Associazioni: Acli Roma parteciperanno al Concerto con i poveri in Vaticano e all’omaggio floreale all’Immacolata - AgenSIR
Le Acli di Roma e provincia annunciano la propria partecipazione a due appuntamenti nei prossimi giorni.Patrizia Caiffa (AgenSIR)
L’evoluzione della tratta degli esseri umani: i cosiddetti “centri truffa”
Un passaggio di un recente intervento alle Nazioni Unite di mons. Paul Richard Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati e le Organizzazioni internazionali della Segreteria di Stato vaticana, è lo spunto del saggio che il gesuita statunitense p. William McCormick dedica ai cosiddetti «centri truffa» (scam centers) del Sud-est asiatico, sul numero 4200 della Civiltà Cattolica.
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Il Natale come decisione
Nella contemplazione sull’Incarnazione presente nel libro degli Esercizi spirituali (ES), sant’Ignazio di Loyola immagina la Santissima Trinità che guarda il mondo e l’umanità. Che cosa vedono le tre persone divine secondo sant’Ignazio? Una grande diversità: «sia nei vestiti sia nei gesti; alcuni bianchi, altri neri; alcuni in pace e altri in guerra; chi piangendo e chi ridendo; alcuni sani, altri malati; alcuni che nascono, altri che muoiono ecc.» (ES 106).
Le tre persone divine vedono anche che «tutti andavano all’inferno» (ES 102) e, dopo aver visto tutto questo, prendono una decisione: «fare» la redenzione dell’umanità, ovvero, ancora nelle parole del cavaliere di Loyola, «decidono nella loro eternità che la seconda persona si faccia uomo per salvare il genere umano» (ES 102).
Il Natale ha quindi origine in una decisione del Dio uno e trino. Potremmo dire che la redenzione dell’umanità ha origine da un processo di discernimento delle persone divine: hanno visto e hanno deciso! E quello che hanno visto e deciso «nella loro eternità» rimane attuale e reale anche oggi: la nostra immensa varietà di culture e di situazioni è raggiunta amorevolmente dallo stesso smisurato e inesauribile desiderio salvifico di Dio.
E noi, nel Natale che ci apprestiamo a celebrare, quale decisione vogliamo prendere? E come vogliamo prepararla? Dobbiamo guardare attorno a noi, ma anche al di là della nostra cerchia più ristretta. Prolunghiamo lo sguardo attento delle persone divine e chiediamoci: oggi, dove c’è pace e dove c’è guerra? Chi piange e chi ride? Chi è sano e chi è malato? Chi nasce e chi muore? Identificate le risposte a queste domande, quali decisioni prendiamo e quali responsabilità, anche piccole, assumiamo?
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Innanzitutto, accogliamo con tutto il cuore la decisione divina che ci salva. Rendiamola presente con i nostri atteggiamenti e scelte, con le nostre priorità riordinate e con i nostri criteri rivisti alla luce del Vangelo e dell’orizzonte di eternità al quale siamo chiamati. Sì, il Natale di quest’anno è anche una decisione nostra. Dio viene a farci compagnia, e noi, diventati fratelli e sorelle, decidiamo di portare il Natale a chi piange, a chi è in guerra, a chi è malato, a chi muore, ai più poveri, a chi è vittima dell’odio o della vendetta. Decidiamo di accogliere la chiamata di Cristo a prendere parte alla sua missione di pace, di comunione e di riconciliazione. A tutti, senza eccezione, egli vuole dire: Dilexi te, «Io ti ho amato» (Ap 3,9).
Decidiamo, infine, che l’impegno a identificare e a diventare segni di speranza rimarrà anche dopo l’Anno giubilare che sta per concludersi, e che non dimenticheremo che spes non confundit, la «speranza non delude» (Rm 5,5). Non a caso papa Leone XIV ha intitolato una sua recente lettera apostolica Disegnare nuove mappe di speranza.
A tutti i nostri abbonati e lettori auguriamo, con gratitudine, un Santo Natale e un Anno Nuovo di pace!
La Civiltà Cattolica
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I centri truffa nel sud-est asiatico: una nuova forma di schiavitù
In occasione dell’apertura dell’ottantesima sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, mons. Paul Richard Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati e le Organizzazioni internazionali della Santa Sede, ha rivolto all’Assemblea un discorso sulla missione delle Nazioni Unite a ottant’anni dalla loro fondazione[1].
Sottolineando «l’importanza che continua ad avere la cooperazione multilaterale nell’affrontare le questioni globali», ha richiamato l’attenzione dell’Assemblea sia sulla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, sia sui «pilastri fondanti di pace, giustizia e verità» enunciati da papa Leone XIV, il 16 maggio 2025, nel discorso ai membri del Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede. Fra le molte sfide poste dalla contemporaneità a questa cooperazione multilaterale, ha messo in risalto i «centri truffa» (scam centers, in inglese) del Sud-est asiatico. Queste strutture, gestite dal crimine organizzato, sono operazioni sofisticate in cui la tratta di esseri umani fornisce manodopera forzata per la commissione di reati informatici su larga scala. I centri truffa danneggiano non solo le vittime ingannate e convinte a inviare denaro, ma anche le persone costrette a lavorare al servizio delle organizzazioni criminali.
Essi costituiscono dunque gravi violazioni della dignità delle persone coinvolte e serie minacce allo Stato di diritto e alla credibilità dei governi. Operano, infatti, in aree caratterizzate da debole presenza statale, spesso lungo le frontiere o in regioni contese del Sud-est asiatico. Per questo meritano particolare attenzione da parte delle organizzazioni chiamate a promuovere relazioni multilaterali sane fra gli Stati, in primo luogo le Nazioni Unite e l’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico (Asean).
I centri truffa: una nuova forma di schiavitù
I centri truffa sono una forma di criminalità organizzata che non si può descrivere con precisione. La loro storia aiuta a comprendere che cosa siano stati e che cosa potrebbero diventare in assenza di una concreta ed effettiva cooperazione fra le comunità colpite.
La loro nascita e la loro evoluzione sono state fortemente influenzate dalla pandemia di Covid-19. Molti erano sorti come centri dedicati al gioco d’azzardo, spesso situati in zone dove il controllo dello Stato era relativamente debole. Erano legati al crimine organizzato, che traeva profitto sia dai guadagni dei casinò sia dalle opportunità di riciclaggio. Quando la pandemia ha reso impossibili o difficoltose le attività in presenza, i sindacati criminali che li gestivano ne hanno aggiornato la funzione, orientandosi verso la frode informatica[2]. Questa trasformazione rivela quanto sia mutevole e adattiva la natura di tali organizzazioni e la possibilità che si trasformino ancora in futuro, il che rende l’azione delle forze dell’ordine ancora più complessa.
Una recente dichiarazione delle Nazioni Unite descrive questi centri come «traffico di esseri umani su vasta scala a fini di lavoro forzato e di criminalità forzata all’interno di complessi situati nel Sud-est asiatico, dove centinaia di migliaia di persone di varie nazionalità sono intrappolate e costrette a commettere frodi online o a collaborare con le operazioni criminali»[3]. Le truffe comprendono un’ampia varietà di schemi online: dai raggiri sentimentali alle frodi d’investimento, dal furto d’identità al phishing, fino alle truffe in criptovalute e ai falsi arresti digitali. Le strategie si perfezionano costantemente. Come osserva mons. Gallagher, i centri truffa si concentrano soprattutto nel Sud-est asiatico – in Cambogia, Myanmar, Laos, Thailandia e Filippine –, spesso in aree lontane da una reale capacità d’intervento statale. Alcune di queste «fabbriche di frodi» sono diventate tristemente famose grazie a inchieste giornalistiche e a interventi governativi, come il KK Park in Myanmar, che la giunta militare dichiara di aver perquisito nell’ottobre 2025, o la struttura di Bamban nelle Filippine[4]. Questi centri si spostano per sfuggire alle autorità e si espandono dove trovano condizioni favorevoli: per esempio, di recente se ne registra la proliferazione lungo il confine tra Myanmar e Thailandia.
Il personale è costituito per lo più da individui trattenuti contro la propria volontà, sequestrati o ingannati e costretti a lavorare. Le stime sono incerte, ma, secondo l’Onu, centinaia di migliaia di persone sarebbero state trafficate per questa industria[5]. Le vittime provengono da vari Paesi, in prevalenza dell’Asia sud-orientale. Spiega l’organizzazione International Justice Mission: «I criminali usano le piattaforme di social media per pubblicizzare falsamente lavori redditizi con stipendi elevati e condizioni ideali. I trafficanti organizzano tutto ciò che serve per rendere l’offerta irresistibile. Una volta giunti sul posto, i documenti e i telefoni delle vittime vengono confiscati, impedendo loro di fuggire o di chiedere aiuto. Esse vengono trattenute, e frequentemente subiscono abusi e percosse»[6].
Una rivista riferisce la vicenda di un uomo costretto a lavorare in un centro truffa in Myanmar, dove veniva obbligato a condurre «truffe sentimentali» per 16 ore al giorno. In tali raggiri, viene usata un’identità fittizia per conquistare la fiducia e l’affetto di una persona, che poi viene indotta a inviare denaro con pretesti vari, come quelli di aiutare l’interlocutore a uscire da una situazione difficile o di organizzare un presunto incontro. In scenari più sofisticati, la vittima viene spinta a condividere dati personali o bancari, che permettono di rubarne l’identità e le risorse finanziarie[7].
L’uomo in questione divideva il dormitorio con molte altre persone, tutte sotto la costante paura di subire violenze. Nei centri truffa le persone trafficate sono confinate in spazi ristretti, con cibo e acqua limitati e nessuna privacy, e lavorano a ritmi estenuanti. Un osservatore delle Nazioni Unite ha descritto tali centri come «non molto diversi da una grande azienda tecnologica», con dormitori, mense e spazi di lavoro, in cui l’intera vita è organizzata attorno al lavoro forzato[8]. Essi dispongono perfino di reparti specificamente destinati a vittime di una certa lingua o nazionalità: per esempio, vietnamiti incaricati di truffare altri vietnamiti, o cinesi obbligati a frodare connazionali di lingua cinese. La «dirigenza» gode di condizioni di vita notevolmente migliori, spesso all’interno dello stesso centro.
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Le persone trafficate possono restare intrappolate per mesi o anni, se mai riescono a uscirne. Un rapporto dell’Onu segnala che «alcuni vengono venduti ad altri centri truffa, oppure le famiglie devono pagare un riscatto. I tentativi di fuga si concludono spesso con punizioni severe o con la morte»[9]. In certi casi, le organizzazioni criminali, per rifarsi delle spese, forzano le vittime alla prostituzione o persino al traffico di organi[10].
Un’inchiesta del Guardian ha dimostrato che la tratta per questi centri si è estesa anche in Africa, soprattutto verso giovani dell’Africa orientale di lingua inglese, impiegati per truffare utenti anglofoni online[11]. I criminali hanno sfruttato l’invito rivolto dal governo keniota ai giovani a cercare lavoro all’estero: molti, attratti da offerte allettanti di impiego in Thailandia, venivano poi introdotti clandestinamente in Myanmar con falsi pretesti. Uno studio statunitense stima che nel 2024 le frodi subite da cittadini degli Stati Uniti ammontino a oltre 10 miliardi di dollari, e prevede che il mercato per lavoratori di lingua inglese continuerà a crescere[12].
I sindacati criminali che gestiscono questi centri comprendono anche gruppi di provenienza cinese e taiwanese. La lotta contro tali operazioni ha portato a forme di collaborazione tra Pechino e Taipei che, tuttavia, non hanno sradicato definitivamente il problema.
Le vittime
I centri truffa rappresentano una forma complessa e mutevole di criminalità organizzata e pongono diverse sfide alla comunità internazionale. Innanzitutto, costituiscono un oltraggio alla dignità delle persone vittime di tratta. Chi lavora in questi centri viene trattenuto contro la propria volontà: è «comprato e venduto» attraverso meccanismi del tutto illegali e ingiusti, per poi essere ulteriormente sfruttato e abusato. I centri truffa ricordano al mondo che la schiavitù non è scomparsa, sebbene quella moderna possa assumere forme diverse dalle antiche[13]. Anche i diritti delle persone come lavoratori vengono violati quando esse vengono inserite nella tratta. Come mostra il caso del Kenya, queste organizzazioni criminali sfruttano il bisogno delle persone di emigrare per lavorare: le false promesse di impiego risultano tanto più allettanti proprio a causa della necessità economica dei lavoratori.
Le condizioni del lavoro forzato sono miserabili: chi vi è obbligato lavora senza salario e senza alcuna retribuzione, in occupazioni che non ha scelto. Inoltre, il lavoro stesso è illegale, il che rende chi lo compie complice del crimine e della disumanizzazione delle vittime. Come osserva un rapporto: «Gli operatori delle truffe informatiche creano due tipi di vittime: da un lato, coloro che vengono ingannati online e derubati; dall’altro, le persone – spesso reclutate con la forza – che vengono sfruttate per commettere tali truffe. Riguardo a costoro, le distinzioni tradizionali tra vittime e colpevoli sono poco pertinenti»[14].
I centri truffa commettono un sopruso anche nei confronti di coloro che vengono truffati. È difficile stimare il denaro sottratto ogni anno a queste vittime, ma i danni vanno ben oltre la perdita economica. Si calcola che tali operazioni fruttino decine di miliardi di dollari statunitensi all’anno. Molti dei truffati non sono ricchi, e quindi queste cifre non rendono pienamente la misura di quanto tali frodi possano essere devastanti per le loro vite. Gli effetti si estendono al piano emotivo, familiare e sociale, generando angoscia, conflitti familiari e sociali e sfiducia.
Una questione cruciale riguarda ciò che accade alle vittime una volta uscite dal giogo del lavoro forzato. Numerosi esperti e difensori dei diritti umani sostengono la necessità di un approccio «centrato sulla vittima», sviluppato nell’ambito della tutela dei diritti umani. Tale approccio mira a comprendere e rispondere ai bisogni delle persone sopravvissute a simili esperienze e, nel contesto dei centri truffa e della tratta di esseri umani, intende anche proteggere le vittime da responsabilità penali per i crimini che sono state costrette a commettere. Un rapporto congiunto di diversi relatori speciali delle Nazioni Unite raccomanda che tali princìpi vengano applicati in modo rigoroso: «Il principio di non punizione deve essere pienamente rispettato, garantendo che le vittime non siano perseguite per reati commessi come conseguenza diretta della loro condizione di trafficate, sia in base alle leggi sull’immigrazione sia a quelle penali. È inoltre essenziale che le vittime abbiano accesso effettivo a programmi di riabilitazione dal trauma e alla cura delle torture subite, e che il rimpatrio delle vittime di tratta avvenga su base strettamente volontaria, in condizioni di sicurezza e nel pieno rispetto della loro dignità, in conformità con il principio di non respingimento (non-refoulement). Deve essere assicurato un accesso reale alla protezione internazionale, senza discriminazioni, e devono essere concessi permessi di soggiorno permanenti e incondizionati a chi non può rientrare nel Paese d’origine. Devono essere garantiti anche sostegni di lungo periodo e senza condizioni, comprendenti assistenza psicosociale, medica e legale. È necessario che le vittime con disabilità dispongano di misure di assistenza adeguate e fondate sui diritti, e che sia loro garantita la possibilità di ricorrere effettivamente alla giustizia»[15].
Non è chiaro, tuttavia, quali autorità saranno disposte e in grado di impegnarsi a rispettare tali standard, soprattutto laddove i funzionari competenti non sono stati capaci, o non hanno voluto impedire in origine questi crimini.
Oltre alle violazioni umane e ai costi sociali, molte attività dei centri truffa implicano anche un notevole impatto ambientale, sia nella costruzione sia nel funzionamento. Le reti criminali disboscano foreste, inquinano aria e acqua per edificare nuovi siti, contribuendo alla deforestazione, all’erosione del suolo e alla perdita di habitat naturali. Ignorano impunemente le leggi ambientali, spesso approfittando delle «zone economiche speciali» per edificare i propri centri[16]. Anche se talvolta la popolazione locale trae qualche beneficio economico temporaneo dalle opportunità di impiego in quei centri, il prezzo pagato in termini di degrado degli ecosistemi è altissimo.
La capacità dello Stato e lo Stato di diritto
I centri truffa chiamano in causa la questione dello Stato di diritto e la capacità dei governi di contrastare tali crimini. Come ha ricordato mons. Gallagher all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il contesto di questi fenomeni è decisivo: «Nel Sud-est asiatico, numerose situazioni di instabilità e conflitto stanno ulteriormente aggravando preoccupazioni umanitarie di lunga data. […] In questa situazione di perdurante conflitto, il crimine transnazionale è in crescita»[17].
I centri truffa non possono operare facilmente dove lo Stato di diritto è solido. Hanno la strada spianata, invece, in contesti in cui la legalità è debole, e ciò può accadere in seguito a una scarsa capacità dello Stato di far rispettare le leggi, alla complicità di alcuni funzionari con elementi criminali e all’assenza di una cooperazione internazionale efficace. Nel suo discorso all’Assemblea generale dell’Onu, mons. Gallagher ha ricordato più volte l’importanza dello Stato di diritto; citando papa Francesco, ha affermato che «il compito delle Nazioni Unite, a partire dai postulati del Preambolo e dei primi articoli della sua Carta costituzionale, può essere visto come lo sviluppo e la promozione della sovranità del diritto, sapendo che la giustizia è requisito indispensabile per realizzare l’ideale della fraternità universale». E ha aggiunto: «In termini pratici, lo Stato di diritto riguarda l’idea di limitare l’esercizio del potere. Nessun individuo o gruppo, a prescindere dal suo status, dovrebbe rivendicare l’autorità di violare la dignità e i diritti di altri o delle loro comunità»[18].
Podcast | COMBATTERE LA «SCHIAVITÙ DELLA CORRUZIONE» (RM 8,21).
Secondo alcuni studi, nella sola Ue, il costo della corruzione sarebbe compreso tra i 179 e i 990 miliardi di euro l’anno. Un problema che il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa definisce come una delle più gravi «deformazioni del sistema democratico». Ma quali strumenti abbiamo per combattere la corruzione? Lo abbiamo chiesto a Giuseppe Busia, presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione.
Gli Stati hanno dunque il dovere di proteggere i diritti dei propri cittadini e di garantire la giustizia entro i propri confini. Non tutti, però, sono ugualmente in grado di farlo. Come afferma san Giovanni Paolo II nella Centesimus annus, sintetizzando la Rerum novarum: «Lo Stato ha il compito di sovraintendere al bene comune e di curare che ogni settore della vita sociale, non escluso quello economico, contribuisca a promuoverlo, pur nel rispetto della giusta autonomia di ciascuno di essi»[19]. Gli Stati che non riescono a prevenire tali crimini vengono meno ai propri doveri verso i cittadini.
Come il principio di sussidiarietà è fondamentale nella Dottrina sociale della Chiesa e nella politica internazionale, così pure la risposta a questi crimini richiede non solo l’azione dello Stato, ma anche la cooperazione delle organizzazioni della società civile. Sono spesso queste ultime, infatti, a monitorare e a denunciare tali fenomeni, anche quando essi coinvolgono corruzione politica o collusione. Ai gruppi sussidiari in questione deve essere assicurata la libertà di vivere la propria vocazione associativa e di esercitare i propri compiti: questo non è solo una condizione di giustizia, ma anche un beneficio per il bene comune. Molte di tali organizzazioni della società civile hanno, per loro natura, un fondamento religioso, pur offrendo i propri servizi a tutte le persone. Le loro attività dipendono quindi anche dalla tutela della libertà religiosa.
Il multilateralismo
Come ha ricordato mons. Gallagher dinanzi all’Assemblea generale dell’Onu, i centri truffa mettono alla prova la capacità degli Stati di cooperare per obiettivi condivisi. Il suo intervento è avvenuto in un momento cruciale della storia delle Nazioni Unite. Fondata nel 1945, l’Onu si prefigge, secondo l’articolo 1 della propria Carta, di «mantenere la pace e la sicurezza internazionale», di «sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’autodecisione dei popoli», di «conseguire la cooperazione internazionale nella soluzione dei problemi internazionali» e di «costituire un centro per il coordinamento dell’attività delle nazioni volta al conseguimento di questi fini comuni»[20]. Nell’ambito delle celebrazioni per l’anniversario, il segretario generale António Guterres ha presentato l’iniziativa UN80 per rilanciare e riorientare l’organizzazione[21], formulandone l’obiettivo nei termini di una domanda fondamentale: «Come può l’Onu adattarsi per diventare più agile, integrata e capace di rispondere alle complesse sfide globali attuali, in un contesto di risorse sempre più limitate?»[22]. Resta da verificare se questa iniziativa saprà realmente affrontare le sfide che il mondo di oggi lancia all’Onu.
Molti osservatori rilevano che i risultati ottenuti finora sono contrastanti. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, critico di lunga data dell’Organizzazione, ha dichiarato, in un discorso pronunciato durante la settimana inaugurale dell’Assemblea: «A cosa serve davvero l’Onu? Ha un potenziale enorme…, ma sembra che scrivano soltanto lettere dai toni forti e poi non facciano mai nulla per dar seguito a quelle parole. Sono parole vuote, e le parole vuote non fermano le guerre»[23]. Anche la presidente del Consiglio italiana, Giorgia Meloni, nel suo intervento all’Onu ha chiesto se l’organizzazione abbia davvero raggiunto il suo obiettivo primario, quello di impedire la guerra: «La risposta la conoscete tutti – ha concluso –, perché è nella cronaca, ed è impietosa»[24].
Negli ultimi decenni i Pontefici hanno sottolineato ripetutamente l’importanza delle Nazioni Unite e, più in generale, delle relazioni multilaterali, offrendo anche il servizio diplomatico della Santa Sede a questa missione. Ha affermato Leone XIV nel Messaggio ai partecipanti alla XLIV Sessione della Conferenza Fao: «Pertanto, è perentorio passare dalle parole ai fatti, mettendo al centro misure efficaci che consentano a queste persone di guardare al loro presente e al loro futuro con fiducia e serenità, e non solo con rassegnazione, mettendo così fine all’epoca degli slogan e delle promesse ingannevoli». In quel contesto, il Pontefice assicurava che «la Santa Sede sarà sempre al servizio della concordia tra i popoli e non si stancherà di cooperare al bene comune della famiglia delle nazioni»[25].
Nessun documento pontificio recente ha forse insistito tanto sull’importanza del multilateralismo quanto l’esortazione apostolica Laudate Deum, in cui papa Francesco non solo ha invitato il mondo a un multilateralismo sano, ma ha proposto anche un nuovo stile di diplomazia internazionale capace di rispondere alle sfide del tempo presente. Stile che deve essere aperto agli impulsi «dal basso» e ispirarsi a quella «nuova sensibilità nei confronti di chi è più debole e meno dotato di potere» che integra l’insegnamento della Chiesa sulla dignità della persona umana. Il Papa ha descritto così la situazione attuale: «La vecchia diplomazia, anch’essa in crisi, continua a dimostrare la sua importanza e necessità. Non è ancora riuscita a generare un modello di diplomazia multilaterale che risponda alla nuova configurazione del mondo, ma, se è capace di riformularsi, dovrà essere parte della soluzione, perché anche l’esperienza di secoli non può essere scartata»[26]. Gli sforzi per prevenire e smantellare i centri truffa devono essere interpretati alla luce di queste considerazioni.
Un possibile terreno di cooperazione internazionale è rappresentato dall’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico. Infatti, la Global Initiative Against Transnational Organized Crime raccomanda: «Data la natura transnazionale di queste reti criminali e la facilità con cui le operazioni fraudolente si spostano oltre i confini, è essenziale rafforzare la cooperazione regionale. Questo deve andare oltre il semplice dialogo e richiede misure concrete per migliorare lo scambio di informazioni e la collaborazione tra i governi, in particolare tra le forze dell’ordine – come già promosso dall’Ufficio delle Nazioni Unite sulla droga e il crimine, dal Bali Process e dall’Asean –, ma anche per consolidare le reti regionali del settore privato e della società civile»[27]. Anche i governi occidentali si sono coinvolti nella questione, in particolare quelli di Stati Uniti, Regno Unito e Australia, i cui cittadini sono stati frequente bersaglio di frodi. Resta da vedere se questi Paesi collaboreranno pienamente con gli Stati del Sud-est asiatico; l’Australia, peraltro, ha già avviato con l’Asean iniziative comuni in questo campo.
