fallire», prevede Rothna Begum, ricercatrice di Human Rights Watch.
Il costo in vite umane e lo sfruttamento dei lavoratori rendono unica la Coppa del Mondo 2022 in Qatar. Sarebbero almeno 6500 i morti secondo una inchiesta pubblicata all’inizio dello scorso anno dal quotidiano britannico The Guardian. Amnesty International parla addirittura di 15mila decessi tra il 2010 e il 2019. Senza dimenticare gli infortuni, gli infarti, i suicidi e le malattie sviluppate dai lavoratori una volta tornati a casa. Le autorità qatariote ne sono consapevoli e con ogni probabilità hanno raccolto molti dati in questi anni. Ma preferiscono, per motivi di immagine, parlare di poche decine di vittime. Sono convinte che lo sportwashing – di cui fanno uso un po’ tutte le petromonarchie del Golfo – e i gol che segneranno le stelle vecchie e nuove del calcio mondiale faranno dimenticare presto le polemiche che circondano da anni questa edizione della Coppa del Mondo.
Non tutti dimenticheranno. Per gli appassionati di calcio nepalesi le emozioni andranno ben oltre la gioia di guardare le partite. La realtà sportiva si intreccia con i sacrifici che hanno fatto tanti nepalesi partiti per il Qatar per guadagnare poche centinaia di dollari al mese lavorando per gran parte dell’anno in condizioni estreme. Manovali che non hanno goduto dell’aria condizionata, di cui si parla tanto, che hanno installato negli stadi di ultima generazione sorti dove prima non c’era nulla. Nel video diffuso da Hrw parla Hari, un operaio che per 14 anni ha lavorato in diversi cantieri, tra cui lo stadio Al Janoub. Hari ricorda che l’area di Lusail a Doha era vuota quando è arrivato in Qatar: ora è piena di torri. «Abbiamo costruito noi quelle torri», dice perentorio. Ricorda di aver lasciato il Nepal quando suo figlio aveva solo 6 mesi e di averlo visto solo cinque volte in 14 anni. «Mio figlio non mi ha riconosciuto quando sono tornato in Nepal la prima volta». In quei 14 anni di distanza dalla famiglia Hari invece ha visto e contribuito alla trasformazione del Qatar. Ram Pukar Sahani, un altro nepalese, dice di aver saputo non dalle autorità di Doha ma da un amico della morte di suo padre operaio in un cantiere qatariota. Non ha mai ricevuto un risarcimento perché secondo i medici è stata una «morte naturale» dovuta a una insufficienza cardiaca. La diagnosi della morte naturale è il pretesto che più di frequente il Qatar ha usato per negare il risarcimento alle famiglie dei lavoratori stranieri deceduti. Le temperature vicine ai 50 gradi in cui i manovali erano costretti a lavorare non sono state considerate valide dalle autorità per spiegare quelle «morti naturali».
Le proteste internazionali hanno spinto Doha ad avviare alcune riforme del lavoro e della kafala, il sistema di reclutamento in uso in molti paesi del Medio oriente che permette ai datori di lavoro di tenere i manovali stranieri in uno stato di semi schiavitù. Tanti però non ne hanno beneficiato. Quei lavoratori sfruttati, abusati e spesso non retribuiti, insiste Hrw, hanno diritto almeno a un risarcimento finanziario dal Qatar e dalla FIFA. Pagine Esteri
*Questo articolo è stato pubblicato in origine dal quotidiano Il Manifesto
ilmanifesto.it/mondiali-in-qat…
L'articolo Mondiali in Qatar, Hrw chiede un risarcimento per i lavoratori proviene da Pagine Esteri.
Alaa sospende lo sciopero della sete ma continua la lotta contro il regime di El Sisi
di Valeria Cagnazzo –
Pagine Esteri, 15 novembre 2022 – Ha interrotto lo sciopero della sete il prigioniero egiziano Alaa Abd El-Fattah, che aveva smesso di bere il 6 novembre scorso, data dell’inaugurazione della COP27 nel suo Paese, dove il potere a dir poco autoritario del presidente Abdel Fattah El Sisi ha portato in carcere migliaia di prigionieri politici e dissidenti. Lo hanno reso noto sui loro account social le sue sorelle, Mona e Sanaa Seif. “Sono così sollevata”, ha scritto Mona, “Abbiamo appena ricevuto una lettera dalla prigione indirizzata a mia madre, Alaa è vivo, dice che sta bevendo di nuovo acqua dal 12 novembre scorso. E’ assolutamente la sua calligrafia. Una prova di vita, quantomeno. Perché ce l’hanno tenuta nascosta per 2 giorni?”.
I’m so relieved. We just got a note from prison to my mother, Alaa is alive, he says he’s drinking water again as of November 12th. He says he’ll say more as soon as he can. It’s definitely his handwriting. Proof of life, at last.
Why did they hold this back from us for 2 days?!— Sanaa (@sana2) November 14, 2022
La sorella fa riferimento alla lettera del fratello, pubblicata poco dopo online, nella quale Alaa Abd El-Fattah, che nei giorni scorsi era stato condotto in ospedale per un peggioramento delle condizioni cliniche, scrive alla madre: “Da oggi ritorno a bere, così puoi smettere di preoccuparti per me finché non mi vedrai con i tuoi occhi. I parametri vitali sono nella norma. Li sto misurando regolarmente e sto ricevendo cure mediche”.
This is the letter Alaa’s mother received at the prison gates today. It’s dated two days ago. This is all we have. #FreeAlaa #COP27 pic.twitter.com/UXxwoV9gpf— Free Alaa (@FreedomForAlaa) November 14, 2022
Nonostante gli sia stato permesso di inoltrare questa lettera “breve” – promette che ne arriverà una più lunga – né ai familiari né al suo avvocato è stato concesso di fargli visita. “Semplicemente non permetteranno a nessuno di vederlo e appurare il chiaro impatto di un lungo sciopero della fame sul corpo di Alaa”, ha denunciato sua sorella Mona, “(Le autorità egiziane, ndr) vogliono che resti in piedi la loro narrativa: che Alaa non è in sciopero della fame e che la sua famiglia sta mentendo”.
SUL CASO DI ALAA ABD EL FATTAH E LA COP27 VI INVITIAMO A LEGGERE L’ARTICOLO PUBBLICATO L’8 NOVEMBRE
di Valeria Cagnazzo –
Pagine Esteri, 8 novembre 2022 – È iniziata il 6 novembre a Sharm el-Sheikh, in Egitto, la ventisettesima COP, la Conferenza delle parti dell’United Nations climate change conference (COP27), che dovrebbe portare all’attuazione dell’Accordo di Parigi per l’emergenza ambientale. Una COP basata sui fatti e sulla pianificazione di strategie energetiche e ambientali da realizzare subito nei Paesi aderenti, questa la speranza del direttore esecutivo, Simon Stiell, che ha dichiarato: “Con il regolamento di Parigi sostanzialmente concluso grazie alla COP26 di Glasgow dello scorso anno, la cartina di tornasole di questa e di ogni futura COP è quanto le deliberazioni siano accompagnate dall’azione. Tutti, ogni singolo giorno, ovunque nel mondo, tutti devono fare tutto il possibile per evitare la crisi climatica”. Gli ha fatto eco il presidente della COP27, il ministro degli esteri egiziano Sameh Shoukry: “La COP27 deve essere ricordata come la “COP dell’attuazione”, quella in cui ripristiniamo il grande consenso che è al centro dell’accordo di Parigi”. Ha, inoltre, sottolineato le catastrofiche conseguenze di un’”inazione miope” di fronte agli effetti del cambiamento climatico ed esortato ad agire immediatamente, nonostante le sfide geopolitiche e le difficoltà economiche dell’attuale periodo storico. Le sfide ambientali non sono senza dubbio meno importanti di altre, per quanto si sia arrivati alla ventisettesima assemblea delle Nazioni Unite per ribadirsi ancora una volta, sempre a parole, l’importanza di inserire la questione climatica nelle rispettive agende di governo.
La catastrofe ambientale nel frattempo ha raggiunto proporzioni spaventose e le sue conseguenze stanno “finalmente” – in francese “finelment” significa alla fine, ma si può leggere anche nell’accezione italiana, perché forse è vero che era necessario toccarle con mano – letteralmente bussando alle nostre porte. Se non si era mai avuto un ottobre così caldo, infatti, è perché il livello dei gas serra nell’atmosfera continua ogni anno a superare i record precedenti. La temperatura media del 2022, rivela il rapporto “Stato del clima globale nel 2022” dell’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo) diffuso in apertura della COP27, è di 1,15 gradi sopra ai livelli pre-industriali.
Gli effetti sono la desertificazione, lo scioglimento dei ghiacciai, inondazioni e alluvioni distruttive per gli insediamenti umani in tutto il mondo. A causa della siccità, milioni di persone nel 2022 sono state condannate alla malnutrizione, milioni sono state costrette a emigrare da aree desertificate o inondate, decine di migliaia sono state uccise da catastrofi climatiche. Il caldo, inoltre, favorisce la diffusione delle malattie e la proliferazione degli agenti patogeni. Secondo l’OMS, ogni anno, tra il 2030 e il 2050, ci saranno circa 250.000 morti in più per malnutrizione, diarrea, malaria e stress da caldo. A registrare le conseguenze più drammatiche per la vita umana sono i Paesi in via di sviluppo. Per questo motivo, tra i temi in cima all’ordine del giorno della COP27, che si concluderà il 18 novembre, dovrebbero esserci dei progetti di finanziamento e risarcimento per i Paesi più poveri, i meno inquinanti ma i più colpiti dall’inquinamento prodotto dai Paesi più industrializzati. Secondo molti attivisti, tuttavia, si tratterebbe di uno dei punti che incontrerà più ostilità alla sua effettiva attuazione nella “COP dei fatti”. A questo proposito, il Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, nel suo discorso di apertura, ha chiesto ai governi di tassare i profitti delle compagnie di combustibili fossili e di reindirizzare quel denaro ai Paesi in via di sviluppo, dove la popolazione piange le sue perdite a causa del cambiamento climatico. Il progetto dell’ONU si chiama “Primo allarme per tutti”, e dovrebbe raccogliere almeno 3,1 miliardi di dollari dai Paesi aderenti, al momento 50, tra il 2023 e il 2027. Da Sharm el-Sheikh, inoltre, il premier spagnolo Pedro Sánchez ha annunciato che la Spagna metterà a disposizione “un capitale iniziale di 5 milioni di euro” per il clima e la cooperazione multilaterale. Ursula von der Leyen ha promesso che la Commissione europea stanzierà un miliardo di euro per salvare le foreste. L’ex vice-presidente americano Al Gore ha ventilato il rischio di un miliardo di migranti economici in Occidente e delle conseguenze sociali, in termini di xenofobia e tensione, che questi potrebbero provocare. Grandi assenti, Cina e Russia. Tra i partecipanti all’assemblea dedicata a un impegno contro il clima che mette in prima linea le donne e le giovani generazioni, anche rappresentanti di regimi autoritari e restrittivi sui diritti umani. Tra i volti approdati a Sharm el Sheikh, anche il principe saudita Mohammed Bin Salman.
