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Io è grande quanto la Luna. La sognai una notte, questa nozione, precisamente nella notte fra il 18 e il 19 dicembre 2023 (forse vedevo le due immagini confrontarsi, sovrapporsi), e il giorno dopo corsi a verificare. Diametro della Luna: km 3474,8. Diametro di Io: km 3643,2. Ci siamo. Ma adesso la domanda è: come facevo a saperlo?
La prima risposta che può venire alla mente è che io lo avevo letto, lo avevo sentito da qualche parte, e nel mio inconscio avevo stivato il dato. È interessante, comunque, il fatto che questa pagina di saggistica astronomica si è affacciata così, nella mia mente. La scienza procede con prove, esperimenti, esplorazioni – ma anche grazie a intuizioni, a visioni – e ai libri già scritti, raccogliendoli, leggendoli, pensandoci su.
Poi, certo, ci sono le finte scienze. Da quelle immaginarie – e qui si può consultare Forse Queneau di Paolo Albani e Paolo della Bella – a quelle create in buona o meno buona fede, e prima o poi falsificate, cose che vanno dagli abbagli individuali e collettivi, come i raggi N di René Blondlot, l’orgone di Wilhelm Reich, la poliacqua, la fusione nucleare fredda, alle teorie imaginifiche e stupefacenti, come i viaggi nel tempo o le reazioni piezonucleari di Alberto Carpinteri e Roberto Mignani, che oggi non sono certezze scientifiche ma domani chissà; dalle invenzioni folli come l’eugenica di Francis Galton, il raggio della morte di Nikola Tesla, le eliche sposta-nuvole di Pier Luigi Ighina, il cronovisore di Pellegrino Ernetti, alle vere e proprie frodi, studiate a tavolino o cavalcate per obiettivi ideologico-strumentali, come i reportage del “New York Sun” su flora e fauna selenite, l’uomo di Piltdown o il rapporto vaccinazione-autismo proclamato da Andrew Wakefield, sino alle medicine magiche e ai miracoli: il mesmerismo, l’omeopatia, la memoria dell’acqua, la cromoterapia. E per chi volesse saperne di più sulle pseudo scienze c’è allora il libro di Silvano Fuso intitolato, giustappunto, La falsa scienza.
Tutto questo ci porta anche a sospettare che quando nasce un falso sapere – per qualsiasi motivo esso nasca e venga proposto, magari semplicemente per una banale associazione di idee o eventi (così è per le superstizioni, per le sciocche credenze sulle persone e gli eventi che “portano male”, per i supposti fenomeni di telepatia e chiaroveggenza), per il piacere della chiacchiera, o come espediente turistico-commerciale (la Torino magica e diabolica) – ci saranno poi molti che contribuiranno, sempre in buona fede (le vie che portano all’inferno sono lastricate di buone intenzioni cementate con tanta buona fede) a sviluppare quella credenza, a cercarne spiegazioni, ad amplificarne la diffusione.
Io sono affacciato – come tutti – sull’universo. Per questo Natale, anziché la stella cometa, mi è apparso Io. Forse è un segnale: potrebbe essere di buon auspicio l’anno prossimo, anche se in mancanza di anniversari particolari – anzi, verrebbe da dire, a maggior ragione – il riprendere in mano i libri di Galileo Galilei. Che, fra l’altro, per Calvino era lo scrittore più importante della letteratura italiana.
Marco Innocenti, Io e la Luna, dicembre 2023

Altri lavori di Marco Innocenti: articoli in Il Regesto, Bollettino bibliografico dell’Accademia della Pigna – Piccola Biblioteca di Piazza del Capitolo, Sanremo (IM); articoli in Mellophonium; (a cura di) Marco Innocenti, Presenzio Astante, Tre fotografie, lepómene editore, 2024; Silvana Maccario, Margini (Introduzione di) Marco Innocenti, Quaderno del circolo lepómene stampato a Sanremo, gennaio 2023; Lorem ipsum, lepómene editore, 2022; (a cura di) Marco Innocenti, Il magistero di Cesare Trucco – per il centenario della nascita 1922-2022, Lo Studiolo, Sanremo, 2022; Scritti danteschi. Due o tre parole su Dante Alighieri, Lo Studiolo, 2021; I signori professori, lepómene editore, 2021; (a cura di) Alfredo Moreschi, Marco Innocenti, Quaderno del circolo lepómene stampato a Sanremo, aprile 2021; Verdi prati erbosi, lepómene editore, 2021; Libro degli Haikai inadeguati, lepómene editore, 2020; Elogio del Sgt. Tibbs, Edizioni del Rondolino, 2020; Flugblätter #3. 54 pezzi dispersi e dispersivi, Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2019; Sandro Bajini, Fumata bianca dopo penosi conciliaboli (con prefazione di Marco Innocenti), Lo Studiolo, 2018; articoli in Sanremo e l’Europa. L’immagine della città tra Otto e Novecento. Catalogo della mostra (Sanremo, 19 luglio-9 settembre 2018), Scalpendi, 2018; Flugblätter (#2. 39 pezzi più o meno d’occasione), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2018; Sandro Bajini, Andare alla ventura (con prefazione di Marco Innocenti e con una nota di Maurizio Meschia), Lo Studiolo, Sanremo, 2017; La lotta di classe nei comic books, i quaderni del pesce luna, 2017; Sanguineti didatta e conversatore, Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2016; Pubblicità, lepómene editore, 2015; Sandro Bajini, Libera Uscita epigrammi e altro (postfazione di Fabio Barricalla, con supervisione editoriale di Marco Innocenti e progetto grafico di Freddy Colt), Lo Studiolo, Sanremo, marzo 2015; Enzo Maiolino, Non sono un pittore che urla. Conversazioni con Marco Innocenti, philobiblon, Ventimiglia, 2014; articolo in I raccomandati/Los recomendados/Les récommendés/Highly recommended N. 10 – 11/2013; Sandro Bajini, Del modo di trascorrere le ore. Intervista a cura di Marco Innocenti, Ventimiglia, philobiblon, 2012; Sull’arte retorica di Silvio Berlusconi (con uno scritto di Sandro Bajini), Editore Casabianca, Sanremo (IM), 2010; Pensierini, Lepomene, Sanremo, 2010; Sgié me suvièn, Lepomene, Sanremo, 2010; Prosopografie, lepómene editore, 2009; C’è un libro su Marcel Duchamp, lepómene editore, Sanremo 2008; (a cura di) Alfredo Moreschi in collaborazione con Marco Innocenti e Loretta Marchi, Catalogo della mostra fotografica. 1905-2005: Centenario del Casinò Municipale di Sanremo. Una storia per immagini, De Ferrari, Genova, 2007; Flugblätter (#1. 49 pezzi facili), lepómene editore, 2007; con Loretta Marchi e Stefano Verdino, Marinaresca la mia favola. Renzo Laurano e Sanremo dagli anni Venti al Club Tenco. Saggi, documenti, immagini, De Ferrari, 2006
Adriano Maini

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Scorrendo le lettere è inoltre possibile seguire idealmente quasi tutta la produzione letteraria di Raimondi fino al 1965 adrianomaini.altervista.org/sc…





Le origini cremonesi e il ricordo della Lombardia non sono così presenti nell’opera di Corazzini adrianomaini.altervista.org/le…




Il romanzo di Lampedusa diventò il primo bestseller italiano


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Dopo il suo ingresso nel conflitto al fianco della Germania, il primo atto bellico dell’Italia di Mussolini è quello di attaccare i territori francesi lungo il confine. L’annuncio è dato in tono solenne il 10 giugno 1940. Il «Corriere della Sera» scrive a caratteri cubitali in prima pagina: “Folgorante annunzio del Duce. La guerra alla Gran Bretagna e alla Francia. Popolo italiano corri alle armi” ❤.
La risposta alleata è perentoria e Torino viene subito bombardata. Gli aerei britannici si alzano per la prima volta sopra i cieli torinesi nella notte tra l’11 e il 12 giugno e trovano la città perfettamente impreparata ed illuminata, con le sirene che avvertono la popolazione del pericolo ad attacco ormai iniziato.
L’incursione degli aerei inglesi si protrae dalle ore 1.30 alle 3.30 e causa 17 morti e 40 feriti <4.
Capire perché Torino, insieme a Genova, è la prima città colpita dagli Alleati è abbastanza semplice: è la più vicina, geograficamente parlando, al confine con la Francia e, soprattutto, ha una fiorente industria automobilistica, che può essere agevolmente convertita in industria bellica.
Tra il 1942 e 1943 Torino è colpita dai bombardamenti più tremendi. Solamente durante la notte del 18 novembre 1942 sono 91 le bombe che, sganciate da 77 aerei, provocano numerosi incendi ma soprattutto 42 morti e 72 feriti <5. Quarantotto ore dopo 250 bombardieri sganciano 100.000 spezzoni da 4 libbre, una bomba incendiaria da 30 libbre ogni secondo, una massa di bombe esplosive, tra cui alcune da 4000 libbre <6. Ciò causa la distruzione di molti stabilimenti torinesi e provoca 117 vittime e 120 feriti.
Una situazione drammatica che non cambia nel 1943. Anzi il 13 luglio si registra il bombardamento più devastante, che causa 792 morti e 914 feriti <7.
L’unica risposta che la popolazione riesce a trovare per difendersi dalla morte che “piove dal cielo” è l’esodo.
La prima migrazione dalla città è del 1940, quando le classi più agiate decidono di trasferirsi nelle proprie seconde case di Trana, Giaveno, Buttigliera Alta, Reano, Coazze. Si tratta di una scelta provvisoria, però. Già in inverno molti torinesi tornano in città, fiduciosi che la situazione possa migliorare. Una speranza che si rivela vana. L’esodo, questa volta a tempo indeterminato, si trasforma nell’unico modo che i cittadini hanno per mettersi in sicurezza, a partire dall’inverno tra il 1942 e il 1943. I dati al primo luglio 1943 della Commissione per lo sfollamento, istituita presso il Comitato provinciale di protezione antiaerea, indicano 318.000 torinesi sfollati, di cui 186.251 nella provincia e 130.000 nel resto della regione: il 46,50% dei residenti registrati all’anagrafe di Torino è composta da sfollati. Un mese più tardi, ad agosto, il numero sale a 465.000, pari al 75% degli abitanti della cittadina <8.
Molti torinesi decidono di migrare in val Sangone, con cui si indica il complesso di quattro valli: del Forno, in cui scorre il Sangone, dell’Indiritto in cui scorre il Sangonetto, della Maddalena in cui scorre il Tauneri e la valle di Provenonda in cui scorre il Romarolo. Ma perché questa scelta? Anzitutto il territorio della valle si presenta non saturo ed è molto vicino alla pianura, cosa che facilita l’approvvigionamento di beni alimentari. Inoltre l’ottima rete di comunicazione garantisce il contatto quotidiano con Torino e le sue aziende, permettendo un forte fenomeno di pendolarismo. Gli sfollati economicamente attivi sono legati alle industrie e alle ditte commerciali torinesi, che continuano la propria attività nonostante i bombardamenti. Molte di queste aziende hanno predisposto dei servizi automobilistici per facilitare i trasferimenti, senza contare che è attiva la tramvia Satti, che collega Torino con Orbassano, Piossasco, Giaveno, Trana.
Al primo luglio 1943 gli sfollati totali in val Sangone sono 8.809, con la popolazione che aumenta, rispetto a quella normalmente residente, del 55,61%. L’Unione provinciale dei commercianti ha calcolato, per approssimazione, che di questi sfollati 2.950 compiono il viaggio giornaliero in città per poter lavorare: altri, impossibili da quantificare, fanno invece viaggi saltuari <10.
Questo accentuato pendolarismo fa aumentare il movimento di passeggeri sulla tramvia Satti, che tocca quasi le 4.000 unità giornaliere, rendendo necessaria l’attivazione di nuove corse. La tramvia rappresenta la cerniera di due mondi diversi ma legati fra loro. Questa nuova situazione spaventa gli industriali valligiani, che temono di perdere la loro manodopera. Infatti l’economia della valle non è legata solo all’agricoltura, come si potrebbe immaginare. Lungo il corso del Sangone sono sorte fiorenti carterie e stabilimenti tessili. Accanto all’industria, la bassa valle presenta seminativi nella zona pianeggiante di Bruino e Sangano e frutteti nelle aree collinari tra Trana e Reano. Ma a rendere difficile lo sviluppo di un’agricoltura moderna e industriale è l’assenza di grandi proprietà private. I terreni sono infatti divisi in piccoli appezzamenti che non consentono la nascita di aziende agricole di dimensioni significative, ma solamente di attività capaci di garantire l’autosufficienza delle famiglie, con la possibilità di vendere l’eventuale modesto surplus alimentare. Anche il commercio non vede la nascita di grandi realtà, ma è costituito da piccoli negozi: botteghe, osterie, empori, dove non vi è specializzazione dell’offerta ma si vende un po’ di tutto.

[NOTE]3 S.A., “Folgorante annunzio del Duce. La guerra alla Gran Bretagna e alla Francia. Popolo italiano corri alle armi”, in Corriere della Sera, 11 giugno 1940, p. 1.
4 Giovanni De Luna, Torino in guerra, in N. Tranfaglia (a cura di) Storia di Torino. Dalla Grande Guerra alla liberazione (1915-1945), Torino, Einaudi, 1998, p. 715.
5 Pier Luigi Bassignana, Torino sotto le bombe, Torino, Edizioni del Capricorno, 2003, pp. 37-39.
6 Giovanni De Luna, Torino in guerra, in N. Tranfaglia (a cura di) Storia di Torino. Dalla Grande Guerra alla liberazione (1915-1945), Torino, Einaudi, 1998, p. 742.
7 P. Bassignana, Torino, cit., pp. 76-77.
8 Gianni Oliva, La Resistenza alle porte di Torino, Milano, Franco Angeli, 1989, p. 37.
9 Comune di Torino, Annuario statistico della città di Torino 1943, Torino, Accame, 1945, pp. XLV-XLVIII.
10 G. Oliva, La Resistenza, cit., p. 37.
Francesco Rende, Mario Greco e la Resistenza in val Sangone, Tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Anno accademico 2016-2017

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Una certa attenzione all’Aginter Presse fu data dal giudice Giovanni Tamburino


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Giannettini, la cui figura emerse durante le indagini relative alla strage di piazza Fontana, raccontò di aver conosciuto Guillou a Lisbona nel 1964 grazie alla mediazione del capitano dell’Organisation de l’Armée Secrète Jean-René Souetre, provando una volta di più i legami intercorsi tra i terroristi francesi e l’estrema destra italiana.
La vicenda dell’Aginter Presse terminò nel 1974, quando la «Rivoluzione dei garofani» dell’aprile mise fine al regime di Marcelo Caetano, costringendo i suoi dirigenti e i loro sottoposti e simpatizzanti a rifugiarsi nella più accogliente Spagna. Nel maggio, un gruppo di militanti favorevoli al nuovo governo portoghese, in seguito alla delazione di un ufficiale della PIDE, fece un’irruzione nei locali della sedicente agenzia, in Rua das Praças, trovando una vera e propria miniera di documenti. All’interno dei locali, venne inoltre scoperta una vera e propria fabbrica di atti contraffatti, insieme a una collezione di timbri e visti relativi alle frontiere di tutta Europa. Dall’esame della documentazione ritrovata, la Commissione di smantellamento della PIDE rivelava che “[…] l’AGINTER PRESS era stata, sino all’aprile 1974, un centro di eversione internazionale, finanziato non solo dal Governo portoghese ma anche da altri Governi europei, dietro cui si celava: – Un centro spionistico legato ai servizi segreti portoghesi e ad altri servizi segreti occidentali quali la C.I.A. e la rete tedesco-occidentale GEHLEN; – Un centro di reclutamento e di addestramento di mercenari e terroristi specializzati in attentati e sabotaggi soprattutto nei Paesi del Terzo Mondo; – Un’organizzazione fascista internazionale denominata «ORDRE ET TRADITION» e il suo braccio militare O.A.C.I. (ORGANISATION D’ACTION CONTRE LE COMMUNISME INTERNATIONAL)” <582.
Qualche mese dopo l’inquietante scoperta, un anonimo dissidente politico portoghese telefonò alla redazione de L’Europeo, a Milano, chiedendo del giornalista Corrado Incerti – conosciuto proprio in occasione della caduta del regime di Caetano – al quale riferì: “Vada al Barrio da Lapa, al numero 13 di Rua das Praças. I militari hanno appena sequestrato una valanga di documenti di un’agenzia terroristica chiamata Aginter Presse e li hanno nascosti nel palazzo della Pide. Non troverà niente, ma sono certo che questa notizia interesserà molto all’Italia” <583.
Insieme al collega Sandro Ottolenghi e al fotografo Piero Raffaelli, Incerti si diresse a Lisbona per visionare i documenti sequestrati. Riuscirono a leggerne solo una piccola parte, poiché furono presto allontanati con una scusa e gli fu impedito di vederne altri ma fu grazie a Raffaelli se, oggi, ci resta una prova fotografica di alcuni di essi. Nel novembre 1974 Incerti e Ottolenghi pubblicarono la loro inchiesta su L’Europeo, in un articolo intitolato “Giornalisti italiani al servizio dell’agenzia terroristica”, nel quale furono inoltre riprodotti alcuni brani del documento “Notre action politique”. “In sostanza, come risulta dalla fitta corrispondenza tra Leo Negrelli (un giornalista italiano residente a Madrid deceduto qualche mese fa, redattore della Voce dell’Occidente) e Guérin-Serac (direttore dell’Aginter Presse), l’agenzia portoghese operava «parallelamente e contemporaneamente» in due campi: informazione – propaganda (e si chiamava Aginter Presse) e azioni eversive pratiche (e allora prendeva il nome di OACI, «Organisatione Armée contre le Comunisme International»; dov’è evidente l’influenza dell’OAS e dove sono ben chiari gli scopi). Guérin-Serac definisce sempre l’OACI come «organizzazione».
In queste strutture operavano gli agenti veri e propri a tempo pieno (classificati in codice «S1» se speciali e «I1» se ufficiali) e i collaboratori diretti di ogni paese (classificati come «H1»). Gli «H1» italiani erano una trentina, e di essi molti erano giornalisti” <584.
Si diceva, per esempio, di Guido Giannettini: «Da prendersi con le pinze», «legato a Pino Rauti di Ordine Nuovo»; «ha preso contatto con la Legione Portoghese nel 1962-1963: in seguito a ciò ha inviato un rapporto a Gomes Lopes, funzionario del servizio Sicurezza della Legione». Su Giano Accame, invece, si segnalava un primo contatto il 17 dicembre 1966, mentre era definito «giornalista al Borghese, responsabile del movimento Nuova Repubblica e redattore capo della rivista omonima». Suoi intermediari sarebbero stati il terrorista dell’OAS “Jean Brune e Umberto Mazzotti; non è il tipo italiano classico, forte personalità, grande intelligenza politica; di origine fascista e sposato con la figlia di un gerarca fascista; forte tendenza nazionalsocialista: non manifesta i suoi sentimenti, anzi fa il contrario; Accame vuol possedere un movimento politico ristretto che sia indipendente e che prepari l’elaborazione di una nuova forma politica in Italia; pensa di poter essere interlocutore valido o perlomeno intermediario fra il regime e l’esercito se questo entra in crisi contro il primo; possiede numerosi contatti internazionali, soprattutto tedeschi; gioca la carta Strauss con cui è in rapporti epistolari; è corrispondente a Roma della «rete» di origine tedesca, cinghia di trasmissione dell’organizzazione Gehelen; mi ha fornito [all’agente dell’organizzazione autore del rapporto, NdA] numerosi contatti in Germania e altrove” <585.
L’articolo proseguì aggiungendo: “Altri giornalisti italiani schedati come «H 1» e dei quali, negli archivi, giace una fitta corrispondenza con Lisbona sono: Giorgio Torchia […], Pino Rauti, Armando Mortilla […], Ezio Ciccarella, Umberto Mazzotti, Michele Rallo del Secolo d’Italia. In una sua relazione del 25 novembre 1966, inoltre l’agente Joel parla di Piero Buscaroli del Borghese. Dice: «Costui è un amico di sempre. È un giornalista di cui mi aveva parlato Mazzotti e che ha importanti contatti nel Sud-Est asiatico e nell’Estremo Oriente. Mantiene rapporti amichevoli con il generale Ky. In più Buscaroli è in legame diretto con l’equipe dirigente dei conservatori americani»” <586.
L’articolo, come si può ben comprendere e alla luce della scomparsa dei documenti dell’Aginter Presse, fu una vera e propria miniera di informazioni sui rapporti tra il gruppo facente capo a Yves Guillou e l’estrema destra italiana, in un momento in cui, nella penisola, emergeva con sempre maggiore evidenza l’esistenza di una pista ordinovista dietro le stragi di Milano e Brescia.
Una certa attenzione all’Aginter Presse in seguito alla pubblicazione dell’inchiesta fu data, nel dicembre 1974, dal giudice Giovanni Tamburino, nell’ambito dell’inchiesta sulla «Rosa dei Venti». Emilio Santillo, all’epoca responsabile della Direzione generale di pubblica sicurezza – Servizio informazioni generali e sicurezza interna (Dgps-Sigsi), accluse l’inchiesta di Incerti alle indagini condotte in merito evitando, però, di segnalare il nome di Mortilla, seppure presente tra i documenti rinvenuti nella sede dell’Aginter. Solamente in seguito al trasferimento del sedicente giornalista in Spagna il suo nome fu rivelato, ancora una volta, da Umberto Federico D’Amato, il quale aspettò, tuttavia, che non ci fossero altre scappatoie: era infatti facilmente intuibile dai documenti rinvenuti che il contatto romano di Guillou fosse Mortilla. È qui interessante notare come D’Amato, comunque, decise di evitare di rivelare che Mortilla fosse la fonte «Aristo», probabilmente, come suggerito da Aldo Giannuli, per nascondere la sua reale mansione – più o meno prevista – di «agente provocatore» <587.
Con la dovuta eccezione dell’indagine di Tamburino, l’eco dell’articolo di Incerti, però, fu piuttosto modesta, e la sua importanza fu riconosciuta solamente negli anni Novanta, con la già citata «Sentenza-ordinanza» del magistrato Guido Salvini.