In un momento in cui la diplomazia multilaterale è attraversata da gravi difficoltà, la complessità dei crimini commessi nei centri truffa rappresenta un ulteriore ostacolo alla cooperazione. Jason Tower, della Global Initiative Against Transnational Organized Crime, ha dichiarato al New York Times che un elemento essenziale di tale collaborazione deve essere di natura finanziaria: gli Stati devono poter condividere informazioni per tracciare i flussi di denaro in entrata e in uscita dalle reti criminali internazionali[28]. Come afferma il rapporto della Global Initiative del maggio 2025, «la tratta di persone, la frode finanziaria, il crimine informatico, la corruzione e il riciclaggio di denaro – anche attraverso le criptovalute – vanno compresi non come categorie distinte, ma come aspetti di un’unica realtà»[29]. Questo approccio richiede una cooperazione non frammentaria, ma globale e integrata, capace di affrontare i centri truffa nelle loro molteplici e interconnesse dimensioni.
* * *
Le sfide che il mondo affronta attualmente non sono meno numerose né meno gravi di quelle che esistevano al momento della fondazione delle Nazioni Unite. Anzi, forse oggi vi è ancor meno consenso sui princìpi che dovrebbero orientare la politica e la cooperazione internazionale, comprese le questioni antropologiche fondamentali riguardanti ciò che serve veramente al bene umano. Mons. Gallagher, come pure altri Stati ed esperti del settore, invitano l’Onu a rimanere fedele al suo carisma originario e ai suoi princìpi fondanti. Non si tratta di criteri facoltativi, ma di norme e orientamenti essenziali per ogni politica sana e, di conseguenza, per ogni autentico multilateralismo. Come ricorda Leone XIV: «Possa Dio rinnovare in ognuno di noi quella speranza che non delude (cfr. Rm 5,5). Le sfide che abbiamo di fronte sono immense, ma lo sono anche le nostre potenzialità e le linee di condotta possibili!»[30].
La fedeltà a tali princìpi sarà messa alla prova in modo particolare nel contrasto ai centri truffa. Il successo nella lotta contro queste forme di criminalità dipenderà da un multilateralismo capace di rafforzare la capacità degli stati di garantire lo stato di diritto e di promuovere l’impegno della società civile nel quadro del principio di sussidiarietà. Una nuova forma di schiavitù
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[1] Cfr P. R. Gallagher, «Riformare l’Onu per promuovere la pace, lo sviluppo e i diritti umani», in L’Osservatore Romano, 30 settembre 2025.
[2] Cfr «Myanmar’s proliferating scam centers», in Nikkei Asia (asia.nikkei.com/static/vdata/i…), 11 luglio 2025.
[3] Office of the High Commissioner for Human Rights, «Joint Statement by the Special Rapporteur on contemporary forms of slavery, Special Rapporteur on trafficking in persons, and Special Rapporteur on Cambodia on immediate human rights-based action to tackle forced criminality in Southeast Asia scam centers» (tinyurl.com/3wwk8tvw), 19 maggio 2025.
[4] Cfr J. Head, «Notorious cyber scam hub linked to Chinese mafia raided», in BBC (bbc.com/news/articles/c0jdn4yj…), 20 ottobre 2025.
[5] Cfr «Hundreds of thousands trafficked into online criminality across SE Asia», in UN News (news.un.org/en/story/2023/08/1…), 29 agosto 2023.
[6] «Forced Scamming», in IJM (ijm.org/our-work/trafficking-s…).
[7] Cfr «Myanmar’s proliferating scam centers», cit.
[8] Cfr United Nations Office on Drugs and crime, «Crushing scam farms, Southeast Asia’s “criminal service providers”» (tinyurl.com/2s449dp6).
[9] United Nations Human Right Special Procedures, «Joint Statement…», cit.
[10] Cfr W. Mwaura, «The Kenyans lured to become unwitting “love” fraudsters», in BBC (bbc.com/news/world-africa-6365…), 26 novembre 2022.
[11] Cfr F. Kelliher – C. Mureithi, «“I broke completely”: how jobseekers from Africa are being tricked into slavery in Asia’s cyberscam compounds», in The Guardian (tinyurl.com/bdh5t44x), 9 settembre 2025.
[12] Cfr M. Rubio, «Imposing Sanctions on Online Scam Centers in Southeast Asia» (tinyurl.com/4pntu7c2), 8 settembre 2025.
[13] Cfr «Trafficking and slavery still exist today», in IJM (ijm.org/our-work/trafficking-s…).
[14] Global Initiative Against International Organized Crime, «Compound Crime. Cyber Scam Operations in Southeast Asia» (tinyurl.com/mr28yd8d), maggio 2025.
[15] United Nations Human Right Special Procedures, Joint Statement…, cit.
[16] Cfr Global Initiative Against International Organized Crime, «Compound Crime…», cit.
[17] P. R. Gallagher, «Riformare l’Onu…», cit.
[18] Ivi.
[19] Giovanni Paolo II, s., Enciclica Centesimus annus, 1° maggio 1991 (https://
www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/encyclicals/documents/hf_jp-ii_enc_
01051991_centesimus-annus.html).
[20] Statuto delle Nazioni Unite, art. 1 (mim.gov.it/documents/20182/439…
1.%20Statuto-onu.pdf).
[21] Cfr United Nations, «UN80 Initiative» (un.org/un80-initiative/en).
[22] Id., «What is the UN80 Initiative?» (un.org/un80-initiative/en/news…).
[23] «At UN, President Trump Champions Sovereignty, Rejects Globalism», in The White House (tinyurl.com/upck6zsu), 23 settembre 2025.
[24] Presidenza del Consiglio dei ministri, «L’intervento del Presidente Meloni all’80ª Assemblea Generale delle Nazioni Unite», 24 settembre 2025 (tinyurl.com/yzh87s28).
[25] Leone XIV, Messaggio ai partecipanti alla XLIV Sessione della Conferenza Fao, 30 giugno 2025 (vatican.va/content/leo-xiv/it/…).
[26] Francesco, Esortazione apostolica Laudate Deum, 4 ottobre 2023, n. 41 (vatican.va/content/francesco/i…
laudate-deum.html).
[27] Global Initiative Against International Organized Crime, «Compound Crime…», cit.
[28] Cfr F. Regalado, «Americans Have Lost Billions to Online Scams. How Is That Possible?», in The New York Times (tinyurl.com/437kkwc5), 23 ottobre 2025.
[29] Global Initiative Against International Organized Crime, «Compound Crime…», cit.
[30] Leone XIV, Discorso alla Fao, Roma, 16 ottobre 2025 (vatican.va/content/leo-xiv/it/…).
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Con La Civiltà Cattolica per garantire il diritto allo studio dei bambini in Libano
La crisi umanitaria in Libano è peggiorata dopo l’escalation del conflitto tra Hezbollah e Israele iniziato nell’ottobre 2023. Dopo la caduta del regime di Assad in Siria nel dicembre 2024, il numero di siriani rifugiati in Libano è stimato tra 1,4 e 1,5 milioni, sebbene solo circa 760mila siano ufficialmente registrati presso l’Unhcr. Il riaccendersi delle ostilità nel settembre 2024, inoltre, ha aggravato ulteriormente i bisogni dei più vulnerabili, soprattutto nel Sud del Paese, a Baalbek e nei sobborghi meridionali di Beirut.
Nel 2025, circa un terzo dei bambini e dei giovani in età scolastica ha subìto importanti interruzioni nell’apprendimento, poiché molte scuole hanno affrontato serie difficoltà operative o chiusure temporanee. Fame, collasso del sistema sanitario e scuole chiuse stanno spegnendo la speranza di migliaia di famiglie, di rifugiati e non.
Garantire istruzione di qualità rimane dunque una sfida enorme: mancano infrastrutture, insegnanti e risorse. Per questo, il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati (Jesuit Refugee Service – JRS) si impegna ogni giorno a garantire che i bambini non siano privati del diritto all’istruzione e di un futuro di nuova speranza.
I bambini accompagnati dal JRS in Libano
Il totale dei bambini rifugiati, migranti e libanesi vulnerabili coinvolti nei programmi del JRS nel 2025 è di 3.632 studenti (51% bambine/ragazze) iscritti agli anni scolastici 2024-2025 e 2025-2026. Di questi:
- 1.612 bambini nelle scuole Telyani e Nahriya di Bar Elias;
- 1.183 bambini nelle scuole Noor1 e Noor2 di Baalbeck;
- 837 bambini nel Centro Frans van der Lugt di Bourj Hammoud.
Aiutateci a sostenere questi bambini.
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In Libano, il JRS offre un’istruzione inclusiva e di qualità, attraverso programmi educativi creati sui bisogni della comunità, garantendo supporto continuo lungo tutte le fasi del percorso educativo.
- Educazione e cura della prima infanzia: ai bambini rifugiati e migranti vengono fornite competenze di base e preparazione scolastica per l’ingresso nell’istruzione formale.
- Supporto alla frequenza scolastica: il programma offre assistenza accademica e psicosociale per mantenere i bambini coinvolti nelle lezioni e prevenire l’abbandono scolastico.
- Istruzione formale: il programma garantisce il completamento di programmi certificati, fornendo qualifiche riconosciute per opportunità accademiche o professionali future.
I centri di apprendimento del JRS sono quindi spazi sicuri e accoglienti che favoriscono istruzione, inclusione sociale e benessere dei bambini. Nel corso dell’anno scolastico, inoltre, il Jesuit Refugee Service fornisce ai bambini i seguenti servizi:
- Trasporto scolastico e distribuzione dei kit scolastici: all’inizio di ogni anno scolastico tutti i bambini destinatari ricevono kit completi per il ritorno a scuola, per alleggerire il peso economico sulle famiglie e garantire l’accesso agli strumenti essenziali per l’apprendimento.
- Kit igienici e per l’igiene mestruale: durante il primo trimestre vengono forniti kit igienici e kit per l’igiene mestruale per ragazze adolescenti per promuovere salute, dignità e favorire la frequenza scolastica.
- Kit invernali: durante il primo trimestre vengono forniti giacche, calze, cappelli e sciarpe per tutti i bambini iscritti, per favorire la frequenza scolastica durante i freddi mesi invernali.
- Programma di alimentazione scolastica: ogni giorno vengono fornitisnack nutrienti a tutti i bambini nei programmi educativi per sostenere la nutrizione, lo sviluppo cognitivo e la regolare frequenza scolastica.
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De Gasperi e Togliatti, protagonisti della vita politica italiana del dopoguerra
Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti, i due grandi protagonisti della vita politica italiana negli anni del dopoguerra, morirono entrambi nel mese di agosto, a 10 anni di distanza uno dall’altro: il primo, il 19 agosto del 1954; il secondo, il 21 agosto 1964. Per questo lo scorso anno ricorreva il settantesimo anno della scomparsa del leader democristiano e il sessantesimo di quello comunista[1].
Erano personalità molto diverse dal punto di vista intellettuale e formativo: Togliatti si era formato all’ombra di Stalin in Russia[2]; De Gasperi era un esponente di spicco del Partito popolare italiano e, negli anni del fascismo, gli era stato offerto dalla Santa Sede di «rifugiarsi» in Vaticano e lavorare nella Biblioteca apostolica. Entrambi, però, erano animati dallo stesso scopo: quello di far ripartire l’Italia del dopoguerra e attraverso la politica proporre il loro sistema di valori. Essi avevano una visione opposta della politica: De Gasperi aveva una prospettiva universalistica, fondata sui bisogni naturali dell’uomo e sulla libertà[3]; Togliatti credeva nella lotta di classe, ma per l’Italia, almeno per il momento, immaginava una parentesi democratica[4].
In diverse occasioni essi si erano confrontati a distanza, ma non si erano mai incontrati personalmente. Condividevano i capisaldi della ricostruzione democratica, ma avevano progetti politici radicalmente diversi. Togliatti immaginava di portare l’Italia nel campo comunista, anche se la sua politica fu sempre cauta dopo la «svolta di Salerno» del 1944 voluta da Stalin, il quale autorizzò i comunisti italiani a collaborare – temporaneamente – con la monarchia. De Gasperi invece intendeva collocare l’Italia nel mondo occidentale, con una forte connotazione cristiana, anzi cattolica.
Il dibattito sull’art. 7 della Costituzione
Uno dei momenti in cui i due leaderpolitici si confrontarono apertamente fu in occasione della discussione sull’art. 7 della Costituzione, che riguardava la delicata materia della costituzionalizzazione dei Patti Lateranensi.
Il 4 marzo 1947, alla vigilia della discussione e della votazione dell’art. 7 nell’Assemblea Costituente, Togliatti, sempre più convinto dell’inopportunità, dal punto di vista politico, di contrapporsi alla Santa Sede in una materia così delicata come quella dei rapporti tra Stato e Chiesa in Italia, inviò segretamente in Vaticano un suo fedele collaboratore, il sottosegretario al ministero degli Affari Esteri, il comunista Eugenio Reale, perché facesse presente all’autorità ecclesiastica il punto di vista del Pci sulla controversa materia disciplinata dall’art. 7 e, più in generale, sulla questione religiosa. L’on. Reale fu ricevuto il 4 marzo 1947 in Vaticano, in udienza privata, dal Sostituto alla Segreteria di Stato, mons. Domenico Tardini.
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L’esponente comunista colse l’occasione per illustrare alla Santa Sede il punto di vista del suo partito anche su altre questioni attinenti alla materia religiosa. In quella occasione, rispondendo alle rimostranze del Sostituto, egli dichiarò che erano piuttosto i socialisti a fomentare la lotta religiosa in Italia. «L’onorevole Togliatti – affermò – è persona serena e moderata»[5]. Passando poi a trattare della materia costituzionale, disse che i comunisti non intendevano «fare questione dei Patti Lateranensi», ma che per loro costituiva un problema il fatto che venisse inserito nel testo costituzionale un accordo firmato dai fascisti: «Solo la firma fascista – disse – dovrebbe essere cambiata. […] I comunisti sanno che la Chiesa non è contraria a eque riforme sociali ed economiche; anche nella Democrazia Cristiana ci sono elementi giovani comprensivi, con i quali si può collaborare senza aprire dibattiti sulla diversità di idee»[6].
Alla fine del colloquio, che fu cordiale e rispettoso, l’on. Reale auspicò che i rapporti tra i comunisti italiani e la Santa Sede andassero sempre più migliorando nel tempo e accennò anche alla possibilità di un futuro incontro tra Togliatti e il Papa. Ma tale proposta fu discretamente fatta cadere dalla controparte.
Del colloquio non furono informati, almeno in via ufficiale, i dirigenti democristiani. Il presidente De Gasperi non avrebbe per nulla gradito un incontro di questo tipo: egli considerava tali proposte dei comunisti nei confronti delle gerarchie vaticane una mossa propagandistica tesa a convincere gli elettori cattolici che i comunisti non erano nemici né della religione né del Papa, e che anzi erano interessati al mantenimento della pace religiosa e a instaurare con il Vaticano un modus vivendi vantaggioso per entrambi. De Gasperi temeva che tali contatti, anche se informali, avrebbero finito per «spostare a sinistra», nelle successive elezioni politiche, diversi voti cattolici, o favorito l’astensione del voto moderato, danneggiando così la causa democristiana, che era anche quella della Chiesa e dei cattolici italiani. Tutto questo la Santa Sede lo comprendeva benissimo e lo condivideva pienamente.
Al momento del voto in Assemblea, Togliatti, prendendo le distanze dagli altri partiti di sinistra, decise inaspettatamente di votare a favore dell’art. 7, al fine – spiegò ai capi del suo partito – di evitare in Italia una lotta religiosa che sarebbe stata rovinosa per tutti. De Gasperi, appena venne a conoscenza della possibilità di un cambiamento di rotta in casa comunista, ne informò la Santa Sede, affinché non si lasciasse «incantare» dalla decisione di Togliatti di votare a favore dell’art. 7.
La sera del 25 marzo, prima della votazione, presero la parola, per ultimi nella Costituente, sia De Gasperi sia Togliatti. Era la prima volta che il Capo del governo interveniva nell’Assemblea. In tale circostanza egli fece valere tutto il peso della sua autorità morale in difesa dei Patti Lateranensi. Disse che l’approvazione dell’art. 7 avrebbe aiutato a compattare la debole compagine istituzionale dello Stato repubblicano e che gli sembrava un atto dovuto nei confronti della Santa Sede per il prezioso aiuto da essa prestato negli anni di guerra a molte persone, senza distinzione di religione o di razza. «Nei momenti più difficili delle persecuzioni – affermò De Gasperi – soprattutto il Capo della Religione cattolica ci ha aiutato a salvare protestanti e israeliti. Ma c’è di più: in certi conventi erano ammassati e nascosti cattolici, protestanti ed ebrei insieme. Si trovavano uniti la sera nei momenti tragici e nei momenti delle minacce da una preghiera suprema che è quella del Padre nostro comune»[7]. In ogni caso, proseguì De Gasperi, la fedeltà della Chiesa al nuovo regime è oggi assicurata dalla norma del Concordato che impone ai vescovi il giuramento di fedeltà allo Stato italiano: «Noi non siamo in Italia così solidificati e cristallizzati nella forma del regime da poter rinunciare con troppa generosità a simili impegni solennemente presi. Alla lealtà della Chiesa io credo che la Repubblica debba rispondere con la lealtà»[8]. Questo disse non perché nutrisse qualche timore sulla fedeltà delle autorità vaticane alla forma repubblicana di Stato (sappiamo infatti che Pio XII non era per nulla ostile alla Repubblica), ma perché sapeva che tale questione stava molto a cuore alla sinistra.
Podcast | COMBATTERE LA «SCHIAVITÙ DELLA CORRUZIONE» (RM 8,21).
Secondo alcuni studi, nella sola Ue, il costo della corruzione sarebbe compreso tra i 179 e i 990 miliardi di euro l’anno. Un problema che il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa definisce come una delle più gravi «deformazioni del sistema democratico». Ma quali strumenti abbiamo per combattere la corruzione? Lo abbiamo chiesto a Giuseppe Busia, presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione.
Togliatti, dopo aver ricordato che la pace religiosa costituiva uno dei punti fondamentali del programma dei comunisti italiani, affermò: «Le questioni che ci preoccupavano erano quella della firma e quella di alcune determinate norme, sia del Trattato sia del Concordato, in cui trovavamo un contrasto con altre norme della Costituzione, da tutti noi insieme volute e approvate preliminarmente nelle Commissioni […]. Mai abbiamo parlato di una denuncia o dell’uno o dell’altro dei due strumenti diplomatici legati insieme in quel complesso che viene chiamato “Patti del Laterano”. Le stesse preoccupazioni nostre, del resto, in maggiore o minore misura, abbiamo sentito esprimere da tutti, anche dai colleghi di parte democristiana, quando sono intervenuti nel dibattito»[9]. In ogni caso, continuò Togliatti, poiché a motivo dell’intransigenza dei democristiani non si era riusciti a emendare e quindi a migliorare il testo, come avevano chiesto diversi uomini politici, i comunisti, per garantire al Paese l’auspicata e necessaria pace religiosa, si impegnavano a votare a favore dell’art. 7. E questo perché non si voleva lasciare ai soli democristiani il merito di difendere un diritto fondamentale dei cittadini, quello cioè della libertà religiosa.
La relazione del Nunzio in Italia
Più di ogni altro commento, il documento che ora presenteremo illustra uno dei momenti che hanno contribuito a portare la «pace religiosa in Italia» e a chiudere la lunga e dolorosa parentesi risorgimentale che aveva visto lo Stato unitario – nonostante i Patti Lateranensi del 1929 – contrapporsi alla Chiesa cattolica. Si tratta di una relazione, inviata dal Nunzio in Italia, Francesco Borgongini Duca, a mons. Tardini, di un suo incontro con il presidente De Gasperi il 7 aprile 1947, in merito alla votazione dell’art. 7.
«L’argomento del colloquio – scriveva il Nunzio – è stato l’art. 7 della Costituzione e la relativa votazione del 25 marzo. Ho domandato al Presidente esplicitamente se la decisione dei comunisti di votare a favore dei Patti Lateranensi era stata il frutto di un accordo verificatosi nelle ultime ore di quella giornata con i democratici cristiani. Mi ha risposto, marcando le parole: “No, nessun accordo, nessuna intesa, nessuna promessa. Io prevedevo, come già dissi a Vostra Eccellenza nell’ultimo colloquio, che i comunisti si sarebbero forse affiancati ai democratici cristiani di loro spontanea volontà, come è avvenuto. Io avrei preferito un’altra formula sui Patti Lateranensi, come pure già Le dissi, allo scopo di ottenere l’approvazione con una notevole maggioranza ed evitando che si ponessero in discussione; tuttavia, essendo stata scelta la formula attuale ed essendo stata poi questa approvata dalla Commissione dei 75, bisognava assolutamente mantenerla a qualsiasi costo e subendo qualsiasi rischio. Ciò è stato un impegno doveroso che la Democrazia Cristiana ha fedelmente mantenuto. Calcolando i voti dei nostri e dei vicini, io prevedevo che i Patti sarebbero stati collaudati dalla Costituente Repubblicana con una votazione di misura, ossia con maggioranza al più di una dozzina di voti. E in realtà, senza i comunisti, avremmo avuto 12 voti in più di fronte ai contrari; pochini, se si vuole, ma sufficienti allo scopo di fare entrare i Patti nella nuova Costituzione. Naturalmente il calcolo era stato fatto anche dai comunisti, i quali hanno voluto sfruttare la situazione a loro profitto, votando a favore. Perché è certo che i comunisti dinanzi agli elettori ne escono rafforzati”. Domando: “Vi sarà ora il referendum popolare circa la Costituzione?”. Risposta: “Certamente no. Tuttavia la sola minaccia di un referendum ha spaventato i comunisti. In una riunione mi venne di dire, con aria un poco ingenua: ‘Può essere che chiedendo l’inserzione dei Patti nella Costituzione, noi abbiamo sbagliato, ma bisognerebbe che questo sbaglio, se vi è stato, ci venisse rilevato in una consultazione del corpo elettorale’. Questo semplice accenno, del quale constatai l’effetto immediato tra gli avversari presenti, è bastato per far decidere a Togliatti di votare per i Patti, perché la forte maggioranza che ne sarebbe risultata avrebbe escluso il pericolo del referendum”»[10].
Togliatti, da quanto detto, non voleva in nessun modo che la materia dell’inserimento dei Patti Lateranensi nella Costituzione, come pure in genere la materia religiosa, venisse sottoposta a una consultazione referendaria. Egli sapeva benissimo che gli italiani, essendo un popolo molto religioso e attaccato alla tradizione cattolica, avrebbe massicciamente votato secondo le indicazioni della Chiesa. Ciò avrebbe indebolito sul piano politico ed elettorale il Partito comunista, che non intendeva scontrarsi sulle questioni di carattere religioso.
Che cosa pensava Pio XII di tale curiosa – anche se non inaspettata – convergenza tra cattolici e comunisti in ordine alla votazione dell’art. 7? Ce ne informa una nota del Diario delle consulte di Civiltà Cattolica: «Dell’articolo 7 della Costituzione italiana – riferiva il direttore, p. Giacomo Martegani – disse [il Papa] che poco gli importava la tenuità della maggioranza che si sarebbe avuta senza i comunisti, mentre mostrò che, in caso di mancata approvazione, non sarebbe stato alieno dal tornare alle posizioni del 1929; neppure gli dava molta apprensione il voto dei comunisti, stimandolo gioco troppo scoperto e da ingannare solo chi voglia lasciarsi ingannare»[11]. Come si vede, la posizione di Pio XII su tale materia era improntata a intransigenza assoluta; egli addirittura era anche pronto, se la proposta democristiana non fosse passata nella Costituente, a ritornare alle posizioni del 1929. Ciò significava che il Papa avrebbe denunciato il Concordato? Probabilmente no, ma certamente non sarebbe stato disposto a revocarne soltanto alcune parti, come certi «laicisti» chiedevano. Il Concordato, insomma, come il Trattato, non doveva essere in nessun modo toccato.