Anche Giorgia Meloni, in rappresentanza dell’Italia nel suo primo viaggio come primo ministro, accompagnata da Pichetto Fratin, ministro dell’ambiente, ha raggiunto la destinazione esotica della COP. Il primo incontro ufficiale quello con il Presidente Al Sisi, durante il quale, oltre ai temi di materia ecologica, i due leader sembrano aver definitivamente disteso le relazioni tra i rispettivi Paesi, incrinatesi dopo il rapimento e l’omicidio brutale compiuto dai servizi di sicurezza egiziani di Giulio Regeni, per discutere di forniture di gas, cooperazione industriale e collaborazione nel respingimento dei migranti nel Mediterraneo.
Sempre il 6 novembre scorso, mentre veniva inaugurata la COP27, non troppo lontano dalle sontuose sale della conferenza adibite per ospitare i leader mondiali, in un carcere egiziano succedeva qualcos’altro. Alaa Abd El Fattah iniziava lo sciopero della sete. L’informatico e attivista in carcere per la sua partecipazione alle manifestazioni della primavera araba, dopo 218 giorni di sciopero della fame il 6 novembre ha annunciato che avrebbe rinunciato anche all’acqua. Una decisione durissima in segno di protesta contro il suo arresto illegale e contro quello di migliaia di detenuti delle prigioni egiziane per reati di opinione (ne avevamo parlato qui), proprio in occasione del più importante evento sul clima che riunisce i rappresentanti di quasi tutto il mondo nel Paese che li detiene ingiustamente.
Dell’incompatibilità di un evento internazionale sull’ambiente con un sistema dittatoriale, che reprime con torture e arresti qualsiasi forma di dissenso, si erano accorti in molti, nei mesi scorsi, e non solo attivisti come Naomi Klein. In una lettera pubblicata mercoledì scorso, quindici premi Nobel hanno chiesto che in occasione della COP27 gli Stati chiedano libertà per Alaa Abd El Fattah e gli altri prigionieri politici egiziani. A firmare la lettera, indirizzata a diversi capi di Stato, Svetlana Alexievich, J. M. Coetzee, Annie Ernaux, Louise Gluck, Abdulrazak Gurnah, Kazuo Ishiguro, Elfriede Jelinek, Mario Vargas Llosa, Patrick Modiano, Herta Muller, Orhan Pamuk, Roger Penrose, George Smith, Wole Soyinka, and Olga Tokarczuk. Nel loro appello si legge “La voce potente di Alaa Abd El Fattah per la democrazia è vicina ad essere estinta, vi chiediamo di rifarle fiato leggendo le sue parole”. Ai premi Nobel, si sono uniti in questi giorni intellettuali e scrittori da tutto il mondo.
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Nel video, la scrittrice Arundhati Roy che aderisce all’appello #FreeAlaa Da Amnesty International, Greenpeace a diversi attivisti contro il cambiamento climatico hanno denunciato l’ipocrisia epocale di questo evento. Prima tra tutti Greta Thumberg, che non ha accettato che la conferenza climatica venga ospitata in un Paese dittatoriale che uccide gli attivisti per i diritti umani. Non parteciperà, quindi, alla COP27, neanche per gridare in faccia ai potenti che lì fanno solo “blah blah blah”, come aveva fatto un anno fa. Quest’anno, con la COP27 faranno qualcosa di peggiore: Thumberg parla di “greenwashing”. Sui suoi account social, ha denunciato le violazioni dei diritti umani nel Paese e l’ingiusta detenzione di Abd El Fattah. Il 30 ottobre, poi, si è unita al sit-in di fronte all’ufficio del Commonwealth e dello Sviluppo Estero a Londra organizzato dalle sorelle di Abd El Fattah per chiedere al governo inglese di intervenire per la sua scarcerazione.
Abd El Fattah sarebbe, infatti, cittadino egiziano e inglese, e secondo le sorelle Sanaa e Mona Seif Londra dovrebbe intervenire per liberarlo e riportarlo in Gran Bretagna. Secondo quanto dichiarato in questi giorni dal governo di Al Sisi, invece, Abd El Fattah non avrebbe mai completato le pratiche per ottenere la cittadinanza britannica e sarebbe “solo” un cittadino egiziano. E come tale verrà trattato. “Non è affatto una rassicurazione”, hanno risposto le sorelle. Quando le porte della COP27 si sono aperte, è proprio sugli account twitter di Sanaa Seif che si è letto che il fratello avrebbe bevuto il suo ultimo bicchiere d’acqua. Ore di tensione, durante le quali la stessa Sanaa si è recata direttamente a Sharm El Sheikh, per portare fisicamente la sua protesta nella sede della COP27. Per suo fratello, se nessuno tra i leader impegnati a promettersi svolte ecologiche e rivoluzioni verdi tra poltroncine e coffee break interverrà, la sopravvivenza potrebbe essere una questione di ore o di una manciata di giorni.
Il 7 novembre, con una climax di tweet pubblicati da Mona Seif, la famiglia ha fatto, inoltre, presente che dopo ore di attesa in carcere, la lettera settimanale di Alaa, l’unico strumento per il detenuto per comunicare con i familiari e con il mondo, non le è stata consegnata. Le guardie carcerarie avrebbero affermato che il prigioniero non aveva voglia di scrivere. Poco credibile, secondo i Seif, che iniziano a domandarsi se l’uomo sia ancora in vita.
Mother Courage. Inspiring. Moving. Human Rights Activist. Laila Souief. Her son is jailed activist #Alaa Abdelfatah. He stopped drinking water today after 219 days on hunger strike. @Alsisiofficial has a few days to save a man’s life. #FreeAlaa Now pic.twitter.com/4dzI0Q7Ssf— Agnes Callamard (@AgnesCallamard) November 6, 2022
Mentre Alaa Abd El Fattah smetteva di bere e Al Sisi stringeva la mano ai leader mondiali, per le strade egiziane almeno un centinaio di altri attivisti erano già stati arrestati, secondo l’Egyptian Commission for Rights and Freedoms, sempre per reati di opinione sui social. Sono vietate le manifestazioni nel Paese – mentre nei padiglioni della COP27 c’è un’intera area “Verde” apparentemente dedicata agli scambi di opinione liberi e democratici tra i giovani di tutto il pianeta. “Sulla strada verso la COP27, ricordate che molti Egiziani stanno pagando un prezzo pesante per la vostra presenza. Stanno avvenendo arresti per onorare la vostra presenza. Il minimo che possiate fare sarebbe mostrare un po’ di rispetto alle decine di migliaia nelle prigioni di Al Sisi”, ha scritto Sanna Seif. Sharm El Sheikh è militarizzata e costellata di posti di blocco, dove un controllo sul cellulare e un tweet di troppo potrebbe costare la prigione. Molte serrande sono chiuse. Il Paese tace imbavagliato. Il messaggio è chiaro: nessuno in Egitto deve parlare e raccontare, mentre i grandi del pianeta passeggiano a Sharm El Sheikh. Pagine Esteri
L'articolo Alaa sospende lo sciopero della sete ma continua la lotta contro il regime di El Sisi proviene da Pagine Esteri.
MIGRAZIONI. Minori non accompagnati. La storia di Youssef
di Daniela Volpecina*
Pagine Esteri, 21 novembre 2022 – Il mio nome è Youssef e ho appena compiuto 15 anni ma a volte ho l’impressione di averne molti di più. Succede, dicono, quando sei costretto a separarti dalla tua terra e dalla tua gente e a ricominciare, da solo, a migliaia di chilometri di distanza. Proprio come è accaduto a me.
Nel 2021 ho lasciato l’Egitto, la mia famiglia, gli amici per affrontare un viaggio rocambolesco e pieno di incognite attraverso il mare e due continenti. Un’impresa enorme per un ragazzino che prima d’ora non era mai uscito dal suo villaggio.
Quando sono scappato, avevo ancora 14 anni. Non è stata una decisione facile e se non ci fosse stata mia madre a incoraggiarmi probabilmente ora sarei ancora nel mio Paese. A prendere bacchettate sulle mani dal maestro di scuola e a giocare a calcio in strada con un pallone fatto di stracci. Il destino però aveva in serbo per me qualcosa di diverso. Come avrei scoperto di lì a poco.
Il mio villaggio si trova nella parte occidentale dell’Egitto, in mezzo al nulla. Una terra arida, a tratti inospitale, famosa per il clima sahariano.
Per raggiungere la capitale ci vogliono quasi otto ore di treno, almeno così mi hanno detto, io al Cairo non ci sono mica mai stato. Le piramidi le ho viste solo in foto, su un libro di storia. Troppo lontane da quel fazzoletto di terra nel quale sono nato. Cheope, Tutankhamon, La Sfinge, sono la mia ossessione. Da quando ero alto appena una spanna. E immaginavo di essere stato un faraone in una delle mie vite passate. O almeno di aver fatto parte della famiglia reale. Una volta in tv hanno mostrato la Valle dei Re, dagli scavi sono emerse tantissime tombe e in ognuna ornamenti funerari, suppellettili, oro, oggetti preziosi. In alcune c’erano ancora le mummie, che impressione, chissà se ce ne sono altre sepolte lì da qualche parte. Ho sognato tante volte di essere un esploratore e rinvenire nuove tracce di questa antica civiltà dalla quale discende il mio popolo. Un sogno che ho accantonato da quando sono andato via. E’ difficile da spiegare ma a volte ho il sentore che non tornerò più. Non è un presentimento, è più un timore che alimenta tanti interrogativi. Interrogativi che mi pongo spesso da quando sono in Italia e soprattutto da quando ho scoperto che nelle scuole italiane un’ampia parte dei programmi è dedicata proprio alla storia del mio Paese. Mi domando se tornerò mai nella mia terra, se rivedrò i luoghi che mi hanno accolto quando ero ancora un bambino e se esiste un altro posto nel mondo che imparerò a chiamare ‘casa’. Probabilmente sì, ora riesco a vederlo con maggiore lucidità ma allora, spaventato com ero e poco preparato a tutto ciò che avrei dovuto affrontare, la mia mente era impegnata in ben altre riflessioni e turbamenti.