[NOTE]582 Giudice istruttore di Milano, dottor Salvini, rg. 2/92 F, sentenza ordinanza del 3 febbraio 1998 contro Rognoni Giancarlo + 32, cit., p. 368.
583 A. SCERESINI, Internazionale nera, cit., p. 13.
584 C. INCERTI, S. OTTOLENGHI, P. RAFFAELLI, Giornalisti italiani al servizio dell’agenzia terroristica, «L’Europeo», 28.11.1974 (l’articolo è consultabile online all’indirizzo: ecn.org/ponte/doss12/novita/ag…).
585 Ibidem.
586 Ibidem.
587 A. GIANNULI, E. ROSATI, Storia di Ordine Nuovo, cit., p. 72.
Veronica Bortolussi, I rapporti tra l’estrema destra italiana e l’Organisation de l’Armée Secrète francese, Tesi di Laurea, Università Ca’ Foscari Venezia, Anno Accademico 2016-2017

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Una scena realizzata ad Isolabona (IM) a fine luglio 2011, ispirata al romanzo "Islabonita" di Nico Orengo





Lo scelbismo era soprattutto una versione esasperata e pedantesca della lezione cattolico-popolare di Sturzo reinterpretata da De Gasperi bigarella.wordpress.com/2024/1…


Ci sembra di aver già dimostrato come soluzioni governative e culture politiche autoritarie o ademocratiche possano perfettamente inserirsi in una dialettica pluralista. Se dunque la DC e il neopopolarismo all’alba della Repubblica hanno avuto il merito di neutralizzare queste tendenze, assorbendole, questo non ha però significato la scomparsa delle loro istanze né il rifiuto della loro legittimità.
Contemporaneamente, sia da parte democristiana che missina, si manifestarono a livello di battaglia culturale i tentativi di attuare rispettivamente una conversione centrista della destra e di saldarsi politicamente al centro in nome dell’anticomunismo. Infatti, da una parte, “è probabile che nella loro personale percezione degli eventi e dei compiti storici della Dc, i due uomini politici siciliani, il maestro e l’allievo [Luigi Sturzo e Mario Scelba, nda], senza dubbio sinceri nella loro comune avversione ad ogni forma di totalitarismo, avvertissero l’impegno anticomunista come una pura e semplice prosecuzione del precedente impegno antifascista. […] Proprio l’antifascismo sollecitava il massimo rigore repressivo nei confronti dei comunisti: per evitare, infatti, che le forze economiche, il ceto politico e amministrativo e il seguito di massa del travolto regime cedessero alla tentazione di ricostituire la loro unità a destra intorno al nucleo dei nostalgici del partitino di Almirante e De Marsanich, occorreva che il governo guidato dai cattolici si mostrasse capace di assicurare e difendere anche gli interessi del fronte borghese-capitalistico con una determinazione almeno non inferiore a quella dimostrata, nel ventennio dal governo di Mussolini. A una siffatta operazione finalizzata a una conversione centrista della destra erano affidate le stesse sorti della politica perseguita da De Gasperi per la rinascita di un sistema liberalcapitalistico temperato da un prudente riformismo, idoneo ad assicurare il più largo insediamento sociale possibile, e potenzialmente l’egemonia, alla Democrazia cristiana”. <591
Dall’altra, invece, con la costituzione del Movimento sociale, gli ex salotini avevano trovato una casa politica che in breve assorbì tutta la galassia fascista sopravvissuta alla guerra. Il problema che si pone al MSI è, in breve tempo, quello di riuscire a costruirsi un proprio spazio di agibilità politica, avviando trattative su più fronti per ottenere legittimità, avendo intuito perfettamente l’emergenza anticomunista che guidava la nuova classe dirigente.
“[Il Msi] dopo la prima segreteria di Almirante e con l’avvento di esponenti meno caratterizzati (come De Marsanich e Michelini), andò stemperando la propria caratterizzazione più radicale. […] per la maggior parte dei fascisti il problema era quello di guadagnare uno spazio in cui poter dignitosamente sopravvivere tornando a far politica nelle condizioni date. Pino Romualdi ebbe un ruolo politico determinante in questo senso, cercando realisticamente intese con gli americani. Dopo, una volta realizzata la centralità della Dc nel nuovo sistema politico, la strategia fu orientata a costruire un solido polo di Destra che la condizionasse. Per i dirigenti più accorti, obbiettivo da perseguire non fu più né il fascismo regime né quello della Rsi, quanto piuttosto un sistema corporativista autoritario con forme più o meno ridotte di democrazia, magari, come il regime portoghese salazarista (che trovava il gradimento dei gesuiti della “Civiltà Cattolica”). Cosa che poteva essere fatta solo gettando un ponte verso il grande Centro cattolico raccolto nella Dc, in nome del comune fronte anticomunista”. <592
L’alternativa salazariana è una prospettiva comunque presente nella Democrazia cristiana, le cui correnti di destra restano sempre sensibili all’apertura verso PNM e MSI e anzi avversano la legge Scelba sul divieto di ricostituzione del partito fascista perché, a loro dire, rendeva difficile l’accordo con i missini. Questi tentativi di convergenza hanno il loro momento più importante nella cosiddetta “operazione Sturzo”: il tentativo promosso dalla destra DC di Gedda, con il sostegno vaticano, di presentare alle amministrative di Roma una lista civica con a capo il fondatore del PPI, con l’appoggio di monarchici e neofascisti. Il progetto naufragò per l’ostilità aperta di socialdemocratici,
repubblicani e soprattutto dello stesso De Gasperi. <593 Il leader democristiano continuava a preferire una linea differente: accettare l’alleanza con i monarchici soprattutto nel meridione (dove numerose saranno le circoscrizioni con liste elettorali DC-PLI-PNM) e perseguire la cooptazione dei settori più utili del neofascismo: “Si trattava, in pratica, di creare le condizioni opportune per consentire al “Centro democratico” di preservare la sua formale identità antifascista, mentre, in concreto, proprio quel Centro si sta dando da fare per assorbire nel suo fronte, in funzione anticomunista, almeno la cosiddetta parte “moderata” e sinceramente “patriottica” delle stesse forze sociali che si erano formate nel servizio al regime fascista. […] L’allievo di Sturzo […] diventava il più abile esecutore della politica con la quale De Gasperi stava tentando di ampliare lo spazio della “democrazia”, cioè di espandere il più possibile lo spazio del centro, nell’unica direzione consentita dalle circostanze, verso destra, dato che verso sinistra la strada appariva sbarrata dall’egemonia del Pci su Nenni e sui socialisti”. <594
Soltanto con i governi Pella e Scelba, parallelamente ai nuovi orientamenti dell’ambasciatrice americana Clara Boothe Luce, cattolica intransigente della destra repubblicana, più sensibile a opzioni autoritarie e reazionarie, i reciproci avvicinamenti tra centro e destra daranno ai neofascisti nuove possibilità di conquistarsi un ruolo tattico all’interno del panorama politico italiano, sebben all’esterno dell’arco costituzionale.
La cultura di governo della classe dirigente centrista presiede alla ricostituzione del partito moderato che, anche negli anni successivi in cui la formula del “Centro democratico” autonomo viene meno, continuerà comunque ad informare l’azione degli esecutivi e la cultura dello Stato. Secondo Giuseppe Carlo Marino, riassumendo in poche righe una considerazione complessiva della cultura politica di cui è stato espressione l’allievo di Sturzo, “lo scelbismo era soprattutto una versione esasperata e pedantesca della lezione cattolico-popolare di Sturzo reinterpretata da De Gasperi: un eccesso o, se si preferisce, un vero e proprio monstrum ideologico-politico della liberaldemocrazia trasferita in una forma cattolica, ovvero l’ultimo esacerbato prodotto della tradizione clerico-moderata”. <595

[NOTE]591 G.C. Marino, op. cit., pp. 35-36
592 A. Giannuli, Il Noto servizio. Le spie di Giulio Andreotti, p. 52, Castelvecchi 2013
593 Cfr. M. Del Pero, op. cit., pp. 160-61 e A. Giannuli, op. cit., pp. 54-55
594 G.C. Marino, op. cit., pp. 58-59
595 Ibidem, p. 221
Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017

bigarella.wordpress.com/2024/1…

#1953 #AlcideDeGasperi #anticomunismo #DC #ElioCatania #GiuseppeCarloMarino #LuigiSturzo #MarioScelba #moderati #MSI #Pli #Pri




Lo scelbismo era soprattutto una versione esasperata e pedantesca della lezione cattolico-popolare di Sturzo reinterpretata da De Gasperi bigarella.wordpress.com/2024/1…


Ci sembra di aver già dimostrato come soluzioni governative e culture politiche autoritarie o ademocratiche possano perfettamente inserirsi in una dialettica pluralista. Se dunque la DC e il neopopolarismo all’alba della Repubblica hanno avuto il merito di neutralizzare queste tendenze, assorbendole, questo non ha però significato la scomparsa delle loro istanze né il rifiuto della loro legittimità.
Contemporaneamente, sia da parte democristiana che missina, si manifestarono a livello di battaglia culturale i tentativi di attuare rispettivamente una conversione centrista della destra e di saldarsi politicamente al centro in nome dell’anticomunismo. Infatti, da una parte, “è probabile che nella loro personale percezione degli eventi e dei compiti storici della Dc, i due uomini politici siciliani, il maestro e l’allievo [Luigi Sturzo e Mario Scelba, nda], senza dubbio sinceri nella loro comune avversione ad ogni forma di totalitarismo, avvertissero l’impegno anticomunista come una pura e semplice prosecuzione del precedente impegno antifascista. […] Proprio l’antifascismo sollecitava il massimo rigore repressivo nei confronti dei comunisti: per evitare, infatti, che le forze economiche, il ceto politico e amministrativo e il seguito di massa del travolto regime cedessero alla tentazione di ricostituire la loro unità a destra intorno al nucleo dei nostalgici del partitino di Almirante e De Marsanich, occorreva che il governo guidato dai cattolici si mostrasse capace di assicurare e difendere anche gli interessi del fronte borghese-capitalistico con una determinazione almeno non inferiore a quella dimostrata, nel ventennio dal governo di Mussolini. A una siffatta operazione finalizzata a una conversione centrista della destra erano affidate le stesse sorti della politica perseguita da De Gasperi per la rinascita di un sistema liberalcapitalistico temperato da un prudente riformismo, idoneo ad assicurare il più largo insediamento sociale possibile, e potenzialmente l’egemonia, alla Democrazia cristiana”. <591
Dall’altra, invece, con la costituzione del Movimento sociale, gli ex salotini avevano trovato una casa politica che in breve assorbì tutta la galassia fascista sopravvissuta alla guerra. Il problema che si pone al MSI è, in breve tempo, quello di riuscire a costruirsi un proprio spazio di agibilità politica, avviando trattative su più fronti per ottenere legittimità, avendo intuito perfettamente l’emergenza anticomunista che guidava la nuova classe dirigente.
“[Il Msi] dopo la prima segreteria di Almirante e con l’avvento di esponenti meno caratterizzati (come De Marsanich e Michelini), andò stemperando la propria caratterizzazione più radicale. […] per la maggior parte dei fascisti il problema era quello di guadagnare uno spazio in cui poter dignitosamente sopravvivere tornando a far politica nelle condizioni date. Pino Romualdi ebbe un ruolo politico determinante in questo senso, cercando realisticamente intese con gli americani. Dopo, una volta realizzata la centralità della Dc nel nuovo sistema politico, la strategia fu orientata a costruire un solido polo di Destra che la condizionasse. Per i dirigenti più accorti, obbiettivo da perseguire non fu più né il fascismo regime né quello della Rsi, quanto piuttosto un sistema corporativista autoritario con forme più o meno ridotte di democrazia, magari, come il regime portoghese salazarista (che trovava il gradimento dei gesuiti della “Civiltà Cattolica”). Cosa che poteva essere fatta solo gettando un ponte verso il grande Centro cattolico raccolto nella Dc, in nome del comune fronte anticomunista”. <592
L’alternativa salazariana è una prospettiva comunque presente nella Democrazia cristiana, le cui correnti di destra restano sempre sensibili all’apertura verso PNM e MSI e anzi avversano la legge Scelba sul divieto di ricostituzione del partito fascista perché, a loro dire, rendeva difficile l’accordo con i missini. Questi tentativi di convergenza hanno il loro momento più importante nella cosiddetta “operazione Sturzo”: il tentativo promosso dalla destra DC di Gedda, con il sostegno vaticano, di presentare alle amministrative di Roma una lista civica con a capo il fondatore del PPI, con l’appoggio di monarchici e neofascisti. Il progetto naufragò per l’ostilità aperta di socialdemocratici,
repubblicani e soprattutto dello stesso De Gasperi. <593 Il leader democristiano continuava a preferire una linea differente: accettare l’alleanza con i monarchici soprattutto nel meridione (dove numerose saranno le circoscrizioni con liste elettorali DC-PLI-PNM) e perseguire la cooptazione dei settori più utili del neofascismo: “Si trattava, in pratica, di creare le condizioni opportune per consentire al “Centro democratico” di preservare la sua formale identità antifascista, mentre, in concreto, proprio quel Centro si sta dando da fare per assorbire nel suo fronte, in funzione anticomunista, almeno la cosiddetta parte “moderata” e sinceramente “patriottica” delle stesse forze sociali che si erano formate nel servizio al regime fascista. […] L’allievo di Sturzo […] diventava il più abile esecutore della politica con la quale De Gasperi stava tentando di ampliare lo spazio della “democrazia”, cioè di espandere il più possibile lo spazio del centro, nell’unica direzione consentita dalle circostanze, verso destra, dato che verso sinistra la strada appariva sbarrata dall’egemonia del Pci su Nenni e sui socialisti”. <594
Soltanto con i governi Pella e Scelba, parallelamente ai nuovi orientamenti dell’ambasciatrice americana Clara Boothe Luce, cattolica intransigente della destra repubblicana, più sensibile a opzioni autoritarie e reazionarie, i reciproci avvicinamenti tra centro e destra daranno ai neofascisti nuove possibilità di conquistarsi un ruolo tattico all’interno del panorama politico italiano, sebben all’esterno dell’arco costituzionale.
La cultura di governo della classe dirigente centrista presiede alla ricostituzione del partito moderato che, anche negli anni successivi in cui la formula del “Centro democratico” autonomo viene meno, continuerà comunque ad informare l’azione degli esecutivi e la cultura dello Stato. Secondo Giuseppe Carlo Marino, riassumendo in poche righe una considerazione complessiva della cultura politica di cui è stato espressione l’allievo di Sturzo, “lo scelbismo era soprattutto una versione esasperata e pedantesca della lezione cattolico-popolare di Sturzo reinterpretata da De Gasperi: un eccesso o, se si preferisce, un vero e proprio monstrum ideologico-politico della liberaldemocrazia trasferita in una forma cattolica, ovvero l’ultimo esacerbato prodotto della tradizione clerico-moderata”. <595

[NOTE]591 G.C. Marino, op. cit., pp. 35-36
592 A. Giannuli, Il Noto servizio. Le spie di Giulio Andreotti, p. 52, Castelvecchi 2013
593 Cfr. M. Del Pero, op. cit., pp. 160-61 e A. Giannuli, op. cit., pp. 54-55
594 G.C. Marino, op. cit., pp. 58-59
595 Ibidem, p. 221
Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017

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#1953 #AlcideDeGasperi #anticomunismo #DC #ElioCatania #GiuseppeCarloMarino #LuigiSturzo #MarioScelba #moderati #MSI #Pli #Pri