Conclusione
Secondo alcuni storici di sinistra[12], il voto sull’art. 7 avrebbe avuto anche un forte impatto sulla vita del governo tripartito (cioè formato da democristiani, comunisti e socialisti): De Gasperi avrebbe aspettato la votazione in Aula dell’art. 7 per rompere la collaborazione di governo con le forze della sinistra e mandare all’opposizione i socialcomunisti. Ora, in realtà il leader democristiano non aveva né richiesto né tantomeno auspicato che i comunisti votassero l’art. 7, sapendo che questo fatto sarebbe stato da essi utilizzato, durante l’imminente campagna elettorale, come una potente arma per captare voti all’interno del mondo cattolico progressista e in quelle fasce sociali – come, ad esempio, le donne, gli anziani – ancora legate alla tradizione cattolica.
In ogni caso, non sembra che l’approvazione dell’art. 7 abbia avuto un peso preponderante sulle scelte operate da De Gasperi in ordine alla ricomposizione della compagine governativa. Le motivazioni che spinsero lo statista a rompere col «tripartito» e guadagnare una maggiore libertà di azione furono di ordine eminentemente economico e politico, dovute in particolare al mutamento della situazione internazionale (inizio della «guerra fredda» tra Stati Uniti e Unione Sovietica), che richiedeva da parte dell’Italia anche una scelta di campo ben precisa. La scelta, poi, in favore degli Stati Uniti rientrava nella strategia politica di De Gasperi, preparata già dall’inizio del 1947 con il suo viaggio negli Stati Uniti, dai quali egli si attendeva la concessione di crediti vantaggiosi, che avrebbero potuto far uscire l’Italia dalla grave crisi economica che l’attanagliava minacciandone la stabilità interna e persino la sopravvivenza democratica.
Un altro fatto che spinse De Gasperi a rompere con le sinistre alla fine del maggio 1947 fu la grave crisi che la Democrazia Cristiana stava attraversando in quel momento: le sconfitte nelle elezioni amministrative del novembre 1946 e in quelle siciliane nell’aprile 1947 avevano messo in evidenza la sfiducia che buona parte del mondo cattolico, e in particolare della gerarchia, nutriva nei confronti del «partito dei cattolici», a motivo del suo «innaturale apparentamento» con i socialcomunisti.
Va però anche ricordato che De Gasperi desiderava che nella fase di formazione del testo costituzionale ci fosse tra i maggiori partiti politici italiani un clima di collaborazione e di dialogo – come di fatto ci fu –, al fine di dare al Paese, con il consenso più ampio possibile, una Costituzione democratica e moderata ispirata ai princìpi della tradizione cattolica, socialista e anche liberale. Perché questo fosse possibile, era però necessario – almeno nella fase di formazione del testo costituzionale – che fra i partiti ci fosse una tregua politica. Una volta portato in Assemblea il progetto di Costituzione, tale interesse un poco alla volta venne a diminuire. Era arrivato ormai il tempo delle scelte coraggiose e definitive, per il bene dell’Italia e per il suo avvenire tra le nazioni democratiche. Almeno così pensava il presidente De Gasperi.
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[1] Cfr A. Carioti, «De Gasperi e Togliatti. I padri delle Italie», in la Repubblica,28 luglio 2024.
[2] Su Palmiro Togliatti, cfr P. Spriano, Togliatti, segretario dell’internazionale,Milano, Mondadori, 1988; G. Fiocco, Togliatti, il realismo della politica. Una biografia,Roma, Carocci, 2018.
[3] Cfr P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi,Bologna, il Mulino, 1977; P. Craveri, De Gasperi,ivi, 2015.
[4] Cfr E. Mannucci, Ombre. La verità sui casi De Gasperi e Togliatti, Milano, Neri Pozza, 2024.
[5] G. Sale, Il Vaticano e la Costituzione, Milano, Jaca Book, 2008, 243.
[6] Ivi.
[7] Assemblea Costituente, Seduta del 25 marzo 1947, Roma, Tipografia della Camera dei Deputati, 1947, 2454.
[8] Ivi.
[9] Ivi, 2460.
[10] G. Sale, Il Vaticano e la Costituzione,cit., 260.
[11] Archivio Civiltà Cattolica, Diario delle consulte di Civiltà Cattolica, 31 marzo 1947.
[12] Cfr P. Ginsborg, Storia d’Italia 1943-1996. Famiglia, società, Stato, Torino, Einaudi, 1998; A. Lepre, Storia degli italiani nel Novecento. Chi siamo da dove veniamo,Milano, Mondadori, 2003; Id., Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 1998,Bologna, il Mulino, 2006; G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna,vol. XI, Milano, Feltrinelli, 2015.
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Il Salmo 113: «Chi è come il Signore nostro Dio?»
«Chi è come il Signore nostro Dio?». Questa domanda si trova una sola volta nella Scrittura (Sal 113,5), ma ce ne sono molte altre simili. In diverse occasioni essa è rivolta a Dio stesso: «Yhwh, chi è come te per liberare il debole dal forte, il povero dal saccheggiatore?» (Sal 35,10); «Tu che hai fatto grandi cose, o Dio, chi è come te?» (Sal 71,19; anche Sal 89,9). Ogni volta la domanda è motivata da una ragione. Questa può essere generica: «Tu che hai fatto grandi cose» (Sal 71,19), ma può essere anche molto dettagliata, come in Dt 4,34-39:
«34Ha mai tentato un dio di andare a scegliersi una nazione in mezzo a un’altra con prove, segni, prodigi e battaglie, con mano potente e braccio teso e grandi terrori, come fece per voi il Signore, vostro Dio, in Egitto, sotto i tuoi occhi? 35Tu sei stato fatto spettatore di queste cose, perché tu sappia che il Signore è Dio e che non ve n’è altri fuori di lui. 36Dal cielo ti ha fatto udire la sua voce per educarti; sulla terra ti ha mostrato il suo grande fuoco e tu hai udito le sue parole che venivano dal fuoco. 37Poiché ha amato i tuoi padri, ha scelto la loro discendenza dopo di loro e ti ha fatto uscire dall’Egitto con la sua presenza e con la sua grande potenza, 38scacciando dinanzi a te nazioni più grandi e più potenti di te, facendoti entrare nella loro terra e dandotene il possesso, com’è oggi. 39Sappi dunque oggi e medita bene nel tuo cuore che il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra: non ve n’è altro».
Le «grandi cose» che il Signore fece per Israele furono soprattutto la liberazione dalla schiavitù in terra d’Egitto, che infine li avrebbe portati a prendere possesso della terra promessa. La domanda del v. 34 trova risposta nei vv. 35 e 39. Questa è la benedizione emblematica di tutte le altre: segna la nascita di Israele come popolo libero. Il Canto del Mare in Es 15, dopo la traversata del Mar Rosso (cfr Es 14), si concentra su una doppia domanda rivolta al Signore nel v. 11:
«Chi è come te
fra gli dèi, Yhwh?
······························································
Chi è come te,
splendente di santità,
terribile in lodi,
operatore di prodigi?».
La risposta a queste domande è talmente ovvia che il più delle volte non viene espressa: è chiaro che «non c’è nessuno come il Signore». Tanto che, a volte, la domanda lascia il posto a un’affermazione, come nel Cantico di Anna: «Non c’è un Santo come Yhwh, perché non c’è nessuno all’infuori di te, non c’è una Roccia come il nostro Dio» (1 Sam 2,2).
A volte la domanda viene posta persino da Dio stesso:
«6 Così dice il Signore, il re d’Israele,
il suo redentore, il Signore degli eserciti:
“Io sono il primo e io l’ultimo;
fuori di me non vi sono dèi.
7 Chi è come me? Lo proclami,
lo annunci e me lo esponga”» (Is 44,6-7).
In questo caso, la risposta precede la domanda.
Il Salmo 113 sembra essere un caso particolare, come vedremo. Ecco una traduzione letterale:
«1 Lodate Yah!
Lodate, servi di Yhwh,
lodate il nome di Yhwh.
2 Sia il nome di Yhwh benedetto
da ora e per sempre;
3 dal sorgere del sole fino al suo tramonto
lodate il nome di Yhwh.
4 Esaltato su tutte le nazioni, Yhwh,
al di sopra dei cieli la sua gloria.
5 Chi è come Yhwh nostro Dio?
S’innalza per sedere,
6 si abbassa per vedere
nei cieli e sulla terra.
7 Rialza dalla polvere il misero,
dal letame esalta il povero,
8 per farlo-sedere con i principi,
con i principi del suo popolo;
9 fa-sedere la sterile di casa,
madre di figli felice.
Lodate Yah!».
Per la storia delle forme (Formgeschichte), questo è un salmo di lode. Come tutti gli altri salmi di lode, comprende essenzialmente due elementi: 1) l’invito alla lode (vv. 1-3); 2) i motivi per lodare il Signore (vv. 4-9). Qui, questi ultimi si suddividono in due: la natura di Dio (vv, 4-6) e le sue opere (vv. 7-9). La storia delle forme riduce tutti i testi appartenenti a questa forma allo stesso schema. Le due traduzioni francesi della Bible de Jérusalem e della Tob (Traduzione ecumenica della Bibbia) dividono il salmo in tre strofe uguali, che corrispondono agli elementi della forma.
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Queste due traduzioni si differenziano per la punteggiatura dei versetti 5-6. Per la Bible de Jérusalem, come per la traduzione Cei, questi due versetti formano una sola frase interrogativa, mentre per la Tob la domanda con cui inizia il versetto 5 è una frase indipendente. Queste traduzioni riflettono, ovviamente, le diverse opinioni degli esegeti.
Senza addentrarci in una discussione troppo tecnica, facciamo notare che i due participi presenti nel testo ebraico – tradotti con «s’innalza» e «si abbassa» – hanno la particolarità di essere dotati di una finale –î arcaizzante. Ma non sono gli unici: c’è anche «esalta» (v. 7b) e «fa-sedere» (9a); perfino l’infinito nel versetto 8a ha una finale –î. Tradotti al presente, questi participi in rima sono «participi innici», che indicano l’unità di tutto ciò che viene dopo la domanda del versetto 5a.
C’è un altro modo di analizzare i testi, diverso da quello della storia delle forme: è quello che cerca di scoprire il carattere particolare e unico di ogni testo. Inoltre, la poesia ebraica non obbedisce alle stesse regole della nostra: non è organizzata in strofe uguali; ha leggi e caratteristiche proprie, come si può vedere nel Salmo 113; in particolare: 1) sono molto frequenti le composizioni concentriche; 2) al centro di una composizione concentrica spesso c’è una domanda.
Composizione
Incorniciato da due «Alleluia» – qui tradotti letteralmente –, il salmo ha tre parti principali: quelle estreme (vv. 1b-4 e 5b-9b) sono più sviluppate, mentre la parte centrale, la domanda (v. 5a), è molto breve.
La prima parte comprende tre brani: due brevi alle estremità, e uno più lungo al centro. Sono strutturati così:
I due membri del primo brano sono complementari: lo stesso imperativo è seguito prima da un vocativo, che designa il soggetto del verbo (v. 1b), poi dall’oggetto, «il nome di Yhwh» (v. 1c). I «servi di Yhwh» sono gli israeliti, coloro che servono il loro Dio, il cui nome era stato rivelato a Mosè al roveto ardente. Il tetragramma sacro si scrive «Yhwh», che gli ebrei non pronunciano per rispetto e sostituiscono con il nome «Adonai», che significa «Signore».
Il brano successivo (vv. 2-3) è costruito in modo speculare. Alle estremità ci sono due membri sinonimi, che esprimono l’augurio che «il nome di Yhwh» sia «benedetto» e «lodato»; in mezzo ci sono due complementi: prima quello di tempo (v. 2b), poi quello di luogo (v. 3a). La lode di Yhwh deve estendersi a tutto il tempo e a tutto lo spazio. Quindi, non sono solo gli israeliti a essere invitati a lodare il Signore, ma tutti i popoli, dall’Oriente all’Occidente.
L’ultimo brano conferma questa estensione dell’invito a «tutte le nazioni» (v. 4a), e non solo ad esse, ma anche ai «cieli», al «più alto dei cieli» (v. 4b). Il nome «Yhwh» compare due volte nei primi due brani, mentre nell’ultimo a esso si aggiunge «la sua gloria». Una sorpresa finale che chiude in bellezza il brano!
Alla prima parte, che invita tutti gli uomini a lodare il Dio di Israele, segue l’ultima parte, che ne spiega le ragioni:
Il primo brano (vv. 5b-6) comprende un unico segmento trimembro: i primi due membri sono opposti, mentre, per quanto riguarda il terzo, si potrebbe pensare che l’espressione «nei cieli» si riferisca al primo membro, cioè al fatto che Dio è seduto in cielo, e che l’espressione «sulla terra» rimandi al secondo membro, in quanto Dio vuole vedere cosa succede sulla terra. Tuttavia, sembra preferibile pensare che Dio si alzi per sedersi non solo sopra la terra, ma addirittura sopra i cieli. Infatti, questo è ciò che diceva il salmista alla fine della prima parte: «al di sopra dei cieli la sua gloria» (v. 4b).
Il secondo brano (vv. 7-9) è composto da tre segmenti bimembri; è quindi di ritmo ternario, come il primo brano, il cui unico segmento è un trimembro. I due membri del primo segmento (v. 7ab) sono sinonimi. Il secondo segmento è sintatticamente legato al primo, in quanto è costituito da una proposizione finale. Per quanto riguarda i due membri dell’ultimo segmento (v. 9ab), essi corrispondono ai due segmenti precedenti: infatti, «la sterile di casa» rimanda al «misero» e al «povero» del v. 7; e «madre di figli» si riferisce alla nuova situazione felice della donna sterile, così come il versetto 8 si riferiva alla nuova condizione dell’uomo misero e povero. In questo modo, il maschile e il femminile sono complementari.
L’unità dei due brani è indicata dalla ripetizione di verbi della stessa radice: «sedere» e «far-sedere» (vv. 5b.8a.9a). Ciò suggerisce che, se Dio «siede» sul suo trono celeste, cioè se troneggia in cielo, «fa-sedere» «il misero» e «la sterile», facendoli troneggiare come lui stesso. Ricordiamo inoltre che l’unità di questa parte è indicata dal fatto che i verbi «s’innalza», «si abbassa», «rialza», «fa-sedere», e persino «per farlo-sedere», terminano tutti con la stessa -î arcaica, che fa rima.
Passiamo ora a considerare l’intero salmo:
Le parti estreme comprendono un solo segmento di un solo membro: «Lodate Yah!» (cioè, in ebraico, «Alleluia»). Le due parti seguenti sono più sviluppate (vv. 1b-4; 5b-9b). La prima è un lungo invito alla lode; l’altra, che descrive l’azione di Dio in favore degli umiliati, esprime le ragioni per le quali il Signore deve essere lodato.
Tra queste due lunghe parti, e quindi nel cuore del salmo, c’è una parte molto breve (v. 5a), che comprende un solo segmento di un solo membro. In essa sono ripresi il nome «Yhwh», che ritornava cinque volte nella parte precedente, e il suo nome contratto, «Yah», indicato nelle parti estreme. La parte centrale si distingue nettamente dalle quattro parti che la inquadrano: è infatti l’unica frase interrogativa di tutto il salmo, è anche la sola che contiene un aggettivo possessivo alla prima persona plurale («nostro»).
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Secondo alcuni studi, nella sola Ue, il costo della corruzione sarebbe compreso tra i 179 e i 990 miliardi di euro l’anno. Un problema che il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa definisce come una delle più gravi «deformazioni del sistema democratico». Ma quali strumenti abbiamo per combattere la corruzione? Lo abbiamo chiesto a Giuseppe Busia, presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione.
La fine della seconda parte (v. 4) e l’inizio della quarta parte (vv. 5b-6) si corrispondono: l’espressione «i cieli e la terra» del v. 6b risponde specularmente a «i cieli» del v. 4b e a «le nazioni» del v. 4a. Inoltre, «esaltato», all’inizio del v. 4, e «si innalza», all’inizio dei vv. 5b-6 sono sinonimi. Tutte queste corrispondenze svolgono la funzione di termini medi a distanza (o «parole-gancio»). Ci si potrebbe domandare se «la terra» del versetto 6b designi la terra di Israele o la Terra intera; il parallelo con il v. 4a indica chiaramente che si tratta dell’insieme di «tutte le nazioni», tanto più che nulla nel seguito della quarta parte (vv. 7-9b) consente di restringere l’aiuto del Signore ai soli figli di Israele.
L’elenco di tutte le parole che indicano la lode di Yhwh nella seconda parte – «lodate» (v. 1b.1c), «benedetto» (v. 2a), «lodato» (v. 3b), «esaltato» (v. 4a) – trova il suo corrispondente nella quarta parte con la serie dei verbi in cui Dio non è più ora l’oggetto, ma il soggetto: in particolare, «esalta» (v. 7b), che riprende «esaltato» del versetto 4a, ma anche «rialza» del versetto 7a.
«Chi è come il Signore nostro Dio?». Il povero
La domanda centrale (v. 5a) sembra svolgere una duplice funzione. Essa appare infatti come una sorta di reazione ammirata al caloroso invito alla lode che la precede (vv. 1b-4), e dà avvio anche alla lista delle motivazioni di lode che la seguono (vv. 5b-9b). In realtà, la penultima parte del salmo offre la risposta alla domanda. Quale altro Dio ha fatto, o farebbe, ciò che Yhwh fa per gli uomini? Qual è il Dio la cui assoluta trascendenza, come viene descritta alla fine della seconda parte (v. 4), consiste nell’«abbassarsi» fino alla «polvere» e al «letame», dove giacciono «il misero» e «il povero»?
Non solo il Signore si abbassa fino all’infimo; se lo fa, non è altro che per «esaltare» gli umiliati (v. 7), come egli stesso è «esaltato» al di sopra di tutto (v. 4)[1]. In questo modo la risposta alla domanda che sembra ovvia alla maggioranza degli esegeti – «Non c’è assolutamente nessuno nel cielo e sulla terra come il Signore nostro Dio!» (cfr Sal 40,6; 86,8) – potrebbe essere completata o, meglio, dovrebbe essere completamente rovesciata: sono il povero e la sterile che sono «come il Signore nostro Dio».
Questo è propriamente incredibile. Ed è proprio a questo che l’uomo è invitato fin dall’origine: «Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò» (Gen 1,27).
Figli di Dio
Le traduzioni greche antiche hanno reso il vocativo – che qui viene tradotto con «servi» (v. 1b) – con paides, che significa sia «servi» sia «fanciulli». Ecco perché la Volgata traduce: Laudate, pueri, Dominum, il che ricorda il Sal 8,2: «Fino ai cieli il tuo splendore è cantato dalla bocca dei bambini, dei lattanti». Ed è in questa prospettiva che il salmo è stato commentato dalla maggior parte dei Padri della Chiesa.
Secondo tale lettura, è possibile vedere un rapporto tra questa seconda parola del corpo del poema e la penultima, «figli» (v. 9b), il che potrebbe essere considerato come una sorta di inclusione. Così può essere individuato un legame con la domanda centrale del salmo: coloro che sono «come il Signore nostro Dio» sono i suoi figli, coloro che egli ha donato, come uno sposo, alla donna sterile. L’immagine non è senza precedenti, se si ricordano i testi dei profeti nei quali Israele è presentato come una donna senza figli alla quale il Signore ridona la capacità di generare:
«1 Grida di gioia, sterile, tu che non hai partorito;
Prorompi in grida di gioia, in clamori,
tu che non hai mai messo al mondo,
Perché più numerosi sono i figli dell’abbandonata
di quelli della sposa, dice Yhwh. […]
4 Non avere paura, tu non proverai più vergogna,
Non sii confusa, tu non dovrai più arrossire;
Perché tu dimenticherai la vergogna della tua giovinezza,
Tu non ricorderai più il disonore della tua vedovanza.
5 Il tuo creatore è il tuo sposo, Yhwh Sabaot è il suo nome,
Il santo di Israele è il tuo redentore, si chiama Dio di tutta la terra.
6 Sì, come una donna abbandonata e afflitta, Yhwh ti ha chiamata,
Come una donna della sua giovinezza che era stata ripudiata,
dice il tuo Dio.
7 Per un breve istante ti avevo abbandonata,
mosso da un immenso amore, ti riunisco a me.
8 In un impeto di collera, per un istante,
ti avevo nascosto il mio volto.
Con un amore eterno ho avuto pietà di te,
dice Yhwh, il tuo redentore» (Is 54,1-8).
Cristo si è fatto povero
Per il lettore cristiano, la domanda centrale del salmo spinge a una risposta che, per restare nella linea della sua accezione antica, non acquisterebbe un significato nuovo. Si è spesso sottolineato la parentela tra questo salmo e il Magnificat, al punto di chiamarlo «il Magnificat dell’Antico Testamento». Più che l’inno della lettera ai Filippesi (cfr Fil 2,6-11), sembra che testi come 2 Cor 8,9 siano più prossimi al movimento del salmo: «Voi conoscete, infatti, la grazia del Signore Gesù Cristo, che per voi si è fatto povero, da ricco che era, per arricchirvi con la sua povertà».
Non si tratta in questo salmo, come nell’inno della lettera ai Filippesi, dell’abbassamento seguìto dall’esaltazione della stessa persona: colui che fin dal cielo si abbassa lo fa per esaltare gli umili. Troppo bello per essere vero! È per questo che i commentatori riducono la domanda centrale del salmo a una domanda retorica la cui risposta è evidente, ed è la stessa di quella di molti altri testi: così appiattiscono un testo che invece reca una novità.
C’è un altro caso «incredibile» dello stesso tipo. I Salmi 111 e 112, che precedono il Sal 113, sono salmi gemelli: sono acrostici alfabetici, ciascuno composto di 22 membri. Il primo salmo dice chi è Dio, il secondo chi è l’uomo retto. Ciò che si dice dell’uno si dice anche dell’altro. Ad esempio, nel primo viene detto di Dio: «E la sua giustizia rimane in eterno» (v. 3b); e il Sal 112 lo dice dell’uomo retto, ripetendolo, quasi alla lettera, nel v. 9b: «La sua giustizia rimane in eterno».
Tuttavia, c’è un altro punto che è così sorprendente da sembrare troppo bello per essere vero. Il Sal 111 dice: «Tenero e misericordioso è Yhwh». Sappiamo che questo duplice aggettivo è un epiteto della natura di Yhwh, e di lui solo. E c’è solo un altro passo in cui esso qualifica l’uomo retto: «Tenero e misericordioso e giusto, buono è l’uomo misericordioso e che dà in prestito» (Sal 112,4c-5a). Ma ciò non è possibile, perché in tutti gli altri passi «tenero e misericordioso» si applica soltanto a Yhwh! Il testo ebraico dev’essere quindi corretto. Alcuni, come i biblisti Luis Alonso Schökel e Cecilia Carniti, non hanno esitato a farlo, traducendo: «Albeggia nelle tenebre per i retti il Pietoso, il Clemente e il Giusto». E hanno commentato, a proposito del v. 4b: «Chi è il soggetto? Dio o il giusto? Gli attributi o epiteti “Pietoso e Clemente” sono propri di Dio, li abbiamo appena sentiti nel Sal 111,4b. Un ebreo che sente la combinazione di queste due parole, le applica senza dubbi a Dio, a meno che non ci siano forti ragioni in contrario: secondo noi non ce ne sono. La luce che brilla nell’oscurità è questo Dio Pietoso e Misericordioso»[2].
Ma il commentatore ebreo Amos Hakham la pensa diversamente: «Nel resto della Scrittura, “tenero e misericordioso” è detto solo di Dio, ma qui il poeta lo applica a chi teme il Signore, a chi è retto, per significare che chi teme il Signore cammina nelle vie del Signore»[3].
La tenerezza e la misericordia che il giusto e Dio hanno in comune consistono nel nutrire, ossia nel dare la vita. Questo è ciò che Dio fa: «dà da mangiare a chi lo teme» (Sal 111,5a). Questo è anche ciò che fa il giusto: «distribuisce e dà ai poveri» (Sal 112,9a). Se egli può fare questo, è perché, essendo «l’uomo che teme Yhwh» (112,1), è uno di quelli che temono Dio e a cui Dio «dà da mangiare» (Sal 111,5). Afferma san Paolo: «Che cosa possiedi che tu non l’abbia ricevuto?» (1 Cor 4,7).
Tuttavia, quando l’uomo retto nutre i poveri, si comporta come un padre per loro. Essendo figlio di Dio, è normale che egli diventi, come Dio, padre di chi, non essendo trattato come un figlio, è orfano[4].
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[1] La maggior parte delle traduzioni non rispetta l’identità dei due verbi: così la traduzione Cei («eccelso» in 4a e «rialza» in 7b).