La prima volta che ho tentato di lasciare il Paese, l’ho fatto a piedi. Insieme ad altri ragazzi, tutti più grandi di me. Saremo stati dieci, forse dodici. Ci siamo messi in marcia al calar del sole e abbiamo camminato tutta la notte lungo i sentieri di montagna, seguendo un uomo che si è fatto pagare profumatamente con la promessa di portarci al confine con la Libia. Con me solo un piccolo zaino, un ricambio e qualcosa da mangiare. Che fatica! Se ci ripenso oggi. Era buio pesto e la strada tutta in salita. Faceva freddo ma era proibito persino battere i denti. Dovevamo muoverci con cautela e in gran silenzio per non rischiare di essere scoperti. Non saprei dire quanti anni avessero i miei compagni di viaggio e neanche da quale villaggio provenissero. Non ci furono presentazioni ufficiali, né tempo per una chiacchierata amicale. Di tanto in tanto solo il respiro affannoso di chi a stento riusciva a tenere il passo e lo scalpiccio dei sandali sul sentiero sterrato. Il rumore più assordante era però certamente quello generato dai pensieri e amplificato dal battito accelerato dei nostri cuori, le cui frequenze sono letteralmente impazzite quando la polizia di frontiera ha puntato le sue torce su di noi. La fortuna ci ha infatti voltato le spalle a pochi metri dalla meta. ‘Alt’, ‘Fermatevi subito’, sono le ultime frasi che sono riuscito a sentire prima degli spari. Quando mi sono voltato ho visto che gli agenti ci stavano già inseguendo. Troppo vicini per poterli seminare. Solo alcuni dei ragazzi sono riusciti a scappare e ovviamente si è data alla fuga anche la guida portandosi con se il mio zaino. Sono stato arrestato e messo in cella per cinque lunghi giorni. Quando mi hanno rilasciato, ho pensato che forse la seconda volta l’avrei fatta franca. Mi sbagliavo. C’ho riprovato ed è andata di nuovo male. Sono stato trattenuto dalle guardie per altri tre giorni, solo per aver tentato di lasciare il mio Paese.
All’epoca non potevo saperlo ma raggiungere i deserti orientali della Libia negli ultimi anni è diventato un miraggio. E sono sempre meno quelli che ci riescono. Il confine tra i due Paesi è presidiato infatti da decine di migliaia di truppe egiziane, cosparso di mine antiuomo e spesso monitorato anche dai cieli grazie al controllo aereo. Troppo alto il rischio di instabilità generato dal possibile passaggio di estremisti e militanti ostili alle autorità del Cairo, sempre più imponente il contrabbando di armi, droga ed esseri umani che si verifica lungo la frontiera.
Riflessioni e analisi che avrei maturato solo successivamente, come è possibile immaginare. In quel momento avevo solo una gran fretta di partire e pochi mezzi a disposizione per farlo. Tentare per la terza volta di attraversare il confine via terra, affidandomi a mercenari pronti ad abbandonarmi al mio destino al primo ostacolo, non mi sembrava più un’idea così eccezionale. L’unica soluzione possibile era quella di sorvolare la frontiera. Proprio così. Prendere un aereo fino a Bengasi. Lì sarei stato intercettato da un gruppo clandestino che avrebbe organizzato il viaggio in Italia. Un piano perfetto. Almeno sulla carta. Prima avrei dovuto racimolare i soldi necessari. Come fare? E’ stato in quel momento che ho sentito forte il sostegno di mia madre. Una donna che, lo dico con fierezza, ha sacrificato tutto per me. Per garantirmi un futuro migliore. Un destino diverso da quello truce che ha accomunato tanti miei coetanei. Ancora prima delle primavere arabe.
E’ stata lei, anche questa volta, a sbracciarsi le maniche e a darsi da fare. Ha lavorato sodo, ha venduto quel poco di oro che avevamo in casa, ha chiesto un prestito per mettere insieme la somma che avrebbe coperto tutto il tragitto. Anche quello via mare. Fino in Italia. E tutto ciò pur conoscendo i rischi che avrei corso e pur sapendo che, nella migliore delle ipotesi, avremmo dovuto separarci chissà per quanto tempo.
Ottomila euro. A tanto ammontava il prezzo della mia libertà. Il costo da pagare per un nuovo inizio a migliaia di chilometri da casa. In una terra dove nulla è come pensavo e dove tutto mi appare in forme e colori differenti da quelli che ero abituato a percepire.
Il giorno del decollo ero emozionatissimo. Non ero mai salito su un aereo prima di allora. Dal finestrino guardavo estasiato il tappeto di nuvole – scomposte e apparentemente inconsistenti – sotto di noi, unico grado di separazione tra il cielo e il mare. Infinito, terso e azzurro il primo, così cristallino e increspato il secondo. Uno spettacolo perfetto per alimentare i sogni di un viaggiatore inesperto. Fantasticavo su chi sarebbe venuto a prendermi all’aeroporto, probabilmente, pensavo, sarà un autista in livrea con l’abito gallonato e le scarpe con la fibbia pronto ad aprirmi lo sportello della sua limousine oppure un giovane vestito all’occidentale a bordo di un’auto sportiva con tutte le hit del momento sparate a palla da un mega stereo incorporato nel cruscotto. Penso, ad un certo punto, di aver immaginato anche di essere accolto in una villa su due piani vista mare, degustando cibi prelibati e assaggiando pietanze mai conosciute. Sogni. Fantasticherie di ragazzo. Una bella illusione durata esattamente due ore. Il tempo del volo.
L’uomo che è venuto a prendermi in aeroporto era vestito in modo molto anonimo. Di lui mi ha colpito il fatto che fosse volutamente taciturno e anche parecchio accigliato. Non mi hai mai rivolto la parola e a stento mi avrà guardato. Mi ha portato in un garage non lontano da Bengasi e lì sono rimasto rinchiuso per due giorni e due notti. Insieme ad altre trenta persone. Solo quando è arrivata la conferma del pagamento del viaggio da parte di mia madre, la porta del garage si è aperta e un altro uomo si è fatto strada nella penombra per prelevarmi e portarmi in auto a Tobruk. Con me altri sette uomini. Probabilmente anche i loro bonifici erano stati incassati. Questa volta il percorso è stato più lungo. Quasi interminabile. Abbiamo viaggiato ininterrottamente per circa dieci ore.
Avrei voluto dormire. Sapevo sarebbe stato l’unico modo per tornare a sognare. Dopo i due giorni nel garage, avevo infatti smesso di fantasticare. Piuttosto avevo iniziato a temere. Temere per la mia sicurezza. Per la mia incolumità. Non sapevo con certezza dove fossimo diretti. Avrebbero potuto abbandonarmi lungo il percorso, in qualche anfratto dimenticato da Allah, far perdere le mie tracce, uccidermi persino. Chi avrebbe saputo di me? Del giovane Youssef che sognava di raggiungere l’Italia? Probabilmente nessuno. Tentai con tutte le forze che mi erano rimaste di scacciare questi orribili pensieri e cominciai a concentrare lo sguardo sul percorso. Fu allora che vidi una pattuglia della polizia libica. La prima. Lungo il tragitto incrociammo almeno tre posti di blocco. E tutte e tre le volte ci imposero di fermarci. Ufficialmente per controllare i documenti. Ma scoprii presto che non era solo per quello. Al termine della perquisizione gli agenti portarono via sigarette, soldi e anche cellulari. Il mio era nascosto in una scarpa (un vecchio trucco suggerito da un amico che aveva tentato invano di lasciare il Paese l’anno precedente) e così sono riuscito a sottrarlo alla bramosia degli uomini in divisa.
Poi il viaggio è proseguito nella sua disagevole e fastidiosa monotonia. Intorno a noi solo tanta desolazione. L’ultima fermata, prima della tappa definitiva, è stata programmata a pochi Km dalla destinazione esclusivamente per bendarci. Il percorso da quel momento in poi mi è apparso ancora più tortuoso e infinito. Quando l’auto ha decelerato per poi fermarsi e l’uomo alla guida del veicolo ha aperto lo sportello, era già buio. Eppure i miei occhi, ormai liberi dalla benda, hanno faticato ugualmente a mettere a fuoco il palazzo che si stagliava di fronte.
Non saprei dire quanti anni avesse questo edificio, in parte ancora allo stato grezzo, anche perché siamo rimasti davanti alla porta solo per una manciata di minuti. Dentro invece ci sarei rimasto per 45 giorni. Sempre nella stessa stanza. Insieme ad altri 120 uomini di diverse età e nazionalità. Tutti in attesa della barca che ci avrebbe traghettato in Italia. Una barca che però sembrava non arrivare mai.
Non è stato facile ritagliarsi quei pochi centimetri di pavimento dove rimanere seduto tutto il giorno, tutti i giorni, in religioso silenzio, fino al momento fatidico. ‘Dovete essere invisibili e silenziosi’, questo è ciò che ci veniva intimato quotidianamente in un dialetto arabo che non saprei riprodurre. Ci si poteva alzare solo per andare nell’unico bagno disponibile ma la fila era sempre lunghissima. Se qualcuno faceva rumore o alzava la voce, venivamo manganellati tutti, senza distinzione. Braccia, gambe, schiena. Se ti andava male potevi beccarti anche una scudisciata sul viso o sul capo.
Ho ricordi sfocati di quei giorni tutti uguali, scanditi soltanto dall’arrivo del cibo, quasi sempre bruciato e immangiabile, che ci portavano, due volte al giorno, uomini dai volti arcigni, armati di tutto punto, che aprivano bocca solo per minacciarci. Ricordo di aver pensato e ripensato mille volte al motivo per il quale mi trovavo lì e se ne fosse valsa davvero la pena. In alcuni momenti, ripensando a mia madre e al mio villaggio, mi rispondevo che avrei fatto meglio a rimanere a casa mia, poi però mi facevo forza, stringevo i denti e ripetevo a me stesso, quasi come fosse un mantra, ‘il peggio è passato, il meglio sta per arrivare’. E il bello è che in quei momenti ci credevo sul serio.
Più volte in quelle sei settimane ci avevano lasciato intendere che la partenza sarebbe stata imminente ma ai loro annunci non seguiva mai un segnale concreto. Ci illudevano, forse per scongiurare proteste o tensioni. I malumori, già alla fine della prima settimana, cominciavano infatti a farsi sentire ma chiedere spiegazioni o ribellarsi a quello stato di cose non era affatto consigliabile. Un siriano che ci aveva provato era stato malmenato e colpito ripetutamente alla nuca. Un gesto che ci zittì tutti. Definitivamente. Spegnendo sul nascere ogni possibile tentativo di rivolta.