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Ci sembra di aver già dimostrato come soluzioni governative e culture politiche autoritarie o ademocratiche possano perfettamente inserirsi in una dialettica pluralista. Se dunque la DC e il neopopolarismo all’alba della Repubblica hanno avuto il merito di neutralizzare queste tendenze, assorbendole, questo non ha però significato la scomparsa delle loro istanze né il rifiuto della loro legittimità.
Contemporaneamente, sia da parte democristiana che missina, si manifestarono a livello di battaglia culturale i tentativi di attuare rispettivamente una conversione centrista della destra e di saldarsi politicamente al centro in nome dell’anticomunismo. Infatti, da una parte, “è probabile che nella loro personale percezione degli eventi e dei compiti storici della Dc, i due uomini politici siciliani, il maestro e l’allievo [Luigi Sturzo e Mario Scelba, nda], senza dubbio sinceri nella loro comune avversione ad ogni forma di totalitarismo, avvertissero l’impegno anticomunista come una pura e semplice prosecuzione del precedente impegno antifascista. […] Proprio l’antifascismo sollecitava il massimo rigore repressivo nei confronti dei comunisti: per evitare, infatti, che le forze economiche, il ceto politico e amministrativo e il seguito di massa del travolto regime cedessero alla tentazione di ricostituire la loro unità a destra intorno al nucleo dei nostalgici del partitino di Almirante e De Marsanich, occorreva che il governo guidato dai cattolici si mostrasse capace di assicurare e difendere anche gli interessi del fronte borghese-capitalistico con una determinazione almeno non inferiore a quella dimostrata, nel ventennio dal governo di Mussolini. A una siffatta operazione finalizzata a una conversione centrista della destra erano affidate le stesse sorti della politica perseguita da De Gasperi per la rinascita di un sistema liberalcapitalistico temperato da un prudente riformismo, idoneo ad assicurare il più largo insediamento sociale possibile, e potenzialmente l’egemonia, alla Democrazia cristiana”. <591
Dall’altra, invece, con la costituzione del Movimento sociale, gli ex salotini avevano trovato una casa politica che in breve assorbì tutta la galassia fascista sopravvissuta alla guerra. Il problema che si pone al MSI è, in breve tempo, quello di riuscire a costruirsi un proprio spazio di agibilità politica, avviando trattative su più fronti per ottenere legittimità, avendo intuito perfettamente l’emergenza anticomunista che guidava la nuova classe dirigente.
“[Il Msi] dopo la prima segreteria di Almirante e con l’avvento di esponenti meno caratterizzati (come De Marsanich e Michelini), andò stemperando la propria caratterizzazione più radicale. […] per la maggior parte dei fascisti il problema era quello di guadagnare uno spazio in cui poter dignitosamente sopravvivere tornando a far politica nelle condizioni date. Pino Romualdi ebbe un ruolo politico determinante in questo senso, cercando realisticamente intese con gli americani. Dopo, una volta realizzata la centralità della Dc nel nuovo sistema politico, la strategia fu orientata a costruire un solido polo di Destra che la condizionasse. Per i dirigenti più accorti, obbiettivo da perseguire non fu più né il fascismo regime né quello della Rsi, quanto piuttosto un sistema corporativista autoritario con forme più o meno ridotte di democrazia, magari, come il regime portoghese salazarista (che trovava il gradimento dei gesuiti della “Civiltà Cattolica”). Cosa che poteva essere fatta solo gettando un ponte verso il grande Centro cattolico raccolto nella Dc, in nome del comune fronte anticomunista”. <592
L’alternativa salazariana è una prospettiva comunque presente nella Democrazia cristiana, le cui correnti di destra restano sempre sensibili all’apertura verso PNM e MSI e anzi avversano la legge Scelba sul divieto di ricostituzione del partito fascista perché, a loro dire, rendeva difficile l’accordo con i missini. Questi tentativi di convergenza hanno il loro momento più importante nella cosiddetta “operazione Sturzo”: il tentativo promosso dalla destra DC di Gedda, con il sostegno vaticano, di presentare alle amministrative di Roma una lista civica con a capo il fondatore del PPI, con l’appoggio di monarchici e neofascisti. Il progetto naufragò per l’ostilità aperta di socialdemocratici,
repubblicani e soprattutto dello stesso De Gasperi. <593 Il leader democristiano continuava a preferire una linea differente: accettare l’alleanza con i monarchici soprattutto nel meridione (dove numerose saranno le circoscrizioni con liste elettorali DC-PLI-PNM) e perseguire la cooptazione dei settori più utili del neofascismo: “Si trattava, in pratica, di creare le condizioni opportune per consentire al “Centro democratico” di preservare la sua formale identità antifascista, mentre, in concreto, proprio quel Centro si sta dando da fare per assorbire nel suo fronte, in funzione anticomunista, almeno la cosiddetta parte “moderata” e sinceramente “patriottica” delle stesse forze sociali che si erano formate nel servizio al regime fascista. […] L’allievo di Sturzo […] diventava il più abile esecutore della politica con la quale De Gasperi stava tentando di ampliare lo spazio della “democrazia”, cioè di espandere il più possibile lo spazio del centro, nell’unica direzione consentita dalle circostanze, verso destra, dato che verso sinistra la strada appariva sbarrata dall’egemonia del Pci su Nenni e sui socialisti”. <594
Soltanto con i governi Pella e Scelba, parallelamente ai nuovi orientamenti dell’ambasciatrice americana Clara Boothe Luce, cattolica intransigente della destra repubblicana, più sensibile a opzioni autoritarie e reazionarie, i reciproci avvicinamenti tra centro e destra daranno ai neofascisti nuove possibilità di conquistarsi un ruolo tattico all’interno del panorama politico italiano, sebben all’esterno dell’arco costituzionale.
La cultura di governo della classe dirigente centrista presiede alla ricostituzione del partito moderato che, anche negli anni successivi in cui la formula del “Centro democratico” autonomo viene meno, continuerà comunque ad informare l’azione degli esecutivi e la cultura dello Stato. Secondo Giuseppe Carlo Marino, riassumendo in poche righe una considerazione complessiva della cultura politica di cui è stato espressione l’allievo di Sturzo, “lo scelbismo era soprattutto una versione esasperata e pedantesca della lezione cattolico-popolare di Sturzo reinterpretata da De Gasperi: un eccesso o, se si preferisce, un vero e proprio monstrum ideologico-politico della liberaldemocrazia trasferita in una forma cattolica, ovvero l’ultimo esacerbato prodotto della tradizione clerico-moderata”. <595

[NOTE]591 G.C. Marino, op. cit., pp. 35-36
592 A. Giannuli, Il Noto servizio. Le spie di Giulio Andreotti, p. 52, Castelvecchi 2013
593 Cfr. M. Del Pero, op. cit., pp. 160-61 e A. Giannuli, op. cit., pp. 54-55
594 G.C. Marino, op. cit., pp. 58-59
595 Ibidem, p. 221
Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017

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Il Komintern e la questione di Trieste bigarella.wordpress.com/2024/1…


Maribor (Slovenia). Foto: Janezdrilc. Fonte: Wikipedia

Dopo l’invasione della Slovenia da parte dell’Italia e della Germania nell’aprile 1941, tutte le forze politiche riunite nel Fronte di liberazione sloveno (Osvobodilna fronta – Of) si prefissero lo scopo della liberazione e unificazione della loro nazione. Tra queste anche il Kps, che all’interno dell’Of rappresentava la fazione più organizzata e influente. Già dalla fine del 1941 il Fronte aveva istituito una commissione interna per studiare i futuri confini della Slovenia, e il Comitato centrale (Cc) del Kps aveva dichiarato “irrinunciabili” le città di Maribor e Trieste <26. L’accentuazione patriottica nel Kps rispondeva alle direttive del Komintern dell’estate 1941, il quale per bocca di Georgij Dimitrov aveva impartito a tutti i partiti comunisti la linea da seguire dopo l’invasione tedesca dell’Urss: riedizione dei fronti popolari, costruzione di un ampio movimento di liberazione, insistenza sull’elemento nazionale e accantonamento della parola d’ordine della rivoluzione <27. Contemporaneamente, l’Of cercò di radicare la sua presenza su tutto il territorio da esso ritenuto sloveno. A questo fine, un membro del Kps fu inviato nell’agosto 1941 a Trieste e nel Litorale con l’incarico di prendere contatti con i superstiti aderenti al partito di Tomažič. Vennero così costituiti il Comitato regionale del Litorale e il Comitato cittadino del Kps e dell’Of per Trieste <28.
Sia per quanto riguarda la definizione delle rivendicazioni del Kps sul Litorale sloveno, sia per le misure pratiche che vennero ricercate e messe in campo allo scopo, l’anno-chiave può essere considerato il 1942.
Il 1° maggio il Cc del Kps, pressato sulla questione nazionale dalle ali di destra dell’Of, emanava una dichiarazione sui futuri confini sloveni: Trieste era considerata parte della nuova Jugoslavia, con uno status autonomo data la popolazione a maggioranza italiana. Il privilegio dell’autonomia non veniva concesso invece alle città italiane dell’Istria comprese nel Litorale sloveno (Muggia, Capodistria, Isola, Pirano) in quanto ritenute composte prevalentemente da immigrati <29. In questa dichiarazione, il Kps sosteneva che “alla Slovenia liberata e riunificata, oltre al territorio in cui vive la popolazione slovena, appartengono anche i territori snazionalizzati con la forza nell’ultimo periodo imperialista” <30. Per parte sua, l’Of acquisiva e rinforzava tali lineamenti: in un rapporto al Consiglio antifascista di liberazione nazionale della Jugoslavia <31, il confine occidentale della Slovenia fuoriusciva dal cosiddetto ‘territorio etnico sloveno’ per inglobare anche il triangolo esteso tra Ronchi e Monfalcone. L’espansione era giustificata con motivazioni di carattere strategico ed economico (legami dichiarati inscindibili tra Monfalcone e Trieste) <32. Erano rivendicazioni appoggiate sulla teoria della dipendenza delle città dalla campagna, e che trovavano persuasivi riscontri nel corpus dottrinario comunista. Quella che lo storico Carlo Schiffrer chiamava “teoria dei territori etnici compatti”, discendeva dalla predilezione dell’elemento contadino nell’individuazione dei caratteri fondativi della nazione ❤❤: una preferenza, come abbiamo visto, accordata dallo stesso Stalin nelle sue riflessioni sull’argomento. Non a caso un membro della commissione sui confini dell’Of, il geografo Anton Melik, spiegava che attorno a quel criterio erano stati tracciati i confini delle singole repubbliche in Unione Sovietica; e Joža Vilfan, avvocato triestino al quale era stato affidato uno studio analogo dal Kps, faceva perno su quelle tesi di Stalin per affermare l’appartenenza di Trieste al suo entroterra <34.
Ma a monte delle pretese territoriali del Kps, e dell’energia con cui venivano avanzate, oltre a queste di tipo teorico vi erano anche motivazioni strettamente politico-strategiche. Esse erano legate alla lettura che il partito dava del quadro politico europeo durante la guerra e delle sue possibili evoluzioni. Illuminanti a questo proposito sono alcune attestazioni di Edvard Kardelj, leader del Kps e numero due del Kpj, risalenti alla primavera-estate del 1942. In una lettera a Umberto Massola, allora rappresentante del Cc del Pcd’I presso il partito sloveno, Kardelj inquadrava l’argomentazione a favore dell’unione di Trieste a una Slovenia sovietica <35 all’interno di una visione strategico-ideologica ben strutturata: basata sulla prospettiva di un prossimo allargamento della rivoluzione in Germania e, quanto più possibile, nel resto del centro Europa. Tale prospettiva derivava dagli schemi ideologici elaborati nel movimento comunista internazionale tra le due guerre, schemi che avevano ispirato anche la Dichiarazione comune sul problema sloveno firmata dal Pcd’I, dal Kpj e dal Partito comunista austriaco nel 1934 <36. Essi erano figli dell’idea della ‘guerra inevitabile’ e della sua linea politica corrispondente, quella di ‘classe contro classe’; presupponevano un imminente inasprimento dei rapporti tra le potenze della coalizione antitedesca, giocato intorno all’alternativa capitale-anticapitale, in analogia con quanto avvenuto nella Prima guerra mondiale e lo scoppio della Rivoluzione d’ottobre <37. In questo scenario da tempo prefigurato, il problema della declinazione rivoluzionaria della questione nazionale slovena assumeva per Kardelj una valenza cruciale. Non si può attribuire a ragioni esclusivamente retoriche e strumentali il fatto che egli, nella lettera a Massola, presentasse la politica del Kps nel Litorale come un’applicazione dello slogan sull’autodecisione e unificazione della Slovenia enunciato nella Dichiarazione del 1934 <38. Essa, del resto, era stata confermata da Massola a nome del Pcd’I appena due mesi prima, con il Manifesto del Pcd’I per il diritto all’autodeterminazione e alla riunificazione del popolo sloveno <39. Proprio in virtù di quanto da essa previsto e pattuito, dalla primavera Kardelj iniziò a insistere sull’importanza che la lotta rivoluzionaria degli sloveni stava acquistando, finalmente su un piano concreto, per il futuro politico dell’Austria e dell’Italia. Come scrisse a Tito, “i comunisti sloveni hanno ricevuto l’ordine di scatenare la rivoluzione nel centro Europa” <40. Appoggiare e rinforzare l’estensione anche territoriale della loro lotta era interesse di tutto il movimento comunista internazionale. Se fosse riuscita a portare al distacco di intere regioni dal corpo nazionale dominante, infatti, essa avrebbe esasperato le contraddizioni tra la borghesia e il proletariato della nazione maggioritaria, trasformandosi in un poderoso incentivo alla rivoluzione. Da questo retroterra ideologico, prese avvio il tentativo perseguito dal Kpj di estendere la rivoluzione all’Italia, di far valere la propria preminenza nei confronti del Partito comunista italiano, e di incidere sulla sua linea politica (un tentativo destinato a durare fino alla rottura tra Stalin e Tito nel 1948) <41.
Nel contesto della guerra e dei rivolgimenti politico-sociali giudicati prossimi a venire, il possesso del porto di Trieste era visto dai comunisti sloveni come una delle questioni dirimenti. Chi controllava il porto, per il suo posizionamento strategico e per l’elevata concentrazione della sua classe operaia, era destinato a esercitare un’influenza decisiva sul suo entroterra, in gran parte agricolo. E ciò in un’ottica ideologica ‘classe contro classe’ che raggruppava, sin dalla prima metà del 1942, le potenze coinvolte nel conflitto in modo trasversale rispetto alle alleanze in campo. Nella stessa lettera, infatti, Kardelj scriveva a Massola: “A causa dell’atteggiamento filoinglese di gran parte della borghesia italiana, da una parte, e la debolezza dell’azione politica del proletariato italiano, dall’altra, esiste il pericolo che Trieste in futuro possa diventare il trampolino di lancio degli imperialisti reazionari inglesi […]. È chiaro che noi neutralizzeremo tutti questi tentativi – se sarà necessario – anche con le armi […]. Per quanto ci consentirà la nostra forza armata, non lasceremo Trieste a qualche governo reazionario italiano filoinglese, poiché per noi questa sarebbe una minaccia costante” <42.
È un atteggiamento che da lì in poi il Cc del Kps avrebbe ribadito con continuità. Un anno e mezzo più tardi, alla caduta di Mussolini l’eventualità di un’occupazione inglese di Trieste sarà temuta tanto quella di un’occupazione da parte dei tedeschi: “La questione se la Slovenia sarà libera ancor prima di una rivoluzione socialista nell’Europa occidentale, o se diventi, come retroterra di Trieste, colonia britannica, sarà risolta nelle vie di Trieste e quindi dobbiamo arrivare lì prima degli inglesi” <43.
Dal punto di vista sloveno, era questa complessa impostazione ideologica a presupporre la necessità che il Kps articolasse con efficacia e rapidità le sue posizioni nel Litorale. È opportuno sottolineare come questo obiettivo di espansione territoriale fosse concepito, ‘raccontato’ e indirizzato in virtù di categorie ideologiche del marxismo-leninismo; fosse cioè pubblicamente subordinato da Kardelj al superiore obiettivo internazionalista di allargare la rivoluzione all’Italia settentrionale e al centro Europa.
A questo punto, diveniva fondamentale che tali posizioni fossero ufficializzate dall’autorità cui veniva riconosciuta la competenza di stabilire le giurisidizioni e coordinare gli ambiti di azione dei diversi partiti comunisti: il Komintern. Già a Massola Kardelj aveva scritto: “Il Cc del Kpj […] ha automaticamente supposto che anche l’organizzazione politica triestina afferirà al Cc del Kps del Litorale” <44. Nello stesso mese di marzo il dirigente del Kpj faceva pressioni su Tito perché si rivolgesse al segretario del Komintern, Dimitrov, affinché questi inducesse i comunisti italiani a fissare i loro doveri rispetto al movimento comunista sloveno e croato nella Venezia Giulia. Egli sottolineava come un’organizzazione comunista dipendente dal Pcd’I non esistesse di fatto nella regione; faceva presente che il Cc del Kps (su richiesta di Massola) finanziava il ‘centro interno’ del Pcd’I con trentamila lire al mese e badava inoltre al sostentamento integrale di Massola stesso. Pertanto, Kardelj sosteneva che sarebbe stato opportuno rivendicare una forma di controllo da parte del Kps sul denaro versato al Pcd’I <45.
La realtà della presenza del Kps nel Litorale sloveno era riaffermata da Kardelj in un’altra lettera a Tito del 18 maggio: “Noi abbiamo ora lì […] un gran numero di comitati dell’Of, un distaccamento partigiano forte di circa 100 uomini […]. Negli ultimi tempi abbiamo rinnovato saldi legami nella stessa Trieste”. Circa le proteste di Massola verso le rivendicazioni sempre più precise del Kps su Trieste (la dichiarazione del partito sloveno sui futuri confini era stata pubblicata il 1° maggio) e verso le pretese di supremazia che esso avanzava sull’organizzazione comunista del Litorale, Kardelj ostentava sicurezza: “Sul problema del Litorale, si sa, [Massola] non è d’accordo. Comunque non conta […]. Lui parli pure – noi lavoreremo” <46.
La risposta tanto sollecitata alle richieste di Kardelj pervenne da Dimitrov il 3 agosto 1942, tramite una lettera a Tito di cui fu consegnata una copia a Massola due mesi dopo. È questo il documento attraverso cui il Komintern accoglieva in toto le istanze slovene e sanzionava un nuovo equilibrio, nei rapporti tra Kps e Pcd’I nel Litorale, a favore del primo: un equilibrio che, pur tra vicende alterne e tentativi di rinegoziazione da parte italiana, sarebbe sopravvissuto alla guerra per mantenersi tale fino al 1948. Vale la pena riportare per esteso il comunicato di Dimitrov: “Cc Slovenia e Cc Jugoslavia sono tenuti ad esigere dai compagni italiani il rendiconto della loro attività. Costituire gruppi di Kps nei rioni italiani d’un tempo, laddove vivono sloveni e croati – Istria, Trieste ed altrove. Sviluppare colà il movimento partigiano non è soltanto giusto, bensì pure urgente. Così pure è estremamente urgente che il tutto venga condotto a termine dal comando, in contatto con i compagni italiani, nella costituzione delle organizzazioni per la lotta partigiana ed antifascista in Istria, a Trieste ed a Fiume” <47.
Le istruzioni di Dimitrov riconoscevano senza equivoci l’egemonia del movimento comunista sloveno su quello italiano nella Venezia Giulia (anche ammettendo sue estensioni sui territori abitati da croati). Tali regioni, dal punto di vista delle strutture di partito, non dovevano più considerarsi di pertinenza italiana ma zona di operazioni del Kps. L’unica limitazione che si poneva era che ciò fosse svolto mantenendo il contatto con i compagni italiani. Si raccomandava che la direzione degli avvenimenti politici (scambio di giurisdizione tra i partiti) e militari (sviluppo del movimento partigiano) fosse assicurata al “comando”, a chi deteneva cioè il controllo militare della resistenza nella zona: vale a dire, appunto, l’Of e il Kps.
Se Stalin aveva manifestato nel dicembre 1941 una generica disponibilità a sottrarre all’Italia Trieste e gli altri suoi possedimenti nell’Adriatico orientale, la nota del Komintern del 3 agosto 1942 appare una misura coerente con questo orientamento di fondo <48. Si trattava di indirizzi che non tardarono ad avere ricadute pratiche sul territorio. Tra la fine del 1942 e la prima metà del 1943 il Kps stringeva una serie di accordi informali con il rappresentante del Pcd’I a Trieste, Vincenzo Marcon. Entrando a far parte del Consiglio nazionale di liberazione sloveno del Litorale (il governo partigiano della regione), Marcon introduceva il Pcd’I nelle strutture slovene eseguendo alla lettera il testo di Dimitrov. Negli stessi mesi, il Kps e il Pcd’I di Marcon gettavano le basi di Fratellanza operaia, l’organizzazione di massa binazionale che in seguito avrebbe preso il nome di Unità operaia e di Unione antifascista italoslava (Uais) <49. Nel frattempo, alla conferenza regionale del Kps del 4-5 dicembre 1942 il Litorale era di fatto riconosciuto come parte del nuovo Stato sloveno <50.