[2] L. Alonso Schoekel – C. Carniti, I salmi, vol. II, Roma, Borla, 1993, 528. Questo è anche il parere di G. Ravasi, Il libro dei salmi, vol. III, Bologna, EDB, 1985, 318, nota 2. Come fanno notare i tre autori citati, questa era già l’interpretazione di una parte della tradizione manoscritta greca: alla fine del versetto 4, il Codice Alessandrino specifica il soggetto della frase nominale: «Tenero e misericordioso e giusto è il Signore Dio».
[3] A. Hakham, Sefer Tehillîm, vol. II, Jerusalem, The Koschitzky, 1988, 335, nota 6, paragrafo a.
[4] Per approfondire l’argomento trattato in questo articolo, cfr R. Meynet, Le Psautier. Cinquième livre (Ps 107-150), Leuven, Peeters, 2017, 101-109; Id., «La rhétorique biblique et sémitique. état de la question», in Rhetorica 28(2010) 290-312.
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La Chiesa e la cultura digitale
Il mondo online, con la sua varietà, le sue opportunità e le sue sfide, è divenuto una matrice culturale per l’impegno della Chiesa nel mondo. La presenza ecclesiale nella cultura digitale è iniziata anni fa ed è rimasta un’impresa guidata soprattutto da singoli e da giovani, anche se, a partire da papa Benedetto XVI, la Santa Sede ha cominciato a utilizzare alcune piattaforme social e a creare siti web rivolti soprattutto ai giovani. Da questo complessivo impegno digitale della Chiesa traspare ciò che il card. Avery Dulles definiva un modello ecclesiale comunitario incentrato sul popolo di Dio[1]. Il fenomeno della presenza digitale ecclesiale si è sviluppato in gran parte come iniziativa dal basso, guidata da individui che utilizzano i propri account social e che di solito si autodefiniscono «missionari digitali».
Il Sinodo sulla sinodalità ha riconosciuto l’importanza della realtà digitale. Nella Relazione di sintesi della prima sessione si legge: «La cultura digitale rappresenta un cambiamento fondamentale nel modo in cui concepiamo la realtà e ci relazioniamo con noi stessi, tra di noi, con l’ambiente che ci circonda e anche con Dio. […] La cultura digitale, quindi, non è tanto un’area distinta della missione, quanto una dimensione cruciale della testimonianza della Chiesa nella cultura contemporanea»[2]. Il Documento finale del Sinodo ha sviluppato questa idea, chiamando all’azione una Chiesa sinodale: «La diffusione della cultura digitale, particolarmente evidente tra i giovani, sta cambiando profondamente la percezione dello spazio e del tempo, influenzando le attività quotidiane, le comunicazioni e le relazioni interpersonali, inclusa la fede», offrendo allo stesso tempo nuove opportunità e possibili rischi. Il Sinodo sollecita la Chiesa a «dedicare risorse perché l’ambiente digitale sia un luogo profetico di missione e di annuncio», e spinge le Chiese locali a incoraggiare e accompagnare «coloro che sono impegnati nella missione nell’ambiente digitale». Inoltre, invita «le comunità e i gruppi digitali cristiani, in particolare di giovani, […] a riflettere sul modo in cui creano legami di appartenenza, promuovono l’incontro e il dialogo, offrono formazione tra pari, sviluppando una modalità sinodale di essere Chiesa». In effetti, il mondo digitale offre una via «per vivere meglio la dimensione sinodale della Chiesa»[3]. La partecipazione alla cultura digitale di oggi riguarda tutta la Chiesa e richiede l’impegno di tutto il corpo ecclesiale.
Questo articolo considera la partecipazione ecclesiale alla cultura digitale sotto due aspetti: il resoconto del Giubileo dei missionari digitali e degli influencer cattolici dello scorso luglio 2025, e una riflessione sul mondo digitale alla luce di quattro temi chiave del Sinodo.
Il Giubileo dei missionari digitali e degli «influencer» cattolici
Nello spirito dell’appello del Sinodo ad abbracciare la cultura digitale, il Dicastero vaticano per la comunicazione ha contribuito a organizzare il Giubileo dei missionari digitali e degli influencer cattolici, svoltosi a Roma il 28-29 luglio 2025. Convocato alla vigilia del Giubileo dei giovani, l’incontro ha attirato quasi 1.000 persone, provenienti da 75 Paesi, che si considerano influencer cattolici attivi online su diverse piattaforme: YouTube, Instagram, TikTok, Facebook, WhatsApp, Telegram e altre. Immagini, hashtag e descrizioni della presenza digitale di oltre 300 partecipanti sono disponibili sul sito del Giubileo (digitalismissio.org/#participa…). Nel complesso mostrano un volto della Chiesa differente da quello che solitamente si incontra nei siti istituzionali: i partecipanti sono giovani, molti tra i 20 e i 40 anni; sono per lo più laici; appartengono a contesti culturali assai diversi. Gli organizzatori del Giubileo hanno descritto l’evento in questi termini: «Questo Giubileo è per tutti coloro che evangelizzano nell’ambiente digitale, condividendo il messaggio del Vangelo su social network, blog, canali e app. È un’opportunità per scambiare esperienze e rafforzare la nostra missione comune. […] Uniremo i nostri sforzi per celebrare, formare e ispirare coloro che sono chiamati a evangelizzare sulle piattaforme digitali»[4]. Si tratta del secondo festival di questo genere, dopo quello celebrato nel 2023 in occasione della Giornata mondiale della gioventù di Lisbona.
Riflessione
Le due giornate del Giubileo sono state dense di momenti di riflessione e di spiritualità. Dopo la celebrazione di Messe in diverse chiese romane, i partecipanti si sono riuniti all’Auditorium Conciliazione, dove i saluti introduttivi hanno messo a fuoco il tema dei lavori: il ruolo dei missionari digitali per l’evangelizzazione nella vita della Chiesa. Sono intervenuti il card. Pietro Parolin, segretario di Stato della Santa Sede; mons. Rino Fisichella, pro-prefetto del Dicastero per l’evangelizzazione; il prof. Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero per la comunicazione; e mons. Lucio Ruiz, segretario dello stesso Dicastero. Essi hanno incoraggiato tutti a vivere la loro vocazione mettendo Gesù al centro della vita e del lavoro. Quindi il gruppo ha riflettuto sul ruolo della parola di Dio nella vita e nell’attività digitale, in una sessione guidata da p. David McCallum S.I., cofondatore di Contemplative Leaders in Action. Dal momento che sia l’idea sia la pratica dei missionari digitali scaturiscono dalla vocazione, dal modo di vivere la propria identità cristiana, chi opera nel mondo digitale non deve limitarsi a trasmettere dati o informazioni, ma deve costruire relazioni, sia con i propri follower sia con un’équipe pastorale, un gruppo di discernimento.
P. Antonio Spadaro S.I., sottosegretario del Dicastero per la cultura e l’educazione e noto autore di teologia digitale, ha esortato la platea degli influencer cattolici a creare un mondo digitale diverso: «Non siete qui – ha osservato – per ricevere una strategia di comunicazione cattolica, non siete qui per diventare più performanti […]; noi siamo chiamati a far ardere ciò che invece sembra spento: siamo chiamati a bruciare, non a funzionare». Egli ha ricordato che Internet è un luogo di incarnazione e che i contenuti migliori nascono da ciò che arde dentro di noi e che non possiamo non condividere con gli altri. «Non sei un algoritmo, sei un’anima»; un algoritmo può sapere molto sugli utenti, ma non conosce le loro anime, ciò che li muove ad amare. L’influencer cattolico deve creare, come fa il Vangelo: «Tu non sei un brand, sei una benedizione».
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P. Spadaro ha poi citato papa Francesco nel Messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali del 2014: «La testimonianza cristiana non si fa con il bombardamento di messaggi religiosi, ma con la volontà di donare sé stessi agli altri, attraverso la disponibilità a coinvolgersi pazientemente e con rispetto nelle loro domande e nei loro dubbi, nel cammino di ricerca della verità e del senso dell’esistenza umana»[5]. Quindi i missionari digitali non dovrebbero mirare ad «avere follower, ma a essere fratelli tutti». Internet può e deve essere un luogo di compassione: «Anche la comunicazione sedicente cattolica, se perde la compassione scomunica. La comunicazione scomunica, questo è il colmo, la comunicazione che scomunica. Dobbiamo uscire da questo paradigma».
Sono state ricordate anche le parole di papa Leone XIV nel suo primo incontro con i giornalisti: «La comunicazione non è solo trasmissione di informazioni, ma creazione di una cultura, di ambienti umani e digitali che diventino spazi di dialogo e di confronto»[6]. L’ultimo consiglio di p. Spadaro al gruppo è stato: «Restate umani, anche quando vi criticano, anche quando vi ignorano, anche quando vi esaltano. Restate saldi: connessi, sì, ma soprattutto radicati, in Dio, nella preghiera, nella comunità, nella vostra vita vera, fatta di incontri reali, di amicizie vere, di tempo speso non per accumulare, ma per amare». In questo essi troveranno il fuoco che cambia il mondo.
Nel corso della giornata, i partecipanti hanno ascoltato anche le testimonianze di un panel di «missionari digitali» sul loro lavoro, e di un altro che ha raccontato l’esperienza con gli «influencer di Dio», i santi contemporanei, tra cui Carlo Acutis. Il lavoro in gruppi ha permesso ai presenti di riflettere sulle proprie esperienze e di offrire un feedback in stile sinodale ai membri di un gruppo di lavoro incaricato di approfondire il significato di un pieno impegno della Chiesa nella cultura digitale. La giornata si è conclusa con l’adorazione eucaristica nella Basilica di San Pietro.
Esercizi spirituali
Il secondo giorno è stato dedicato all’impegno spirituale, a partire da un pellegrinaggio giubilare e dal passaggio attraverso la Porta santa, seguiti da una celebrazione eucaristica presieduta dal card. Luis Antonio Tagle, pro-prefetto del Dicastero per l’evangelizzazione. Nella sua omelia, egli ha ricordato ai presenti: «Gesù vi ama. Non dubitatene, accettatelo come il più grande influenzatore della vostra vita. Attraverso di voi, possa la persona di Gesù influenzare molte persone, spazi umani e digitali, affinché la verità, la giustizia, l’amore e la pace di Dio possano fluire fino agli estremi confini della terra».
Dopo la Messa, Leone XIV ha raggiunto i partecipanti al Giubileo per una breve udienza non programmata, nella quale ha delineato tre sfide che i missionari e gli influencer digitali cattolici devono affrontare. Innanzitutto: «[Voi] siete qui a Roma per il vostro Giubileo; venuti a rinnovare l’impegno a nutrire di speranza cristiana le reti sociali e gli ambienti digitali. La pace ha bisogno di essere cercata, annunciata, condivisa in ogni luogo; sia nei drammatici luoghi di guerra, sia nei cuori svuotati di chi ha perso il senso dell’esistenza e il gusto dell’interiorità, il gusto della vita spirituale». I missionari digitali devono proclamare Cristo risorto.
In secondo luogo: «Negli spazi digitali, cercate sempre la “carne sofferente di Cristo” in ogni fratello e sorella. Oggi ci troviamo in una cultura nuova, profondamente segnata e costruita con e dalla tecnologia. Sta a noi – sta a voi – far sì che questa cultura rimanga umana». Gli influencer devono coltivare una cultura di umanesimo cristiano, sviluppare un pensiero e un linguaggio che diano voce all’amore di Dio. Il Papa ha ribadito quanto i partecipanti si erano già sentiti dire il giorno prima, ossia che il loro compito non è tanto generare contenuti quanto incontrare cuori, «cercare chi soffre e ha bisogno di conoscere il Signore per guarire le proprie ferite, per rialzarsi e trovare un senso, partendo prima di tutto da noi stessi e dalle nostre povertà, lasciando cadere ogni maschera e riconoscendoci per primi bisognosi di Vangelo. E si tratta di farlo insieme».
In terzo luogo, rievocando l’immagine della chiamata dei primi discepoli mentre riparavano le reti (cfr Mt 4,21-22), Leone XIV ha detto ai missionari digitali della Chiesa che Gesù «ci chiede, oggi, di costruire altre reti: reti di relazioni, reti d’amore, reti di condivisione gratuita, dove l’amicizia sia autentica e profonda. Reti dove si possa ricucire ciò che si è spezzato, dove si possa guarire dalla solitudine, non contando il numero dei follower, ma sperimentando in ogni incontro la grandezza infinita dell’Amore. Reti che danno spazio all’altro più che a sé stessi, dove nessuna “bolla” possa coprire le voci dei più deboli. Reti che liberano, reti che salvano. Reti che ci fanno riscoprire la bellezza di guardarci negli occhi. Reti di verità. Così, ogni storia di bene condiviso sarà il nodo di un’unica, immensa rete: la rete delle reti, la rete di Dio»[7].
Proseguendo nell’indirizzo spirituale della giornata, i partecipanti si sono riuniti per una preghiera di tipo Taizé per la speranza, guidata dal card. Michael Czerny S.I., prefetto del Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale. Successivamente si sono recati in pellegrinaggio al santuario di Nostra Signora di Lourdes, nei Giardini Vaticani, dove ha avuto luogo la consacrazione della missione digitale a Maria. Il Giubileo dei missionari digitali e degli influencer cattolici si è concluso la sera con una festa, animata da musica e testimonianze.
All’interno delle celebrazioni e dell’apprezzamento per l’opera di questi missionari e influencer digitali è emersa anche una corrente sotterranea, che forse gli aspetti devozionali intendevano bilanciare: la tentazione di cercare popolarità, di sostituire le metriche del mondo online alla chiamata del Vangelo. Gli applausi per gli oratori e per gli influencer saliti sul palco hanno mostrato il conflitto tra valori diversi. Le logiche della cultura digitale si sono congiunte con le esperienze vissute nell’Auditorium. «Fatelo per Gesù!», esortava un relatore dopo l’altro. Favorire il dialogo e l’ascolto. Creare comunità. Eppure perdurava una certa tentazione: quella di perdere di vista il servizio al Vangelo, soffocato dai tratti spettacolari della cultura giovanile contemporanea. Tuttavia un certo ottimismo traspariva nelle sessioni e nelle interazioni sociali: la chiamata al discepolato missionario avrebbe prevalso.
Orientamenti sinodali per l’impegno digitale
La presenza, l’ampiezza e la diffusione globale degli influencer cattolici sollevano alcune questioni per la Chiesa, al momento di considerare questa nuova forma di missione. I responsabili sinodali e i membri dei diversi dicasteri vaticani ne sono consapevoli. Nel programma della prima sessione del Giubileo dei missionari digitali e degli influencer cattolici, da parte dei membri di un gruppo di studio del Sinodo sulla sinodalità – tra cui suor Nathalie Becquart XMCJ, sottosegretaria del Sinodo, mons. Ruiz e p. Spadaro – è stata presentata una relazione su «Riflessioni e opportunità della missione della Chiesa nell’era digitale». Da un anno questo gruppo lavora, secondo uno stile di ascolto sinodale, con influencer, diocesi di tutto il mondo, studiosi e operatori pastorali, per rispondere ad alcune domande fondamentali sollevate dal mondo digitale, tra cui: «Che cosa può imparare una Chiesa missionaria e sinodale da una maggiore immersione nell’ambiente digitale?»; «In che modo la missione digitale può essere inserita in maniera stabile nella vita e nelle strutture della Chiesa?». In altre parole: «Che cosa può imparare la Chiesa dagli influencer? E che cosa possono imparare gli influencer cattolici dal Sinodo?».
Il gruppo ha riferito quanto era stato raccolto nell’ascolto. Si è individuata una via per riflettere sul ruolo dei missionari e degli influencer digitali, che viene dallo stesso Sinodo. Quattro temi del Documento finale possono illuminarne il compito: discernimento ecclesiale, formazione, discepolato missionario e comunità.
Discernimento ecclesiale
Il mondo digitale apre prospettive significative per una comprensione sinodale. Pur essendo esso stesso oggetto di discernimento ecclesiale, allo stesso tempo lo favorisce attraverso lo sviluppo di legami tra i fedeli, forgiando le relazioni necessarie a tale discernimento; inoltre, può fornire informazioni e conoscenze per sostenerlo. Il discernimento è già iniziato, se consideriamo il numero di giovani che hanno intrapreso attività digitali per conto della Chiesa, sebbene la riflessione formale sia rimasta indietro. Le istituzioni ecclesiali hanno accolto il digitale con anni di esperienza nella comunicazione unidirezionale: in tutto il mondo vi è un uso diffuso di siti web, pagine e feed social, impiego abituale di e-mail e riunioni online, trasmissione in streaming di liturgie ed eventi. Oltre a queste attività istituzionali, singoli cattolici – come i missionari digitali riuniti al Giubileo – partecipano attivamente a spazi interattivi digitali attraverso blog, post su Instagram e TikTok e l’organizzazione di gruppi di preghiera e riflessione.
Tali pratiche mostrano un accordo implicito, ma diffuso: la Chiesa deve abbracciare i media digitali non come un ripiego, ma come un modo di stare accanto alle persone nella loro vita quotidiana. Ciò richiede ascolto e apprendimento, umiltà nell’avvicinarsi al mondo digitale. La Chiesa non ha inventato il digitale, né può controllarne gli usi, ma può imparare dalla sua cultura, dal suo linguaggio e dai suoi modi di espressione. I partecipanti al Giubileo hanno percepito la chiamata a operare in modalità nuove in e attraverso questo ambito, a esplorare forme diverse di essere Chiesa. L’evangelizzazione e la presenza in rete dovrebbero fare proprie le caratteristiche positive della sfera digitale, dei suoi strumenti e del suo modo di pensare: l’uso del racconto, delle immagini, della musica, dell’accompagnamento, del gusto condiviso. Ma questo coinvolgimento più profondo richiede discernimento a ogni passo: cercare prima il regno di Dio e resistere alle tentazioni presenti in quella cultura.
Podcast | COMBATTERE LA «SCHIAVITÙ DELLA CORRUZIONE» (RM 8,21).
Secondo alcuni studi, nella sola Ue, il costo della corruzione sarebbe compreso tra i 179 e i 990 miliardi di euro l’anno. Un problema che il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa definisce come una delle più gravi «deformazioni del sistema democratico». Ma quali strumenti abbiamo per combattere la corruzione? Lo abbiamo chiesto a Giuseppe Busia, presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione.
Ogni discernimento sul digitale deve anche riconoscerne le sfide e i pericoli. Le aziende cercano di monetizzarne ogni aspetto; i dati personali diventano merce; governi e movimenti politici vi scatenano propaganda; pregiudizi e fake news abbondano; le persone adottano comportamenti negativi, che vanno dal bullismo allo sfruttamento sessuale. In queste e in altre sfide il discernimento ecclesiale aiuterà a distinguere il bene dal male. Oltre a ciò, pur essendo un grande strumento di trasformazione culturale, il mondo online è segnato da una frattura tra chi ha e chi non ha accesso digitale. Esige risorse che pesano sull’ambiente. Nel mondo digitale vediamo un ripresentarsi della parabola evangelica della zizzania e del grano (cfr Mt 13,24–30).
Formazione
Il Sinodo ha sottolineato la necessità della formazione al discernimento e al discepolato. Ciò vale in particolare per l’interazione della Chiesa con il mondo digitale, sia in termini di formazione della Chiesa stessa, sia in termini di formazione per e del mondo digitale.
In primo luogo, per esplorare nuove modalità di essere comunità ecclesiale, la Chiesa e gli operatori pastorali hanno bisogno di una propria formazione: si tratti di vescovi, sacerdoti, religiosi o laici, tutti devono prendere sul serio il digitale e sostenersi a vicenda. Coloro che operano in questo ambito – i missionari digitali e gli influencer – devono incontrarsi regolarmente con i loro vescovi, i quali, da un lato, possono offrire loro guida e sostegno spirituale e, dall’altro, ascoltarli e imparare da loro. Poiché il lavoro dei ministri digitali implica catechesi, evangelizzazione e kerygma, quanti vi sono coinvolti necessitano di guida e di formazione spirituale. Molti, mossi dal discernimento a condividere ciò in cui credono nell’ambito digitale, possono scoprire di aver bisogno di un fondamento più solido in quella fede.
L’appello del Sinodo alla formazione nel discernimento e nel discepolato incoraggia vescovi, pastori, superiori religiosi e istituzioni intellettuali cattoliche a sostenere i missionari digitali, anche se non sono catechisti o evangelizzatori tradizionali. Tutti coloro che hanno un legame con il digitale hanno bisogno di formazione per imparare a connettere quanti esplorano la fede e la spiritualità cristiana online con le ricchezze vissute delle parrocchie e delle comunità. Occorre, a ogni livello, evitare di dividere la Chiesa in una esperienza online e una in presenza: è un’unica Chiesa, comunque la si incontri, così come le persone non esistono separatamente online e offline.
In secondo luogo, la formazione richiesta per operare nel digitale va oltre la dimensione spirituale e si estende a quella pratica. In tale prospettiva, un contributo potrebbe venire dalla creazione di centri di risorse locali, regionali, e forse anche universali, in cui le persone possano incontrarsi o reperire materiali, per condividere idee e buone pratiche in uno spazio digitale.
In terzo luogo, oltre a rinsaldare il proprio ministero digitale, la Chiesa e i suoi ministri devono offrire formazione anche a coloro che incontrano online. Questa può assumere molte forme, tra cui la guida spirituale, la riflessione etica, gli orientamenti di policy, le procedure di tutela. Anche l’ambiente digitale deve diventare un luogo di formazione, uno spazio in cui apprendere la fede di Gesù e la sua fedeltà. Qui i valori cristiani possono contrastare i valori negativi del digitale: la Chiesa promuove virtù, rispetto e gentilezza nell’ambito digitale, così come insegna i valori della vita cristiana. A chi si dedica al digitale può giovare un equivalente specifico dell’educazione ai media, qualcosa che la Chiesa ha già affrontato in passato per aiutare a comprendere meglio gli effetti dei media visivi, come cinema e televisione. Sia la Chiesa sia chi partecipa online devono apprendere questa nuova cultura.
In quarto luogo, la formazione della Chiesa deve confrontarsi con la sfida ancora più ardua delle possibili vie per offrire suggerimenti etici e orientamenti di policy a governi e aziende mediatiche. Pur essendo tenuti a conoscere e a rispettare le normative locali – in materia di tutela e privacy, per esempio –, la Chiesa e i suoi ministri dovrebbero anche impegnarsi ad accompagnare i processi di stesura di tali leggi e la loro applicazione.
Discepolato missionario
Il Sinodo invita la Chiesa a diventare comunità di discepoli missionari, e nella lista dei luoghi di formazione e di attività in cui questi sono chiamati a impegnarsi trova posto anche l’ambito digitale. Come si è visto anche durante il Giubileo, molti di coloro che operano online si definiscono «missionari digitali» che «educano al discepolato e […] accompagnano nella testimonianza»[8]. Il card. Parolin, nel suo intervento al Giubileo, ha sottolineato questo punto: «Non siete solo creatori di contenuti, siete testimoni. Non state solo costruendo piattaforme; state costruendo ponti».
I missionari online, come tutti i missionari, assumono i tre compiti fondamentali di proclamazione del Vangelo, formazione dei credenti e accompagnamento, finalizzati a raggiungere coloro che si muovono con più naturalezza nel mondo digitale, in particolare i giovani. La Chiesa non può ignorare questi cercatori e questi operatori. Ciò però richiede un cambio di atteggiamento, che passa dal riconoscimento di un nuovo tipo di evangelizzazione: la Chiesa entra negli spazi digitali non come istituzione potente, ma come testimone del Risorto, compagna di cammino per chi cerca il Vangelo. Le forme di espressione possono differire da catechismi, encicliche e omelie, ma non saranno testimonianze meno autentiche, se riusciranno a trasmettere il Credo della Chiesa in un linguaggio attuale.
Pur restando sempre radicato nella Chiesa, il discepolato missionario nei nuovi spazi online può stimolare uno stile nuovo nell’esercitare la giurisdizione e il governo. I gruppi di discussione del Giubileo hanno individuato nell’autenticità, nella responsabilità e nel radicamento comunitario, gli elementi chiave di una governance più partecipativa, che richiede dai leader ecclesiali di incoraggiare e accompagnare chi opera nel digitale, assicurandosi anche della sua adeguata e continua formazione cristiana.