Poi finalmente il segnale, quello vero, arrivò. Di quel giorno ricordo a malapena la data ma so che eravamo già a novembre. Dall’unica finestra della stanza, coperta da una tenda opaca, intravidi un cielo stranamente plumbeo. Al piano di sotto il calpestio ripetuto di passi pesanti e lo stridio di carrelli. Come se una massa di persone si fosse improvvisamente mossa tutta insieme. ‘Si stanno dando un gran da fare lì sotto’, brontolò un vecchio seduto poco distante da me. Erano già le 5 del pomeriggio quando uno degli uomini salì ad annunciare la partenza. Un’ora più tardi eravamo già in movimento. Ci hanno caricato, quattordici persone alla volta, in macchine di fortuna e piccoli furgoni. E ci hanno portato tutti in un’altra casa, questa volta non lontano dal mare. ‘Ci siamo’, mi sono detto. E ho stretto forte i pugni.
Quando ho visto la barca in lontananza ho pensato ad un miraggio. Solo quando si è avvicinata alla riva ho concretizzato che forse il momento tanto atteso e anche così temuto era arrivato. Ma l’imbarcazione non era proprio quella che avevo immaginato. Dire che si trattasse di un vecchio relitto rimesso in sesto per l’occasione non renderebbe affatto l’idea delle pessime condizioni in cui versava quel mezzo che avrebbe dovuto condurci fin sulle coste italiane. Rabbrividii quando scoprii che su quel peschereccio malmesso avremmo dovuto starci in 302. In prevalenza egiziani come me ma anche tanti siriani e qualche tunisino.
Appena salito a bordo ho avvertito uno sbandamento. Sarei caduto se ci fosse stato lo spazio per farlo. Ma intorno a me c’era già una bolgia di persone intente ad occupare i ponti, la chiglia e ogni centimetro calpestabile della barca. A stento e a fatica sono riuscito a inserirmi anch’io e a trovare un appiglio al quale aggrapparmi durante quelli che sarebbero stati i sei giorni più brutti della mia vita.
“Sono un ribelle/perché non voglio vivere nelle lacrime e nel sangue/perché non voglio la povertà e la fame…”era tanto che non sentivo questo brano, ho letto che in alcuni Paesi dell’Africa è stato censurato, lo canticchia un giovane seduto non lontano da me. Lo interpreto come un segnale di speranza e ottimismo. Che è poi il clima generale che si respira sul peschereccio. Sono tutti fiduciosi e soddisfatti per essere riusciti a imbarcarsi. Il cielo è sereno. E gli scafisti continuano a ripetere che in tre giorni saremo in Italia. Condizioni meteo permettendo. Anche le provviste imbarcate sono tarate per questo lasso di tempo. A bordo ci sono solo 15 litri di acqua disponibili al giorno, l’equivalente di un bicchiere e mezzo a testa. E’ chiaro fin dalla partenza che patiremo la sete.
Sul peschereccio si affollano uomini e ragazzini. Con due di loro ho stretto un’amicizia fraterna. Si chiamano Ahmed e Mahmoud, e sono entrambi egiziani. Abbiamo tanto in comune e tutti e tre desideriamo la stessa cosa. Studiare e crescere in un contesto democratico. In un Paese che sia in grado di riconoscere i nostri talenti e ci consenta di realizzare le nostre aspirazioni. Mi piace conversare con loro, rende il viaggio meno faticoso e il tempo scorre più velocemente. Finalmente, mi dico convinto, la fortuna è tornata ad assistermi, ma ho parlato troppo presto. Il mio ottimismo è destinato a infrangersi contro le onde sempre più alte del mare che non ho mai visto così agitato.
La tempesta è nell’aria e i primi ad averne sentore sono i veterani, quelli che hanno già tentato invano di raggiungere l’Italia una prima volta attraverso il mare. Per noi ragazzi il pericolo è qualcosa di astratto e affascinante ma fiutarlo è un’arte che spetta agli adulti. Ancor di più se non sei mai stato in balia delle onde in mare aperto per così tanto tempo. Molti di noi arrivano dal deserto. Alcuni non hanno mai messo piede fuori dal proprio villaggio. E non hanno mai visto il mare prima d’ora. C’è chi impreca, chi vomita, chi si contorce per gli spasmi allo stomaco. E tutto questo prima ancora che la tempesta raggiunga il suo apice.
Per tre giorni e tre notti la pioggia scende incessante. Senza mai concedere tregua. Esposti alle intemperie e senza alcuna possibilità di ripararsi, restiamo lì a inzupparci fino al midollo, ciascuno pregando il proprio Dio, qualcuno invocando persino il diavolo purchè metta fine al diluvio.
Leggo il terrore negli occhi di chi mi è accanto. Probabilmente sa che quella potrebbe essere l’ultima scena che vedrà in vita sua. Che il mio potrebbe essere l’ultimo sguardo che incrocerà. E allora mi faccio forza, gli allungo la mano, gliela stringo, forte, lui mi guarda sorpreso per un attimo, poi fa lo stesso con il suo vicino, e la catena umana cresce, fino all’ultimo centimetro visibile del ponte. E’ a questo punto che qualcuno intona un canto, triste e monotono, ma che ci fa sentire tutti meno soli.
Poi l’onda. Anomala. Selvaggia. Trascinante. E il buio.
Quando qualche ora più tardi ho riaperto gli occhi, la situazione intorno a me non era diventata affatto più rassicurante. I più fragili si ammalano, c’è chi vomita di continuo e chi non ha più la forza neanche di mangiare il panino al formaggio che ci hanno portato gli scafisti. Quando il motore va in avaria e il livello dell’acqua sale fino alle ginocchia, l’entusiasmo delle prime ore scompare del tutto per lasciare spazio alla paura e all’ansia.
Sono ore terribili. Quelle in cui rivedi, come in un film, tutta la tua vita al ralenti e maledici il giorno in cui hai deciso di intraprendere il viaggio. Quei momenti che non augureresti a nessuno. Quelli in cui realizzi che potrebbero essere gli ultimi della tua vita e che tu li stai vivendo con dei perfetti sconosciuti, lontano da chi ami. Un pensiero che devono aver fatto in tanti. E che qualcuno lassù probabilmente ha ascoltato.
Come per miracolo, a sbloccare la situazione è stato uno di noi. Un meccanico. Proprio così. Tra gli sciagurati che si sono imbarcati in Libia c’era anche un uomo abile con i motori. E’ grazie al suo intervento se il peschereccio non è affondato. Non ricordo il suo nome ma penso che lo ringrazierò in eterno. Così come quell’egiziano che vedendomi fradicio mi ha portato dei vestiti asciutti. Un gesto di grande umanità. Spero un giorno di poter ricambiare in qualche modo.
Sudici, spaventati, disidratati (l’acqua potabile a disposizione è terminata da un bel po’ proprio come avevo previsto) e ancora in balìa del mare mosso, così ci hanno trovato e recuperato i soccorritori italiani nella notte tra il 13 e il 14 novembre del 2021 al largo di Roccella Ionica nella Locride.
Non so come abbiano fatto ad avvistarci. Se fossero di passaggio in quelle acque o se siano stati allertati da qualcuno che era a bordo del peschereccio. Mi piace pensare che chi mi ama, abbia avuto la forza e l’istinto di spingere quella vecchia imbarcazione verso un porto sicuro. Ancorarla al molo di una terra ricca di opportunità e speranza per chi, come me, tenta di cambiare il proprio futuro. Un futuro ancora tutto da scrivere e costruire. Qui in Italia.
YOUSSEF OGGI
Youssef oggi vive a Caserta, ospite di una delle strutture di accoglienza del Cidis, insieme ad altri minori stranieri non accompagnati originari di Albania, Tunisia, Egitto, Gambia, Pakistan, Bangladesh e non solo. Dopo aver frequentato con successo l’ultimo anno della scuola secondaria di primo grado e superato gli esami per ottenere la licenza media, Youssef ha intrapreso un nuovo percorso scolastico in un istituto della provincia di Caserta finalizzato a conseguire il diploma di Tecnico per i servizi socio assistenziali – Odontotecnico. Nel frattempo continua a frequentare corsi di lingua italiana, svolge attività sportiva e partecipa attivamente come volontario a tutte le iniziative sociali di rigenerazione urbana messe in campo dal Cidis con una duplice finalità: consentire a questi giovani stranieri di contribuire alla riqualificazione del territorio nel quale vivono attraverso interventi di manutenzione e conservazione di parchi e spazi verdi, e al tempo stesso accelerare quel processo di integrazione sociale che non può prescindere da un ruolo di cittadinanza attiva.
Per tutti loro si tratta infatti di mostrare un segnale di gratitudine e di riconoscenza nei confronti del Paese che li ha accolti ma è anche un modo per migliorare la vivibilità del luogo in cui hanno scelto di studiare e lavorare. Il percorso di integrazione e inclusione sociale è naturalmente solo agli inizi ma sono tutti fiduciosi e certi di poter dare tanto al territorio nel quale stanno mettendo radici. Youssef in primis che non perde occasione per confrontarsi e dialogare con i suoi nuovi amici senza però dimenticare quelli vecchi. Ha mantenuto infatti vivo il suo legame con Ahmed e Mahmoud, i due egiziani conosciuti sul peschereccio, anche se per il momento si sentono solo telefonicamente perché i suoi coetanei attualmente sono ospiti di alcune strutture del nord Italia. E, grazie alle videochiamate, riesce a vedere quasi tutti i giorni la sua adorata mamma che continua a spronarlo a dare il meglio di se in tutte le circostanze. Adora il cibo italiano e ha ricominciato a sognare ad occhi aperti. Un giorno, ora ne è certo, tornerà in Egitto per riabbracciare la sua famiglia e per vedere finalmente le piramidi. Pagine Esteri
*Giornalista professionista freelance, Daniela Volpecina collabora con il quotidiano Il Mattino e l’emittente tv La7. Ha realizzato reportage in Italia e all’estero. Alcuni dei suoi lavori sono stati pubblicati da Avvenire, Donna Moderna, Informazioni della Difesa, TmNews e Agon Channel. Ha partecipato, con un suo scritto, alla raccolta di storie sulla pandemia ‘Ekatomére’ di Terra somnia editore. Un altro racconto, sul mondo del calcio, è inserito nel volume ‘Interrompo dal San Paolo’ pubblicato dalla Giammarino editore.
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#uncaffèconLuigiEinaudi – Lo Stato non può violare la parola data
Lo Stato non può violare la parola data
da Corriere della Sera, 1 dicembre 1920
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PD: il congresso, le correnti, il potere
Che c’entra tutto quanto sta accadendo con un congresso? che c’entra con una situazione politica del Paese e dello stesso PD, a dir poco devastante e in parte devastata?
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Ho cercato informazioni su wiki ma con scarsi risultati: è stato acquistato e reso "chiuso" anche il protocollo?