[NOTE]26 Troha, Il movimento di liberazione sloveno cit., p. 111.
27 E. Mark, Revolution by Degrees: Stalin’s National-Front Strategy for Europe 1941-1947, Cold War International History Project, Working Paper n. 31, Woodrow Wilson International Centre for Scholars, Washington D.C. 2001, p. 15.
28 Ursini-Uršič, Attraverso Trieste cit., pp. 153-55. L’autore, che si basa sulla ricostruzione di Vid Vremec (Pinko Tomažič in drugi tržaški proces, Lipa e Založništvo tržaškega tiska, Koper 1989), anticipa di un anno l’attività del Kps e dell’Of nel Litorale rispetto a quanto afferma G. Fogar in Trieste in guerra. Società e Resistenza 1940-1945, Irsml-Fvg, Trieste 1999, pp. 73-74.
29 Troha, Il movimento di liberazione sloveno cit., p. 113.
30 Cit. in B. Godeša, I comunisti sloveni e la questione di Trieste nella Seconda guerra mondiale, ‘Qualestoria’, a. XXXV (2007), n. 1, pp. 119-32, in partic. p. 24.
31 Antifašističko vijeće narodnog oslobodjenia Jugoslavije (Avnoj), il supremo organo di rappresentanza del nuovo Stato rivoluzionario jugoslavo.
32 Troha, Il movimento di liberazione sloveno cit., p. 113. A questo rapporto dell’Of non presta attenzione il saggio di Godeša, pur incentrato sugli stessi problemi.
33 Comitato di liberazione nazionale dell’Istria, Il problema di Trieste. Realtà storica, politica, economica, Trieste 1954 (testo di C. Schiffrer).
34 Godeša, I comunisti sloveni cit., pp. 122, 125-26.
35 In nessun altro modo a mio parere si possono interpretare le parole di Kardelj: “Come città italiana Trieste rappresenterà un settore autonomo nazionalmente italiano […] annessa a quella repubblica sovietica a cui apparterrà l’entroterra triestino”. Lettera di Kardelj a Umberto Massola, seconda metà di marzo 1942, in Godeša, I comunisti sloveni cit., pp. 127-28.
36 La Dichiarazione assegnava un ruolo centrale al problema sloveno in previsione “del nuovo ciclo di guerre e rivoluzioni, di cui siamo alla vigilia”: cfr. supra.
37 A. Di Biagio, La teoria dell’inevitabilità della guerra, in F. Gori (a c. di), Il XX congresso del Pcus, Franco Angeli, Milano 1988; S. Pons, Stalin e la guerra inevitabile: 1936-1941, Einaudi, Torino 1995.
38 Ivi, pp. 127-28.
39 Nel gennaio 1942: Troha, Il movimento di liberazione sloveno cit., p. 112; Ursini-Uršič, Attraverso Trieste cit., pp. 162-63.
40 Lettera di Kardelj a Tito, 29 marzo 1942, in Ursini-Uršič, Attraverso Trieste cit., ibidem.
41 Alla documentazione che attesta tali tentativi fa riferimento anche Troha, Il movimento di liberazione sloveno cit. Ursini-Uršič parla esplicitamente di tentativi di “esportare il modello sloveno” in Italia e di “porre sotto il controllo di Tito, cioè del Kpj, l’attività del ‘centro interno’ del Pcd’I”: Attraverso Trieste cit., p. 164.
42 Lettera di Kardelj a Umberto Massola cit.
43 Troha, Il movimento di liberazione sloveno cit., p. 114.
44 Lettera di Kardelj a Umberto Massola cit.
45 Lettera di Kardelj a Tito, 29 marzo 1942 cit.
46 Lettera di Kardelj a Tito, 18 maggio 1942, cit. in Ursini-Uršič, Attraverso Trieste cit., p. 165.
47 Il documento del Komintern è riportato in Ursini-Uršič, Attraverso Trieste cit., p. 183. Qui anche la notizia del ritardo nella notifica a Massola. Commenti al testo anche in Troha, Il movimento di liberazione sloveno cit., p. 112 e in Godeša, I comunisti sloveni cit., p. 127 (quest’ultimo con un’evidente forzatura interpretativa).
48 Durante il colloquio con il ministro degli Esteri della Gran Bretagna Anthony Eden: L.Ja. Gibjanskij, Mosca, il Pci e la questione di Trieste (1943-1948) in F. Gori, S. Pons (a c. di), Dagli archivi di Mosca, L’Urss, il Cominform e il Pci (1943-1951), Carocci, Roma 1998, pp. 85-133, in partic. p. 89.
49 Fogar, Trieste in guerra cit., pp. 129-30.
50 Troha, Il movimento di liberazione sloveno cit., p. 114.
Patrick Karlsen, Il PCI, il confine orientale e il contesto internazionale (1941-1955), Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 2007-2008

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Il Komintern e la questione di Trieste bigarella.wordpress.com/2024/1…


Maribor (Slovenia). Foto: Janezdrilc. Fonte: Wikipedia

Dopo l’invasione della Slovenia da parte dell’Italia e della Germania nell’aprile 1941, tutte le forze politiche riunite nel Fronte di liberazione sloveno (Osvobodilna fronta – Of) si prefissero lo scopo della liberazione e unificazione della loro nazione. Tra queste anche il Kps, che all’interno dell’Of rappresentava la fazione più organizzata e influente. Già dalla fine del 1941 il Fronte aveva istituito una commissione interna per studiare i futuri confini della Slovenia, e il Comitato centrale (Cc) del Kps aveva dichiarato “irrinunciabili” le città di Maribor e Trieste <26. L’accentuazione patriottica nel Kps rispondeva alle direttive del Komintern dell’estate 1941, il quale per bocca di Georgij Dimitrov aveva impartito a tutti i partiti comunisti la linea da seguire dopo l’invasione tedesca dell’Urss: riedizione dei fronti popolari, costruzione di un ampio movimento di liberazione, insistenza sull’elemento nazionale e accantonamento della parola d’ordine della rivoluzione <27. Contemporaneamente, l’Of cercò di radicare la sua presenza su tutto il territorio da esso ritenuto sloveno. A questo fine, un membro del Kps fu inviato nell’agosto 1941 a Trieste e nel Litorale con l’incarico di prendere contatti con i superstiti aderenti al partito di Tomažič. Vennero così costituiti il Comitato regionale del Litorale e il Comitato cittadino del Kps e dell’Of per Trieste <28.
Sia per quanto riguarda la definizione delle rivendicazioni del Kps sul Litorale sloveno, sia per le misure pratiche che vennero ricercate e messe in campo allo scopo, l’anno-chiave può essere considerato il 1942.
Il 1° maggio il Cc del Kps, pressato sulla questione nazionale dalle ali di destra dell’Of, emanava una dichiarazione sui futuri confini sloveni: Trieste era considerata parte della nuova Jugoslavia, con uno status autonomo data la popolazione a maggioranza italiana. Il privilegio dell’autonomia non veniva concesso invece alle città italiane dell’Istria comprese nel Litorale sloveno (Muggia, Capodistria, Isola, Pirano) in quanto ritenute composte prevalentemente da immigrati <29. In questa dichiarazione, il Kps sosteneva che “alla Slovenia liberata e riunificata, oltre al territorio in cui vive la popolazione slovena, appartengono anche i territori snazionalizzati con la forza nell’ultimo periodo imperialista” <30. Per parte sua, l’Of acquisiva e rinforzava tali lineamenti: in un rapporto al Consiglio antifascista di liberazione nazionale della Jugoslavia <31, il confine occidentale della Slovenia fuoriusciva dal cosiddetto ‘territorio etnico sloveno’ per inglobare anche il triangolo esteso tra Ronchi e Monfalcone. L’espansione era giustificata con motivazioni di carattere strategico ed economico (legami dichiarati inscindibili tra Monfalcone e Trieste) <32. Erano rivendicazioni appoggiate sulla teoria della dipendenza delle città dalla campagna, e che trovavano persuasivi riscontri nel corpus dottrinario comunista. Quella che lo storico Carlo Schiffrer chiamava “teoria dei territori etnici compatti”, discendeva dalla predilezione dell’elemento contadino nell’individuazione dei caratteri fondativi della nazione ❤❤: una preferenza, come abbiamo visto, accordata dallo stesso Stalin nelle sue riflessioni sull’argomento. Non a caso un membro della commissione sui confini dell’Of, il geografo Anton Melik, spiegava che attorno a quel criterio erano stati tracciati i confini delle singole repubbliche in Unione Sovietica; e Joža Vilfan, avvocato triestino al quale era stato affidato uno studio analogo dal Kps, faceva perno su quelle tesi di Stalin per affermare l’appartenenza di Trieste al suo entroterra <34.
Ma a monte delle pretese territoriali del Kps, e dell’energia con cui venivano avanzate, oltre a queste di tipo teorico vi erano anche motivazioni strettamente politico-strategiche. Esse erano legate alla lettura che il partito dava del quadro politico europeo durante la guerra e delle sue possibili evoluzioni. Illuminanti a questo proposito sono alcune attestazioni di Edvard Kardelj, leader del Kps e numero due del Kpj, risalenti alla primavera-estate del 1942. In una lettera a Umberto Massola, allora rappresentante del Cc del Pcd’I presso il partito sloveno, Kardelj inquadrava l’argomentazione a favore dell’unione di Trieste a una Slovenia sovietica <35 all’interno di una visione strategico-ideologica ben strutturata: basata sulla prospettiva di un prossimo allargamento della rivoluzione in Germania e, quanto più possibile, nel resto del centro Europa. Tale prospettiva derivava dagli schemi ideologici elaborati nel movimento comunista internazionale tra le due guerre, schemi che avevano ispirato anche la Dichiarazione comune sul problema sloveno firmata dal Pcd’I, dal Kpj e dal Partito comunista austriaco nel 1934 <36. Essi erano figli dell’idea della ‘guerra inevitabile’ e della sua linea politica corrispondente, quella di ‘classe contro classe’; presupponevano un imminente inasprimento dei rapporti tra le potenze della coalizione antitedesca, giocato intorno all’alternativa capitale-anticapitale, in analogia con quanto avvenuto nella Prima guerra mondiale e lo scoppio della Rivoluzione d’ottobre <37. In questo scenario da tempo prefigurato, il problema della declinazione rivoluzionaria della questione nazionale slovena assumeva per Kardelj una valenza cruciale. Non si può attribuire a ragioni esclusivamente retoriche e strumentali il fatto che egli, nella lettera a Massola, presentasse la politica del Kps nel Litorale come un’applicazione dello slogan sull’autodecisione e unificazione della Slovenia enunciato nella Dichiarazione del 1934 <38. Essa, del resto, era stata confermata da Massola a nome del Pcd’I appena due mesi prima, con il Manifesto del Pcd’I per il diritto all’autodeterminazione e alla riunificazione del popolo sloveno <39. Proprio in virtù di quanto da essa previsto e pattuito, dalla primavera Kardelj iniziò a insistere sull’importanza che la lotta rivoluzionaria degli sloveni stava acquistando, finalmente su un piano concreto, per il futuro politico dell’Austria e dell’Italia. Come scrisse a Tito, “i comunisti sloveni hanno ricevuto l’ordine di scatenare la rivoluzione nel centro Europa” <40. Appoggiare e rinforzare l’estensione anche territoriale della loro lotta era interesse di tutto il movimento comunista internazionale. Se fosse riuscita a portare al distacco di intere regioni dal corpo nazionale dominante, infatti, essa avrebbe esasperato le contraddizioni tra la borghesia e il proletariato della nazione maggioritaria, trasformandosi in un poderoso incentivo alla rivoluzione. Da questo retroterra ideologico, prese avvio il tentativo perseguito dal Kpj di estendere la rivoluzione all’Italia, di far valere la propria preminenza nei confronti del Partito comunista italiano, e di incidere sulla sua linea politica (un tentativo destinato a durare fino alla rottura tra Stalin e Tito nel 1948) <41.
Nel contesto della guerra e dei rivolgimenti politico-sociali giudicati prossimi a venire, il possesso del porto di Trieste era visto dai comunisti sloveni come una delle questioni dirimenti. Chi controllava il porto, per il suo posizionamento strategico e per l’elevata concentrazione della sua classe operaia, era destinato a esercitare un’influenza decisiva sul suo entroterra, in gran parte agricolo. E ciò in un’ottica ideologica ‘classe contro classe’ che raggruppava, sin dalla prima metà del 1942, le potenze coinvolte nel conflitto in modo trasversale rispetto alle alleanze in campo. Nella stessa lettera, infatti, Kardelj scriveva a Massola: “A causa dell’atteggiamento filoinglese di gran parte della borghesia italiana, da una parte, e la debolezza dell’azione politica del proletariato italiano, dall’altra, esiste il pericolo che Trieste in futuro possa diventare il trampolino di lancio degli imperialisti reazionari inglesi […]. È chiaro che noi neutralizzeremo tutti questi tentativi – se sarà necessario – anche con le armi […]. Per quanto ci consentirà la nostra forza armata, non lasceremo Trieste a qualche governo reazionario italiano filoinglese, poiché per noi questa sarebbe una minaccia costante” <42.
È un atteggiamento che da lì in poi il Cc del Kps avrebbe ribadito con continuità. Un anno e mezzo più tardi, alla caduta di Mussolini l’eventualità di un’occupazione inglese di Trieste sarà temuta tanto quella di un’occupazione da parte dei tedeschi: “La questione se la Slovenia sarà libera ancor prima di una rivoluzione socialista nell’Europa occidentale, o se diventi, come retroterra di Trieste, colonia britannica, sarà risolta nelle vie di Trieste e quindi dobbiamo arrivare lì prima degli inglesi” <43.
Dal punto di vista sloveno, era questa complessa impostazione ideologica a presupporre la necessità che il Kps articolasse con efficacia e rapidità le sue posizioni nel Litorale. È opportuno sottolineare come questo obiettivo di espansione territoriale fosse concepito, ‘raccontato’ e indirizzato in virtù di categorie ideologiche del marxismo-leninismo; fosse cioè pubblicamente subordinato da Kardelj al superiore obiettivo internazionalista di allargare la rivoluzione all’Italia settentrionale e al centro Europa.
A questo punto, diveniva fondamentale che tali posizioni fossero ufficializzate dall’autorità cui veniva riconosciuta la competenza di stabilire le giurisidizioni e coordinare gli ambiti di azione dei diversi partiti comunisti: il Komintern. Già a Massola Kardelj aveva scritto: “Il Cc del Kpj […] ha automaticamente supposto che anche l’organizzazione politica triestina afferirà al Cc del Kps del Litorale” <44. Nello stesso mese di marzo il dirigente del Kpj faceva pressioni su Tito perché si rivolgesse al segretario del Komintern, Dimitrov, affinché questi inducesse i comunisti italiani a fissare i loro doveri rispetto al movimento comunista sloveno e croato nella Venezia Giulia. Egli sottolineava come un’organizzazione comunista dipendente dal Pcd’I non esistesse di fatto nella regione; faceva presente che il Cc del Kps (su richiesta di Massola) finanziava il ‘centro interno’ del Pcd’I con trentamila lire al mese e badava inoltre al sostentamento integrale di Massola stesso. Pertanto, Kardelj sosteneva che sarebbe stato opportuno rivendicare una forma di controllo da parte del Kps sul denaro versato al Pcd’I <45.
La realtà della presenza del Kps nel Litorale sloveno era riaffermata da Kardelj in un’altra lettera a Tito del 18 maggio: “Noi abbiamo ora lì […] un gran numero di comitati dell’Of, un distaccamento partigiano forte di circa 100 uomini […]. Negli ultimi tempi abbiamo rinnovato saldi legami nella stessa Trieste”. Circa le proteste di Massola verso le rivendicazioni sempre più precise del Kps su Trieste (la dichiarazione del partito sloveno sui futuri confini era stata pubblicata il 1° maggio) e verso le pretese di supremazia che esso avanzava sull’organizzazione comunista del Litorale, Kardelj ostentava sicurezza: “Sul problema del Litorale, si sa, [Massola] non è d’accordo. Comunque non conta […]. Lui parli pure – noi lavoreremo” <46.
La risposta tanto sollecitata alle richieste di Kardelj pervenne da Dimitrov il 3 agosto 1942, tramite una lettera a Tito di cui fu consegnata una copia a Massola due mesi dopo. È questo il documento attraverso cui il Komintern accoglieva in toto le istanze slovene e sanzionava un nuovo equilibrio, nei rapporti tra Kps e Pcd’I nel Litorale, a favore del primo: un equilibrio che, pur tra vicende alterne e tentativi di rinegoziazione da parte italiana, sarebbe sopravvissuto alla guerra per mantenersi tale fino al 1948. Vale la pena riportare per esteso il comunicato di Dimitrov: “Cc Slovenia e Cc Jugoslavia sono tenuti ad esigere dai compagni italiani il rendiconto della loro attività. Costituire gruppi di Kps nei rioni italiani d’un tempo, laddove vivono sloveni e croati – Istria, Trieste ed altrove. Sviluppare colà il movimento partigiano non è soltanto giusto, bensì pure urgente. Così pure è estremamente urgente che il tutto venga condotto a termine dal comando, in contatto con i compagni italiani, nella costituzione delle organizzazioni per la lotta partigiana ed antifascista in Istria, a Trieste ed a Fiume” <47.
Le istruzioni di Dimitrov riconoscevano senza equivoci l’egemonia del movimento comunista sloveno su quello italiano nella Venezia Giulia (anche ammettendo sue estensioni sui territori abitati da croati). Tali regioni, dal punto di vista delle strutture di partito, non dovevano più considerarsi di pertinenza italiana ma zona di operazioni del Kps. L’unica limitazione che si poneva era che ciò fosse svolto mantenendo il contatto con i compagni italiani. Si raccomandava che la direzione degli avvenimenti politici (scambio di giurisdizione tra i partiti) e militari (sviluppo del movimento partigiano) fosse assicurata al “comando”, a chi deteneva cioè il controllo militare della resistenza nella zona: vale a dire, appunto, l’Of e il Kps.
Se Stalin aveva manifestato nel dicembre 1941 una generica disponibilità a sottrarre all’Italia Trieste e gli altri suoi possedimenti nell’Adriatico orientale, la nota del Komintern del 3 agosto 1942 appare una misura coerente con questo orientamento di fondo <48. Si trattava di indirizzi che non tardarono ad avere ricadute pratiche sul territorio. Tra la fine del 1942 e la prima metà del 1943 il Kps stringeva una serie di accordi informali con il rappresentante del Pcd’I a Trieste, Vincenzo Marcon. Entrando a far parte del Consiglio nazionale di liberazione sloveno del Litorale (il governo partigiano della regione), Marcon introduceva il Pcd’I nelle strutture slovene eseguendo alla lettera il testo di Dimitrov. Negli stessi mesi, il Kps e il Pcd’I di Marcon gettavano le basi di Fratellanza operaia, l’organizzazione di massa binazionale che in seguito avrebbe preso il nome di Unità operaia e di Unione antifascista italoslava (Uais) <49. Nel frattempo, alla conferenza regionale del Kps del 4-5 dicembre 1942 il Litorale era di fatto riconosciuto come parte del nuovo Stato sloveno <50.