Comunità
Il Sinodo chiede «una Chiesa più capace di nutrire le relazioni: con il Signore, tra uomini e donne, nelle famiglie, nelle comunità, tra tutti i cristiani, tra gruppi sociali, tra le religioni, con la creazione»[9]. Questo invito si estende al mondo digitale e oltre, là dove le persone già si incontrano e si relazionano. Nel suo saluto di apertura al Giubileo, Ruffini ha affermato: «È bello essere insieme di persona […]; ciò che veramente ci lega non è il web, ma qualcosa che ci trascende: Dio stesso». Ha anche fatto notare che la Chiesa è sempre stata una rete, non fatta di connessioni online, ma di persone. Tali relazioni personali generano comunità; qui sta la sfida per la Chiesa e per il digitale. Occorre promuovere comunità, integrando ciò che avviene online con la vita delle parrocchie, ad esempio. Ospitalità e accoglienza devono essere tratti distintivi della Chiesa e delle sue attività online; parrocchie e comunità locali devono estendere questa accoglienza anche a chi preferisce il contatto per via digitale.
La Chiesa può promuovere comunità tra i suoi operatori digitali attraverso l’accompagnamento, la responsabilità condivisa e la formazione alla tutela. Una via possibile da esplorare è quella dello sviluppo di una rete di reti tra coloro che lavorano nel digitale in diverse diocesi e regioni, per rispondere all’interrogativo di come possano sostenersi a vicenda. Per esempio, come già accade con chi opera nei media tradizionali, gli uffici ecclesiali potrebbero aiutare gli operatori digitali a organizzare associazioni, conferenze e gruppi di sostegno. A livello di segreterie, regioni, diocesi e persino parrocchie, la Chiesa può offrire orientamenti, materiali di formazione e relazioni che sostengano la comunità dei discepoli. Il Giubileo rappresenta un esempio concreto di tale sostegno.
Conclusione
La cultura digitale non scomparirà: come tutte le culture, si svilupperà e cambierà. La Chiesa non definirà né controllerà questa cultura, ma deve trovarvi posto per la sua missione. Come scrisse papa Giovanni Paolo II in Redemptoris missio (RM): «Paolo, dopo aver predicato in numerosi luoghi, giunto ad Atene, si reca all’areopago, dove annunzia il Vangelo, usando un linguaggio adatto e comprensibile in quell’ambiente (At17,22). L’areopago rappresentava allora il centro della cultura del dotto popolo ateniese, e oggi può essere assunto a simbolo dei nuovi ambienti in cui si deve proclamare il Vangelo» (RM 37c).
Quell’enciclica si riferiva al mondo della comunicazione di massa, ma oggi l’areopago si trova nella cultura digitale. Ciò che il Papa scriveva nel 1990 vale ancora di più ai nostri giorni: «Si tratta di un fatto più profondo, perché l’evangelizzazione stessa della cultura moderna dipende in gran parte dal loro influsso. Non basta, quindi, usarli per diffondere il messaggio cristiano e il Magistero della Chiesa, ma occorre integrare il messaggio stesso in questa “nuova cultura” creata dalla comunicazione moderna. È un problema complesso, poiché questa cultura nasce, prima ancora che dai contenuti, dal fatto stesso che esistono nuovi modi di comunicare con nuovi linguaggi, nuove tecniche e nuovi atteggiamenti psicologici. Il mio predecessore Paolo VI diceva che “la rottura fra il Vangelo e la cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca” [Evangelii nuntiandi, n. 20], e il campo dell’odierna comunicazione conferma in pieno questo giudizio» (ivi). Sempre rinnovata da Dio, la Chiesa ricomincia nell’odierno areopago digitale.
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[1] Cfr A. Dulles, Modelli di Chiesa, Padova, Messaggero, 2005.
[2] XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi(4-9 ottobre 2023), Relazione di sintesi della prima Sessione. Una Chiesa sinodale in missione, 28 ottobre 2023, n. 17a-b.
[3] Id., Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione. Documento finale, 26 ottobre 2024, n. 113.
[4] «Missionaries of Hope», in digitalismissio.org/#participa…
[5] Francesco, La comunicazione al servizio di un’autentica cultura dell’incontro, Messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, 24 gennaio 2014.
[6] Leone XIV, Discorso ai rappresentanti dei media, 12 maggio 2025.
[7] Id., Saluto agli influencer e missionari e digitali, 29 luglio 2025.
[8] Per una Chiesa sinodale…, cit., n. 144.
[9] Ivi, n. 50.
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«Una pace disarmata e disarmante»: un binomio che fa pensare
Un binomio significativo
Papa Leone XIV ha iniziato il suo pontificato con queste significative parole: «La pace sia con voi! Questa è la pace del Cristo Risorto, una pace disarmata e una pace disarmante, umile e perseverante»[1]. Un binomio ripetuto, qualche giorno dopo, agli operatori della comunicazione: «Una comunicazione disarmata e disarmante ci permette di condividere uno sguardo diverso sul mondo e di agire in modo coerente con la nostra dignità umana»[2]. Lo si ritrova anche nella conclusione del discorso ai congolesi ricevuti dopo la beatificazione di Floribert Bwana Chui, laico, martire, ucciso l’8 luglio 2007 a Goma: «Questo martire africano, in un continente ricco di giovani, mostra come essi possano essere un fermento di pace “disarmata e disarmante”»[3].
È significativa la menzione di questo binomio in tre circostanze pubbliche nell’arco di un così breve spazio di tempo, e poi ripetuto in molte altre occasioni: un fatto che certamente impressiona, specialmente se messo a confronto con gli atti dei precedenti pontefici.
Papa Francesco ha utilizzato questo binomio in diverse circostanze. La prima volta in un’omelia nella II Domenica di Pasqua 2020, a proposito dell’attenzione affettuosa del Risorto nei confronti dell’apostolo Tommaso: «L’amore disarmato e disarmante di Gesù risuscita il cuore del discepolo»[4]. Poi nell’omelia della notte di Natale di quell’anno: «Dio è nato bambino per spingerci ad avere cura degli altri. […] Il suo amore disarmato e disarmante ci ricorda che il tempo che abbiamo non serve a piangerci addosso, ma a consolare le lacrime di chi soffre»[5]. Successivamente, nella Domenica delle Palme dell’anno seguente: «Dio si è svelato e regna solo con la forza disarmata e disarmante dell’amore»[6]. In quella circostanza il binomio veniva associato alla misericordia: «Lo Spirito del Risorto […] libera dalla paura e infonde il coraggio di uscire incontro agli altri con la forza disarmata e disarmante della misericordia»[7]. In occasione del quarto centenario dalla morte di san Francesco di Sales, papa Francesco ha affermato, in riferimento all’amore divino, che Dio «ci attira, con questo amore disarmato e anche disarmante, perché quando vediamo questa semplicità di Gesù, anche noi buttiamo fuori le armi della superbia e andiamo lì, umili, a chiedere salvezza»[8]. E in un’altra circostanza ha rimandato alla «disarmata e disarmante potenza del Risorto, in grado di alleviare le sofferenze dell’umanità ferita»[9].
San Giovanni Paolo II ha adoperato questo binomio in una sola occasione, quando, in un messaggio ai cappuccini, ha scritto che «la “minorità” vissuta esprime la forza disarmata e disarmante della dimensione spirituale nella Chiesa e nel mondo»[10].
I singoli termini – «disarmato/a» o «disarmante» – ricorrono frequentemente negli interventi papali, ma è l’accoppiata a risultare numericamente carente; addirittura, essa non è mai stata adoperata da Benedetto XVI. Gli accostamenti al binomio sono diversi, anche se il legame più ripetuto, che sembra caratterizzare Leone XIV, è quello della pace, dono del Risorto. Al di là dei numeri, preme sottolineare il peso delle parole di papa Prevost; ritrovare questo binomio nel primo messaggio al mondo non è certamente cosa fortuita né improvvisata: è un invito forte a deporre tutto ciò che possa portare ad atteggiamenti di violenza e prevaricazione, per inaugurare percorsi di pace e di giustizia.
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Disarmare per generare pace e vita
Disarmare per generare pace e vita è un tema molto presente nella Sacra Scrittura: innumerevoli testi sia dell’Antico sia del Nuovo Testamento mostrano come agli strumenti costruiti per uccidere venga radicalmente cambiata la destinazione d’uso, trasformandoli in generatori di bene. La molteplicità dei riferimenti richiede necessariamente una selezione che non può certamente dirsi esaustiva. Emblematico al riguardo è il passo di Is 2,2-4 (e il parallelo di Mi 4,1-4): la solidità del monte del Signore e il suo divenire luogo di incontro di molti popoli apre questo passo, che sembra voler riscattare l’episodio della torre di Babele (cfr Gen 11,1-9)[11]. La narrazione sviluppa un duplice contrasto: la conversione delle armi e l’apprendimento dei comandi del Signore – «Sarà giudice fra le genti e arbitro fra molti popoli. Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci» –, che vanno attuati nella vita a scapito dell’«arte della guerra» (cfr Is 2,3-4).
È interessante il contesto escatologico nel quale si colloca l’azione del Signore. È lui che giudica le nazioni con giustizia, e nel suo regno universale dominerà la pace. Solo nell’avverarsi di questa condizione gli uomini non avranno più bisogno di armamenti e, anzi, potranno convertirli in strumenti che generano vita, come aratri o falci. Viene così prospettata una felice conclusione, carica di speranza: «Il popolo può cedere all’arroganza e al peccato, ma il Signore resta sempre fedele. C’è, dunque, un barlume di speranza. È la speranza che si intravede in questo oracolo di salvezza [Is 2,1-5], uno dei più bei canti alla pace universale»[12].
Altri testi presentano una situazione che sembra andare in una direzione opposta alle indicazioni appena menzionate. Ad esempio, nel libro di Gioele (4,9-10) «le pacifiche citazioni di Is 2,4 e Mi 4,3 sono trasformate in un invito alla guerra. Si tratta di una guerra totale, in cui anche chi è debole combatte, credendo di essere un guerriero»[13].
Ma la contraddizione è solo apparente. Gli strumenti che dovrebbero servire per coltivare la terra e produrre cibo vengono trasformati per combattere una guerra contro il Signore che sarà già persa in partenza. Nel «giorno del Signore» questo cambio d’uso in negativo manifesterà tutta la sua inutilità (cfr Gl 4,4-8).
In questo e in altri passi – come, ad esempio, Is 59 – non dobbiamo lasciarci sorprendere dall’immagine di un Dio guerriero, leggendo alla lettera quello che viene descritto: «Sue armi sono la giustizia e la salvezza che viene a piantare: non vince il male con il male, ma per la forza del bene. Ma si riveste pure di zelo e di vendetta: zelo per gli oppressi e vendetta per gli oppressori. La giustizia vendicativa vuole realizzare la salvezza»[14].
Più che l’armatura indossata, sono importanti l’abbinamento con la virtù alla quale ogni suo singolo elemento è legato e lo scopo per il quale ciò viene raccontato. La panoplia in questo caso consta di quattro elementi, ai quali vengono attribuiti altrettante doti: la giustizia, la salvezza, la vendetta e lo zelo[15]. Poiché queste ultime vengono indossate e vissute dal Signore stesso, ciò non può che essere per l’uomo motivo di speranza e di conforto. Il soccorso può venire soltanto da Dio, ed è lui, lui solo, che può operare contro i nemici per ristabilire la giustizia: «Con metafore antropomorfiche, la sacra Scrittura ci parla dei rapporti dell’uomo con Dio e viceversa. Tuttavia, Dio non dichiara guerra all’uomo, le sue intenzioni sono di pace (cfr. Ger 29,11; Is 26,3.12; 45,7); a rompere la pace con lui e con i propri simili è stato l’uomo»[16]. Viene così smentita ogni possibile giustificazione religiosa per la violenza e la guerra.
Un possibile contenitore della violenza
È significativo che nel Decalogo la proibizione di nominare invano il nome di Dio faccia seguire una punizione da parte sua: «Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano» (Es 20,7). Questa punizione non viene menzionata per gli altri comandamenti, come a ribadire la gravità di tale trasgressione. Nominare «invano» Dio significa, tra l’altro, appropriarsi del suo nome per avallare interessi personali, violenze, guerre, omicidi, come nelle derive del fondamentalismo, del terrorismo, degli abusi di autorità religiosa. La Scrittura prende le distanze da tali perversioni, ne denuncia la gravità, ma nello stesso tempo ne rivela anche la presenza nel corso della storia.
In questa prospettiva, anche le pagine violente della Bibbia, lette nel loro contesto e confrontandosi con chi ha competenza in materia, trovano il loro significato e indicano un percorso, anche storico, dalla violenza alla non violenza. Quelle pagine ricordano a ogni uomo e donna, siano essi credenti o non credenti, che l’aggressività e l’ostilità sono parte della vita di ogni epoca e luogo, ma che possono essere affrontate in modi diversi. E che, di fronte alla sconfitta del giusto, la prospettiva di una vita oltre la morte diviene promessa ineludibile di un compimento impossibile nell’orizzonte temporale. La Bibbia, nella sua millenaria stesura, presenta un cammino di progressiva educazione dell’uomo, entrando inizialmente nelle sue categorie per mostrare un altro orizzonte: quello della pace, della misericordia, del perdono, della compassione, propri della vita divina.
Punto di arrivo di tale percorso è la vicenda di Gesù, il suo modo di vivere i contrasti e le avversità della vita, mostrato a livello di insegnamento nelle beatitudini e nella sua passione, morte e risurrezione. La morte in croce di Cristo, che prende su di sé il male e non invoca vendetta, ma perdono, e benedice chi lo maledice, è il criterio di lettura definitivo di come affrontare il rifiuto e la violenza. Gesù, offrendo sé stesso, diventa vittima ingiustamente messa a morte e decreta con la sua risurrezione la fine del sacrificio cruento, prendendo su di sé la sorte di tutti gli oppressi e dimenticati dalla storia e trasformando una volta per sempre le lance in falci.
Podcast | COMBATTERE LA «SCHIAVITÙ DELLA CORRUZIONE» (RM 8,21).
Secondo alcuni studi, nella sola Ue, il costo della corruzione sarebbe compreso tra i 179 e i 990 miliardi di euro l’anno. Un problema che il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa definisce come una delle più gravi «deformazioni del sistema democratico». Ma quali strumenti abbiamo per combattere la corruzione? Lo abbiamo chiesto a Giuseppe Busia, presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione.
Sant’Agostino, commentando il passo di Gv 19,34 – «Uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua» –, nota che con quel gesto «fu come aperta la porta della vita, donde fluirono i sacramenti della Chiesa, senza dei quali non si entra a quella vita che è la vera vita»[17]. Il soldato vorrebbe confermare la morte di Gesù con un gesto di violenza, ma, contro ogni previsione, quel gesto fa sì che da quel fianco sgorghi la vita[18]. La vera battaglia, la battaglia tra la vita e la morte, è stata vinta da Cristo una volta per sempre con la mansuetudine e l’affidamento al Padre (cfr Lc 23,46). Ed egli rende partecipe di tale vittoria ogni uomo di buona volontà.
In questo senso san Paolo riprende l’invito a «indossare l’armatura di Dio» (cfr Ef 6,10-17; 1 Ts 5,8 e 2 Cor 6,7) per combattere una battaglia non tanto materiale, ma piuttosto spirituale, affinché i credenti non si arrendano di fronte «alle insidie del diavolo» (Ef 6,11). È lui il nemico da sconfiggere. In Ef 6,12, infatti, si precisa che «la nostra battaglia […] non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti». È una battaglia sovrumana, che certamente il Signore risorto ha già vinto una volta per tutte e per tutti, ma per il singolo credente ciò è sempre e ancora da realizzare nella quotidianità.
Nella lettera ai Romani, in un passo che è stato determinante per la conversione di Agostino (cfr Rm 13,11-14), è curioso che Paolo indichi per due volte il rivestirsi di un particolare abbigliamento: prima indossare le armi, ma non quelle per offendere, bensì quelle della luce; e poi rivestirsi di Gesù Cristo, «nel senso di una unione al Cristo, mediante lo Spirito, unione che penetra, determina e trasforma la personalità del credente, conformandola alla volontà di Dio su di lui nell’ordine della redenzione»[19]. Occorre non rimanere in uno stato di sonnolenza ed essere vigilanti, perché la salvezza si fa ogni giorno più vicina: «La sua vicinanza è un approssimarsi non calcolabile. Perciò la sua prossimità cronologica è un arrivo sempre incombente, anzi è già una presenza che ci sovrasta»[20]. Indossando «le armi della luce» (v. 12b), non si è portati a comportamenti deprecabili, che qui vengono elencati in coppie (cfr v. 13b), ma si è invitati ad agire come coloro che vivono «in pieno giorno» (v. 13a), senza paura né vergogna.
Il potere disarmante della misericordia e dell’amore
Un brano evangelico che mostra in maniera sublime come le parole e le azioni di Gesù possano disarmare le intenzioni violente è il racconto della donna adultera (cfr Gv 8,1-8). Il contrasto fortissimo che ne emerge è attestato anche dalla storia di questo brano, che è stato accolto non senza difficoltà e resistenze nel Vangelo di Giovanni. È un testo che sembra dire che la misericordia può trasformare qualunque cosa, perché è il luogo dell’onnipotenza di Dio. «Molti codici antichi lo omettono. In un’epoca in cui l’adulterio era considerato uno dei peccati senza possibilità di perdono nella Chiesa, l’atteggiamento di Gesù, che non ingiunge all’adultera neppure una salutare penitenza, non poteva che sconcertare. Io capisco che qualcuno possa avere avuto più motivo per togliere questo brano dai vangeli, se vi si trovava, che di mettervelo, se vi era assente»[21]. E se alla fine questo brano è stato inserito nel canone delle Scritture, è perché si è riconosciuto che le cose erano andate davvero così.
All’insistenza dei suoi interlocutori affinché si esprima o meno in merito alla pesante condanna di lapidazione prevista dalla Legge di Mosè (cfr vv. 3-5) Gesù risponde alzandosi e pronunciando una frase che è diventata celebre: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei» (v. 7). L’allontanarsi degli scribi e dei farisei (cfr v. 9a) stravolge i ruoli iniziali: da accusatori essi diventano accusati. L’incontro più atteso però si realizza solo alla fine (cfr vv. 9b-11), quando Gesù e la donna sono gli unici a rimanere in scena. Gesù sembra volere che la partenza degli scribi e dei farisei venga dichiarata dalla donna stessa, e così, insieme all’assenza dei condannanti, viene meno anche la condanna. Molto noto è il commento di sant’Agostino: «Decisamente, questa è la voce della giustizia. […] Rimasero soltanto loro due: la misera e la misericordia. E il Signore, dopo averli colpiti con la freccia della giustizia, non si fermò a vederli cadere, ma, distolto lo sguardo da essi, si rimise a scrivere in terra col dito (Gv 8,8)»[22]. Il frutto di questo dialogo ridà dignità e vita alla donna, che viene invitata a non ripetere gli errori del passato[23].
Molti, leggendo questi versetti, non a torto immaginano che gli accusatori dell’adultera avevano già con loro i sassi con cui lapidarla, qualora Gesù avesse scelto di dare ragione all’applicazione sic et simpliciter della Torah. Se le pietre fossero o meno in loro possesso non viene specificato. Possiamo però ben dire, senza stravolgere il senso del Vangelo, che le parole di Gesù, ricche di misericordia e di amore, disarmano quei tali, che sono costretti ad allontanarsi. Essi, che già si erano comportati violentemente con quella donna e l’avevano strumentalizzata per accusare Gesù, sono stati sconfitti senza violenza dalle parole del Maestro. C’è per loro un duplice disarmo: dai sassi, se li avevano con loro, ma molto di più dalla violenza fisica e verbale, che certamente hanno manifestato di avere.
Gesù non condanna la donna e neanche coloro che l’accusano, ma l’una e gli altri vengono rimandati alla propria coscienza, alla verità con sé stessi. Così si può realizzare la parola di verità e di libertà portata dal Figlio di Dio. Quegli scribi e quei farisei sono chiamati a convertire il loro animo pronto a puntare il dito, facendo leva sulla Legge; quella donna è invitata a non peccare più e a vivere la sua vita da persona rinnovata.
Si può quindi comprendere l’importanza fondamentale di questo brano per il binomio disarmato/disarmante. Le parole e i gesti di Gesù di fronte agli accusatori dell’adultera diventano disarmanti verso coloro che, disarmati, si allontanano senza compiere quell’azione di morte da loro progettata. Se di buon uso di armi vogliamo parlare, possiamo ben dire che le armi della misericordia e dell’amore sono quelle adoperate dal Maestro per mettere fine a ogni violenza e promuovere dignità e vita.
Conclusione
All’inizio abbiamo ricordato che l’abbinamento di questi due termini «disarmato» e «disarmante» non è proprio del solo papa Leone XIV. Tuttavia, il fatto che egli ne abbia fatto uso nel primo messaggio dopo l’elezione e nel corso di molti incontri successivi ci fa guardare a tale accostamento con grande attenzione. Inoltre, la duttilità con la quale questo binomio può essere applicato a realtà molteplici del vivere comune – politiche, economiche, morali e spirituali – evidenzia come questa scelta sia fortemente biblica e portatrice di speranza.
Ci auguriamo che il ministero petrino di Leone XIV possa toccare il cuore dei governanti e contribuisca a disarmare gli arsenali dei potenti, ma anche le armi dell’orgoglio e dell’egoismo che ogni uomo scopre dentro di sé nella vita quotidiana. Che ci aiuti a rivestire le armi buone e disarmanti della misericordia e dell’amore, della speranza e della giustizia. E che non dobbiamo sentirci rivolgere il duro ammonimento del Salmo: «Io sono per la pace, ma essi, appena parlo, sono per la guerra» (Sal 120,7)!
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[1] Leone XIV, Prima Benedizione «Urbi et Orbi», 8 maggio 2025 (tinyurl.com/yz67xkx5); corsivi nostri.
[2] Id., Discorso agli operatori della comunicazione, 12 maggio 2025 (tinyurl.com/vmt84cey); corsivi nostri.
[3] Id., Discorso ai pellegrini della Repubblica democratica del Congo, 16 giugno 2025 (tinyurl.com/4bjvw9bz); corsivi nostri.
[4] Francesco, Omelia nella II Domenica di Pasqua, 19 aprile 2020 (tinyurl.com/32u7ftkx).
[5] Id., Omelia nella notte del Natale del Signore, 24 dicembre 2020 (tinyurl.com/37c7cynu).
[6] Id., Omelia nella Domenica delle Palme, 28 marzo 2021 (tinyurl.com/cp7yxzk8).
[7] Id., Discorso all’incontro di preghiera con i vescovi, i sacerdoti, i consacrati, i seminaristi e gli operatori pastorali, Chiesa del Sacro Cuore, a Manama (Bahrein), 6 novembre 2022 (tinyurl.com/8zr36ftm).
[8] Id., Udienza generale, 28 dicembre 2022 (tinyurl.com/554bycnj).
[9] Id., Discorso all’incontro con i vescovi, i sacerdoti, i missionari, i consacrati, le consacrate e gli operatori pastorali, Cattedrale dei Santi Pietro e Paolo (Ulaanbaatar – Mongolia), 2 settembre 2023 (tinyurl.com/554bycnj).
[10] Giovanni Paolo II, s., Messaggio ai cappuccini italiani in occasione del Capitolo delle Stuoie, 22 ottobre 2003 (tinyurl.com/msp6x95k).
[11] Cfr L. Alonso Schökel – J. L. Sicre Diaz, I profeti, Roma, Borla, 1984, 132.
[12] N. Calduch-Benages, I profeti, messaggeri di Dio, Bologna, EDB, 2013, 47.
[13] E. D. Mallon, «Gioele – Abdia», in R. E. Brown – J. A. Fitzmyer – R. E. Murphy (edd.), Nuovo Grande Commentario Biblico, Brescia, Queriniana, 2002, 526.
[14] L. Alonso Schökel – J. L. Sicre Diaz, I profeti, cit., 411.
[15] Cfr A. Oepke – K. G. Kuhn, «πανοπλία», in G. Kittel – G. Friedrich (edd.), Grande Lessico del Nuovo Testamento, vol. VIII, Brescia, Paideia, 1972, 828-848.
[16] J. Vilchez Lindez, Sapienza, Roma, Borla, 1990, 252.
[17] Agostino d’Ippona, s., Commento al Vangelo di San Giovanni.Omelia 120, 2; cfr G. Barbaglio, Pace e violenza nella Bibbia, Bologna, EDB, 2011; G. Ravasi, La santa violenza,Bologna, il Mulino, 2019.