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E nel dinner talk di Sky, vip, manager e calendiani ci spiegano com'è difficile arrivare a fine mese - Kulturjam
«La nuova frontiera dell'infotainment è in realtà la riedizione fantozziana del "Cari inferiori", in cui amici di un certo livello sociale si abboffano davanti alle telecamere mentre discutono di massimi sistemi. Lo chiamano dinner talk.»
Croce visto da Einaudi
La morte, che non può fare altro che interrompere ciò che stiamo facendo e noi non possiamo far altro che lasciarci interrompere, non lo trovò in “ozio stupido”. Benedetto Croce lavorò fino alla fine dei suoi giorni, fino all’ultimo respiro di quella mattina del 20 novembre 1952. Era seduto nel suo studio, dietro la finestra. Leggeva. Forse, il Petrarca. Piegò la testa e andò via. Era il più grande filosofo del suo tempo.
I funerali si tennero sotto una pioggia battente, ma c’era tutta Napoli con una partecipazione di popolo che non si era mai vista. C’era anche Luigi Einaudi che, come Presidente della Repubblica, rappresentava l’Italia intera, una e libera come sempre la pensò e la volle Benedetto Croce. Ma Einaudi, che era diventato capo dello Stato dopo il “gran rifiuto” di Croce, era lì non solo come Presidente ma come amico e “fratello minore” del grande filosofo della libertà.
Un anno dopo, il 20 novembre 1953, scrisse alla signora Adele: “In questo primo anniversario della scomparsa di Benedetto Croce mi inchino con profonda tristezza alla memoria dell’uomo insigne e dell’indimenticabile amico pregandola volere accogliere anche da parte di mia moglie e per tutti i suoi la rinnovata espressione della nostra commossa simpatia”. Le parole di Einaudi erano quelle di un amico e collaboratore di Croce. Perché – e nessuno lo ha mai notato – Croce fu senz’altro amico di Giovanni Gentile per un trentennio, prima di fare scelte diverse ed opposte rispetto al fascismo, con Gentile che portò la filosofia al potere e con Croce che la condusse all’opposizione, ma l’amicizia con Luigi Einaudi durò per ben cinquant’anni.
E mentre con Gentile vi furono equivoci ed incomprensioni, con Einaudi vi fu da un lato uno schiarimento di idee sul piano teorico e dall’altro una collaborazione fattiva per il ripristino della libertà. Quella che passa alla storia come la polemica tra l’economista del liberismo, Einaudi, e il filosofo del liberalismo, Croce, fu invece una civilissima discussione tra due liberali che proprio discutendo maturarono un concetto più alto e valido della libertà che per noi oggi è decisivo per mettere in fuorigioco il dispositivo totalitario che, venga da destra o venga da sinistra, è insito nella cultura moderna.
La discussione tra i due fu utilissima ad entrambi: l’economista Einaudi diede consistenza storica alla teoria liberista e il filosofo Croce solidità economica al suo liberalismo. E così oggi i liberali italiani, che, ahimè, troppo spesso citano le due grandi anime senza realmente conoscerle, dovrebbero essere consapevoli che non c’è libertà civile senza libertà economica e non c’è libertà economica senza libertà civile. Inchiniamoci davanti alla loro grandezza e preveggenza e, più che celebrarli, studiamoli perché così loro avrebbero voluto.
La famiglia di Croce, dopo un anno dalla scomparsa, fece stampare in quattrocento esemplari il saggio Un angolo di Napoli che apre il libro, straordinario, Storie e leggende napoletane. Una copia fu inviata ad Einaudi. Così l’amico di Croce prese ancora una volta la penna e riscrisse alla signora Adele: “Cara signora, Un angolo di Napoli sarà collocato nello scaffale dedicato in Dogliani alle cose di suo marito. Quello scaffale l’ho posto proprio di fronte al mio tavolo da lavoro per trarne esempio e coraggio. La preziosa ristampa dello scritto nel quale Croce aveva detto quanto egli amasse la sua città mi ricorderà ogni volta il dovere che tutti abbiamo di amare il luogo dove noi e i nostri siamo vissuti”.
La stima che Einaudi aveva per Croce era quella del fratello minore verso il fratello maggiore. A casa di Croce si recò in una triste ora, triste per lui e per l’Italia: andò per chiedergli consiglio su cosa avrebbe dovuto fare con il giuramento imposto agli insegnanti. Croce lo rincuorò: poteva acconciarsi a dir sì e conservare la dignità. Del resto, il male dei regimi autoritari e, in particolari, dei totalitarismi, è proprio quello di svuotare dal di dentro la libertà, fino al punto di creare le condizioni di una sorta – se così si potesse dire e pensare – di suicidio della libertà.
In particolare, era questa la strategia comunista che cercava di conquistare gli istituti liberali inserendo in essi un cavallo di Troia. Era per questo motivo che Croce invitava tutti a non confondere mai le scelte momentanee e contingenti con il principio della libertà che è proprio del liberalismo etico-politico. Einaudi tenne sempre presente questa lezione e si industriò al meglio, come fece soprattutto nel dopoguerra e nella stagione di De Gasperi, a fornire al liberalismo la sua congrua politica economica.
Einaudi da Presidente della Repubblica avrebbe voluto nominare il senatore Croce senatore a vita e gli scriveva dicendogli: “La esigenza della tua nomina è posta non da me, ma dagli italiani, i quali sanno che il decreto della tua nomina non sarebbe un atto dipendente da una scelta compiuta dal presidente della Repubblica, sibbene, da parte sua, la mera registrazione, richiesta formalmente dalla legge costituzionale, della designazione spontanea di una concorde opinione pubblica”.
Gli italiani – diceva Einaudi – riconoscono in Benedetto Croce la espressione più alta del pensiero contemporaneo”. Il filosofo, però, che già aveva detto no, fu irremovibile – “vi si oppone la logica, quella logica che poi è buon senso” disse – e Einaudi capì di non dover insistere. Croce, oltretutto, era anche contrario alla norma della nomina dei cinque senatori a vita. Ma questa, come si dice, è un’altra storia.
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I 698 morti
"Cosa si può dire se non che questa è una tragedia gigantesca? Una carneficina in continua crescita che non può essere frutto di tragiche fatalità. È un massacro senza fine frutto dello sfruttamento, della precarietà, dei bassi salari, dell’aumento del tempo di lavoro, di persone anziane costrette a lavorare, della povertà crescente… quindi del sistema capitalista. Una guerra di classe."
Benedetto Croce è l’italiano della verità e della libertà
Benedetto Croce
20 novembre 1952 – 20 novembre 2022
“Benedetto Croce è l’italiano della verità e della libertà che si oppone alla tracotanza del potere.”
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I tribunali “segreti” che consentono ai colossi energetici di denunciare i Governi
"In altre parole: le aziende che ritengono di aver subito un danno dallo Stato per via dalle politiche energetiche e climatiche adottate, possono trascinarlo in tribunale e costringerlo ad un risarcimento miliardario."
Pensavo che sarebbe interessante (e forse esiste già, ma non l'ho trovato) sviluppare un servizio che funga da proxy aggregatore per i diversi account del fediverso che un utente può possedere.
Provo a spiegarmi. Esistono numerosi social network decentralizzati che utilizzano il protocollo ActivityPub, tramite il quale sono tra loro interoperabili. Così un utente Mastodon può ricevere i video pubblicati da un amico su un'istanza PeerTube. Come utente del Fediverso, potrei aprire un account Pixelfed per pubblicare le mie foto, PeerTube per i video, Friendica per il microblogging ecc. Ognuno di questi account avrà il proprio handle, i propri follower e i propri seguiti, il che può diventare scomodo da gestire.
Invece, mi piacerebbe esporre verso l'esterno un unico handle aggregato, ad esempio @c64@luca.it, e "agganciare" a questo handle i numerosi account del fediverso di cui dispongo, per esempio
- @c64@mastodon.uno per Mastodon,
- @c64@poliverso.it per Friendica, ecc.
Come funzionerebbe dunque l'handle aggregato? Tutti i messaggi in entrata verrebbero aggregati dal proxy, e replicati verso tutti gli account personali. In questo modo, per esempio, avrei la possibilità di leggere lo stream dei post dei seguiti tramite Mastodon, che ha un'interfaccia più comoda e matura rispetto a Friendica, oppure utilizzare proprio Friendica. Anche i messaggi in uscita (post, video ecc.) sarebbero mediati dal proxy, in modo tale che i miei follower vedrebbero tutti i messaggi che pubblico, indipendentemente dal social che ho utilizzato per la pubblicazione per ogni singolo messaggio.
Infine, l'handle aggregato potrebbe essere permanente: così potrei modificare l'istanza dei miei social in modo trasparente, senza dover chiedere ai follower di modificare l'handle seguito.
Silvia Barbero likes this.
#PNRR, decreto di approvazione delle graduatorie dell’investimento per asili nido e scuole dell’infanzia e servizi di educazione e cura per la prima infanzia.
Info ▶️ miur.gov.
Ministero dell'Istruzione
#NotiziePerLaScuola #PNRR, decreto di approvazione delle graduatorie dell’investimento per asili nido e scuole dell’infanzia e servizi di educazione e cura per la prima infanzia. Info ▶️ https://www.miur.gov.Telegram
Poliverso & Poliversity reshared this.
G20, Great Reset e tecno-socialismo
Il 15 e il 16 novembre si è tenuto a Bali (Indonesia) il 17esimo meeting del G20, dove i leader delle prime 20 nazioni per economia al mondo si sono ritrovati per discutere del destino di qualche miliardo di persone.
Dopo aver gozzovigliato per due giorni con carne, pesce e prelibatezze di ogni tipo, i cari leader sono tornati al loro paese d’origine a bordo di Jet privati e auto di lusso. Prima di questo hanno però discusso a lungo su temi che ci sono molto cari, come ad esempio l’inquinamento e il cambiamento climatico, la “crisi economica”, le pandemie, e il sistema finanziario e monetario globale.
Nell’ambito del G20 si è tenuto anche un altro forum, il B20 —praticamente il G20, ma con la partecipazione dei CEO e delegati delle più importanti corporazioni e aziende al mondo.
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Il G20 ha prodotto una Dichiarazione di 52 articoli, mentre il B20 ha dato l’occasione a Klaus Schwab, fondatore del World Economic Forum, di fare un discorso di circa 12 minuti in cui esprime ancora una volta i suoi progetti per il futuro, ciò che ormai viene comunemente definito come Great Reset.
Sia la Dichiarazione di Bali che il discorso di Schwab hanno elementi in comune che puntano verso la pianificazione centrale assoluta dell’economia e della società, in una visione che ricorda il tecno-socialismo cinese. Partiamo con l’amico Klaus.