[NOTE]26 Troha, Il movimento di liberazione sloveno cit., p. 111.
27 E. Mark, Revolution by Degrees: Stalin’s National-Front Strategy for Europe 1941-1947, Cold War International History Project, Working Paper n. 31, Woodrow Wilson International Centre for Scholars, Washington D.C. 2001, p. 15.
28 Ursini-Uršič, Attraverso Trieste cit., pp. 153-55. L’autore, che si basa sulla ricostruzione di Vid Vremec (Pinko Tomažič in drugi tržaški proces, Lipa e Založništvo tržaškega tiska, Koper 1989), anticipa di un anno l’attività del Kps e dell’Of nel Litorale rispetto a quanto afferma G. Fogar in Trieste in guerra. Società e Resistenza 1940-1945, Irsml-Fvg, Trieste 1999, pp. 73-74.
29 Troha, Il movimento di liberazione sloveno cit., p. 113.
30 Cit. in B. Godeša, I comunisti sloveni e la questione di Trieste nella Seconda guerra mondiale, ‘Qualestoria’, a. XXXV (2007), n. 1, pp. 119-32, in partic. p. 24.
31 Antifašističko vijeće narodnog oslobodjenia Jugoslavije (Avnoj), il supremo organo di rappresentanza del nuovo Stato rivoluzionario jugoslavo.
32 Troha, Il movimento di liberazione sloveno cit., p. 113. A questo rapporto dell’Of non presta attenzione il saggio di Godeša, pur incentrato sugli stessi problemi.
33 Comitato di liberazione nazionale dell’Istria, Il problema di Trieste. Realtà storica, politica, economica, Trieste 1954 (testo di C. Schiffrer).
34 Godeša, I comunisti sloveni cit., pp. 122, 125-26.
35 In nessun altro modo a mio parere si possono interpretare le parole di Kardelj: “Come città italiana Trieste rappresenterà un settore autonomo nazionalmente italiano […] annessa a quella repubblica sovietica a cui apparterrà l’entroterra triestino”. Lettera di Kardelj a Umberto Massola, seconda metà di marzo 1942, in Godeša, I comunisti sloveni cit., pp. 127-28.
36 La Dichiarazione assegnava un ruolo centrale al problema sloveno in previsione “del nuovo ciclo di guerre e rivoluzioni, di cui siamo alla vigilia”: cfr. supra.
37 A. Di Biagio, La teoria dell’inevitabilità della guerra, in F. Gori (a c. di), Il XX congresso del Pcus, Franco Angeli, Milano 1988; S. Pons, Stalin e la guerra inevitabile: 1936-1941, Einaudi, Torino 1995.
38 Ivi, pp. 127-28.
39 Nel gennaio 1942: Troha, Il movimento di liberazione sloveno cit., p. 112; Ursini-Uršič, Attraverso Trieste cit., pp. 162-63.
40 Lettera di Kardelj a Tito, 29 marzo 1942, in Ursini-Uršič, Attraverso Trieste cit., ibidem.
41 Alla documentazione che attesta tali tentativi fa riferimento anche Troha, Il movimento di liberazione sloveno cit. Ursini-Uršič parla esplicitamente di tentativi di “esportare il modello sloveno” in Italia e di “porre sotto il controllo di Tito, cioè del Kpj, l’attività del ‘centro interno’ del Pcd’I”: Attraverso Trieste cit., p. 164.
42 Lettera di Kardelj a Umberto Massola cit.
43 Troha, Il movimento di liberazione sloveno cit., p. 114.
44 Lettera di Kardelj a Umberto Massola cit.
45 Lettera di Kardelj a Tito, 29 marzo 1942 cit.
46 Lettera di Kardelj a Tito, 18 maggio 1942, cit. in Ursini-Uršič, Attraverso Trieste cit., p. 165.
47 Il documento del Komintern è riportato in Ursini-Uršič, Attraverso Trieste cit., p. 183. Qui anche la notizia del ritardo nella notifica a Massola. Commenti al testo anche in Troha, Il movimento di liberazione sloveno cit., p. 112 e in Godeša, I comunisti sloveni cit., p. 127 (quest’ultimo con un’evidente forzatura interpretativa).
48 Durante il colloquio con il ministro degli Esteri della Gran Bretagna Anthony Eden: L.Ja. Gibjanskij, Mosca, il Pci e la questione di Trieste (1943-1948) in F. Gori, S. Pons (a c. di), Dagli archivi di Mosca, L’Urss, il Cominform e il Pci (1943-1951), Carocci, Roma 1998, pp. 85-133, in partic. p. 89.
49 Fogar, Trieste in guerra cit., pp. 129-30.
50 Troha, Il movimento di liberazione sloveno cit., p. 114.
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Sia per quanto riguarda la definizione delle rivendicazioni del Kps sul Litorale sloveno, sia per le misure pratiche che vennero ricercate e messe in campo allo scopo, l’anno-chiave può essere considerato il 1942.
Il 1° maggio il Cc del Kps, pressato sulla questione nazionale dalle ali di destra dell’Of, emanava una dichiarazione sui futuri confini sloveni: Trieste era considerata parte della nuova Jugoslavia, con uno status autonomo data la popolazione a maggioranza italiana. Il privilegio dell’autonomia non veniva concesso invece alle città italiane dell’Istria comprese nel Litorale sloveno (Muggia, Capodistria, Isola, Pirano) in quanto ritenute composte prevalentemente da immigrati <29. In questa dichiarazione, il Kps sosteneva che “alla Slovenia liberata e riunificata, oltre al territorio in cui vive la popolazione slovena, appartengono anche i territori snazionalizzati con la forza nell’ultimo periodo imperialista” <30. Per parte sua, l’Of acquisiva e rinforzava tali lineamenti: in un rapporto al Consiglio antifascista di liberazione nazionale della Jugoslavia <31, il confine occidentale della Slovenia fuoriusciva dal cosiddetto ‘territorio etnico sloveno’ per inglobare anche il triangolo esteso tra Ronchi e Monfalcone. L’espansione era giustificata con motivazioni di carattere strategico ed economico (legami dichiarati inscindibili tra Monfalcone e Trieste) <32. Erano rivendicazioni appoggiate sulla teoria della dipendenza delle città dalla campagna, e che trovavano persuasivi riscontri nel corpus dottrinario comunista. Quella che lo storico Carlo Schiffrer chiamava “teoria dei territori etnici compatti”, discendeva dalla predilezione dell’elemento contadino nell’individuazione dei caratteri fondativi della nazione ❤❤: una preferenza, come abbiamo visto, accordata dallo stesso Stalin nelle sue riflessioni sull’argomento. Non a caso un membro della commissione sui confini dell’Of, il geografo Anton Melik, spiegava che attorno a quel criterio erano stati tracciati i confini delle singole repubbliche in Unione Sovietica; e Joža Vilfan, avvocato triestino al quale era stato affidato uno studio analogo dal Kps, faceva perno su quelle tesi di Stalin per affermare l’appartenenza di Trieste al suo entroterra <34.
Ma a monte delle pretese territoriali del Kps, e dell’energia con cui venivano avanzate, oltre a queste di tipo teorico vi erano anche motivazioni strettamente politico-strategiche. Esse erano legate alla lettura che il partito dava del quadro politico europeo durante la guerra e delle sue possibili evoluzioni. Illuminanti a questo proposito sono alcune attestazioni di Edvard Kardelj, leader del Kps e numero due del Kpj, risalenti alla primavera-estate del 1942. In una lettera a Umberto Massola, allora rappresentante del Cc del Pcd’I presso il partito sloveno, Kardelj inquadrava l’argomentazione a favore dell’unione di Trieste a una Slovenia sovietica <35 all’interno di una visione strategico-ideologica ben strutturata: basata sulla prospettiva di un prossimo allargamento della rivoluzione in Germania e, quanto più possibile, nel resto del centro Europa. Tale prospettiva derivava dagli schemi ideologici elaborati nel movimento comunista internazionale tra le due guerre, schemi che avevano ispirato anche la Dichiarazione comune sul problema sloveno firmata dal Pcd’I, dal Kpj e dal Partito comunista austriaco nel 1934 <36. Essi erano figli dell’idea della ‘guerra inevitabile’ e della sua linea politica corrispondente, quella di ‘classe contro classe’; presupponevano un imminente inasprimento dei rapporti tra le potenze della coalizione antitedesca, giocato intorno all’alternativa capitale-anticapitale, in analogia con quanto avvenuto nella Prima guerra mondiale e lo scoppio della Rivoluzione d’ottobre <37. In questo scenario da tempo prefigurato, il problema della declinazione rivoluzionaria della questione nazionale slovena assumeva per Kardelj una valenza cruciale. Non si può attribuire a ragioni esclusivamente retoriche e strumentali il fatto che egli, nella lettera a Massola, presentasse la politica del Kps nel Litorale come un’applicazione dello slogan sull’autodecisione e unificazione della Slovenia enunciato nella Dichiarazione del 1934 <38. Essa, del resto, era stata confermata da Massola a nome del Pcd’I appena due mesi prima, con il Manifesto del Pcd’I per il diritto all’autodeterminazione e alla riunificazione del popolo sloveno <39. Proprio in virtù di quanto da essa previsto e pattuito, dalla primavera Kardelj iniziò a insistere sull’importanza che la lotta rivoluzionaria degli sloveni stava acquistando, finalmente su un piano concreto, per il futuro politico dell’Austria e dell’Italia. Come scrisse a Tito, “i comunisti sloveni hanno ricevuto l’ordine di scatenare la rivoluzione nel centro Europa” <40. Appoggiare e rinforzare l’estensione anche territoriale della loro lotta era interesse di tutto il movimento comunista internazionale. Se fosse riuscita a portare al distacco di intere regioni dal corpo nazionale dominante, infatti, essa avrebbe esasperato le contraddizioni tra la borghesia e il proletariato della nazione maggioritaria, trasformandosi in un poderoso incentivo alla rivoluzione. Da questo retroterra ideologico, prese avvio il tentativo perseguito dal Kpj di estendere la rivoluzione all’Italia, di far valere la propria preminenza nei confronti del Partito comunista italiano, e di incidere sulla sua linea politica (un tentativo destinato a durare fino alla rottura tra Stalin e Tito nel 1948) <41.
Nel contesto della guerra e dei rivolgimenti politico-sociali giudicati prossimi a venire, il possesso del porto di Trieste era visto dai comunisti sloveni come una delle questioni dirimenti. Chi controllava il porto, per il suo posizionamento strategico e per l’elevata concentrazione della sua classe operaia, era destinato a esercitare un’influenza decisiva sul suo entroterra, in gran parte agricolo. E ciò in un’ottica ideologica ‘classe contro classe’ che raggruppava, sin dalla prima metà del 1942, le potenze coinvolte nel conflitto in modo trasversale rispetto alle alleanze in campo. Nella stessa lettera, infatti, Kardelj scriveva a Massola: “A causa dell’atteggiamento filoinglese di gran parte della borghesia italiana, da una parte, e la debolezza dell’azione politica del proletariato italiano, dall’altra, esiste il pericolo che Trieste in futuro possa diventare il trampolino di lancio degli imperialisti reazionari inglesi […]. È chiaro che noi neutralizzeremo tutti questi tentativi – se sarà necessario – anche con le armi […]. Per quanto ci consentirà la nostra forza armata, non lasceremo Trieste a qualche governo reazionario italiano filoinglese, poiché per noi questa sarebbe una minaccia costante” <42.
È un atteggiamento che da lì in poi il Cc del Kps avrebbe ribadito con continuità. Un anno e mezzo più tardi, alla caduta di Mussolini l’eventualità di un’occupazione inglese di Trieste sarà temuta tanto quella di un’occupazione da parte dei tedeschi: “La questione se la Slovenia sarà libera ancor prima di una rivoluzione socialista nell’Europa occidentale, o se diventi, come retroterra di Trieste, colonia britannica, sarà risolta nelle vie di Trieste e quindi dobbiamo arrivare lì prima degli inglesi” <43.
Dal punto di vista sloveno, era questa complessa impostazione ideologica a presupporre la necessità che il Kps articolasse con efficacia e rapidità le sue posizioni nel Litorale. È opportuno sottolineare come questo obiettivo di espansione territoriale fosse concepito, ‘raccontato’ e indirizzato in virtù di categorie ideologiche del marxismo-leninismo; fosse cioè pubblicamente subordinato da Kardelj al superiore obiettivo internazionalista di allargare la rivoluzione all’Italia settentrionale e al centro Europa.
A questo punto, diveniva fondamentale che tali posizioni fossero ufficializzate dall’autorità cui veniva riconosciuta la competenza di stabilire le giurisidizioni e coordinare gli ambiti di azione dei diversi partiti comunisti: il Komintern. Già a Massola Kardelj aveva scritto: “Il Cc del Kpj […] ha automaticamente supposto che anche l’organizzazione politica triestina afferirà al Cc del Kps del Litorale” <44. Nello stesso mese di marzo il dirigente del Kpj faceva pressioni su Tito perché si rivolgesse al segretario del Komintern, Dimitrov, affinché questi inducesse i comunisti italiani a fissare i loro doveri rispetto al movimento comunista sloveno e croato nella Venezia Giulia. Egli sottolineava come un’organizzazione comunista dipendente dal Pcd’I non esistesse di fatto nella regione; faceva presente che il Cc del Kps (su richiesta di Massola) finanziava il ‘centro interno’ del Pcd’I con trentamila lire al mese e badava inoltre al sostentamento integrale di Massola stesso. Pertanto, Kardelj sosteneva che sarebbe stato opportuno rivendicare una forma di controllo da parte del Kps sul denaro versato al Pcd’I <45.
La realtà della presenza del Kps nel Litorale sloveno era riaffermata da Kardelj in un’altra lettera a Tito del 18 maggio: “Noi abbiamo ora lì […] un gran numero di comitati dell’Of, un distaccamento partigiano forte di circa 100 uomini […]. Negli ultimi tempi abbiamo rinnovato saldi legami nella stessa Trieste”. Circa le proteste di Massola verso le rivendicazioni sempre più precise del Kps su Trieste (la dichiarazione del partito sloveno sui futuri confini era stata pubblicata il 1° maggio) e verso le pretese di supremazia che esso avanzava sull’organizzazione comunista del Litorale, Kardelj ostentava sicurezza: “Sul problema del Litorale, si sa, [Massola] non è d’accordo. Comunque non conta […]. Lui parli pure – noi lavoreremo” <46.
La risposta tanto sollecitata alle richieste di Kardelj pervenne da Dimitrov il 3 agosto 1942, tramite una lettera a Tito di cui fu consegnata una copia a Massola due mesi dopo. È questo il documento attraverso cui il Komintern accoglieva in toto le istanze slovene e sanzionava un nuovo equilibrio, nei rapporti tra Kps e Pcd’I nel Litorale, a favore del primo: un equilibrio che, pur tra vicende alterne e tentativi di rinegoziazione da parte italiana, sarebbe sopravvissuto alla guerra per mantenersi tale fino al 1948. Vale la pena riportare per esteso il comunicato di Dimitrov: “Cc Slovenia e Cc Jugoslavia sono tenuti ad esigere dai compagni italiani il rendiconto della loro attività. Costituire gruppi di Kps nei rioni italiani d’un tempo, laddove vivono sloveni e croati – Istria, Trieste ed altrove. Sviluppare colà il movimento partigiano non è soltanto giusto, bensì pure urgente. Così pure è estremamente urgente che il tutto venga condotto a termine dal comando, in contatto con i compagni italiani, nella costituzione delle organizzazioni per la lotta partigiana ed antifascista in Istria, a Trieste ed a Fiume” <47.
Le istruzioni di Dimitrov riconoscevano senza equivoci l’egemonia del movimento comunista sloveno su quello italiano nella Venezia Giulia (anche ammettendo sue estensioni sui territori abitati da croati). Tali regioni, dal punto di vista delle strutture di partito, non dovevano più considerarsi di pertinenza italiana ma zona di operazioni del Kps. L’unica limitazione che si poneva era che ciò fosse svolto mantenendo il contatto con i compagni italiani. Si raccomandava che la direzione degli avvenimenti politici (scambio di giurisdizione tra i partiti) e militari (sviluppo del movimento partigiano) fosse assicurata al “comando”, a chi deteneva cioè il controllo militare della resistenza nella zona: vale a dire, appunto, l’Of e il Kps.
Se Stalin aveva manifestato nel dicembre 1941 una generica disponibilità a sottrarre all’Italia Trieste e gli altri suoi possedimenti nell’Adriatico orientale, la nota del Komintern del 3 agosto 1942 appare una misura coerente con questo orientamento di fondo <48. Si trattava di indirizzi che non tardarono ad avere ricadute pratiche sul territorio. Tra la fine del 1942 e la prima metà del 1943 il Kps stringeva una serie di accordi informali con il rappresentante del Pcd’I a Trieste, Vincenzo Marcon. Entrando a far parte del Consiglio nazionale di liberazione sloveno del Litorale (il governo partigiano della regione), Marcon introduceva il Pcd’I nelle strutture slovene eseguendo alla lettera il testo di Dimitrov. Negli stessi mesi, il Kps e il Pcd’I di Marcon gettavano le basi di Fratellanza operaia, l’organizzazione di massa binazionale che in seguito avrebbe preso il nome di Unità operaia e di Unione antifascista italoslava (Uais) <49. Nel frattempo, alla conferenza regionale del Kps del 4-5 dicembre 1942 il Litorale era di fatto riconosciuto come parte del nuovo Stato sloveno <50.