[18] «Il verbo greco nyssō non ha il senso di “aprire”, ma quello di “colpire”, forte o piano. Notiamo però che l’“apertura” del fianco di Cristo può avere una duplice giustificazione: ne sgorga sangue ed acqua, Gesù invita Tommaso a mettervi il dito (20,25). Il verbo exēlthen, “sgorgò”, è lo stesso che si trova nella profezia di Ezechiele [47,1], in cui l’acqua “esce” dal tempio e diventa un torrente che irriga la Terra» (X. Léon-Dufour, Lettura dell’evangelo secondo Giovanni, Cinisello Balsamo [Mi], San Paolo, 2007, 1125 s.).
[19] S. Légasse, L’epistola di Paolo ai Romani, Brescia, Queriniana, 2004, 670.
[20] H. Schlier, La lettera ai Romani, Brescia, Paideia, 1982, 637.
[21] R. Cantalamessa, Passa Gesù di Nazaret,Casale Monferrato [Al], Piemme, 1999, 110 s.
[22] Agostino d’Ippona, s., Commento al Vangelo di San Giovanni, Omelia 33, 5.
[23] «La parola finale di Gesù non è perciò lassista, come se egli ammettesse l’adulterio, ma al contrario costituisce un appello a vivere ormai quella fedeltà di cui prima si era fatta beffe» (J. Zumstein, Il Vangelo secondo Giovanni, Torino, Claudiana, 2017, vol. 1, 376).
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Riconciliarsi con la solitudine della vita
La solitudine è un tema su cui conviene interrogarsi. Cerco di evitarla, la temo? Mi rendo conto dell’aiuto e delle ricchezze che può offrirmi? In effetti dovremmo avere nei suoi confronti un atteggiamento più positivo, piuttosto che escluderla dalla nostra vita. Abbiamo ancora più paura della solitudine quando non l’accogliamo e la respingiamo. Il processo che ci porta a farla nostra è graduale, prevede passi avanti e passi indietro.
La solitudine è un fenomeno molto ampio e multiforme: su di essa possiamo riflettere dal punto di vista della filosofia, della teologia, della psicologia, della medicina, dell’antropologia e così via. In essa possiamo anche vedere qualcosa di negativo o di positivo, una nemica o un’alleata. Questo articolo vuol essere un contributo affinché la solitudine smetta di apparire come un mostro spaventoso e si riveli una compagna benefica e feconda nelle tappe della vita.
Che cos’è la solitudine?
Esistono svariate definizioni della solitudine. Ewald W. Busse vede in essa «la coscienza di non avere un’integrazione significativa con altre persone o gruppi, la consapevolezza di essere escluso dal sistema di opportunità e ricompense a cui partecipano altri»[1].
I filosofi parlano di una solitudine ontologica: il fatto che nasciamo soli fa sì che la solitudine ci accompagnerà sempre, dal momento che nemmeno la convivenza con un partner per tutta la vita ci fa smettere di essere una persona singola e separata.
Carl Rogers, fondatore della psicologia umanistica, propone due definizioni illuminanti. Nell’articolo «Ellen West e la solitudine»[2] esamina in maniera lucida e profonda il caso di una donna suicidatasi perché non aveva ricevuto un adeguato sostegno terapeutico, e definisce la solitudine e le sue cause in questi due modi:
1) «È l’allontanamento che la persona ha da sé stessa, dalla sua esperienza reale». Ciò accade quando il corpo dice una cosa («Sono arrabbiato») e la mente ne dice un’altra («Un buon padre non deve arrabbiarsi e dare cattivo esempio») e si decide di respingere la prima. Quando qualcuno nega ciò che effettivamente sta provando, non è con sé, quindi avverte una solitudine, perché non sa accompagnarsi e ascoltarsi. È una solitudine che produciamo in noi, perché facciamo spazio a ragioni o ideali irriflessi.
2) «È l’assenza di almeno una relazione interpersonale in cui la persona possa comunicare ciò che in verità è e sente e di cui necessita». In altre parole, la solitudine si produce quando l’individuo non ha chi lo accetti e lo ascolti senza condizioni, ossia non intrattiene una relazione che gli consenta di essere sé stesso. Questa è la solitudine di chi deve indossare costantemente delle maschere per piacere agli altri ed evitare che lo respingano. In questo modo non è sé stesso davanti agli altri, e perciò si sente solo e separato.
Esistono anche diverse categorie di solitudine:
a) fisica: quando la persona si trova in un luogo isolato, senza nessuno vicino;
b) psicologica: quando la persona si sente separata da sé, non comprende la sua vera natura;
c) interpersonale: quando a qualcuno manca la persona che ama;
d) sociale: quando la persona si sente distaccata dalla famiglia, dalle tradizioni, dai valori e dalle radici;
e) esistenziale: quando si smarrisce il senso della vita e si arriva alla conclusione che l’universo è assurdo e che Dio è morto[3].
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La solitudine è un paradosso che contiene elementi contraddittori. Da un lato, l’isolamento fisico non comporta necessariamente solitudine; una persona infatti può essere in comunione con gli altri a distanza, sentirsi vicina a coloro che ama. Molto spesso la solitudine fisica aiuta a sentire la comunione che esiste con gli altri. Dall’altro lato, la compagnia fisica non implica di per sé la scomparsa della solitudine. Tra le persone sposate, ci sono tante donne e tanti uomini che provano un’enorme solitudine affettiva, pur avendo un’interazione fisica. Chi pensa che, sposandosi, porrebbe fine alla propria solitudine commette un grave errore.
L’origine della solitudine
Secondo la psicologia evolutiva (psicoanalitica), la solitudine proviene dal fatto che nell’utero eravamo una cosa sola con la madre, eravamo fusi (uniti) e provavamo un grande benessere, a cui successivamente siamo stati strappati. Nel parto si sente per la prima volta la solitudine; scompare quella comunione-fusione così piacevole, e allora, secondo alcuni psicologi, la persona comincia la ricerca – inconsapevole, nella maggior parte dei casi – volta a ritrovare quella sensazione nelle relazioni interpersonali.
Ma nel parto non ci sono soltanto perdita e mancanza, perché grazie a quella separazione ha inizio il lento processo dell’individuazione, dell’essere singolari. La via per essere sé stessi piuttosto che una persona che si adatta al gusto degli altri è lunga e tortuosa. Ci saranno le battaglie dell’infanzia, e soprattutto dell’adolescenza, combattute per far sì che la società, i genitori ci lascino essere come siamo.
Se mi arrendo e comincio a essere come mi vogliono gli altri, la comunità perderà il mio apporto diverso e singolare. Pertanto, sussiste una relazione costante tra comunione e individuazione. Non si può vivere senza uno di questi due elementi, perché siamo individui in comunità. La solitudine può aiutarci a costruirci come persone singolari e a entrare in comunione con gli altri così come siamo.
L’aspetto negativo della solitudine
Perché abbiamo tanta paura della solitudine? Perché quando non l’accettiamo, quando non la comprendiamo, essa ci fa male sotto molti aspetti. James Lynch avverte che la solitudine «può causare abitudini distruttive, cattiva salute e morte prematura»[4]. Essa stimola sentimenti di ansia, insicurezza, abbandono, e soprattutto fa sentire indifesi: tutti impulsi dolorosi e sgradevoli che preludono all’angoscia. Quest’ultima è la «compressione» dei pensieri in una sola direzione che si ripete ossessivamente. Alcune forme di solitudine contribuiscono a loro volta a far cadere in una depressione che toglie la voglia di vivere.
Molti giovani, per sfuggire alla solitudine di oggi, cadono in relazioni sessuali premature, spesso si ubriacano, usano droghe ecc. So, per esperienza personale mia e di altri celibi, che quando non accettiamo la solitudine che è insita nell’aver scelto liberamente la vita del celibato, inconsciamente cerchiamo di compensarla in molti modi, alcuni distruttivi (aggressività, ricatti affettivi, seduzione, manipolazione, abusi) e altri costruttivi (esercizio fisico, servizio nella missione). Il problema è la non consapevolezza, il non rendersene conto. Perciò conviene dire «pane al pane e vino al vino», chiamare «solitudine» la solitudine e «carenza» la carenza.
Sono di grande aiuto anche questi avvertimenti che il vescovo Pedro Casaldáliga rivolge ai giovani seminaristi: Sarà una pace armata, compagni, / questa lotta durerà tutta la vita; / perché il cratere della carne si chiude / soltanto quando la morte spegne i suoi bracieri. / Senza un fuoco nel focolare e con un sogno silenzioso, / senza nessun bambino sulle ginocchia da baciare, / sentirai il gelo che ti circonda / e molte volte sarai baciato dalla solitudine[5].
D’altra parte, la scarsa autostima contribuisce molto a rendere distruttiva la solitudine, dal momento che, se non si possiede una buona opinione di sé, il mondo si trasforma in una minaccia, più che in un’opportunità per realizzarsi. La scarsa autostima favorisce lo scoraggiamento, la disperazione, rende la persona più incline a guardare agli aspetti negativi, al fatalismo, all’attendersi che la soluzione giunga da fuori e non da dentro di sé.
Sebbene disponiamo di grandi progressi tecnologici in molti campi – ad esempio, la posta elettronica, i telefoni cellulari e portatili –, essi non ci hanno consentito di stabilire una comunicazione interpersonale più profonda. L’atto di chattare al computer si rivela doppiamente simbolico: da un lato, mostra la grande necessità che abbiamo di essere in contatto con qualcuno; dall’altro, evidenzia la necessità di comunicare in maniera protetta, nell’anonimato (con maschere, con soprannomi), per evitare danni. Sono i motivi per cui chi chatta non risolve in maniera sostanziale il problema della comunicazione e nemmeno la solitudine. Questo problema trova invece risposta quando tra le persone si genera un ambiente di sicurezza psicologica, in cui ciascuno sa che non verrà criticato dall’altro per ciò che comunica.
Davvero la solitudine ha un elemento di carenza, di non pienezza, di sensazione d’incompletezza, e per questo fa soffrire, e si cerca di evitarla a tutti i costi con il rumore e la presenza fisica di altri. La Bibbia afferma che non è bene che l’essere umano – uomo o donna – sia solo, perché siamo fatti per la comunione totale e piena, per l’amore e la donazione. Forse è proprio questo che tanti cercano nella fusione corporea che avviene con l’atto sessuale, e tuttavia senza una reale comunione la persona non si dona e, invece di superare la solitudine, l’accresce e la rende più profonda, fa spazio alla sensazione di isolamento e di abbandono.
Amica solitudine
La solitudine assunta e accolta favorisce la buona salute, l’autonomia e la capacità di stabilire feconde relazioni interpersonali. Essa è così necessaria che la sua assenza può distrarci da un compito molto importante nella vita: essere gli accompagnatori di noi stessi. Nel tentativo di spegnere il sentimento della solitudine, di cercare compagnia, non scopriamo che per l’appunto possiamo essere eccellenti accompagnatori di noi stessi.
Voglio condividere l’intuizione che ho ricevuto leggendo come Thomas Moore, in La cura dell’anima[6], reinterpreti il mito greco di Ulisse. Questi si congedò dalla moglie Penelope e dal figlio per intraprendere un lungo viaggio. Dopo 10 anni tornò nella sua casa e nella sua famiglia, che lo attendevano con ansia. La ragione del ritardo, afferma Moore, simboleggia il tempo che la persona impiega per trasformarsi nel proprio padre e protettore. In altre parole, a poco a poco e con un impegno costante riusciamo ad apprezzarci, a prenderci cura di noi stessi, a proteggerci, e smettiamo di giudicarci e di condannarci. Il nostro impegno dev’essere volto a trasformarci, verso noi stessi, in padri benevoli, protettivi, sicuri di sé.
Nella solitudine potremo vivere insieme a quel padre protettivo che possiamo essere, e sentircene accompagnati. Gli altri forse ci abbandoneranno, come spesso accade, ma dobbiamo coltivare la fondamentale consapevolezza che possiamo contare su noi stessi per tutta la vita, specialmente nella solitudine. Questa non è una meta facile da raggiungere, e nemmeno rapida, ma è possibile. Come Ulisse, ci impiegheremo molto tempo, ma torneremo a casa, sapremo abitare la nostra persona. Così comprenderemo che la solitudine è una condizione di possibilità della maturità umana. Essa aiuta a conoscere, senza evasioni, la propria ricchezza e singolarità, il proprio valore e i propri limiti. È necessario essere soli, in maniera fisica ed emozionale, per riuscire a confidare in noi stessi. Paradossalmente, è quando impariamo a essere soli che abbiamo maggiori possibilità di entrare in comunione con gli altri. È necessario imparare prima a vivere da soli per poi scegliersi liberamente un partner.
La solitudine è in intima relazione con la comunione. Come afferma Thomas Merton, il paradosso della solitudine sta nel fatto che il suo vero fondamento è l’amore universale, e la vera solitudine è l’indivisibile unità dell’amore[7]. Non ci può essere comunione se non c’è stata una solitudine che ci consenta di elaborare e far maturare la nostra persona, nel riconoscimento che in questo gli altri ci aiutano.
Solitudine nelle varie tappe della vita
La solitudine che ci accompagna nel corso della vita, e in ogni sua tappa, ha caratteristiche peculiari. Vediamo ora alcune sfide e opportunità insite in ogni tappa della vita umana.
– Infanzia. Sebbene non ne sia consapevole, il bambino va interiorizzando a poco a poco il fatto di essere una persona indipendente dagli altri e così avvia il processo d’individuazione. Qui inizia ad apprendere la separazione dai propri cari. Tuttavia egli ha un’enorme esigenza di sentirsi al sicuro, perché ancora non può proteggersi. Questa esigenza fa nascere la paura dell’abbandono; il timore che l’amore dei genitori possa venir meno è davvero destabilizzante in questa tappa. Il bambino ha bisogno di un ponte emozionale tra sé e quanti lo circondano, ha bisogno di essere aiutato ad avere autostima, a sentirsi importante per il semplice fatto di esistere in questo mondo, a essere singolare e diverso dagli altri bambini, a essere amabile e desiderabile di per sé, senza doversi sottoporre alle verifiche esigenti degli adulti. Se riceve incentivi all’autostima, gli saranno più facili il processo di separazione e l’essere sé stesso. Nell’infanzia, sono molto importanti l’immaginazione, la fantasia, che aiutano la persona a entrare in contatto con sé nel suo mondo interiore.
Il bambino ha anche bisogno di essere accompagnato per imparare a convivere con il dolore della vita. Nessuno può risparmiare il dolore agli altri, ma in compenso si può accompagnare il bambino in modo tale che il dolore sia istruttivo e, per quanto possibile, costruttivo. Si tratta di accompagnare il bambino quando si sente intimorito, solo, diverso dai compagni di scuola.
Podcast | COMBATTERE LA «SCHIAVITÙ DELLA CORRUZIONE» (RM 8,21).
Secondo alcuni studi, nella sola Ue, il costo della corruzione sarebbe compreso tra i 179 e i 990 miliardi di euro l’anno. Un problema che il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa definisce come una delle più gravi «deformazioni del sistema democratico». Ma quali strumenti abbiamo per combattere la corruzione? Lo abbiamo chiesto a Giuseppe Busia, presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione.
– Pubertà/adolescenza. In questa tappa si acuisce la solitudine conseguente alla sensazione di inadeguatezza che viene generata dai cambiamenti corporei ed emozionali. Nelle ragazze la mestruazione crea sensazioni nuove e spesso fastidiose o dolorose. Questo incide sensibilmente sul loro mondo emotivo.
In questa fase, l’essere umano non è più un bambino, ma non è ancora un adulto, e può sperimentare una sensazione di anormalità. Le relazioni con persone dell’altro sesso intimoriscono, e per questo i ragazzi si riuniscono fra loro, e lo stesso fanno le ragazze. Si passa molto tempo in solitudine, si prova una certa timidezza e insicurezza.
Insorge in forma più esplicita la ricerca di un’identità personale diversa da quella dei genitori e da ciò che essi si attendono dal figlio. Emergono una reattività, un vivere in senso contrario a ciò che viene indicato dai genitori, ma anche una ricerca interiore piena di sentimenti e di confusione emotiva. È la tappa in cui si è più vulnerabili, per la difficoltà fortemente avvertita di pervenire all’autostima e al coraggio per difendersi contro le imposizioni dell’autorità. Si accentuano la sensazione di solitudine e la necessità di non percepirla, ma di sopprimerla. Perciò un accompagnamento rispettoso e insieme fermo è assai importante in questa tappa, se si vogliono favorire l’identità personale distinta e l’autostima.
Le donne provano una grande quantità di sentimenti e attraversano una confusione emotiva; la stessa cosa accade agli uomini, che per di più devono confrontarsi con un modello sbagliato di ciò che si intende per «maschio» (uno che è sempre forte, sicuro, potente), e quindi reprimono i loro sentimenti e li sotterrano, senza che però essi scompaiano.
L’adolescente e i suoi familiari hanno bisogno di una pedagogia affettiva che li aiuti a riconoscere i sentimenti, a svilupparli in maniera costruttiva e a trovare nuovi ponti emozionali che diano loro sicurezza.
– Giovinezza e prima maturità. In questa tappa la solitudine dipende da come si sta risolvendo il passaggio dall’adolescenza, perché, nel caso che questa si prolunghi, si manifesta una forte necessità di autoaffermazione tramite il successo nell’uomo, o di essere desiderata nella donna. Al riguardo, è molto giusta l’affermazione di Merton: «La vita non va considerata un gioco nel quale tutti fanno puntate e qualcuno vince. Se t’importa troppo di vincere, non ti divertirai mai a giocare. Se sei troppo ossessionato dal successo, ti dimenticherai di vivere. Se hai appreso la vita esclusivamente come un trionfo, è probabile che tu l’abbia sprecata»[8].
Se invece l’adolescenza è stata vissuta bene, la solitudine si presenta come la necessità di avere un compagno, anche se non necessariamente nel matrimonio. Averlo è segno di normalità, è un rimedio. Non averlo comincia a causare preoccupazione e tensione. Si manifesta la tentazione di cercare qualcuno per non vivere in solitudine, ma chi dedica a questo tutte le energie si allontana dal processo dell’autoconoscenza.
– Maturità. Nella maturità e nel declinare della vita l’elemento decisivo è quello di aver svolto un lavoro previo riguardo all’accettazione di sé e all’autostima. In questa tappa avvengono spesso esperienze di dolori forti (divorzio o vedovanza), che ci mettono in contatto con la solitudine. Se non si è compiuto un lavoro previo, questo è il momento di accettare che le idee e la ragione non organizzino tutto nella vita e di lasciarsi aiutare a crescere. Ciò implicherà, ovviamente, un maggior grado di difficoltà, ma non è impossibile maturare e affrontare con successo la solitudine.
Nel suo libro Distacchi[9], Judith Viorst parla delle perdite necessarie che ci aiutano a essere persone in modo più pieno. Se il neonato che è fuso con la madre non se ne separa, non potrà avere una vita individuale, né essere sé stesso. Se non abbandoniamo un’immagine ideale di noi stessi, non potremo essere persone libere che convivono in pace con i loro errori. Quando perdiamo il partner o un familiare che amiamo, può presentarsi l’opportunità di essere più sicuri di noi stessi, più forti.
Aiuti per una solitudine feconda
Non ci sono soluzioni facili, non c’è nessuna ricetta. Ognuno di noi ha in sé stesso una sapienza che lo orienta a cercare la dimensione costruttiva della solitudine. E in ogni caso l’aiuto fondamentale viene dall’accettare e gestire tutti i sentimenti che proviamo, perché contengono gli strumenti che ci servono.
Non basta che riconosciamo i nostri sentimenti: dobbiamo imparare a esprimerli in accordo con le circostanze. La comunicazione vissuta in un ambiente sicuro è fondamentale per crescere senza maschere. Se investiamo tempo e sforzi per sviluppare le abilità comunicative della nostra interiorità, ne trarremo frutti di comunione e di solitudine accettata.
Rogers offre una pista interessante: la persona deve confidare in sé stessa e accogliere la propria esperienza emozionale, perché il corpo ha una sapienza interiore che salva. La fiducia in sé è fondamentale per vivere e richiede una forza interiore. Perciò uno dei doni più grandi che possiamo fare agli altri è aiutarli ad avere fiducia in sé, anziché alimentarne la sfiducia, dicendo loro quello che devono fare, dando loro ricette esistenziali, facendo loro da precettori. Se apparentemente risolvo all’altro i suoi problemi di vita, diventerò per lui indispensabile, e lui non si sforzerà di cercare le proprie risorse interiori. È necessario che io diminuisca affinché l’altro cresca.
Il discernimento spirituale contribuisce a metterci in contatto con il mondo interiore e ci fa apprezzare il valore dei sentimenti e dell’affettività. Sant’Ignazio, negli Esercizi spirituali, accompagna la persona nella discesa nell’interiorità, dove può conoscere le sue emozioni e può ascoltare in esse la voce di Dio.
D’altra parte, se vogliamo contribuire a far sì che la solitudine delle persone si attenui, dovremo abbandonare l’abitudine di classificarle e di giudicarle, per passare a un atteggiamento più accogliente verso di loro. Se adotto un modello di accettazione incondizionata degli altri, essi si mostreranno come sono, non dovranno nascondersi di continuo dietro maschere, e ci arricchiremo a vicenda. Solo l’accettazione incondizionata reciproca ci permette di integrare la solitudine e di crescere come persone. Quando possiamo contare su qualcuno che ci accetta come siamo, senza rimproverarci e senza condannarci, facciamo un’esperienza vitale, perché riusciamo ad aprire il nostro cuore, con le gioie e i dolori che ha, e questo ci fa entrare in una comunione profonda con gli altri.
La convinzione che l’altro ponga fine alla mia solitudine è un miraggio, equivale a inseguire una comunione totale e piena che non riusciremo mai a raggiungere. La psicologia ci dice che continuiamo a desiderare quella fusione originaria che abbiamo provato nel ventre materno e che la nostra vita è una ricerca continua. La fede ci dice che questa comunione piena e totale si realizzerà dopo la morte, nell’altra vita. Giorno dopo giorno riceviamo molte manifestazioni di tale comunione profonda attraverso le nostre relazioni interpersonali e l’incontro con Dio nella preghiera. Già viviamo la comunione, ma non ancora in pienezza. Dalla fede sappiamo che a impedirci di raggiungere la comunione piena è il peccato, il male, ma che nell’altra vita il male e il peccato non ci saranno più e ci sarà solo l’amore.
Dato che nel cuore umano c’è un anelito vitale alla trascendenza, alla relazione con Dio, questa esperienza è ricercata da molti, a volte in modo inconsapevole e in varie forme. Il cuore dell’uomo aspira alla trascendenza che non si esaurisce in ciò che è visibile e tangibile. La relazione con Dio ci fa maturare anche nell’accettazione della solitudine. Nella fede si vivono esperienze di grande pienezza e comunione, e se ne vivono anche altre in cui si avverte il vuoto e la solitudine. La relazione affettiva con Gesù Cristo è così profonda da suscitare un desiderio incessante di riviverla, e in questo modo diventa molto attraente.
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[1] E. W. Busse – E. Pfeiffer, Behavior and Adaptation in Late Life, Boston, Little Brown, 1969, 2.
[2] Cfr C. Rogers, «Ellen West and Loneliness», in H. Kirschenbaum – V. L. Henderson (edd.), The Carl Rogers Reader, New York-Boston, Houghton Mifflin, 1989, 157-168.
[3] Cfr L. E. Missinne, «The problem of loneliness», in Human Development,4, 2, 1983, 6-11.
[4] J. J. Lynch, «Warning: Living alone is dangerous to your health»,in U.S. News and World Report, 88 (1980) 47 s.
[5] P. Casaldáliga, Paz armada. Cfr B. Franguelli, «Pedro Casaldáliga: la profezia di un pastore poeta», in Civ. Catt. 2022 III 72-82.
[6] Cfr Th. Moore, La cura dell’anima, Torino, Frassinelli, 1997.
[7] Cfr Th. Merton, Amar y vivir. El testamento espiritual de Merton,Barcelona, Oniro, 1997, 27.
[8] Th. Merton, Amar y vivir…, cit., 20.
[9] Cfr J. Viorst, Distacchi. Gli affetti, le illusioni, i legami e i sogni impossibili a cui tutti noi dobbiamo rinunciare per crescere, Milano, Sperling & Kupfer, 2004.