Il Great Reset di Klaus Schwab
Klaus Schwab non ha deluso le aspettative. Il suo discorso è una piccola lezione sul Great Reset. Il concetto centrale è semplice: secondo Schwab il mondo, così come lo conosciamo, sicuramente è alla sua fine. Le multi-crisi che ci stanno accompagnando in questi ultimi anni lo dimostrano: economica, politica, sociale, istituzionale.
Secondo lui bisogna cogliere l’occasione per ristrutturare il mondo e assicurarci che dall’altra parte ci aspetti un mondo migliore, la società perfetta dei suoi sogni. In questa società non c’è alcuna separazione tra governi, corporazioni e società civile. Lo stato sarà un Leviatano a più teste con la capacità e il potere di affrontare in modo coeso e unitario le “big issues of our world”. Lui lo chiama Stakeholder Capitalism1.
Nel discorso al B20 affronta il tema con una similitudine tra società e azienda. Cosa fare quando un’azienda è in crisi? Beh, si nomina qualcuno che la gestisca e abbia il potere di riformare qualche dipartimento, chiudere qualche ramo produttivo e fare tutte quelle scelte difficili ma necessarie…
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“A Scuola di OpenCoesione": online l’elenco delle scuole ammesse a partecipare al progetto per l’anno scolastico 2022/2023.
Info ▶️ miur.gov.
Ministero dell'Istruzione
#NotiziePerLaScuola “A Scuola di OpenCoesione": online l’elenco delle scuole ammesse a partecipare al progetto per l’anno scolastico 2022/2023. Info ▶️ https://www.miur.gov.Telegram
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Andrea reshared this.
Qualcuno è riuscito a capire il motivo scatenante per cui nelle ultime sei ore c'è stata un'ondata migratoria eccezionale di iscrizioni a #Mastodon?
- Ne ha parlato forse qualche youtuber?
- Un tiktoker?
- Facebook ha deciso di far collassare i server più grandi di Mastodon per eliminare la potenziale concorrenza?
- C'è stato un servizio giornalistico in TV?
- Radio Maria ha sconsigliato mastodon?
- Una catena di S. Antonio che se non ti iscrivi a Mastodon vieni bocciato alla maturità?
- PIERO FASSINO HA DICHIARATO CHE MASTODON NON SARA' MAI UN FENOMENO DI MASSA? 😱😱😱
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Mastodon può sopravvivere alla legge europea sui servizi digitali? Konstantinos Komaitis, un esperto di regolamenti di Internet e diritto d'autore prova a rispondere a questa domanda
Proponiamo di seguito l'articolo di Konstantinos Komaitis
Sono passate circa due settimane da quando Elon Musk, l'uomo più ricco del mondo, ha acquisito Twitter e, già, i crescenti timori su cosa questo significhi per la libertà di parola sulla piattaforma di microblogging hanno iniziato a proliferare. Con Musk che licenzia alcuni membri del personale chiave di Twitter, tra cui il capo legale di Twitter Vijaya Gadde e rescinde i contratti con moderatori di contenuti in outsourcing, molti utenti sono alla ricerca di un'alternativa.
Un numero considerevole sta migrando al "fediverse", e in particolare a Mastodon, una piattaforma di microblogging simile che è stata chiamata "Twitter, con l'architettura sottostante della posta elettronica". Il decentramento di Mastodon solleva interrogativi sostanziali su come si applicheranno i regimi normativi esistenti, come il Digital Services Act (DSA) europeo.
Il passaggio a Mastodon
Il fediverso - una parola macedonia formata da federazione e universo - è una rete di server interconnessi che comunicano tra loro sulla base di protocolli di rete decentralizzati. Questi server possono essere utilizzati per la pubblicazione sul Web e l'hosting di file e consentono agli utenti di comunicare tra loro nonostante si trovino su server indipendenti.
Per Mastodon, l'interoperabilità è fondamentale. Pensalo come un account di posta elettronica: un utente può utilizzare un servizio di posta di Google, ma ciò non gli impedisce di comunicare con qualcuno che utilizza Hotmail o anche con qualcuno che ospita il proprio server di posta. Finché viene seguito un insieme di protocolli, gli utenti possono comunicare facilmente tra i server. L'idea alla base di un'architettura così decentralizzata è dare agli utenti il controllo diretto del loro utilizzo e della loro presenza online. Mastodon è uno dei tanti social network che operano utilizzando software gratuito e open source; altri esempi includono Peertube, che è simile a YouTube, e diaspora* (non capisco perché viene richiamata più spesso Diaspora rispetto a Friendica, ndr) , che assomiglia di più a Facebook.
Dall'acquisizione di Twitter da parte di Musk e dalle turbolenze che ha causato, la crescita di Mastodon è passata da 60-80 nuovi utenti all'ora a 3.568 nuove registrazioni in un'ora la mattina del 7 novembre. Ora ha accumulato oltre 6 milioni di account utente ed è ancora in crescita.
Per iscriversi a Mastodon, un utente può unirsi a un numero di server diversi (noti come "istanze") di sua scelta; queste istanze determinano i contenuti che gli utenti possono vedere e le linee guida della comunità a cui devono iscriversi. In sostanza, l'amministratore o gli amministratori di ciascuna istanza fungono da "moderatore" - decidendo cosa è consentito o meno in quell'istanza - e hanno il potere di filtrare o bloccare i contenuti che contraddicono le regole stabilite. Gli amministratori possono agire da soli come moderatori o utilizzare un team di moderatori. All'interno di un'istanza, un utente può pubblicare testo o altri media, seguire e comunicare con altri utenti (all'interno e all'esterno della propria istanza) e condividere dati pubblicamente o con un gruppo selezionato.
Proprio come Twitter, Mastodon usa gli hashtag, ha un limite di caratteri per i post (500 invece dei 280 di Twitter) ed è già popolato di immagini di gatti. Sebbene alcuni utenti si siano lamentati della complessità del processo di registrazione e della generale facilità d'uso del sito (o della sua mancanza), Mastodon si è rivelato un'alternativa salutare e ha dimostrato che gli utenti sono pronti ad abbandonare i servizi di social media consolidati se lo desiderano sono presentati con le opzioni.
Moderazione dei contenuti su Mastodon
Alla fine, tuttavia, il futuro di Mastodon dipenderà dal modo in cui le sue singole istanze e il sito, come un insieme collaborativo, si occuperanno della moderazione dei contenuti e della libertà di parola. Il fascino di Mastodon sta nel suo decentramento. Quando Eugen Rochko ha fondato la rete nel 2016, proveniva da un "sentimento di sfiducia nei confronti del controllo dall'alto che Twitter esercitava" . Contrastando questa sfiducia, affermando anche con orgoglio che "non è in vendita",la rete Mastodon non ha un unico proprietario o amministratore che possa stabilire le regole; invece, l'amministratore di ciascuna istanza locale stabilisce le regole del proprio server, che gli utenti devono rispettare. Se un utente non è d'accordo con queste regole, può facilmente passare a un'istanza che si allinea con il suo punto di vista, creando solide strade per la libertà di parola. Se un amministratore rileva che un utente ha pubblicato qualcosa in violazione delle regole dell'istanza, può rimuovere il contenuto o persino rimuovere l'utente dall'istanza; l'utente può quindi semplicemente passare a un altro server.
L'amministratore può anche bloccare il contenuto dall'istanza che esegue se disturba gli utenti. Nel 2019, la piattaforma di social media Gab, un hub per i suprematisti bianchi, ha testato i limiti di Mastodon sulla moderazione dei contenuti. Anche se Mastodon non poteva negare l'uso da parte di Gab del suo software open source, dal momento che chiunque può utilizzare il software se "mantiene la stessa licenza e rende pubbliche le proprie modifiche", le singole istanze sono state in grado di bloccare, e di conseguenza isolare, Gab e i suoi utenti. Non essendo in grado di interagire con altre istanze, Gab divenne un'istanza senza valore per il collettivo Mastodon. In risposta a questo, mastodon . sociale— uno dei server gestiti da Mastodon — ha aggiornato la sua politica relativa alla promozione delle istanze sul proprio sito Web ufficiale, prima di bloccare definitivamente Gab.
Sebbene non esista un'autorità centrale su Mastodon, quando ti iscrivi alla rete ti mostra alcune istanze popolari a cui puoi unirti per avere un'idea generale del contenuto sulla rete. Queste istanze devono rispettare determinate regole come non consentire il razzismo, il sessismo, l'omofobia, la transfobia, ecc. Sui loro server. Questo mostra come il contenuto (o meglio una piattaforma) può essere moderato su una rete decentralizzata: mentre il contenuto offensivo non è necessariamente completamente rimosso dalla rete, l'azione locale può essere intrapresa da ciascun amministratore di istanza per evitare e infine ostracizzare i server "problematici".
I chiari vantaggi di tali sistemi decentralizzati, specialmente se non sono a scopo di lucro, come Mastodon, sono le responsabilità diffuse di moderazione dei contenuti, l'empowerment degli utenti e i disincentivi per i conflitti degli utenti (soprattutto legati alla conduzione del coinvolgimento, come si vede nei grandi social media). Tuttavia, questo ci lascia ancora con la questione dei contenuti manifestamente discutibili, come materiale sullo sfruttamento sessuale di minori o contenuti terroristici. Certamente, le istanze hanno i propri incentivi per moderare e sbarazzarsi di tali contenuti; tuttavia, è anche importante ricordare che le reti decentralizzate non sono al di sopra della legislazione del governo, né sono una panacea per la moderazione dei contenuti. Allo stesso modo in cui i governi possono ordinare la rimozione di un sito Web, possono anche ordinare la rimozione delle istanze di Mastodon.
Mastodon e la legge sui servizi digitali
Mentre Mastodon continua a guadagnare popolarità, una domanda che rimane è come gli sforzi legislativi esistenti possano influenzare l'intero sito web e/o le sue istanze. In particolare, il Digital Services Act (DSA) in Europa è stato creato per affrontare i problemi di moderazione dei contenuti che si manifestano in piattaforme molto più grandi e centralizzate, come Facebook. Quale sarà l'effetto del DSA su Mastodon?
Attualmente, ci sono più di 3000 istanze sulla rete, tutte con i propri utenti, linee guida e amministratori. In questo contesto, il DSA non fornisce chiarezza sulle questioni dei social media decentralizzati. Tuttavia, sulla base delle categorizzazioni del DSA, è molto probabile che ogni istanza possa essere vista come una ' piattaforma online ' indipendente su cui un utente ospita e pubblica contenuti che possono raggiungere un numero potenzialmente illimitato di utenti. Pertanto, ciascuna di queste istanze dovrà rispettare una serie di obblighi minimi per i servizi di intermediazione e hosting, incluso avere un unico punto di contatto e un rappresentante legale, fornire termini e condizioni chiari, pubblicare relazioni semestrali sulla trasparenza, avere un meccanismo di notifica e azione e comunicare informazioni su rimozioni o restrizioni sia ai fornitori di avvisi che a quelli di contenuto .