[NOTE]26 Troha, Il movimento di liberazione sloveno cit., p. 111.
27 E. Mark, Revolution by Degrees: Stalin’s National-Front Strategy for Europe 1941-1947, Cold War International History Project, Working Paper n. 31, Woodrow Wilson International Centre for Scholars, Washington D.C. 2001, p. 15.
28 Ursini-Uršič, Attraverso Trieste cit., pp. 153-55. L’autore, che si basa sulla ricostruzione di Vid Vremec (Pinko Tomažič in drugi tržaški proces, Lipa e Založništvo tržaškega tiska, Koper 1989), anticipa di un anno l’attività del Kps e dell’Of nel Litorale rispetto a quanto afferma G. Fogar in Trieste in guerra. Società e Resistenza 1940-1945, Irsml-Fvg, Trieste 1999, pp. 73-74.
29 Troha, Il movimento di liberazione sloveno cit., p. 113.
30 Cit. in B. Godeša, I comunisti sloveni e la questione di Trieste nella Seconda guerra mondiale, ‘Qualestoria’, a. XXXV (2007), n. 1, pp. 119-32, in partic. p. 24.
31 Antifašističko vijeće narodnog oslobodjenia Jugoslavije (Avnoj), il supremo organo di rappresentanza del nuovo Stato rivoluzionario jugoslavo.
32 Troha, Il movimento di liberazione sloveno cit., p. 113. A questo rapporto dell’Of non presta attenzione il saggio di Godeša, pur incentrato sugli stessi problemi.
33 Comitato di liberazione nazionale dell’Istria, Il problema di Trieste. Realtà storica, politica, economica, Trieste 1954 (testo di C. Schiffrer).
34 Godeša, I comunisti sloveni cit., pp. 122, 125-26.
35 In nessun altro modo a mio parere si possono interpretare le parole di Kardelj: “Come città italiana Trieste rappresenterà un settore autonomo nazionalmente italiano […] annessa a quella repubblica sovietica a cui apparterrà l’entroterra triestino”. Lettera di Kardelj a Umberto Massola, seconda metà di marzo 1942, in Godeša, I comunisti sloveni cit., pp. 127-28.
36 La Dichiarazione assegnava un ruolo centrale al problema sloveno in previsione “del nuovo ciclo di guerre e rivoluzioni, di cui siamo alla vigilia”: cfr. supra.
37 A. Di Biagio, La teoria dell’inevitabilità della guerra, in F. Gori (a c. di), Il XX congresso del Pcus, Franco Angeli, Milano 1988; S. Pons, Stalin e la guerra inevitabile: 1936-1941, Einaudi, Torino 1995.
38 Ivi, pp. 127-28.
39 Nel gennaio 1942: Troha, Il movimento di liberazione sloveno cit., p. 112; Ursini-Uršič, Attraverso Trieste cit., pp. 162-63.
40 Lettera di Kardelj a Tito, 29 marzo 1942, in Ursini-Uršič, Attraverso Trieste cit., ibidem.
41 Alla documentazione che attesta tali tentativi fa riferimento anche Troha, Il movimento di liberazione sloveno cit. Ursini-Uršič parla esplicitamente di tentativi di “esportare il modello sloveno” in Italia e di “porre sotto il controllo di Tito, cioè del Kpj, l’attività del ‘centro interno’ del Pcd’I”: Attraverso Trieste cit., p. 164.
42 Lettera di Kardelj a Umberto Massola cit.
43 Troha, Il movimento di liberazione sloveno cit., p. 114.
44 Lettera di Kardelj a Umberto Massola cit.
45 Lettera di Kardelj a Tito, 29 marzo 1942 cit.
46 Lettera di Kardelj a Tito, 18 maggio 1942, cit. in Ursini-Uršič, Attraverso Trieste cit., p. 165.
47 Il documento del Komintern è riportato in Ursini-Uršič, Attraverso Trieste cit., p. 183. Qui anche la notizia del ritardo nella notifica a Massola. Commenti al testo anche in Troha, Il movimento di liberazione sloveno cit., p. 112 e in Godeša, I comunisti sloveni cit., p. 127 (quest’ultimo con un’evidente forzatura interpretativa).
48 Durante il colloquio con il ministro degli Esteri della Gran Bretagna Anthony Eden: L.Ja. Gibjanskij, Mosca, il Pci e la questione di Trieste (1943-1948) in F. Gori, S. Pons (a c. di), Dagli archivi di Mosca, L’Urss, il Cominform e il Pci (1943-1951), Carocci, Roma 1998, pp. 85-133, in partic. p. 89.
49 Fogar, Trieste in guerra cit., pp. 129-30.
50 Troha, Il movimento di liberazione sloveno cit., p. 114.
Patrick Karlsen, Il PCI, il confine orientale e il contesto internazionale (1941-1955), Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 2007-2008

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Il Komintern e la questione di Trieste bigarella.wordpress.com/2024/1…


Maribor (Slovenia). Foto: Janezdrilc. Fonte: Wikipedia

Dopo l’invasione della Slovenia da parte dell’Italia e della Germania nell’aprile 1941, tutte le forze politiche riunite nel Fronte di liberazione sloveno (Osvobodilna fronta – Of) si prefissero lo scopo della liberazione e unificazione della loro nazione. Tra queste anche il Kps, che all’interno dell’Of rappresentava la fazione più organizzata e influente. Già dalla fine del 1941 il Fronte aveva istituito una commissione interna per studiare i futuri confini della Slovenia, e il Comitato centrale (Cc) del Kps aveva dichiarato “irrinunciabili” le città di Maribor e Trieste <26. L’accentuazione patriottica nel Kps rispondeva alle direttive del Komintern dell’estate 1941, il quale per bocca di Georgij Dimitrov aveva impartito a tutti i partiti comunisti la linea da seguire dopo l’invasione tedesca dell’Urss: riedizione dei fronti popolari, costruzione di un ampio movimento di liberazione, insistenza sull’elemento nazionale e accantonamento della parola d’ordine della rivoluzione <27. Contemporaneamente, l’Of cercò di radicare la sua presenza su tutto il territorio da esso ritenuto sloveno. A questo fine, un membro del Kps fu inviato nell’agosto 1941 a Trieste e nel Litorale con l’incarico di prendere contatti con i superstiti aderenti al partito di Tomažič. Vennero così costituiti il Comitato regionale del Litorale e il Comitato cittadino del Kps e dell’Of per Trieste <28.
Sia per quanto riguarda la definizione delle rivendicazioni del Kps sul Litorale sloveno, sia per le misure pratiche che vennero ricercate e messe in campo allo scopo, l’anno-chiave può essere considerato il 1942.
Il 1° maggio il Cc del Kps, pressato sulla questione nazionale dalle ali di destra dell’Of, emanava una dichiarazione sui futuri confini sloveni: Trieste era considerata parte della nuova Jugoslavia, con uno status autonomo data la popolazione a maggioranza italiana. Il privilegio dell’autonomia non veniva concesso invece alle città italiane dell’Istria comprese nel Litorale sloveno (Muggia, Capodistria, Isola, Pirano) in quanto ritenute composte prevalentemente da immigrati <29. In questa dichiarazione, il Kps sosteneva che “alla Slovenia liberata e riunificata, oltre al territorio in cui vive la popolazione slovena, appartengono anche i territori snazionalizzati con la forza nell’ultimo periodo imperialista” <30. Per parte sua, l’Of acquisiva e rinforzava tali lineamenti: in un rapporto al Consiglio antifascista di liberazione nazionale della Jugoslavia <31, il confine occidentale della Slovenia fuoriusciva dal cosiddetto ‘territorio etnico sloveno’ per inglobare anche il triangolo esteso tra Ronchi e Monfalcone. L’espansione era giustificata con motivazioni di carattere strategico ed economico (legami dichiarati inscindibili tra Monfalcone e Trieste) <32. Erano rivendicazioni appoggiate sulla teoria della dipendenza delle città dalla campagna, e che trovavano persuasivi riscontri nel corpus dottrinario comunista. Quella che lo storico Carlo Schiffrer chiamava “teoria dei territori etnici compatti”, discendeva dalla predilezione dell’elemento contadino nell’individuazione dei caratteri fondativi della nazione ❤❤: una preferenza, come abbiamo visto, accordata dallo stesso Stalin nelle sue riflessioni sull’argomento. Non a caso un membro della commissione sui confini dell’Of, il geografo Anton Melik, spiegava che attorno a quel criterio erano stati tracciati i confini delle singole repubbliche in Unione Sovietica; e Joža Vilfan, avvocato triestino al quale era stato affidato uno studio analogo dal Kps, faceva perno su quelle tesi di Stalin per affermare l’appartenenza di Trieste al suo entroterra <34.
Ma a monte delle pretese territoriali del Kps, e dell’energia con cui venivano avanzate, oltre a queste di tipo teorico vi erano anche motivazioni strettamente politico-strategiche. Esse erano legate alla lettura che il partito dava del quadro politico europeo durante la guerra e delle sue possibili evoluzioni. Illuminanti a questo proposito sono alcune attestazioni di Edvard Kardelj, leader del Kps e numero due del Kpj, risalenti alla primavera-estate del 1942. In una lettera a Umberto Massola, allora rappresentante del Cc del Pcd’I presso il partito sloveno, Kardelj inquadrava l’argomentazione a favore dell’unione di Trieste a una Slovenia sovietica <35 all’interno di una visione strategico-ideologica ben strutturata: basata sulla prospettiva di un prossimo allargamento della rivoluzione in Germania e, quanto più possibile, nel resto del centro Europa. Tale prospettiva derivava dagli schemi ideologici elaborati nel movimento comunista internazionale tra le due guerre, schemi che avevano ispirato anche la Dichiarazione comune sul problema sloveno firmata dal Pcd’I, dal Kpj e dal Partito comunista austriaco nel 1934 <36. Essi erano figli dell’idea della ‘guerra inevitabile’ e della sua linea politica corrispondente, quella di ‘classe contro classe’; presupponevano un imminente inasprimento dei rapporti tra le potenze della coalizione antitedesca, giocato intorno all’alternativa capitale-anticapitale, in analogia con quanto avvenuto nella Prima guerra mondiale e lo scoppio della Rivoluzione d’ottobre <37. In questo scenario da tempo prefigurato, il problema della declinazione rivoluzionaria della questione nazionale slovena assumeva per Kardelj una valenza cruciale. Non si può attribuire a ragioni esclusivamente retoriche e strumentali il fatto che egli, nella lettera a Massola, presentasse la politica del Kps nel Litorale come un’applicazione dello slogan sull’autodecisione e unificazione della Slovenia enunciato nella Dichiarazione del 1934 <38. Essa, del resto, era stata confermata da Massola a nome del Pcd’I appena due mesi prima, con il Manifesto del Pcd’I per il diritto all’autodeterminazione e alla riunificazione del popolo sloveno <39. Proprio in virtù di quanto da essa previsto e pattuito, dalla primavera Kardelj iniziò a insistere sull’importanza che la lotta rivoluzionaria degli sloveni stava acquistando, finalmente su un piano concreto, per il futuro politico dell’Austria e dell’Italia. Come scrisse a Tito, “i comunisti sloveni hanno ricevuto l’ordine di scatenare la rivoluzione nel centro Europa” <40. Appoggiare e rinforzare l’estensione anche territoriale della loro lotta era interesse di tutto il movimento comunista internazionale. Se fosse riuscita a portare al distacco di intere regioni dal corpo nazionale dominante, infatti, essa avrebbe esasperato le contraddizioni tra la borghesia e il proletariato della nazione maggioritaria, trasformandosi in un poderoso incentivo alla rivoluzione. Da questo retroterra ideologico, prese avvio il tentativo perseguito dal Kpj di estendere la rivoluzione all’Italia, di far valere la propria preminenza nei confronti del Partito comunista italiano, e di incidere sulla sua linea politica (un tentativo destinato a durare fino alla rottura tra Stalin e Tito nel 1948) <41.
Nel contesto della guerra e dei rivolgimenti politico-sociali giudicati prossimi a venire, il possesso del porto di Trieste era visto dai comunisti sloveni come una delle questioni dirimenti. Chi controllava il porto, per il suo posizionamento strategico e per l’elevata concentrazione della sua classe operaia, era destinato a esercitare un’influenza decisiva sul suo entroterra, in gran parte agricolo. E ciò in un’ottica ideologica ‘classe contro classe’ che raggruppava, sin dalla prima metà del 1942, le potenze coinvolte nel conflitto in modo trasversale rispetto alle alleanze in campo. Nella stessa lettera, infatti, Kardelj scriveva a Massola: “A causa dell’atteggiamento filoinglese di gran parte della borghesia italiana, da una parte, e la debolezza dell’azione politica del proletariato italiano, dall’altra, esiste il pericolo che Trieste in futuro possa diventare il trampolino di lancio degli imperialisti reazionari inglesi […]. È chiaro che noi neutralizzeremo tutti questi tentativi – se sarà necessario – anche con le armi […]. Per quanto ci consentirà la nostra forza armata, non lasceremo Trieste a qualche governo reazionario italiano filoinglese, poiché per noi questa sarebbe una minaccia costante” <42.
È un atteggiamento che da lì in poi il Cc del Kps avrebbe ribadito con continuità. Un anno e mezzo più tardi, alla caduta di Mussolini l’eventualità di un’occupazione inglese di Trieste sarà temuta tanto quella di un’occupazione da parte dei tedeschi: “La questione se la Slovenia sarà libera ancor prima di una rivoluzione socialista nell’Europa occidentale, o se diventi, come retroterra di Trieste, colonia britannica, sarà risolta nelle vie di Trieste e quindi dobbiamo arrivare lì prima degli inglesi” <43.
Dal punto di vista sloveno, era questa complessa impostazione ideologica a presupporre la necessità che il Kps articolasse con efficacia e rapidità le sue posizioni nel Litorale. È opportuno sottolineare come questo obiettivo di espansione territoriale fosse concepito, ‘raccontato’ e indirizzato in virtù di categorie ideologiche del marxismo-leninismo; fosse cioè pubblicamente subordinato da Kardelj al superiore obiettivo internazionalista di allargare la rivoluzione all’Italia settentrionale e al centro Europa.
A questo punto, diveniva fondamentale che tali posizioni fossero ufficializzate dall’autorità cui veniva riconosciuta la competenza di stabilire le giurisidizioni e coordinare gli ambiti di azione dei diversi partiti comunisti: il Komintern. Già a Massola Kardelj aveva scritto: “Il Cc del Kpj […] ha automaticamente supposto che anche l’organizzazione politica triestina afferirà al Cc del Kps del Litorale” <44. Nello stesso mese di marzo il dirigente del Kpj faceva pressioni su Tito perché si rivolgesse al segretario del Komintern, Dimitrov, affinché questi inducesse i comunisti italiani a fissare i loro doveri rispetto al movimento comunista sloveno e croato nella Venezia Giulia. Egli sottolineava come un’organizzazione comunista dipendente dal Pcd’I non esistesse di fatto nella regione; faceva presente che il Cc del Kps (su richiesta di Massola) finanziava il ‘centro interno’ del Pcd’I con trentamila lire al mese e badava inoltre al sostentamento integrale di Massola stesso. Pertanto, Kardelj sosteneva che sarebbe stato opportuno rivendicare una forma di controllo da parte del Kps sul denaro versato al Pcd’I <45.
La realtà della presenza del Kps nel Litorale sloveno era riaffermata da Kardelj in un’altra lettera a Tito del 18 maggio: “Noi abbiamo ora lì […] un gran numero di comitati dell’Of, un distaccamento partigiano forte di circa 100 uomini […]. Negli ultimi tempi abbiamo rinnovato saldi legami nella stessa Trieste”. Circa le proteste di Massola verso le rivendicazioni sempre più precise del Kps su Trieste (la dichiarazione del partito sloveno sui futuri confini era stata pubblicata il 1° maggio) e verso le pretese di supremazia che esso avanzava sull’organizzazione comunista del Litorale, Kardelj ostentava sicurezza: “Sul problema del Litorale, si sa, [Massola] non è d’accordo. Comunque non conta […]. Lui parli pure – noi lavoreremo” <46.
La risposta tanto sollecitata alle richieste di Kardelj pervenne da Dimitrov il 3 agosto 1942, tramite una lettera a Tito di cui fu consegnata una copia a Massola due mesi dopo. È questo il documento attraverso cui il Komintern accoglieva in toto le istanze slovene e sanzionava un nuovo equilibrio, nei rapporti tra Kps e Pcd’I nel Litorale, a favore del primo: un equilibrio che, pur tra vicende alterne e tentativi di rinegoziazione da parte italiana, sarebbe sopravvissuto alla guerra per mantenersi tale fino al 1948. Vale la pena riportare per esteso il comunicato di Dimitrov: “Cc Slovenia e Cc Jugoslavia sono tenuti ad esigere dai compagni italiani il rendiconto della loro attività. Costituire gruppi di Kps nei rioni italiani d’un tempo, laddove vivono sloveni e croati – Istria, Trieste ed altrove. Sviluppare colà il movimento partigiano non è soltanto giusto, bensì pure urgente. Così pure è estremamente urgente che il tutto venga condotto a termine dal comando, in contatto con i compagni italiani, nella costituzione delle organizzazioni per la lotta partigiana ed antifascista in Istria, a Trieste ed a Fiume” <47.
Le istruzioni di Dimitrov riconoscevano senza equivoci l’egemonia del movimento comunista sloveno su quello italiano nella Venezia Giulia (anche ammettendo sue estensioni sui territori abitati da croati). Tali regioni, dal punto di vista delle strutture di partito, non dovevano più considerarsi di pertinenza italiana ma zona di operazioni del Kps. L’unica limitazione che si poneva era che ciò fosse svolto mantenendo il contatto con i compagni italiani. Si raccomandava che la direzione degli avvenimenti politici (scambio di giurisdizione tra i partiti) e militari (sviluppo del movimento partigiano) fosse assicurata al “comando”, a chi deteneva cioè il controllo militare della resistenza nella zona: vale a dire, appunto, l’Of e il Kps.
Se Stalin aveva manifestato nel dicembre 1941 una generica disponibilità a sottrarre all’Italia Trieste e gli altri suoi possedimenti nell’Adriatico orientale, la nota del Komintern del 3 agosto 1942 appare una misura coerente con questo orientamento di fondo <48. Si trattava di indirizzi che non tardarono ad avere ricadute pratiche sul territorio. Tra la fine del 1942 e la prima metà del 1943 il Kps stringeva una serie di accordi informali con il rappresentante del Pcd’I a Trieste, Vincenzo Marcon. Entrando a far parte del Consiglio nazionale di liberazione sloveno del Litorale (il governo partigiano della regione), Marcon introduceva il Pcd’I nelle strutture slovene eseguendo alla lettera il testo di Dimitrov. Negli stessi mesi, il Kps e il Pcd’I di Marcon gettavano le basi di Fratellanza operaia, l’organizzazione di massa binazionale che in seguito avrebbe preso il nome di Unità operaia e di Unione antifascista italoslava (Uais) <49. Nel frattempo, alla conferenza regionale del Kps del 4-5 dicembre 1942 il Litorale era di fatto riconosciuto come parte del nuovo Stato sloveno <50.