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Jenny Erpenbeck. «Non c’è niente di meglio per una bambina che vivere alla fine del mondo»
«Abbiamo imparato – senza imparare, semplicemente stando in questa città e vivendo questa vita – che le cose a portata di mano non erano tutto ciò che c’era. Che c’erano altri mondi che si affacciavano sulla terra su cui camminavamo e nel cielo dove le nuvole attraversavano indisturbate entrambi i lati della città, a est e a ovest. Quando ero bambina, uno spazio vuoto non mi sembrava la prova di una mancanza, era uno spazio che gli adulti avevano abbandonato o proibito, e quindi ora, almeno nella mia immaginazione, apparteneva interamente a me»[1].
Così scrive Jenny Erpenbeck, una delle voci più interessanti della letteratura tedesca contemporanea. Nata a Berlino Est nel 1967, figlia e nipote di intellettuali, di autori e registi teatrali[2], la scrittrice si è formata nel tempo della «guerra fredda» e in quella parte del territorio tedesco che fino al 3 ottobre del 1990 sulle cartine del mondo era chiamata «Repubblica Democratica Tedesca» (DDR) e apparteneva al blocco dei Paesi satelliti dell’Unione Sovietica.
Dopo aver completato la sua formazione superiore e universitaria nell’ambito del mondo teatrale secondo le tradizioni familiari, Jenny inizia a lavorare come produttrice e regista. A partire dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, e poi in misura crescente, si dedica alla scrittura di testi in prosa e narrativa, divenendo via via più nota, sino a raggiungere fama internazionale, vincendo l’Independent Foreign Fiction Prize, nel 2015, con E non è subito sera; il Premio Strega Internazionale, nel 2017, con il romanzo Voci del verbo andare; e l’International Booker Prize, nel 2024, con Kairos, primo romanzo scritto in lingua tedesca a vincere questo prestigioso premio[3].
A partire dal primo romanzo, Storia della bambina che volle fermare il tempo, del 1999, la sua scrittura acquista sicurezza e varietà di toni, profondità di sguardo e capacità di cogliere le contraddizioni e le ferite della storia tedesca contemporanea, fino al più recente Kairos[4].
«Storia della bambina che volle fermare il tempo» e «Il libro delle parole»
Scrittrice impegnata e sensibile, Erpenbeck nei suoi romanzi affronta i grandi temi della storia e della politica contemporanee. Nel primo romanzo, Storia della bambina che volle fermare il tempo, racconta la storia di una ragazza quattordicenne che viene trovata di notte per strada senza memoria, con un secchio vuoto in mano. Portata in un orfanotrofio, inizia a frequentare la scuola, chiusa in sé stessa dal feroce intento di rendersi invisibile, occupando l’ultimo posto di ogni situazione[5] – quello a cui nessun altro ambirebbe –, e ci offre una situazione parabolica che si presta a molteplici letture: psicologica, politica e fantastica[6].
La svolta finale, che non riveliamo per non togliere il gusto della sorpresa al lettore, pone la questione della trasformazione, che costituisce un tema caro a Erpenbeck. Il discorso con cui la scrittrice accetterà nel 2017 il Premio Strega Internazionale sarà un fine commento del libro delle Metamorfosi di Ovidio[7]. In quell’occasione lei affermerà: «[Ovidio] ci mostra come tutte le cose, tutte le sostanze, tutte le creature, siano intrecciate le une con le altre»[8].
Con il secondo romanzo, Il libro delle parole, la scrittrice si cala nel contesto della dittatura militare che governò l’Argentina tra il 1976 e il 1983. Erano gli anni in cui decine di migliaia di uomini e donne venivano arrestati, torturati e fatti scomparire dai militari, dando vita al tristissimo fenomeno dei desaparecidos. Lo sguardo è quello di una donna che dà voce a sé stessa bambina e, ricordando, recupera il senso delle parole più semplici della sua quotidianità di fanciulla – «mamma», «papà», «palla», «coltello», «corrente» – e della stortura manipolatrice che scopre di aver subìto nel tempo: «Ci sono molti modi per perdere quella che generalmente chiamiamo innocenza. Ma tutte queste scoperte hanno una cosa in comune: improvvisamente leggiamo il passato in modo diverso»[9].
A proposito del legame che unisce i primi due romanzi, Erpenbeck scrive: «Entrambi i libri hanno richiesto l’inclusione di queste due prospettive, quella dell’adulto e quella del bambino, e senza queste due prospettive non avrei mai scritto nessuno dei due libri. […] Ma la prospettiva del bambino può avere questo effetto solo quando viene considerata rispetto a tutto ciò che al bambino non è mai stato detto, cioè quando la prospettiva stessa può essere vista. In altre parole: quando la prospettiva del bambino è già stata persa»[10].
«Di passaggio» e «E non è subito sera»
Con i due romanzi successivi la scrittrice affronta i grandi rivolgimenti della storia che hanno coinvolto l’Europa, e in particolare il mondo austro-tedesco, nell’arco del XX secolo, usando blandamente memorie e personaggi della propria storia familiare, che ha nelle sue linee genealogiche anche un’ascendenza ebraica nei trisavoli paterni.
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Di passaggio ed E non è subito sera hanno una struttura in parte analoga. Con il primo romanzo[11], Erpenbeck racconta la storia di una casa di vacanza che si trova sulle rive di un lago di cui non viene mai detto il nome, ma che si intende relativamente vicino alla città di Berlino e che per molti anni fu il luogo di riposo della madre e della scrittrice bambina. Dall’acquisto del terreno e dalla costruzione della casa a opera di un architetto che regala l’immobile alla seconda moglie, vediamo svolgersi i decenni della storia tedesca: l’ascesa del partito nazionalsocialista, la guerra, l’arrivo delle truppe russe, la confisca nel nuovo assetto di proprietà collettiva con la nascita della Repubblica Democratica Tedesca e l’assegnazione a nuovi inquilini usufruttuari; infine, la nuova confisca degli anni Novanta per la restituzione della proprietà agli eredi dell’antica proprietaria, dopo la caduta del Muro di Berlino e la cancellazione del quarantennio comunista. Qui si inserisce, a un certo punto, anche la storia di una famiglia di vicini di casa, ebrei, con i quali Erpenbeck evoca l’ombra oscura dell’Olocausto.
Di passaggio è composto da 22 brevi capitoli. Si raccontano il punto di vista e la storia di 11 personaggi legati alla casa in 11 brevi episodi, quasi sospesi nel tempo, che hanno come protagonista il giardiniere. Nel variare dei proprietari e usufruttuari della casa, quest’uomo senza nome e noto solo per l’appellativo «giardiniere» rimane un punto fisso. Si prende cura del giardino, delle piante e dell’ambiente esterno alla casa. L’accento semplice e piano di queste sezioni rimanda a toni quasi biblici, nell’immagine dell’uomo che si prende cura del giardino, come presenza silenziosa e discreta. Ci piace cogliere in queste pagine l’eco dell’immagine di Dio al lavoro, come vediamo nella Contemplatio ad amorem degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio.
E non è subito sera[12], a nostro parere molto più maturo e complesso, costruisce l’affresco del tempo che passa in una struttura ancora più raffinata. In questo romanzoviene narrata una vita spezzata in cinque parti, che costituiscono nell’insieme un unico arco biografico, ma al tempo stesso rappresentano cinque vite distinte, essendo l’una trasformazione dell’altra. Protagonista è una donna – nella quale possiamo vedere i tratti della nonna paterna di Erpenbeck, la scrittrice Hedda Zinner – che alla fine di ogni capitolo muore. Così, alla fine del primo capitolo, Anna muore all’età di appena otto mesi per un malore notturno; alla fine del secondo, muore diciassettenne a Vienna per una pena d’amore; nel terzo, a Mosca, muore vittima delle purghe del partito comunista; nel quarto, nella Germania dell’Est, per un banale incidente domestico; infine, nel quinto, muore novantenne, amorevolmente accudita in una casa di riposo di Berlino, tre anni dopo la caduta del Muro di Berlino. Nello spazio tra un capitolo e l’altro, un intermezzo dà voce al narratore onnisciente, che si chiede cosa sarebbe cambiato se piccoli dettagli della vita fossero mutati: una diversa strada imboccata a un bivio, un lieve ritardo, una piccola distrazione o, viceversa, un attimo di attenzione in più… E non è subito sera è un’opera di multiverso letterario.
Entrambi i romanzi sono sobri nel numero di pagine (poco più di 200 nelle traduzioni italiane). Non si tratta perciò di narrazioni fluviali. La maestria della scrittrice si rivela nella capacità di cogliere con pochi tratti le atmosfere delle epoche, adeguando anche lo stile della scrittura, che diventa mobile e plastica senza cadere nello sperimentalismo. Sono pagine che colgono dettagli di vita quotidiana e si intrecciano a sezioni di prosa lirica. La tecnica dei repentini cambi di punti di vista si compone con dialoghi senza pronomi, che solo il contesto permette di collocare. La prolessi e la ripetizione di interi periodi si affiancano all’accostamento vertiginoso dei piani temporali. Le intuizioni sapienziali emergono dalla pagina, nella quale gli spazi bianchi, gli a capo e le interruzioni contano forse anche più delle parti scritte.
Con il passare del tempo, di libro in libro[13], matura e muta il carattere della protagonista. Cambia ed evolve anche l’esistenza degli altri personaggi ricorrenti della famiglia. Erpenbeck persegue e ottiene una condensazione notevolissima del tempo. Qui sembra che valga il principio fisico imparato dal padre ed enunciato dalla scrittrice in riferimento alla scrittura narrativa: «La trasformazione di una quantità [di vita vissuta] in una nuova qualità»[14].
Anche E non è subito sera fa i conti con i drammi della storia tedesca: la scomparsa dell’Impero austro-ungarico e la migrazione nel Nuovo Mondo, la crisi economica degli anni Trenta, l’Olocausto degli ebrei, la Seconda guerra mondiale, le purghe con le quote di arresti programmati all’interno del partito comunista a Mosca alla fine degli anni Trenta, il tempo della DDR, la riunificazione delle due Germanie. Nel romanzo c’è un atteggiamento di profonda meditazione sul tempo, punteggiato di tanto in tanto dall’immagine biblica del filo d’erba e dalla citazione del versetto 2 del Salmo 84: «Quanto sono amabili le tue dimore, Signore degli eserciti». Tutto questo in modo discreto dà al romanzo un respiro più ampio, potremmo dire religioso, sebbene la scrittrice si dichiari non credente.
«Voci del verbo andare» e «Kairos»
Con il romanzo successivo, Voci del verbo andare, Erpenbeck apre nuove finestre sull’attualità del suo Paese. Prendendo spunto da una vicenda reale – la protesta di un gruppo di immigrati nella Oranienplatz di Berlino, nel 2012, animata dallo slogan We become visible[15] –, la scrittrice compone un romanzo dal tono quasi giornalistico, con una prosa dallo stile più tradizionale, per raccontare la storia di Richard, un professore di filologia romanza, in pensione e vedovo da quattro anni, che decide di intervistare alcuni immigrati che sono stati trasferiti dalla piazza in una casa di riposo dismessa.
Ascoltando le storie di questi uomini, molti dei quali sono giovani appena maggiorenni, Richard scopre vite segnate da grandi dolori e profonde ferite. Gli stranieri vengono «resi visibili», escono dall’anonimato, assumono un volto, un nome: Rashid[16], Ithemba, Rufu, Karon, Osarobo e altri ancora. Questo cambiamento di prospettiva porta Richard a un coinvolgimento crescente, che gli permette di andare oltre i luoghi comuni e le frasi fatte che l’opinione pubblica ripete nelle conversazioni da salotto o nei commenti online dei social.
I riferimenti alla cultura classica, di cui per una vita Richard si è imbevuto, si confrontano con le esistenze reali di questi uomini. I primi acquistano spessore e contemporanea autenticità, le altre si illuminano e diventano eroiche. Le chiacchierate con gli amici di un tempo, con cui si è condivisa la vita a Berlino Est, rievocano il ricordo di altri muri e confini, di aspirazioni di giustizia e libertà. Nel discorso tenuto nel 2018 presso l’University of Oklahoma, Erpenbeck, riferendosi a questo romanzo, ha affermato che le vite degli immigrati sono «punti ciechi», angoli morti fuori dalla nostra visuale. «Ascoltare è un’arte – è un rischio –, perché quei punti ciechi nascondono la nostra colpa e impotenza». Le vite segnate dalle avversità suscitano paura ed evocano uno spettro: che la «disgrazia» in quanto tale non sia stata eliminata dal nostro perfetto universo occidentale e che sia persino contagiosa.
Queste storie rivelano, in un modo diverso da quello dei romanzi precedenti, la precarietà della vita e il fondo di imponderabile casualità che ci divide da coloro che vivono ad altre latitudini[17]. Il libro costituisce una delle testimonianze più forti e al tempo stesso delicate sul tema dell’immigrazione[18]. Mette a fuoco, nel modo della narrazione, cortocircuiti legali e sottili meccanismi burocratici. Il Trattato europeo Dublino II, che vorrebbe proteggere e promuovere l’accoglienza degli immigrati, di fatto viene usato, anche politicamente, per escludere e respingere.
Del 2021 è il romanzo Kairos, di cui abbiamo già parlato in questa rivista[19]. Per una serie di banali coincidenze, un uomo cinquantenne e una giovane ragazza si incontrano, nel luglio del 1986, in un autobus a Berlino Est. È il loro kairos, «tempo opportuno». Kairos è il dio greco capriccioso, che segna la vita degli uomini con eventi determinanti. Ne nasce una relazione clandestina e tormentata. L’uomo è sposato, e la differenza di età di oltre trent’anni fra i due amanti segna il ritmo e i modi degli incontri.
Questi sono anche gli ultimi anni della DDR; il clima politico internazionale è mutato, e quando, il 9 novembre del 1989, cade il Muro che divide la città di Berlino, il cambiamento coglie tutti di sorpresa. La Repubblica Democratica Tedesca, che viveva una vita autonoma da quarant’anni, si sfalda nel giro di pochi mesi e cessa di esistere, implodendo su sé stessa.
Nella parte finale del libro, colpiscono le descrizioni della perdita di valore degli oggetti quotidiani[20], delle svendite nei negozi di Berlino Est, delle modalità di licenziamento anonime e brutali nelle grandi strutture economiche, industriali e amministrative[21], dell’annessione giuridica da parte della Germania dell’Ovest[22], fondendo due Paesi con un tratto di penna – la promessa di una nuova Costituzione viene smentita nei fatti, e quella della Germania occidentale automaticamente viene estesa a quella orientale – e il racconto della scoperta del mondo consumistico, che però presto rivelerà il suo aspetto vacuo[23].
Da molti critici Kairos è considerato uno dei romanzi più interessanti e capaci di cogliere e di raccontare questo fondamentale passaggio storico. Lo fa usando una storia d’amore che, dopo un primo periodo di esaltazione e pieno coinvolgimento, si ammala, diviene dolorosa, cupa, inquisitoria, e infine si sfalda sotto il peso delle proprie tortuosità e involuzioni. Come un Giano bifronte, il romanzo può essere letto nel senso che la relazione tra i due amanti è lo specchio della vicenda che avviene nella Grande Storia; oppure, inversamente, si possono leggere la caduta del Muro e la fine dello Stato come amplificazione della fine della storia d’amore.
Alcune piste di indagine
L’opera di Erpenbeck, come si può facilmente intuire dalle brevi presentazioni che abbiamo fatto dei suoi romanzi, è complessa, articolata, potente, offre molteplici spunti di riflessione e genera diverse tracce di indagine. Un semplice elenco può dare l’idea dello spettro e dei livelli di lettura: i temi del tempo, dell’identità e dei confini.
Sebbene non ne abbiamo ancora parlato in questo articolo, il ruolo della musica nell’opera di Erpenbeck è fondamentale. Per la scrittrice, la musica è «tempo ed aria». Ci sembra che essa fornisca una chiave di lettura dello stile di scrittura della sua prosa. Vi sono poi i temi del silenzio e di ciò che non appare, e i temi delle trasformazioni. Nell’arco di un articolo che necessariamente può cogliere solo alcuni aspetti tralasciandone molti altri, evidenziamo, con brevi cenni, le riflessioni della scrittrice che forniscono alcune chiavi interessanti per rileggere la caduta del Muro e la riunificazione tedesca.
La perdita del senso della precarietà
La caduta del Muro e la riunificazione tedesca è un tema che ha risvolti personali sottili e profondi e che nella produzione letteraria di Erpenbeck acquista spazio e consapevolezza crescenti e un’elaborazione più focalizzata. La scrittrice dà una rappresentazione del periodo della riunificazione sia in Di passaggio sia in E non è subito sera, quando dedica gli ultimi capitoli di queste due opere alla descrizione del tempo post-caduta, cogliendo il clima e gli effetti di quell’evento. In parte esso viene tematizzato anche in Voci del verbo andare, quando il protagonista Richard si confronta con il gruppo degli amici di sempre su quanto sia cambiata la loro esistenza dopo la caduta del Muro: essi, intellettuali di Berlino Est, nell’oggi di una Germania capitalista che ha vinto e profondamente cambiato i paradigmi valoriali nei quali erano cresciuti.
In Kairos,la caduta del Muro e la scomparsa della DDR vengono focalizzate in modo chiarissimo, perché costituiscono l’oggetto materiale della narrazione. Katharina, la protagonista del romanzo, reagisce così all’unificazione della città: «Le ci sono volute tre settimane per mettere piede in quella parte della città, che dalla sera alla mattina ha fatto la sua comparsa accanto ai quartieri a lei familiari. L’elemento estraneo nel corpo della propria città, lo stesso nome, la stessa lingua, simili persino le case, e tuttavia una città straniera. Un secondo cuore, il doppio battito del cuore, uno di troppo»[24].
Erpenbeck scrive: «Nella società in cui sono nata […] avevo imparato a sperare, a convivere con la provvisorietà delle cose, a conoscere meglio e ad aspettare»[25]. Dopo aver a lungo atteso la libertà, essa arriva, ma suscita domande inattese: la libertà di viaggiare («Ma potremo permettercelo?»), la libertà di opinione («E se a nessuno interessa la mia opinione?»), la libertà di comprare («Ma cosa succede quando abbiamo finito di fare shopping?»). La libertà attesa giunge, ma la scrittrice scopre che «la libertà non è stata data gratuitamente, ha avuto un prezzo, e il prezzo è stato tutta la mia vita fino a quel momento»[26].
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Secondo alcuni studi, nella sola Ue, il costo della corruzione sarebbe compreso tra i 179 e i 990 miliardi di euro l’anno. Un problema che il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa definisce come una delle più gravi «deformazioni del sistema democratico». Ma quali strumenti abbiamo per combattere la corruzione? Lo abbiamo chiesto a Giuseppe Busia, presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione.
Erpenbeck testimonia il senso dello smarrimento provato quando scopre, nei racconti del «mondo occidentale», che la vita quotidiana vissuta da lei fino a quel momento non era più «vita quotidiana», ma un’avventura alla quale tutti i berlinesi erano sopravvissuti; che le abitudini banali di una vita all’improvviso venivano trasformate in attrazione turistica. Con dolente stupore constata che, «da quel momento, la mia infanzia apparteneva a un museo»[27].
Il segno più evidente del cambiamento è stata la profonda trasformazione urbanistica avvenuta nella parte orientale della città di Berlino. Essa ha comportato la distruzione di palazzi, scuole, magazzini, case e negozi. Erpenbeck parla di azzeramento di luoghi nei quali lei era cresciuta e mostra come tutto questo abbia fatto nascere il senso del lutto per ciò che era stato e ora non è più. La scrittrice reclama il diritto a essere triste e nostalgica[28].
La riflessione diventa più profonda quando Erpenbeck evoca la cancellazione del senso di precarietà come componente dell’esperienza umana. Il «nuovo» paradossalmente è un minus, perché comporta la cancellazione delle cose incomplete o rotte come tali. La rimozione di quelle parti della città che per le vicende della storia recente – la Seconda guerra mondiale e la costruzione del Muro – erano rimaste visibilmente «interrotte», non incorporate nell’intero è la perdita di umanità e di umiltà: «Nei luoghi dove l’erba semplicemente cresce, dove la spazzatura si accumula, l’ordine è messo in prospettiva. E considerando che ciascuno di noi è mortale, non è mai una cattiva cosa tenere questa prospettiva a mente»[29].
Per la scrittrice, questa dimensione è importante. La ritroviamo in pagine bellissime e struggenti di E non è subito sera, nelle quali viene citata l’immagine salmica della vita dell’uomo come un filo d’erba[30]. Il Muro è caduto, ma in qualche modo rimane ancora. Di un personaggio di E non è subito sera Erpenbeck scrive: «Nel frattempo il confine, che una volta lo separava dall’Ovest, da un pezzo è stato abbattuto, ma per lui non è scomparso, bensì – questa almeno la sua impressione – scivolato verso l’interno, e adesso separa ciò che lui era da ciò che dovrebbe o potrebbe essere»[31]. In Kairos si esprime così: «E anche l’imperfezione, che è cara a Katharina forse perché più di tutto si avvicina alla verità. In sua vece subentrerà quanto prima la perfezione, destinata a cancellare o a incorporare ciò che non è alla sua altezza: dai vestiti fatti in casa fino agli edifici ammalorati nel quartiere di Prenzlauer Berg, dal selciato pieno di buche fino alle parole che indicano cose di cui nessuno avrà più bisogno. Le superfici lisce e impeccabili renderanno obsoleti i pensieri relativi a tutto ciò che è transitorio»[32].
La quotidianità di un tempo diventa oggetto da museo
In vari discorsi della scrittrice emerge chiaramente la difficoltà complessiva di rielaborare la memoria di un tempo. Gli anni passati prima della caduta del Muro sono carichi di pregiudizi negativi: «In realtà, però, Berlino Est probabilmente non era poi così più grigia dell’Ovest, almeno questa è la mia impressione ora che conosco l’Ovest, le uniche cose che mancavano nell’Est erano i manifesti pubblicitari e le insegne al neon che decoravano i muri bucherellati o nascondevano i lotti bombardati»[33].
È un tempo entrato nei musei, una vita quotidiana trasformata in «sfida» e «avventura», è un mondo dipinto di grigio; in realtà, per chi l’ha vissuto, è solo un tempo di vita e nient’altro: «Vista dall’esterno, la nostra vita quotidiana sotto il socialismo poteva sembrare esotica, ma noi non eravamo una meraviglia o un orrore a noi stessi, eravamo il mondo quotidiano, e in quel mondo quotidiano noi eravamo tra di noi»[34].
Erpenbeck arriva a dire che la caduta del Muro ha trasformato gli abitanti dell’ex DDR in cittadini di serie B della nuova Germania[35]. Il simbolo della divisione per eccellenza, il Muro, per la scrittrice bambina non possedeva il significato drammatico che molti gli hanno attribuito. Nella sua memoria esso non rappresentava una ferita nella città, ma piuttosto un limite fisico che dava alla parte da lei abitata il clima tranquillo del paese di provincia. Per una bambina, lei scrive, «non c’è niente di meglio che crescere alla fine del mondo»[36]. Nella citazione con cui abbiamo aperto l’articolo, per Erpenbeck il Muro era segno tangibile che ciò che si vede non è tutto ciò che esiste, che l’irraggiungibile al di là del Muro era lo spazio posseduto dalla sua fantasia di bambina, non una mancanza. Lo spazio vuoto, il luogo delle domande, non delle risposte. Tutto questo ora non c’è più. Ci sono oggetti da consumare.