Oggi, dato il modello senza scopo di lucro e l'amministrazione limitata e volontaria della maggior parte delle istanze esistenti, tutti i server Mastodon sembrerebbero esenti dagli obblighi per le grandi piattaforme online. Tuttavia, cosa significherà se un'istanza finirà per generare oltre 10 milioni di EUR di fatturato annuo o assumerà più di 50 membri del personale? Ai sensi del DSA, se tali soglie vengono raggiunte, gli amministratori di tale istanza dovrebbero procedere all'attuazione di requisiti aggiuntivi, tra cui un sistema di gestione dei reclami, la cooperazione con segnalatori attendibili e organismi extragiudiziali per le controversie, una maggiore trasparenza delle relazioni e l'adozione delle misure di protezione dei bambini, così come il divieto di modelli oscuri. Il mancato rispetto di questi obblighi può comportare multe o il blocco geografico dell'istanza in tutto il mercato dell'UE.
Inoltre, in teoria, c'è sempre la possibilità che un'istanza possa raggiungere la soglia per lo stato "Very Large Online Platform" (VLOP) del DSA se la sua base di utenti continua a crescere e raggiunge i 45 milioni di utilizzo mensile. Oggi, mastodon.social è l'istanza più grande, con 835.227 utenti . Se supera la soglia dell'utente VLOP, vi è un numero significativo di obblighi che questa istanza dovrebbe rispettare, come valutazioni del rischio e audit indipendenti. Questo può rivelarsi un onere amministrativo costoso e gravoso, dato il suo fatturato attuale . È quindi importante che la Commissione europea fornisca ulteriori chiarimenti su questi casi e lo faccia rapidamente.
È difficile prevedere cosa accadrà se, e quando, il numero di utenti di Mastodon raggiungerà piattaforme come Twitter e Facebook, specialmente nel regno della moderazione dei contenuti. Poiché la moderazione nelle principali piattaforme di social media è condotta da un'autorità centrale, il DSA può effettivamente ritenere una singola entità responsabile attraverso obblighi. Questo diventa più complesso nelle reti decentralizzate, dove la moderazione dei contenuti è prevalentemente guidata dalla comunità.
Ambiguità normativa e Fediverso
Attualmente, Mastodon tenta di rispondere ai problemi della moderazione dei contenuti attraverso la sua architettura decentralizzata. Non esiste un'autorità o un controllo centrale che si possa indicare e ritenere responsabile per le pratiche di moderazione dei contenuti; invece, la moderazione avviene in modo organico dal basso verso l'alto. Per quanto riguarda il modo in cui le imminenti normative digitali possono essere applicate a queste piattaforme, ci rimangono ancora una miriade di domande, che crescono solo se consideriamo come una rete decentralizzata potrebbe implementare questi requisiti.
L'ambiguità sul fediverso mostra che quando si progetta la regolamentazione di Internet, è importante farlo con la più ampia creatività e innovazione possibile, invece di avere in mente determinati attori. L'ultima cosa che l'Europa vuole è la sua regolamentazione che limiti l'innovazione futura, alzando le barriere all'ingresso sia per le nuove imprese che per gli utenti.
Link al post originale: techpolicy.press/can-mastodon-…
Note sugli autori:
Konstantinos Komaitis è un veterano dello sviluppo e dell'analisi della politica Internet per garantire un Internet aperto e globale. Konstantinos ha trascorso quasi dieci anni nello sviluppo di politiche e strategie attive come Senior Director presso la società di Internet. Prima di allora, ha trascorso 7 anni come docente senior presso l'università di Strathclyde, Glasgow, nel Regno Unito, dove facevamo ricerca e insegnavamo politica di Internet. Konstantinos è un oratore pubblico che ha parlato a molti eventi in tutto il mondo, incluso un discorso TedX, e uno scrittore che ha scritto per vari punti vendita tra cui Brookings, Slate, TechDirt, EuroActive. Ha conseguito due lauree magistrali e un dottorato ed è autore di un libro sulla regolamentazione dei nomi a dominio. È anche co-conduttore del "Podcast di Internet of Humans". Il suo sito personale è: www.komaitis.org .
Louis-Victor de Franssu è il CEO e co-fondatore di Tremau, una start-up tecnologica Trust & Safety che aiuta i servizi online ad adattarsi al quadro normativo in evoluzione. Prima di Tremau, Louis-Victor è stato vice dell'ambasciatore francese per gli affari digitali. In questo ruolo, si è specializzato in questioni relative alla lotta ai contenuti illegali online e alla disinformazione, guidando anche il lavoro della Francia sull'invito all'azione di Christchurch. Prima di entrare a far parte del Ministero per l'Europa e gli Affari Esteri, Louis-Victor ha lavorato per un'importante società di consulenza per la gestione del rischio non finanziario nel settore finanziario. Louis-Victor ha conseguito un MBA presso l'INSEAD e un BA presso l'Università di Notre Dame.
Can Mastodon Survive Europe’s Digital Services Act?
Konstantinos Komaitis & Louis-Victor de Franssu say Mastodon’s decentralization raises questions about how regulatory regimes will apply.Konstantinos Komaitis (Tech Policy Press)
Protect children from exploitation and mass surveillance online!
Today, 18 November, is European Day on the Protection of Children against Sexual Exploitation and Sexual Abuse. Children and young people need special legal protection, online and offline. The Pirates therefore call for more resources to be allocated to methods that have been demonstrably successful and being currently neglected, instead of investing in ineffective and easily circumvented mass surveillance, data retention and chat control.
In Europe, about 20% of all children are exposed to some form of sexual violence every year, of which 70-85% of the victims know the perpetrators. The goal of protecting children is too serious and the consequences of assaults are too tragic to instrumentalise for totalitarian and populist surveillance plans such as #ChatControl. Studies and statistics show that untargeted mass surveillance actually makes the work of the police in most cases more difficult. That is why the Pirate Party MEPs call on governments and police authorities to finally focus on the following effective measures in law enforcement, but which have been neglected for years.
>> Deleting instead of snooping
Law enforcement agencies must finally be obliged to report exploitative images known to them online for deletion. Neither Europol nor federal polices such as the German one report abuse material known to them to data storage services. A legal obligation for law enforcement to report and delete is neither in force nor planned.
>> Strengthening the capacity of law enforcement
Currently, the capacity of law enforcement is so inadequate it often takes months and years to follow up on leads and analyse collected data. Known material is often neither analysed nor removed. Those behind the abuse do not share their material via Facebook or similar channels, but on the darknet. To track down perpetrators and producers, undercover police work must take place instead of wasting scarce capacities on checking often irrelevant machine reports. It is also essential to strengthen the responsible investigative units in terms of personnel and funding and financial resources, to ensure long-term, thorough and sustained investigations. Reliable standards/guidelines for the police handling of sexual abuse investgations need to be developed and adhered to.
>> Addressing not only symptoms, but the root cause
Instead of ineffective technical attempts to contain the spread of exploitation material that has been released, all efforts must focus on preventing such recordings in the first place. Prevention concepts and training play a key role because the vast majority of abuse cases never even become known. Victim protection organisations often suffer from unstable funding.
>> Fast and easily available support for (potential) victims
1. Mandatory reporting mechanisms at online services: In order to achieve effective prevention of online abuse and especially grooming, online services should be required to prominently place reporting functions on the platforms. If the service is aimed at and/or used by young people or children, providers should also be required to inform them about the risks of online grooming.
2. Hotlines and counseling centers: Many national hotlines dealing with cases of reported abuse are struggling with financial problems. It is essential to ensure there is sufficient capacity to follow up on reported cases.
>> Improving media literacy
Teaching digital literacy at an early age is an essential part of protecting for protecting children and young people online. The children themselves must have the knowledge and tools to navigate the Internet safely. They must be informed that dangers also lurk online and learn to recognise and question patterns of grooming. This could be achieved, for example, through targeted programs in schools and training centers, in which trained staff convey knowledge and lead discussions. Children need to learn to speak up, respond and report abuse, even if the abuse comes from within their sphere of trust (i.e., by people close to them or other people they know and trust), which is often the case. They also need to have access to safe, accessible, and age-appropriate channels to report abuse without fear.
For more information, check out our website: www.chatcontrol.eu
Metascuola
Quello di lunedì è stato il primo incontro. Altri ne seguiranno. E cercheremo di capire insieme cosa cambiare, e come.
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Sicurezza online a scuola, martedì 22 novembre il webinar con gli esperti di Generazioni Connesse. L’incontro offre a docenti e dirigenti scolastici un aggiornamento professionale altamente qualificato su tematiche attuali.
Ministero dell'Istruzione
#NotiziePerLaScuola Sicurezza online a scuola, martedì 22 novembre il webinar con gli esperti di Generazioni Connesse. L’incontro offre a docenti e dirigenti scolastici un aggiornamento professionale altamente qualificato su tematiche attuali.Telegram
Fr.#15 / Robo-vigili e Precrimine
I robo-vigili di Arezzo
La polizia municipale di Arezzo sarà presto un laboratorio di test di un nuovo prototipo di occhiali che ricordano Robocop, ma meno cattivo e più cringe. Gli occhiali hi-tech sembrerebbero dotati di una tecnologia che permette all’agente di visualizzare l’equivalente di uno schermo da 50” e al tempo stesso scansionare in tempo reale le targhe delle automobili in corsa.
Grazie alla connessione con diversi database della pubblica amministrazione gli occhiali daranno all’agente informazioni rilevanti sul veicolo, come l’assicurazione, le revisioni, o eventuali fermi amministrativi. Alcuni articoli dicono che gli occhiali sarebbero anche in grado di valutare la velocità delle vetture, ma non ne sono sicuro.
Gli amministratori intervistati dicono che l’attività della polizia sarà più efficiente e i cittadini saranno più tutelati.
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Insomma, la tecnologia promette di tagliare un incredibile traguardo: i nostri prodi guardiani delle strade potranno finalmente emettere contravvenzioni senza muovere un muscolo, senza alcuna contestazione, mentre guardano una TV da 50”. Vi sentite più tutelati?
Gli algoritmi contro il crimine… forse
Sempre sulla falsa riga della tecnologia che permetterà alle forze dell’ordine di lavorare meno e tutelare meglio i cittadini vale la pena commentare un fenomeno che sta prendendo velocemente piede in Italia: gli algoritmi antimafia. Ci sono almeno due esempi che conosco.