[NOTE]26 Troha, Il movimento di liberazione sloveno cit., p. 111.
27 E. Mark, Revolution by Degrees: Stalin’s National-Front Strategy for Europe 1941-1947, Cold War International History Project, Working Paper n. 31, Woodrow Wilson International Centre for Scholars, Washington D.C. 2001, p. 15.
28 Ursini-Uršič, Attraverso Trieste cit., pp. 153-55. L’autore, che si basa sulla ricostruzione di Vid Vremec (Pinko Tomažič in drugi tržaški proces, Lipa e Založništvo tržaškega tiska, Koper 1989), anticipa di un anno l’attività del Kps e dell’Of nel Litorale rispetto a quanto afferma G. Fogar in Trieste in guerra. Società e Resistenza 1940-1945, Irsml-Fvg, Trieste 1999, pp. 73-74.
29 Troha, Il movimento di liberazione sloveno cit., p. 113.
30 Cit. in B. Godeša, I comunisti sloveni e la questione di Trieste nella Seconda guerra mondiale, ‘Qualestoria’, a. XXXV (2007), n. 1, pp. 119-32, in partic. p. 24.
31 Antifašističko vijeće narodnog oslobodjenia Jugoslavije (Avnoj), il supremo organo di rappresentanza del nuovo Stato rivoluzionario jugoslavo.
32 Troha, Il movimento di liberazione sloveno cit., p. 113. A questo rapporto dell’Of non presta attenzione il saggio di Godeša, pur incentrato sugli stessi problemi.
33 Comitato di liberazione nazionale dell’Istria, Il problema di Trieste. Realtà storica, politica, economica, Trieste 1954 (testo di C. Schiffrer).
34 Godeša, I comunisti sloveni cit., pp. 122, 125-26.
35 In nessun altro modo a mio parere si possono interpretare le parole di Kardelj: “Come città italiana Trieste rappresenterà un settore autonomo nazionalmente italiano […] annessa a quella repubblica sovietica a cui apparterrà l’entroterra triestino”. Lettera di Kardelj a Umberto Massola, seconda metà di marzo 1942, in Godeša, I comunisti sloveni cit., pp. 127-28.
36 La Dichiarazione assegnava un ruolo centrale al problema sloveno in previsione “del nuovo ciclo di guerre e rivoluzioni, di cui siamo alla vigilia”: cfr. supra.
37 A. Di Biagio, La teoria dell’inevitabilità della guerra, in F. Gori (a c. di), Il XX congresso del Pcus, Franco Angeli, Milano 1988; S. Pons, Stalin e la guerra inevitabile: 1936-1941, Einaudi, Torino 1995.
38 Ivi, pp. 127-28.
39 Nel gennaio 1942: Troha, Il movimento di liberazione sloveno cit., p. 112; Ursini-Uršič, Attraverso Trieste cit., pp. 162-63.
40 Lettera di Kardelj a Tito, 29 marzo 1942, in Ursini-Uršič, Attraverso Trieste cit., ibidem.
41 Alla documentazione che attesta tali tentativi fa riferimento anche Troha, Il movimento di liberazione sloveno cit. Ursini-Uršič parla esplicitamente di tentativi di “esportare il modello sloveno” in Italia e di “porre sotto il controllo di Tito, cioè del Kpj, l’attività del ‘centro interno’ del Pcd’I”: Attraverso Trieste cit., p. 164.
42 Lettera di Kardelj a Umberto Massola cit.
43 Troha, Il movimento di liberazione sloveno cit., p. 114.
44 Lettera di Kardelj a Umberto Massola cit.
45 Lettera di Kardelj a Tito, 29 marzo 1942 cit.
46 Lettera di Kardelj a Tito, 18 maggio 1942, cit. in Ursini-Uršič, Attraverso Trieste cit., p. 165.
47 Il documento del Komintern è riportato in Ursini-Uršič, Attraverso Trieste cit., p. 183. Qui anche la notizia del ritardo nella notifica a Massola. Commenti al testo anche in Troha, Il movimento di liberazione sloveno cit., p. 112 e in Godeša, I comunisti sloveni cit., p. 127 (quest’ultimo con un’evidente forzatura interpretativa).
48 Durante il colloquio con il ministro degli Esteri della Gran Bretagna Anthony Eden: L.Ja. Gibjanskij, Mosca, il Pci e la questione di Trieste (1943-1948) in F. Gori, S. Pons (a c. di), Dagli archivi di Mosca, L’Urss, il Cominform e il Pci (1943-1951), Carocci, Roma 1998, pp. 85-133, in partic. p. 89.
49 Fogar, Trieste in guerra cit., pp. 129-30.
50 Troha, Il movimento di liberazione sloveno cit., p. 114.
Patrick Karlsen, Il PCI, il confine orientale e il contesto internazionale (1941-1955), Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 2007-2008

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Insomma, gli esempi di finzione burlesca che si possono estrarre dalle pagine dei memorialisti della Resistenza sono infiniti bigarella.wordpress.com/2024/1…


Anche Elsa Oliva racconta alcune delle sue imprese sottolineando di dover continuamente fingere, celare la sua vera natura dietro le apparenze della ragazza ingenua e sprovveduta durante le azioni compiute in clandestinità: “Ma di me chi può sospettare? Vesto come una collegiale con i libri di scuola sotto il braccio, pettino i capelli in due lunghe trecce che mi fanno un’aria da bambina impertinente. Mi lascio avvicinare da ufficiali tedeschi per carpire loro informazioni che a noi servono per poi agire contro di loro”. <531
La simulazione è un punto di forza di fronte al nemico perché questo non conosce la multiforme realtà partigiana: spesso diventa espediente indispensabile per sopperire alla mancanza di armi. Si veda questo esempio tratto da Mario Manzoni, in cui i partigiani minacciano di usare armi che non possiedono: “Individuata la cascina ci appostiamo e intimiamo di uscire. Nessuna risposta. Allora grido che se non escono entro un minuto lancio una granata (e chi ce l’ha?) che li farà saltare in aria. Siamo sicuri che sono all’interno perché li hanno visti entrare poco prima”. <532
L’impatto che il gruppo partigiano – poco equipaggiato di mezzi e uomini – non riesce a ottenere nella realtà viene colmato con la finzione. Decisamente teatrale è l’incontro tra partigiani e nazifascisti a Ponte Falmenta descritto da Mario Manzoni nella pagina seguente. Il gruppo partigiano organizza la propria discesa in modo quasi cinematografico, per dare al nemico l’idea di un movimento ben organizzato e ricco di armi, quando in realtà non è così: “Quando spunta una nostra macchina gli ufficiali tedeschi si assettano la divisa, convinti che si tratti dell’arrivo dei nostri ufficiali. Invece nella macchina, oltre che all’autista, c’è la nostra staffetta che annuncia, pomposamente, l’arrivo della nostra delegazione. Mentre scendo da una postazione, sulla strada si profila una lunga teoria di macchine in coda alla quale c’è un camion: intuisco la regia di Arca, al quale piacciono queste dimostrazioni come azioni psicologiche! I tedeschi accolgono i nostri con teutonica impassibilità, ma i repubblichini nascondono a fatica la loro meraviglia. Qualcuno di loro chiederà a tu per tu e più o meno scherzosamente a qualche nostro compagno come devono fare per venire con noi”. <533
La «regia» del comandante partigiano ha sortito l’effetto voluto, facendo vacillare la sicurezza dei repubblichini. Il fascista-tipo, nella narrazione, è sempre il raggirato, il sempliciotto beffato: mai che egli si renda conto delle finzioni attuate dai partigiani. In questo episodio narrato da Vandoni, i partigiani riescono a spostare un ferito grazie alla complicità divertita delle suore e delle infermiere dell’ospedale di Omegna: “In silenzio perfetto con la suora di turno per la notte, furono avvisate tutte le suore e le infermiere perché venissero tutte ad aiutare il trafugamento del tenentino, che viveva di Eucarestia e che era un po’ il beniamino di tutti. […] Bisognava evitare al personale, infermiere e suore, tutte svegliate e complici, una eventuale rappresaglia, per la loro collaborazione. Si scelse una stanza di sotto, con le finestre sbarrate da inferriate e con le armi in pugno, perché le suore potessero
affermare senza dire bugie che i ribelli erano armati, si rinchiusero dentro tutte, suore ed infermiere. […] La mattina dopo all’ospedale gli ammalati aspettavano invano che si facesse viva qualche suora […]. Furono chiamati i nazifascisti a constatare l’accaduto e questi maledirono quei vigliacchi di partigiani, che avevano avuto il coraggio di spaventare le povere suore e di trattarle a quel modo, proprio loro i difensori della religione. Quelle invece divertite ridevano dentro di sé […]”. <534
Si vede bene quale immagine dei fascisti – raggirati anche dalle candide suore – si delinei in questi episodi. Insomma, gli esempi di finzione burlesca che si possono estrarre dalle pagine dei memorialisti sono infinite. Ecco il finto assalto ai ponti della valle ossolana inventato dal partigiano “Moro” per far arrendere i Tedeschi, narrato da Bruno Francia: “Comprendendo che non bisognava lasciare al nemico il tempo di valutare le reali forze partigiane, Moro irruppe nel comando e incitando un’immediata decisione disse: «Il treno blindato non arriverà mai perché i miei uomini hanno fatto saltare il ponte. L’entrata delle valli è bloccata e voi siete circondati. Noi siamo in cinquecento. O vi arrendete subito o per voi è finita…» Impressionato, il nemico depose le armi”. <535
Un altro esempio è la candida Ester che, per svolgere i collegamenti da staffetta, viaggia in bici con la sporta piena di libri di scuola, raccontando al fascista, con un certo gusto, di essere andata da un’amica a studiare: “«Dove sta andando di bello?» mi chiede. «A casa, abito là», e indico un vago punto davanti a noi. «Cos’ha di bello nella sporta?» La sua è semplice curiosità, un modo per attaccare discorso. «Lettere di partigiani», rispondo ridendo. La verità è spesso la migliore bugia. «Caspita, interessante, vediamo un po’ queste lettere.» Allunga una mano, estrae uno dei libri e lo apre. […] Sudo freddo ma continuo nello scherzo. Lo sfoglia […]. «Cosa fa, li porta a spasso?» «Certo, hanno bisogno di un po’ d’aria, poverini, sempre chiusi in casa!» rispondo allegramente, poi preferisco puntualizzare: «No, sono andata da una mia amica a studiare; visto che non possiamo andare a scuola ogni tanto studiamo assieme, non vogliamo perdere l’anno». (Storie, lei è più grande di me e fa le magistrali.)” <536
La burla messa in scena tramite la finzione e il travestimento contribuisce a smorzare la tensione del pericolo, proprio come la risata liberatoria con cui molti di questi episodi si concludono. L’attenzione dei memorialisti punta sempre a far emergere non tanto il pericolo affrontato ma il gusto che si è provato nell’attuare personalmente l’azione. Questo è un elemento su cui riflettere. Il regime fascista aveva abituato le persone alla passività, all’obbedienza assoluta verso le decisioni del duce; di conseguenza, all’annullamento della propria persona. Con il partigianato invece i giovani ribelli riscoprono la possibilità di decidere per sé delle proprie azioni, del proprio futuro. Anzi, si può affermare che la dimensione partigiana abbia nella riscoperta della libertà di azione individuale uno dei suoi punti di forza. Il divertimento provato nell’orchestrare e attuare queste azioni deriva anche dalla riscoperta della propria individualità, dell’inventiva personale e libera di agire di fronte al nemico. È per questo che, nella narrazione di quei momenti, l’emozione predominante nell’animo dei protagonisti è la soddisfazione, il godimento personale piuttosto che la paura.

[NOTE]531 E. OLIVA, Ragazza partigiana, cit., p. 15.
532 M. MANZONI, Partigiani nel Verbano, cit., p. 57.
533 Ivi, p. 126.
534 A. VANDONI, Una vita per l’Italia (vita partigiana), cit., pp. 98-99.
535 B. FRANCIA, I garibaldini nell’Ossola, cit., p. 89.
536 E. MAIMERI PAOLETTI, La staffetta azzurra. Una ragazza nella Resistenza. Ossola 1944-1945, cit., pp. 124-125.
Sara Lorenzetti, Ricordare e raccontare. Memorialistica e Resistenza in Val d’Ossola, Tesi di Laurea, Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro” – Vercelli, Anno accademico 2008-2009

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"Ma sì! Torniamo a Marina San Giuseppe [di Ventimiglia]!"

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Lama continuò a parlare bigarella.wordpress.com/2024/1…



Il quotidiano [«l’Unità»] puntava ad esprimersi attraverso un linguaggio semplice, schietto e persuasivo: la sua funzione era quella di educare l’elettorato del Pci, tanto che nelle intenzioni di Palmiro Togliatti c’era l’idea che «diventasse il Corriere della Sera del proletariato». Il picco delle vendite venne raggiunto durante gli anni Settanta, quando il giornale arrivò ad oltre 94 milioni di copie vendute. In questo periodo, alla direzione del quotidiano si sarebbero succeduti Luca Pavolini, direttore dal 1975 al 1977, e Alfredo Reichlin, dal 1977 al 1981. Seppur diverse tra loro (basti ricordare, ad esempio, che Reichlin durante il decennio lavorò a fianco di Enrico Berlinguer nella direzione nazionale del partito), le due direzioni ebbero il merito di fare del giornale uno strumento e una forma di condivisione di quella linea dell’intransigenza adottata dal Partito comunista nei confronti del fenomeno terrorista apparso in Italia all’inizio del decennio. Durante gli anni di piombo, il mondo del giornalismo non fu solo centrale all’interno per il sistema d’informazione del paese, ma fu anche uno degli sfortunati protagonisti che, insieme alla magistratura, al corpo di polizia e alla classe dirigente italiana, subirono con maggiore frequenza e ferocia gli attacchi dei gruppi terroristici, in particolare della frangia più estrema e organizzata rappresentata proprio dalle Brigate rosse. Fu questo, ad esempio, il caso del vice-direttore de «La Stampa» Carlo Casalegno, primo giornalista ucciso dalle Br, e del cronista de «Il Corriere della sera» Walter Tobagi, rispettivamente morti il 29 novembre 1977 e il 28 maggio 1980. Durante la stagione degli anni di piombo «l’Unità» si sarebbe resa portavoce di quel tentativo culturale, politico e ideologico, portato avanti dal Pci e orientato a infondere una speranza nel futuro della Repubblica. Lo si evince con chiarezza nell’articolo di Giorgio Amendola pubblicato il 12 giugno 1977, in cui si affermava: «oggi intendiamo difendere lo Stato repubblicano, anche se ne vediamo esattamente le piaghe create dalla mancata attuazione della Costituzione. Ma sono queste piaghe che vogliamo eliminare, attraverso un’opera di risanamento e rinnovamento che esige il concorso della maggioranza del popolo» <54.
Conclusasi la parentesi degli anni di piombo, a partire dall’inizio degli anni Ottanta il giornale affrontò la prima crisi delle vendite, passando da 100 milioni di copie annue nel 1981 a 60 milioni nel 1982. A determinare questo esito avrebbe certamente contribuito la diffusione di una stampa concorrente: lo sviluppo di quotidiani come «La Repubblica», ad esempio, segnò un momento di transizione per i quotidiani di partito poiché i lettori cosiddetti “non fidelizzati” avrebbero potuto ora trovare le informazioni sulle pagine di giornali più generalisti che disponevano di eccellenti redazioni politiche ed economiche e che utilizzavano un linguaggio lontano dai tecnicismi della politica e, dunque, più facilmente comprensibile. Per potenziare il numero delle vendite, nel 1986, il quotidiano avrebbe dato il via libera alla distribuzione della rivista satirica «Tango». Cinque anni più tardi, nel 1991, «l’Unità» avrebbe cessato di essere organo di partito, passando nelle mani di Walter Veltroni che avrebbe rivoluzionato il quotidiano arricchendolo di gadget a pagamento da vendere ai lettori: videocassette di film, audiocassette, ristampe di album delle figurine Panini rappresentano il nuovo orizzonte del quotidiano.
19 febbraio 1977: «Ferma condanna in tutto il paese dell’aggressione squadristica di Roma»
Particolarmente interessante fu il modo in cui l’organo di stampa del Partito comunista decise di interpretare i fatti del 17 febbraio del 1977, quando il segretario della Cgil Luciano Lama aveva presieduto un comizio sindacale presso l’università La Sapienza di Roma, sul tema dei precari. Il discorso di Lama era iniziato in questo modo: «i lavoratori, i sindacati sono venuti qui per ragionare, per parlare, per ascoltare con calma. La manifestazione di oggi non è fatta, come qualcuno ha detto, con i carri armati: migliaia di lavoratori e di studenti vogliono raccogliersi per discutere di un problema vitale per l’intera società» <55. Le parole che venivano diffuse dagli altoparlanti del dodge rosso che fungeva da palco per i rappresentanti della Federazione sindacale Cgil, Cisl e Uil, vennero inizialmente ascoltate dal pubblico di studenti, lavoratori e sindacalisti presenti quel giovedì mattina in Piazza della Minerva; tuttavia non era sfuggito agli occhi attenti del servizio d’ordine dell’organizzazione sindacale, un movimento sviluppatosi al lato del camion rosso, iniziato dagli esponenti degli “indiani metropolitani” e da quelle forze che poi «l’Unità» si sarebbe ostinata a definire «degli autonomi» (alcuni dei gruppi coinvolti nel cosiddetto “Movimento del ‘77”). Lama continuò a parlare, nonostante i manifestanti avessero alzato al cielo un fantoccio di cartapesta raffigurante lo stesso Lama, con un chiaro incoraggiamento rivolto ai giovani studenti «A chi grida che vogliamo affrontare il “movimento” rispondiamo che non abbiamo mai pensato di agire senza, e tantomeno contro le grandi masse di giovani – sottolineava Lama – dobbiamo lottare e vincere assieme la grande battaglia per il rinnovamento dell’intera società, battere e vincere il fascismo, le tentazioni reazionarie, le provocazioni eversive, ogni violenza o tentazione irrazionali» <56. Come riferiva nella sua ricostruzione un articolo de «l’Unità», pubblicato il 20 febbraio, inizialmente «c’era voglia di dialogare, di polemizzare magari duramente, ma con la forza delle sole idee» <57. Il comizio sindacale organizzato dalla Federazione e dal Partito comunista aveva preso accordi con il movimento studentesco: dopo il comizio di Lama, sarebbe stato uno studente del movimento a prendere la parola; tuttavia la situazione degenerò poco prima che il segretario della Cgil potesse completare il suo discorso, quando, dalle file degli “autonomi”, vennero lanciati dei palloncini pieni di vernice contro il palco della Federazione. Il servizio d’ordine
dell’organizzazione sindacale si scagliò contro gli studenti e i manifestanti brandendo degli estintori per farsi largo tra la folla. La manifestazione si era sciolta lasciando spazio ad un feroce scontro tra studenti e forze dell’ordine, gli “indiani americani” e il gruppo degli “autonomi”, e tra gli uni e gli altri, indistinguibili a quel punto in Piazza della Minerva.
Nei giorni seguenti quella che passò alla storia come “la cacciata di Lama” dal comizio e gli scontri dell’ateneo romano sarebbero stati ripresi da tutti i principali organi di stampa. Il primo a denunciare le aggressioni fu, il 19 febbraio, proprio «l’Unità» che, in prima pagina, usciva con il titolo “Ferma condanna in tutto il paese dell’aggressione squadristica di Roma” <58. La posizione dell’organo ufficiale del Partito comunista sui fatti dell’ateneo romano era esplicita: la colpa era da attribuirsi ad «uno squadrismo dall’etichetta di sinistra, espressione dei gruppi che si muovono nell’area della cosiddetta “autonomia”» <59; e l’obiettivo di tali gruppi era quello «di paralizzare le istituzioni, di provocare l’ingovernabilità dell’Università e del Paese» <60.
Nel giorno di domenica 20 febbraio la direzione di Alfredo Reichlin pubblicava in prima pagina il “Documento della direzione Pci dopo i fatti di Roma”, nel quale il gruppo dirigente del Partito comunista proponeva «unità e iniziativa di massa contro lo squadrismo, per rinsaldare il legame fra giovani e democrazia» <61. La direzione del Pci esprimeva lo «sdegno» dei comunisti per la serie di atti che, a partire dall’Università di Roma, si stavano susseguendo in tutti gli atenei italiani. Dal nord a sud le maggiori università d’Italia erano state prese d’assalto da gruppi che, approfittando della occupazione imposta dagli studenti negli atenei, riuscivano a prendere il sopravvento, allontanando sempre di più i giovani dal dialogo con la classe politica italiana. Proprio perché l’emergenza non rappresentava un caso isolato alla capitale italiana, la dirigenza del Partito comunista considerava «necessaria una pressione unitaria perché lo Stato democratico agisca risolutamente contro tutte le centrali eversive e le formazioni squadristiche e armate – scrive la Direzione del Pc – ciò che si deve difendere è innanzitutto la possibilità della piena esplicazione della vita democratica, del dibattito e del confronto nella scuola, nell’università, nella società» <62. Nello stesso numero del quotidiano, in un articolo intitolato “Commenti della stampa: verità e deformazioni”, il Partito comunista denunciava la «soddisfazione dei giornali della destra per l’attacco squadristico» <63. Le lamentele erano soprattutto rivolte a «Il Giornale» ma anche a «la Repubblica». I comunisti riferivano nell’articolo le parole del foglio di Montanelli che «si augura che i fatti romani possano costituire una scintilla per lo scatenamento di una “rabbia” generale contro le sinistre e i sindacati» <64. «La Repubblica», invece, veniva accusata di aver riportato nei suoi articoli una versione stravolta dei fatti accaduti in Piazza della Minerva il 17 febbraio, attribuendo la responsabilità degli avvenimenti agli aggrediti e non agli aggressori, comeriportava nel titolo “Il comizio di Lama scatena gravi incidenti”. «Nessuna parola di condanna si legge su “la Repubblica” nei confronti di chi ha tentato di abolire la libertà di manifestazione e di parola» <65, mentre era stata apprezzata la linea di solidarietà espressa dal Partito socialista nelle righe de «l’Avanti!».
Dall’analisi degli articoli citati si evince come la condanna del Partito comunista nei confronti dei gruppi eversivi fosse ferma e decisa; tuttavia nelle pagine del quotidiano «l’Unità» veniva taciuto un aspetto che potrebbe essere ritenuto centrale all’interno del contesto degli scontri di Roma. La stampa comunista, infatti, in nessun articolo avrebbe menzionato il fatto che il 12 febbraio 1977, cinque giorni prima del comizio di Lama, era stata prevista in Via delle Botteghe Oscure una riunione del Pci nella quale vennero convocati anche alcuni membri della Federazione sindacale e il Segretario della Camera del Lavoro di Roma, Bruno Vittoriano. Sarebbe stato proprio quest’ultimo, in un’intervista pubblicata postuma su «la Repubblica», a dichiarare al giornalista Luca Villoresi, che quello che doveva essere un comizio sindacale aveva “tacitamente” assunto un altro obiettivo: la manifestazione dei precari sarebbe dovuta diventare l’occasione per scacciare gli occupanti dall’ateneo romano. I vari accordi presi dal sindacato con il movimento studentesco saltarono: Lama non avrebbe più parlato sulle scale del Rettorato ma dal furgone rosso con il quale la Federazione era abituata ad aprire le file dei cortei; il rappresentante degli studenti occupanti non avrebbe più esposto la sua testimonianza; il servizio d’ordine per l’evento sarebbe stato garantito non dalle forze della polizia, ma dall’organizzazione sindacale. «A riveder oggi le posizioni di tanti protagonisti dell’epoca, sembra davvero che quella manifestazione fosse figlia di nessuno – dichiarava Vittoriano – mentre invece, diciamolo, la situazione precipitò perché qualcuno scelse, anche consapevolmente, la strada dell’atto di forza» <66. Il riferimento del Segretario della Camera del Lavoro era certamente indirizzato al Pci e alla sua scelta di rendere quel comizio sindacale una manifestazione di più largo respiro <67. Nelle pagine del «l’Unità» non fu fatto cenno neppure all’atteggiamento provocatorio che il servizio d’ordine della Federazione aveva assunto non appena entrato in Piazza della Minerva: le “tute blu”, infatti, erano arrivate armate di secchi di vernice bianca e pennelli, pronti a cancellare le scritte di protesta che erano apparse sui muri intorno alla facoltà nei precedenti 14 giorni di occupazione, prima tra tutte fu cancellata la scritta «i Lama stanno nel Tibet». Le provocazioni arrivarono certamente anche da parte dai movimenti studenteschi, dal fantoccio raffigurante il segretario della Cgil ai cori che recitavano «Lama nessun l’ama». Tuttavia, mentre in merito a queste provocazioni si trovano numerosi riferimenti tra le righe degli articoli pubblicati nei giorni che seguirono i fatti di Roma, del vero intento del Partito comunista, ossia quello di mandare un messaggio ben preciso alla popolazione, ossia che il Pc stesse lavorando in difesa delle istituzioni, non si dava neppure un accenno.
Contemporaneamente al problema dei movimenti sociali, a partire dal 1976 le istituzioni italiane dovettero anche affrontare l’ascesa dell’organizzazione rivoluzionaria delle Brigate rosse, guidata dal brigatista Mario Moretti, artefice della strategia condotta contro il cuore dello Stato italiano, che avrebbe colpito non solo gli alti dirigenti delle fabbriche e volti noti della politica, ma anche professionisti, magistrati e giornalisti, come il vice direttore de «la Stampa» Carlo Casalegno.