Il primo è quello di Padova, dove pare che verrà usato un algoritmo predittivo per scovare le aziende a “rischio collusione con la mafia” per proteggere gli appalti del PNRR. L’algoritmo userà diversi indicatori, come il numero di dipendenti, il capitale sociale, le transazioni e così via. In pratica una mescola di tutte le informazioni rilevanti sulla vita di un’azienda — che non si sa bene come verranno trattate.
I ricercatori ci tengono però a precisare, com’è ovvio che sia, che l’algoritmo non individua le aziende colluse, ma soltanto quelle a “rischio”. Ricordo ai cari lettori che il rischio altro non è che qualcosa che non esiste; un’ipotesi più o meno plausibile e probabile che potrebbe anche non verificarsi mai. Insomma, un’azienda segnalata a “rischio” collusione potrebbe non essere affatto collusa.
Il problema è evidente: persone innocenti potrebbero essere escluse dagli appalti pubblici sulla base di segnalazioni arbitrarie fatte da un algoritmo di cui non si conosce neanche il funzionamento. Qualcuno potrebbe dire che favorire certe aziende ed escluderne altre in modo arbitrario sia esattamente il modo in cui opera la mafia…
Il secondo algoritmo antimafia arriva direttamente da una collaborazione europea tra forze di polizia. Si chiama I-CAN (Interpol Cooperation Against Ndrangheta) e il suo lavoro sarà quello di “intercettare le strategie espansionistiche dell'organizzazione criminale e anticipare la minaccia".
A costo di ripetermi, anche in questo caso parliamo di “previsioni” che potrebbero non avere alcun riscontro nel mondo reale.
La buona notizia è che se la realtà non si sottometterà ai modelli predittivi, potranno sempre prendersela con la realtà e chiedere più finanziamenti per usare altri modelli predittivi fino ad azzeccarne almeno una. Come le previsioni climatiche, insomma.
La cattiva notizia è che la finestra di Overton si sta spostando verso l’accettazione dell’uso di algoritmi in grado di prevedere il futuro e anticipare la minaccia criminale. Nei film di fantascienza non finisce mai bene, ma fate pure voi. Chi sono io per dirvi come spendere i miei soldi?
La Precrimine in UK
Un esempio di questa stupenda finestra di Overton ce l’abbiamo proprio in UK, dove Scotland Yard si è recentemente vantata di essersi dotata di algoritmi di profilazione per “fermare i potenziali criminali prima che commettano il crimine”. Nello specifico, l’algoritmo dovrebbe prevedere quali uomini potrebbero commettere violenze verso le donne.
Vi chiedo, come potremmo mai definire un uomo che non ha ancora commesso alcun crimine?
Meme del giorno
Citazione del giorno
It is with government, as Caesar said it was in war, that money and soldiers mutually supported each other; that with money he could hire soldiers, and with soldiers extort money.
Lysander Spooner
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10 days ago · 9 likes · 4 comments · Matte | mrk4m1
Privacity reshared this.
Ho sempre prestato eccessiva attenzione al linguaggio pubblicitario, quello televisivo in particolare.
E se certe cose non hanno tempo (come piazzare ore pasti tutti gli spot che fanno passare l'appetito), altre segnano vere e proprie ondate.
Ad esempio c'è stato il periodo della body positivity, in cui più o meno goffamente veniva inserito - finendo per evidenziarlo invece che integrarlo - qualche corpo o volto normale in contesti di usuale perfezione di corpi e volti televisivi.
Ora, sarà che i recenti fatti elettorali mi avranno un po' colpito, ma: non suona anche a voi un po' esagerata la presentazione patriottica del cioccolato ITALIANO con latte ITALIANO e nocciole ITALIANE? Lo dice proprio così. (Segue personaggio con espressione grottesca che scandisce "mmmh, SFITZERO?" e surreale risposta corale di bambini perfetti.)
non guardo tv da anni, ma forse ho compreso di quale pubblicità si tratti. La mia memoria non è mai stata buona, ma la parte finale credo sia rimasta invariata da diversi anni, no?
In ogni caso anche a me sembra esagerata ed un po' paradossale questa presentazione estremamente patriottica dato che, giustamente, sono loro stessi a riportare come il cacao venga dall'Ecuador: elah-dufour.it/en/ingredients
Scopri la qualità degli ingredienti Elah Dufour Novi
Cacao dell’Ecuador, nocciole del Piemonte, menta piperita piemontese e agrumi italiani: per i nostri prodotti scegliamo solo ingredienti della migliore qualità.Elah Dufour Novi
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Daniele Tricoli moved to eriol@akko.mornie.org likes this.
È disponibile il nuovo numero della newsletter del Ministero dell’Istruzione.
🔸 Scuola, rinnovo del contratto: firmato l’accordo politico
🔸 Avviata la consultazione per l’attualizzazione del Piano Nazionale Scuola Digita…
Ministero dell'Istruzione
#NotiziePerLaScuola È disponibile il nuovo numero della newsletter del Ministero dell’Istruzione. 🔸 Scuola, rinnovo del contratto: firmato l’accordo politico 🔸 Avviata la consultazione per l’attualizzazione del Piano Nazionale Scuola Digita…Telegram
Il GARR, la Scuola e la rete UNIRE
LA RETE GARR E LA RETE UNIRE
di Maria Laura Mantovani
In questo video Enzo Valente ci racconta perché è stata fatta la Rete GARR, una storia che parte dal 1986. Oggi si dovrebbe decisamente fare la rete UNIRE, siamo in tremendo ritardo: 36 anni dopo la nascita dell’idea della rete GARR.
Chi è Enzo Valente?
Un sognatore che ha contribuito a realizzare un sogno. Una persona che se è convinto di realizzare una cosa, la porta a termine. Sicuramente un leader. È stato il primo direttore del GARR.
Che cos’è la Rete GARR?
GARR è la Rete Italiana della Ricerca. Connette tra loro tutte le università e gli enti di ricerca italiani con tecnologie da sempre all’avanguardia, al fine di garantire prestazioni ai massimi livelli resi possibili con le apparecchiature esistenti. Di reti della ricerca come la rete GARR (#NREN ) ce ne sono nel mondo una ottantina, ogni Stato ha la propria, e tutte sono connesse tra loro, così che i ricercatori in tutto il mondo hanno a disposizione delle tecnologie per connettersi tra di loro tra le più performanti al mondo. La Rete GARR è una sicura eccellenza italiana. I tecnici e gli scienziati che l’hanno costruita e ogni giorno contribuiscono a migliorarla sono tra i migliori cervelli d’Italia nel loro ambito. Per questo devono essere considerati dei patrioti. Italiani che fanno grande l’#italia.
Che cos’è la Rete UNIRE e perché non c’è ancora?
UNIRE è la proposta di legge che vorrebbe istituire la Rete Italiana delle Scuole. Era Maggio 2020, Governo Conte 2, quando sono stati deliberati 400 milioni di euro per portare la #bandaultralarga in tutte le scuole. Un passaggio straordinario di miglioramento della connettività scolastica. Ma nonostante questo sforzo, che si sta portando a termine, quello che si sta realizzando non è ancora la Rete Unica Italiana delle Scuole, sono solo tanti cavi che connettono le scuole ad Internet e nemmeno con una gran qualità del servizio.
Cosa manca per fare la rete UNIRE? Manca un cervello che coordini il corpo, che faccia sinergia, che permetta di risparmiare denaro aumentando le prestazioni, che fornisca un ambiente dove le idee possono maturare e svilupparsi.
La Rete UNIRE si potrebbe realizzare da subito, perché già 135 milioni sono in un fondo dedicato a questo progetto. Si tratta ora di fondare il soggetto istituzionale che deve occuparsi di realizzare tutto ciò.
La rete UNIRE realizzerà, imitando il modello GARR, il coordinamento delle scuole italiane di ogni ordine e grado per l'accesso alla rete #INTERNET, oltre che la distribuzione di linee guida comuni ed un supporto tecnico centralizzato per risolvere i disservizi e per mantenere l’infrastruttura allo stato dell’arte.
UNIRE si occuperà inoltre del funzionamento della #didatticadigitale integrata e della #cybersecurity nelle scuole sia per le applicazioni usate che per i #datipersonali, con un'attenzione particolare al fatto che vengono trattati dati personali di bambini e ragazzi ossia di minorenni.
Infine la Rete sarà finalizzata alla realizzazione e alla gestione, attraverso un #privatecloud, dei servizi didattici e amministrativi della scuola.
Così anche le scuole italiane potranno vantare con UNIRE la propria eccellenza.
Vi invito a rivedere la storia del GARR in questo video per sognare come potrà essere bella la rete UNIRE
DDL Rete UNIRE : senato.it/service/PDF/PDFServe…
Per chi vuole approfondire e vedere com'è la Rete GARR adesso, progettata per la velocità di 1 Terabit/s, può guardare questo video u.garr.it/s3Qae
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Di Jennifer #Rankin, inviata a Bruxelles per il #Guardian
theguardian.com/world/2022/nov…
Dutch MEP says illegal spyware ‘a grave threat to democracy’
European Commission wears ‘velvet gloves’ when dealing with spyware used on citizens, says chief of inquiry on hacking software such as PegasusJennifer Rankin (The Guardian)
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Jun Bird
in reply to J. Alfred Prufrock • • •Ma ti riferisci a BitTorrent, Inc.? Credo che fondamentalmente abbiano in mano solo BitTorrent, cioè il popolare client (e pare che la stessa azienda sia pure quella di uTorrent? The more you know). Non voglio dire cazzate, ma penso che il protocollo sia sin troppo diffuso e popolare per essere chiuso. Non mi sorprenderebbe, però, scoprire che ci abbiano effettivamente provato.
octt :VerifiedCoffee:
in reply to J. Alfred Prufrock • • •La storia è un sacco complicata, e farsi un giro per Wikipedia (en) aiuta a schiarire le idee ma non troppo.
A quanto ho capito, Rainberry, Inc., la ex-BitTorrent Inc., fu fondata dallo stesso creatore di BitTorrent tanti secoli fa. Questa Inc ha inizialmente comprato uTorrent facendolo diventare nel tempo da un buon programma seppur proprietario, ad adware; ha creato il client "BitTorrent" che è uTorrent ma viola, e questo è.
La crypto la sento solo ora, curioso in effetti.
Comunque, il protocollo per ora resta aperto... semplicemente perché (a quanto so) non subisce aggiornamenti da un'eternità.
1, [2](en.wikipedia.org/wiki/Rainberr….), 3
American programmer, creator of BitTorrent protocol
Contributors to Wikimedia projects (Wikimedia Foundation, Inc.)Jun Bird
in reply to octt :VerifiedCoffee: • • •J. Alfred Prufrock
in reply to J. Alfred Prufrock • •Jun Bird
in reply to J. Alfred Prufrock • • •J. Alfred Prufrock
in reply to J. Alfred Prufrock • •