[NOTE]54 Giorgio Amendola, Difendere la Repubblica, in «l’Unità» del 12 giugno 1977, ora in Archivio storico de «l’Unità».
55 Discorso di Luciano Lama alla manifestazione in Piazza della Minerva del 17 febbraio 1977, in «l’Unità», 19 febbraio 1977.
56 Ibidem.
57 Roberto Roscani, Studenti e operai insieme al comizio dei sindacati, in, «l’Unità», 20 febbraio 1977.
58 Gregorio Botta, Ferma condanna in tutto il paese dell’aggressione squadristica di Roma, in, «l’Unità» del 19 febbraio 1977.
59 Marisa Musu, I comunisti discutono gli incidenti, in, «l’Unità» del 20 febbraio 1977.
60 Ibidem.
61 Direzione del Partito comunista, Documento della direzione Pci dopo i fatti di Roma, in, «l’Unità» del 20 febbraio 1977.
62 Ibidem.
63 La Direzione del Partito comunista, Commenti della stampa: verità e deformazioni, in, «l’Unità» del 20 febbraio 1977.
64 Ibidem.
65 Ibidem.
66 Luca Villoresi, Così andò quella mattina del 1977, quando Lama…, in «la Repubblica», 1987, ora in archivio storico de «la Repubblica».
67 Ibidem.
Francesca Lanzillotta, La svolta degli anni Settanta nelle pagine de «L’Unità» e de «Il Popolo», Tesi di Laurea, Università Luiss “Guido Carli”, Anno accademico 2015-2016

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L’Est rispose con un’alleanza militare tra l’Unione Sovietica e i suoi paesi satellite bigarella.wordpress.com/2024/0…


Il 5 marzo 1953 morì Iosif Stalin <19. La politica del dittatore aveva condizionato l’Unione Sovietica fin da prima della Seconda guerra mondiale. Con il conflitto – e la successiva vittoria – il culto dell’eroe comunista che combatteva e sconfiggeva con le sue stesse forze i nazisti invasori venne subito collegata alla figura di Stalin. Le celebrazioni del suo funerale ebbero un certo successo e sembravano nascondere la durezza repressiva che continuava anche dopo la morte del dittatore. Il sistema post-staliniano vide un’ulteriore ricostruzione degli apparati produttivi, in particolare quelli militari. Dopo il primo test atomico del 1949, i sovietici riuscirono a mettere a punto un’altra arma di grande potenza: la bomba a idrogeno (detta “bomba H” <20). L’evento venne celebrato come grande successo del socialismo, portando l’arsenale militare dell’URSS ad un potenziale distruttivo che arriva alla relativa parità con quello americano. Si aggiungeva poi il rafforzamento dell’ideologia comunista in Asia, dopo la fine della Guerra di Corea e l’affermazione della Cina di Mao Tse-tung.
Il 1955 fu l’anno in cui la Repubblica Federale Tedesca aderì al Patto Atlantico, e quindi alla Nato. Ma era anche l’anno in cui l’Est rispose con un’alleanza militare tra l’Unione Sovietica e i suoi paesi satellite (Bulgaria, Romania, Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia, Albania e Germania Orientale), costituendo così il “Patto di Varsavia” <21.
Il nuovo Segretario del PCUS, Nikita Chruščëv, al XX° Congresso del partito il 14 febbraio 1956, presentò un rapporto segreto in cui si denunciavano i crimini commessi da Stalin. Tale documento lasciava sperare che l’URSS si sarebbe aperta ad un processo di liberalizzazione e di distensione sul piano internazionale <22.
Nel frattempo, in Occidente venne fatto un altro passo a favore dell’integrazione europea. La conferenza di Messina, nel giugno del 1955 <23, avrebbe condotto alle firme dei Trattati di Roma e alla creazione del “Mercato Comune Europeo” (con l’approvazione degli americani) e della “Comunità Europea dell’Energia Atomica”, l’EURATOM.
Le prime tendenze riformatrici nei paesi dell’Est trovarono spazio in Polonia e soprattutto in Ungheria, dove, sotto il governo riformista di Imre Nagy, queste tendenze diventarono centrifughe. Nell’ottobre 1956 ci fu un primo intervento militare sovietico, tuttavia i movimenti di protesta ungheresi che ne seguirono richiederanno un’ulteriore azione dell’Armata Rossa, il successivo 4 novembre. La resistenza dei centri operai locali si fece accanita, ma non riuscirono comunque a fermare l’invasione, che provocherà 60.000 morti e la deposizione (e l’arresto) del Presidente Nagy <24 .
La Nazioni Unite questa volta si astenevano dall’intervenire nella questione ungherese, in quanto il rappresentante sovietico nel Consiglio di Sicurezza aveva opposto il suo veto. Contemporaneamente la situazione stava precipitando anche in Medio Oriente, dove dal luglio precedente il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, salito al potere con un colpo di Stato nel 1952 <25, aveva provveduto alla nazionalizzazione dell’antica Compagnia del Canale di Suez, colpendo
gli interessi degli azionisti e dei paesi occidentali. La mossa era stata un atto di ritorsione contro la promessa americana non mantenuta dei finanziamenti all’imponente progetto della diga di Assuan <26.
L’obiettivo di Nasser era modernizzare l’Egitto e rilanciarne il ruolo egemonico nell’area mediorientale. Il governo inglese, dopo mesi di inutili trattative, decise di intervenire militarmente per far cadere il dittatore egiziano. Trovò presto il sostegno del governo francese. Il 29 ottobre 1956 iniziò l’“Offensiva di Tsahal” <27. Ma presto si aprì una crisi interna all’Alleanza Atlantica, dato che l’amministrazione USA di Dwight “Ike” Eisenhower (divenuto presidente nel 1953 <28) disapprovava fortemente l’azione armata anglo-francese, portando al fallimento dell’operazione e il successivo ritiro delle truppe europee. La situazione in Medio Oriente tornò a quella pre-conflitto. La duplice crisi del 1956 aveva strutturato ulteriormente il “bipolarismo” internazionale, dato che nessuno dei maggiori attori poteva ormai inserirsi in modo attivo nella sfera d’influenza avversaria.
Le proteste americane per l’Ungheria e quelle sovietiche per Suez rientrarono infatti in tempi piuttosto rapidi <29.

[NOTE]19 Formigoni Guido, Storia d’Italia nella guerra fredda (1943-1978), Bologna, il Mulino, 2016, p. 200.
20 Banti Alberto Mario, L’età contemporanea: dalla grande guerra a oggi, Bari, Laterza, 2009, p. 275.
21 Banti Alberto Mario, L’età contemporanea: dalla grande guerra a oggi, Bari, Laterza, 2009, p. 266.
22 Giannuli Aldo, La strategia della tensione: servizi segreti, partiti, golpe falliti, terrore fascista, politica internazionale: un bilancio definitivo, Milano, Ponte alle Grazie, 2018, p. 37.
23 Varsori Antonio et al., La politica estera italiana nel secondo dopoguerra (1943-1957), Milano, LED, 1993, p. 357.
24 Giannuli Aldo, La strategia della tensione: servizi segreti, partiti, golpe falliti, terrore fascista, politica internazionale: un bilancio definitivo, Milano, Ponte alle Grazie, 2018, p. 37.
25 Banti Alberto Mario, L’età contemporanea: dalla grande guerra a oggi, Bari, Laterza, 2009, p. 286.
26 Formigoni Guido, Storia d’Italia nella guerra fredda (1943-1978), Bologna, il Mulino, 2016, p. 236.
27 Idem, p. 237. 28 Banti Alberto Mario, L’età contemporanea: dalla grande guerra a oggi, Bari, Laterza, 2009, p. 307.
29 Formigoni Guido, Storia d’Italia nella guerra fredda (1943-1978), Bologna, il Mulino, 2016, p. 242.
Daniele Pistolato, “Operazione Gladio”. L’esercito segreto della Nato e l’Estremismo Nero, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2023-2024

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L’Est rispose con un’alleanza militare tra l’Unione Sovietica e i suoi paesi satellite


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Il 5 marzo 1953 morì Iosif Stalin <19. La politica del dittatore aveva condizionato l’Unione Sovietica fin da prima della Seconda guerra mondiale. Con il conflitto – e la successiva vittoria – il culto dell’eroe comunista che combatteva e sconfiggeva con le sue stesse forze i nazisti invasori venne subito collegata alla figura di Stalin. Le celebrazioni del suo funerale ebbero un certo successo e sembravano nascondere la durezza repressiva che continuava anche dopo la morte del dittatore. Il sistema post-staliniano vide un’ulteriore ricostruzione degli apparati produttivi, in particolare quelli militari. Dopo il primo test atomico del 1949, i sovietici riuscirono a mettere a punto un’altra arma di grande potenza: la bomba a idrogeno (detta “bomba H” <20). L’evento venne celebrato come grande successo del socialismo, portando l’arsenale militare dell’URSS ad un potenziale distruttivo che arriva alla relativa parità con quello americano. Si aggiungeva poi il rafforzamento dell’ideologia comunista in Asia, dopo la fine della Guerra di Corea e l’affermazione della Cina di Mao Tse-tung.
Il 1955 fu l’anno in cui la Repubblica Federale Tedesca aderì al Patto Atlantico, e quindi alla Nato. Ma era anche l’anno in cui l’Est rispose con un’alleanza militare tra l’Unione Sovietica e i suoi paesi satellite (Bulgaria, Romania, Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia, Albania e Germania Orientale), costituendo così il “Patto di Varsavia” <21.
Il nuovo Segretario del PCUS, Nikita Chruščëv, al XX° Congresso del partito il 14 febbraio 1956, presentò un rapporto segreto in cui si denunciavano i crimini commessi da Stalin. Tale documento lasciava sperare che l’URSS si sarebbe aperta ad un processo di liberalizzazione e di distensione sul piano internazionale <22.
Nel frattempo, in Occidente venne fatto un altro passo a favore dell’integrazione europea. La conferenza di Messina, nel giugno del 1955 <23, avrebbe condotto alle firme dei Trattati di Roma e alla creazione del “Mercato Comune Europeo” (con l’approvazione degli americani) e della “Comunità Europea dell’Energia Atomica”, l’EURATOM.
Le prime tendenze riformatrici nei paesi dell’Est trovarono spazio in Polonia e soprattutto in Ungheria, dove, sotto il governo riformista di Imre Nagy, queste tendenze diventarono centrifughe. Nell’ottobre 1956 ci fu un primo intervento militare sovietico, tuttavia i movimenti di protesta ungheresi che ne seguirono richiederanno un’ulteriore azione dell’Armata Rossa, il successivo 4 novembre. La resistenza dei centri operai locali si fece accanita, ma non riuscirono comunque a fermare l’invasione, che provocherà 60.000 morti e la deposizione (e l’arresto) del Presidente Nagy <24 .
La Nazioni Unite questa volta si astenevano dall’intervenire nella questione ungherese, in quanto il rappresentante sovietico nel Consiglio di Sicurezza aveva opposto il suo veto. Contemporaneamente la situazione stava precipitando anche in Medio Oriente, dove dal luglio precedente il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, salito al potere con un colpo di Stato nel 1952 <25, aveva provveduto alla nazionalizzazione dell’antica Compagnia del Canale di Suez, colpendo
gli interessi degli azionisti e dei paesi occidentali. La mossa era stata un atto di ritorsione contro la promessa americana non mantenuta dei finanziamenti all’imponente progetto della diga di Assuan <26.
L’obiettivo di Nasser era modernizzare l’Egitto e rilanciarne il ruolo egemonico nell’area mediorientale. Il governo inglese, dopo mesi di inutili trattative, decise di intervenire militarmente per far cadere il dittatore egiziano. Trovò presto il sostegno del governo francese. Il 29 ottobre 1956 iniziò l’“Offensiva di Tsahal” <27. Ma presto si aprì una crisi interna all’Alleanza Atlantica, dato che l’amministrazione USA di Dwight “Ike” Eisenhower (divenuto presidente nel 1953 <28) disapprovava fortemente l’azione armata anglo-francese, portando al fallimento dell’operazione e il successivo ritiro delle truppe europee. La situazione in Medio Oriente tornò a quella pre-conflitto. La duplice crisi del 1956 aveva strutturato ulteriormente il “bipolarismo” internazionale, dato che nessuno dei maggiori attori poteva ormai inserirsi in modo attivo nella sfera d’influenza avversaria.
Le proteste americane per l’Ungheria e quelle sovietiche per Suez rientrarono infatti in tempi piuttosto rapidi <29.

[NOTE]19 Formigoni Guido, Storia d’Italia nella guerra fredda (1943-1978), Bologna, il Mulino, 2016, p. 200.
20 Banti Alberto Mario, L’età contemporanea: dalla grande guerra a oggi, Bari, Laterza, 2009, p. 275.
21 Banti Alberto Mario, L’età contemporanea: dalla grande guerra a oggi, Bari, Laterza, 2009, p. 266.
22 Giannuli Aldo, La strategia della tensione: servizi segreti, partiti, golpe falliti, terrore fascista, politica internazionale: un bilancio definitivo, Milano, Ponte alle Grazie, 2018, p. 37.
23 Varsori Antonio et al., La politica estera italiana nel secondo dopoguerra (1943-1957), Milano, LED, 1993, p. 357.
24 Giannuli Aldo, La strategia della tensione: servizi segreti, partiti, golpe falliti, terrore fascista, politica internazionale: un bilancio definitivo, Milano, Ponte alle Grazie, 2018, p. 37.
25 Banti Alberto Mario, L’età contemporanea: dalla grande guerra a oggi, Bari, Laterza, 2009, p. 286.
26 Formigoni Guido, Storia d’Italia nella guerra fredda (1943-1978), Bologna, il Mulino, 2016, p. 236.
27 Idem, p. 237. 28 Banti Alberto Mario, L’età contemporanea: dalla grande guerra a oggi, Bari, Laterza, 2009, p. 307.
29 Formigoni Guido, Storia d’Italia nella guerra fredda (1943-1978), Bologna, il Mulino, 2016, p. 242.
Daniele Pistolato, “Operazione Gladio”. L’esercito segreto della Nato e l’Estremismo Nero, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2023-2024

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Neanche a farlo apposta, poco fa è passato da Bordighera un altro Intercity da cui hanno fatto suonare una sirena somigliante al gracchiare di un clacson di certe vecchie corriere di montagna...