Il senso della perdita della semplicità imperfetta, della sottrazione subita ci sembra emerga nella narrazione in tutti quei punti in cui l’attenzione è rivolta agli oggetti. La fisicità degli oggetti di uso quotidiano è infatti un tema ricorrente, quasi un topos letterario di Erpenbeck. Lo si intuisce fin dal 2001, quando la scrittrice compone i racconti raccolti nell’antologia Tand,che in italiano si potrebbe tradurre Cianfrusaglie[37]. Di oggetti che costituiscono il filo rosso delle vite dei personaggi si ha una chiara evidenza in E non è subito sera. In Di passaggio sono addirittura tutta la casa e il mobilio a costituire il testimone che passa di generazione in generazione, di personaggio in personaggio, fino alla conclusione, quando la casa viene demolita, metafora di un mondo-che-fu, e non rimangono nemmeno le macerie. In Kairos, la narrazione prende spunto dall’incontro tra due scatoloni e due valigie che si affiancano, piene di lettere e diari, ma anche di ricordi del passato, che possono anche essere intesi come i detriti di un naufragio: «Un giorno, a inizio novembre, si siede sul pavimento e comincia a esaminare, foglio dopo foglio, cartellina dopo cartellina, il contenuto del primo scatolone e poi quello del secondo. Non è altro che un cumulo di macerie. I reperti più vecchi risalgono al 1986, i più recenti al 1992 […]. Anche lei ha una valigia piena di lettere, copie di lettere su carta carbone e souvenir vari […]. Molto tempo prima le carte, quelle nello scatolone di lui e quelle nella valigia di lei, avevano dialogato fra loro. Adesso dialogano con il tempo»[38].
L’esigenza di scrivere per trovare le parole
La caduta del Muro ha comportato anche lo svuotamento di senso delle parole[39]. Quando l’esperienza a cui le parole si riferiscono è diversa tra chi è vissuto nell’Est e chi nell’Ovest, pur parlando la stessa lingua tedesca, come si può pensare di riferirsi alla stessa realtà? «Le persone che pensano di parlare la stessa lingua che parlo io, cioè il tedesco, risponderanno a queste frasi, queste frasi saranno attaccate, messe in dubbio, discusse. Ma non si può discutere di esperienze e sensazioni. Esse hanno una morale propria, del tutto individuale, e si collocano al di là della conoscenza che acquisiamo in seguito. Sono semplicemente lì»[40]. Erpenbeck usa l’immagine dell’iceberg: la punta che emerge sopra il livello del mare è la parola; la parte sommersa, più grande, segreta, invisibile, è l’esperienza[41].
La scrittrice afferma che è stata proprio questa esperienza di scarto (come differenza e distanza) ad averla spinta a scrivere: «Se la lingua che sapete parlare non è sufficiente, questo è un ottimo motivo per iniziare a scrivere. Per quanto paradossale possa essere: l’impossibilità di esprimere a parole ciò che ci accade è ciò che ci spinge verso la scrittura»[42]. E aggiunge che ogni volta che non è stata capace di capire qualcosa, che non è stata capace di metterlo in parole, è allora che ha iniziato a scrivere, perché la letteratura è simile a un «afferrare» qualcosa che sta in un campo aperto, non totalmente sfuggente, non totalmente maneggiabile: «Quindi è uno stato intermedio tra la consapevolezza che qualcosa c’è e l’ignoranza di cosa sia questo qualcosa»[43].
Erpenbeck scrive anche: «Da allora esiste un confine tra le due metà della mia vita: un confine fatto di tempo, tra la prima metà della mia vita, che è stata trasformata in Storia dalla caduta del Muro e dal crollo dello Stato tedesco orientale, e la seconda metà, che è iniziata nello stesso momento. Senza questa esperienza di transizione, da un mondo a un altro, probabilmente non avrei mai iniziato a scrivere, questo mi è chiaro oggi. La mia scrittura è iniziata con riflessioni sui confini, riflessioni su come cambiamo nel corso della nostra vita, volontariamente o meno, riflessioni su cosa sia l’identità, e su quanto possiamo perdere senza perdere noi stessi»[44].
Conclusione
Erpenbeck è una scrittrice importante nell’attuale contesto letterario. Cresciuta e formatasi nella Germania dell’Est, ha vissuto in prima persona la profonda trasformazione avvenuta con la caduta del Muro di Berlino e della riunificazione delle due Germanie. La scoperta dell’incapacità di esprimere a parole il senso profondo di quel passaggio l’ha spinta a dedicarsi alla narrativa, rivelando nel tempo una capacità straordinaria di raccontare il tempo e il suo passaggio nella vita delle persone.
Dalla storia del XX secolo, attraverso figure letterarie ispirate alla propria famiglia, è giunta a raccontare la contemporaneità, con impegno civile e grande sensibilità letteraria, che l’ha resa capace di aprire delle finestre sul mistero della vita e, ci sembra, anche sul mistero di ciò che ci trascende, di Dio e della relazione che lega l’uomo e la donna di fede a Dio, pur essendo lei non credente. La sua opera ci sembra testimoniare come la letteratura sia capace – quando «condensa» l’umano in parole che nascono dall’ascolto rispettoso e delicato – di aperture sul mistero della vita, nella sua precarietà e bellezza.
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[1] J. Erpenbeck, Not a Novel. Collected Writings and Reflections, London, Granta Book, 2021, 33 s. Tutte le citazioni di questo libro riportate nell’articolo sono tradotte da noi.
[2] La madre era Doris Kilias, apprezzata traduttrice dall’arabo; ha tradotto in tedesco l’opera del Premio Nobel Nagib Mahfuz. Il padre è John Erpenbeck, fisico, filosofo e scrittore. I nonni paterni sono Fritz Erpenbeck (scrittore, pubblicista e attore) e Hedda Zinner (scrittrice, attrice, giornalista, regista), che ricevette premi importanti nella Repubblica Democratica Tedesca. La storia familiare costituisce un bacino di riferimenti, ricordi e spunti di racconto almeno in due romanzi importanti di Erpenbeck: Di passaggio, del 2008; E non è subito sera, del 2012.
[3] I Premi vinti dall’autrice sono molto più numerosi. Molteplici quelli che le sono stati assegnati per l’opera intera, come ad esempio il Premio Hans Fallada nel 2014 o il Premio Thomas Mann del 2016.
[4] Ad oggi i testi tradotti in italiano sono: Storia della bambina che volle fermare il tempo, del 1999 (Sellerio, 2020); Il libro delle parole, del 2004 (Sellerio, 2022); Di passaggio, del 2008 (Sellerio, 2019); E non è subito sera, del 2012 (Zandonai-Feltrinelli, 2013); Voci del verbo andare, del 2015 (Sellerio, 2018); Kairos, del 2021 (Sellerio, 2024). La traduttrice di tutte le opere di Erpenbeck in Italia è Ada Vigliani.
[5] Nello scritto How I write, del novembre del 2006, Erpenbeck rivela come il romanzo sia nato anche da una ricerca sul campo. Volendo guardare al mondo dei ragazzi con gli occhi dell’adulto, con l’aiuto e la collaborazione di un dirigente scolastico informato, la scrittrice, molti anni prima, trascorse tre settimane in un liceo, spacciandosi per diciassettenne, libera di osservare e partecipare alla vita scolastica. All’epoca lei aveva 27 anni, ma l’aspetto giovanile le permise di passare inosservata. Dopo tre settimane, avendo raccolto materiale sufficiente, smise di frequentare la scuola e le lezioni. Cfr J. Erpenbeck, Not a Novel…, cit., 62 s.
[6] Cfr ivi, 72 s.
[7] Troviamo un riferimento esplicito a Ovidio anche nel romanzo Voci del verbo andare, quando il protagonista Richard ricorda l’elaborato sul testo delle Metamorfosi scritto da una giovane studentessa. Cfr Id., Voci del verbo andare, Palermo, Sellerio, 2018, 17.
[8] Id., Not a Novel…, cit., 155.
[9] Ivi, 104.
[10] Ivi, 102.
[11] Il titolo originario in tedesco è Heimsuchung. Questa parola si compone di due termini: Heim e suchen, letteralmente «casa» e «cercare». Una rozza ma evocativa traduzione potrebbe essere: «Alla ricerca della casa», «Cercando una casa». Con Heimsuchung si indica in tedesco anche la visita di Maria a Elisabetta nel Vangelo di Luca.
[12] Tra gli altri riconoscimenti, questo romanzo ha ricevuto nel 2013 anche il Premio Evangelische Buchpreis, assegnato dall’Associazione tedesca delle biblioteche protestanti. Una nuova edizione del libro, per i tipi di Sellerio, è prevista nei prossimi mesi.
[13] E non è subito sera è diviso in libri, non in capitoli.
[14] Id., Not a Novel…, cit., 74.
[15] Cfr Id., Voci del verbo andare, cit., 31.
[16] Anche in questo romanzo la scrittrice prende spunto dal personale coinvolgimento nella vicenda reale. Il personaggio di Rashid è ispirato dalla figura dell’immigrato nigeriano Bashir Zakaryau, personalità di riferimento nella protesta di Oranienplatz, morto nell’ottobre del 2016, dopo tante battaglie civili, per un attacco di cuore. La scrittrice pronunciò il discorso di commiato ai suoi funerali. Cfr Id., Not a Novel…, cit., 169-172.
[17] Cfr ivi, 179.
[18] Tra i molti scrittori italiani che hanno dato voce a storie di immigrazione, possiamo ricordare Giuseppe Catozzella, autore di Non dirmi che hai paura, del 2014, con cui vinse quell’anno il Premio Strega Giovani, e Melania Mazzucco, autrice di Io sono con te. Storia di Brigitte, del 2016.
[19] Cfr D. Mattei, «Kairos», in Civ. Catt. 2025 I 356-358.
[20] Cfr J. Erpenbeck, Kairos, cit., 364.
[21] Cfr ivi, 370-374.
[22] Cfr ivi, 352-356; 360 s.
[23] Cfr ivi, 362 s.
[24] Ivi, 345.
[25] Id., Not a Novel…, cit., 22.
[26] Ivi.
[27] Ivi.
[28] Trasposizione narrativa di questo processo di demolizione è l’epilogo del romanzo Di passaggio. Cfr Id., Di passaggio, Palermo, Sellerio, 2019, 212-214.
[29] Id., Not a Novel…, cit., 27.
[30] Cfr Id., E non è subito sera, Milano, Zandonai Feltrinelli, 2013, 153; 170; 181.
[31] Ivi, 248.
[32] Id., Kairos, cit., 350.
[33] Id., Not a Novel…, cit., 36.
[34] Ivi, 36.
[35] Cfr ivi, 181.
[36] Ivi, 3.
[37] Questo testo è ad oggi l’unica opera di prosa non ancora tradotta in italiano.
[38] Id., Kairos, cit., 11.
[39] Nel romanzo Il libro delle parole vi sono diverse pagine dedicate al valore nominale delle parole. Esse indicano oggetti, ma non sono gli oggetti. Erpenbeck dà a questo proposito una bella rilettura della creazione da parte di Dio, quando dice che le cose sono «cresciute» dentro le parole pronunciate da Dio.
[40] Id., Not a Novel…, cit., 78.
[41] Cfr ivi.
[42] Ivi, 79.
[43] Ivi, 80.
[44] Ivi, 174.
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Il Papa di Javier Cercas
Nel maggio 2023, Lorenzo Fazzini, responsabile editoriale della Libreria Editrice Vaticana, d’accordo con Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero per la comunicazione, telefona allo scrittore spagnolo Javier Cercas e gli chiede se accetterebbe di scrivere un libro su papa Francesco, o più esattamente di accompagnarlo nel suo imminente viaggio in Mongolia. Così interpellato, l’autore spagnolo di fama mondiale gli domanda: «Ma voi sapete che io sono ateo e anticlericale?». «Sì, certamente, ed è questo sguardo dall’esterno che ci interessa», è stata la risposta.
Inizialmente reticente, Cercas poi ne parla a sua moglie e ai suoi amici, e tutti lo invitano ad accettare e a vivere questa esperienza unica. Egli si decide a dire «sì», mettendo una condizione non negoziabile: avere cinque minuti per porre al Papa una domanda in privato. «Quale?», gli chiede un po’ preoccupato Ruffini. «Ciò che egli crede sulla vita eterna. Mia madre ha perso recentemente suo marito, mio padre, e la sua unica speranza oggi è di ritrovarlo. Mi piacerebbe che il Papa mi rispondesse, affinché io possa trasmettere a mia madre la sua risposta». «Questo dovrebbe essere possibile – gli risponde Ruffini –, anche se lei capirà che io non posso impegnarmi al posto del Papa». Cercas allora afferma: «Quest’ultima incertezza è la più graffiante, per un motivo: se non posso formulare questa domanda in privato al Papa, questo libro è privo di senso»[1].
Ecco il punto di partenza improbabile di un libro non classificabile. Un libro che Cercas descrive così: «Un libro diverso, il più stravagante possibile, un misto di cronaca e saggio e biografia e autobiografia, un esperimento eccentrico, un guazzabuglio»[2],
È impossibile riassumere un’opera di questo tipo: un’opera che si presenta effettivamente come una specie di viaggio di un persiano[3] nel mondo del Vaticano, di un ritratto originale e sconcertante di papa Francesco, un reportage affascinante sulla Chiesa cattolica che è in Mongolia, un’autobiografia strettamente spirituale di Cercas e un’inchiesta sul mistero della fede.
L’ateismo come inquietudine
Cercas non è un ateo aggressivo o ben provvisto di certezze. Egli, che fu educato in un ambiente decisamente cattolico, ha perso la fede all’età di 14 anni, leggendo un racconto di Miguel de Unamuno, San Manuel Bueno, mártir, pubblicato nel 1931. Questo racconto, superbo e poetico, parla di un santo prete adorato nel suo villaggio, dove si dedica al bene di tutti, pur confessando a una narratrice di non avere più la fede. Attraverso quale processo questo testo ha sconvolto la sua fede, Cercas non può spiegarlo esattamente, perché il mistero, in fondo, gli sfugge. D’altronde, egli riconosce che nella sua coscienza le ragioni – o l’intreccio delle ragioni – dietro questa decisione gli sfuggono. Egli ricorda come sul suo abbandono della fede abbiano influito «l’emigrazione, lo sradicamento, il discredito della Chiesa spagnola per la sua associazione con il franchismo»[4].
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Per lui, la perdita della fede è stato l’ingresso nel mondo dell’angoscia e dell’inquietudine, una situazione che non ha nulla di invidiabile. Non lo dice ancora a Ruffini, ma questa assenza è una realtà che gli pesa: «Non avevo detto che, durante la mia infanzia cattolica, non avevo conosciuto l’angoscia e che l’avevo scoperta nel momento in cui avevo perso Dio. Non avevo detto che quella sfera occupa dentro di me uno spazio tangibile e che quello spazio tangibile è un’assenza tangibile e che quella assenza tangibile è l’assenza di Dio»[5].
Nel corso del libro, Cercas riporta le sue conversazioni con interlocutori autorevoli del Vaticano. Parla a lungo della natura della fede e dei suoi rapporti con la ragione con p. Antonio Spadaro, il quale, sebbene gesuita, tiene molto bene il ruolo di un domenicano di salda fede tomista. «Quello che lei vuol dire è che il trionfo della ragione in Occidente non doveva implicare necessariamente la sconfitta della fede». «Già». «Fatto sta che però è andata così. E forse in parte è stato per colpa della Chiesa, che si è chiusa alla ragione, che l’ha ritenuta pericolosa.» «Sì, però la ragione è essenziale per la fede». «Essenziale?». «Sì. L’atto di fede non può essere separato dalla ragione»[6] . E il dialogo continua: «In Occidente, abbiamo sganciato la ragione dal sentimento. Li abbiamo contrapposti. Il problema è che riteniamo che tutto ciò che è sentimento, amore, fede non abbia nulla a che vedere con la ragione, che è soltanto calcolo, metodo. Questa visione della ragione è molto povera, astratta, fredda. Questa razionalità non è la razionalità umana: è una razionalità computazionale. Il problema, quindi, è come definiamo la ragione, non se la ragione partecipa o meno dell’atto di fede. Gli uomini ragionano. Tua madre ragiona. La gente del tuo paese ragiona. La fede non è un puro atto di sentimento. La ragione è un fattore complesso della nostra umanità: non è semplicemente due più due uguale quattro»[7].
Cercas incontra poi il card. José Tolentino de Mendonça. Con lui, poeta e scrittore, l’intesa e la simpatia sono immediate, Cercas è d’accordo quando il cardinale portoghese gli parla della fede come di un’«intuizione poetica»: «Per me, la fede è una specie di intuizione, di intuizione poetica, che si ha o non si ha; e anche una forma di adesione sentimentale a qualcosa che è più grande di te, qualcosa che ti oltrepassa. […] Ma non è una scoperta razionale. E questa intuizione, questo sentimento è molto difficilmente trasmissibile, supponendo che sia trasmissibile»[8]. Tolentino parla così giustamente del ruolo delle domande nel mondo della fede e del posto della letteratura: «Noi occidentali abbiamo una storia difficile di lotta tra ragione e fede – dice il cardinale con la sua voce densa, vellutata –, ma io, in quanto europeo, ritengo che quella lotta non conduca necessariamente all’ateismo. Dostoevskij, per esempio, diceva: “La mia fede sorge dal forno dei miei dubbi”. Perciò possiamo pensare che perfino le domande più estreme che la ragione occidentale ha fatto possano essere una componente della fede. E di sicuro la fede di papa Francesco non è una fede che non fa domande. Io credo che a lui piaccia tanto parlare con i laici perché comprende le sfide, le difficoltà della fede. E credo anche che la ragione possa purificare una fede troppo facile. Credere non dev’essere troppo facile. Flannery O’Connor diceva: “Credere è più difficile che non credere’’»[9].
Cercas in seguito riprende il tema in Mongolia con il card. Giorgio Marengo, che gli parla del posto del sacro in Asia.
Lo scrittore incontra anche il card. Víctor Manuel Fernández e suor Nathalie Becquart, che dialogano con lui con umanità e franchezza. Nell’insieme, egli è colpito, contrariamente ai pregiudizi che aveva all’inizio, dalla serietà e dalla dedizione di chi lavora in Vaticano. In fondo, si tratta di lavoratori come gli altri.
Bergoglio personaggio complesso
Quando Cercas scrive il suo libro, papa Francesco è ancora vivo, ma lo stile del suo libro, che non ha alcun interesse per le diatribe tra differenti gruppi ecclesiali, gli permette di portare uno sguardo curioso e acuto sulla personalità di Francesco. Egli è colpito dal contrasto tra il Bergoglio di Buenos Aires, austero e riservato, e il Francesco del Vaticano, sorridente e pieno di gioia. Osa descrivere il primo, senza paura, con aggettivi critici: «Dove si acquatta il Bergoglio duro, temperamentale, superbo, dispotico e ambizioso che ha convissuto con i gesuiti argentini per più di vent’anni?»[10]. E presenta questo bel ritratto di papa Francesco, opera di un poeta cileno inventato da lui: «Questo è un papa che non parla ex cathedra. Un papa anticlericale che crede che il clericalismo sia il peggior nemico della Chiesa. Un papa amante del calcio. Un papa dei poveri più che dei ricchi. […] Un papa umano troppo umano. Un papa argentino. Ma modesto. Un papa che dice pane al pane e vino al vino. Un papa ecologista. […] Questo è un papa che pensa come una vecchia portegna completamente vestita di nero che ha conosciuto molti anni fa: senza la misericordia di Dio il mondo non esisterebbe»[11].
L’intero poema meriterebbe di essere citato. Cercas fa anche questa osservazione sul primo Bergoglio: «Bergoglio è stato accusato di essere conservatore o ultraconservatore, di essere troppo preoccupato di nutrire i poveri e troppo poco di chiedersi perché lo sono, di avere una visione sociale “sacramentalista, acritica e assistenzialistica”, secondo le parole del gesuita Juan Luis Moyano»[12]. D’altra parte, Cercas è colpito dalla libertà profetica di Francesco, dalla sua prossimità ai piccoli, dal suo senso del dialogo, dal suo rifiuto del clericalismo e del farisaismo (come li si comprende nei dizionari, noi intendiamo).
Come spiegare questo contrasto? Sorge allora in lui un’ipotesi: «Immediatamente dopo, quasi senza volerlo, mi domando chi è davvero Francesco, o meglio, chi è davvero Bergoglio; mi domando se Francesco e Bergoglio sono la stessa persona, o se Francesco è semplicemente un personaggio interpretato da Bergoglio come un attore interpreta un ruolo in palcoscenico»[13]. Il Papa ha vissuto un intenso combattimento interiore contro l’orgoglio e la durezza. Per Cercas, la sua elezione gli ha permesso di diventare il Bergoglio che dall’inizio avrebbe voluto essere, ma che era come impedito di essere: «Forse Francesco è più Bergoglio dello stesso Bergoglio, perché è il Bergoglio che Bergoglio aspira a essere […]. Più il Bergoglio che cercava di essere – l’uomo senza aspirazioni, mansueto, buono, umile e amante dell’anonimato, il semplice seguace di Gesù di Nazareth – che il Bergoglio che era stato per decenni: il Bergoglio duro, temperamentale, superbo, dispotico, intrigante e ambizioso con cui avevano avuto a che fare i suoi confratelli gesuiti»[14]. Così anche il Bergoglio arcivescovo non aveva superato del tutto la prova del provincialato e dell’esilio a Cordoba, e «forse soltanto l’elezione a papa ha procurato a Bergoglio un certo accordo con sé stesso. Forse per questo Francesco è più Bergoglio dello stesso Bergoglio»[15].
Podcast | COMBATTERE LA «SCHIAVITÙ DELLA CORRUZIONE» (RM 8,21).
Secondo alcuni studi, nella sola Ue, il costo della corruzione sarebbe compreso tra i 179 e i 990 miliardi di euro l’anno. Un problema che il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa definisce come una delle più gravi «deformazioni del sistema democratico». Ma quali strumenti abbiamo per combattere la corruzione? Lo abbiamo chiesto a Giuseppe Busia, presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione.
È una bella e affascinante ipotesi, che gli storici del futuro dovranno prendere in considerazione. D’altra parte, essa rileva con finezza che, tenuto conto della personalità e delle azioni di san Pietro, Bergoglio, nel momento della sua elezione, non avrebbe potuto rispondere: «Sebbene peccatore, io accetto», ma piuttosto: «Perché peccatore, io accetto». «Il 13 marzo 2013, alle sette e cinque di sera, nella Cappella Sistina, forse Bergoglio si è lasciato tradire dalla solennità del momento e ha confuso una congiunzione concessiva con una causale: non avrebbe dovuto dire che accettava l’incarico di papa “sebbene sia un grande peccatore”; avrebbe dovuto accettarlo “perché sono un grande peccatore”; o ancora meglio: “proprio perché sono un grande peccatore”»[16]. Come lo era stato Simon Pietro.
La Chiesa come missione
Il viaggio in Mongolia riserva incontri indimenticabili, specialmente con uno straordinario missionario italiano della Consolata, p. Ernesto, presente in Mongolia da quasi trent’anni. La missione in questa terra è stata e rimane difficile. Il freddo, la diversità culturale, la povertà di mezzi, tutto rende questo lavoro poco gratificante. Eppure Cercas incontra suore, preti e laici animati da una carità disinteressata e da un fuoco interiore che fa brillare i loro occhi. È fortemente impressionato non dalle loro parole – le ha intese centinaia di volte –, ma, come egli stesso dice: «Pronunciate da qualunque altra persona, le parole di suor Francesca mi sembrerebbero di una falsità flagrante, per non dire di un kitsch spaventoso; dette da suor Francesca, mi sembrano nitide e incontestabili come una dimostrazione matematica, cercando di liberarmi dall’incanto di questa donna»[17].
Cercas è impressionato dalla loro vita donata. Quando torna a Roma, gli piace stupire e provocare i suoi interlocutori cattolici, dicendo loro chiaramente: «Voi sapete, io ho la soluzione di tutti i vostri problemi nella Chiesa cattolica, e Dio sa che ne avete!». Stuzzica i suoi interlocutori fino a che essi osano domandare di che si tratta, dicendo tra loro che ora tirerà fuori una storiella o una boutade. Invece, egli dice loro con serietà e semplicità: «Bisogna che voi siate tutti dei missionari, esattamente come quelli che ho visto in Mongolia, e allora i vostri problemi saranno risolti».
Questa certezza gli si era manifestata mentre parlava con p. Ernesto: «“Per di più, ho scoperto la soluzione a tutti i problemi della Chiesa […]”. “Tutti missionari”, gli dico. “Il papa ha ragione: il cristiano che non è un missionario non è un cristiano. Quando tutti i cristiani saranno come voi saranno finiti i problemi della Chiesa”»[18].
E come non dargli ragione? Non vogliamo anticipare se egli sia riuscito a vedere il Papa da solo a solo, e che cosa gli abbia detto o meno papa Francesco. Perché, da questo punto di vista, il libro si presenta come un thriller, mantenendo la sua rivelazione proprio per la fine. Ma la speranza non delude.
Conclusione
Con un’autenticità disarmante, Cercas non solo si mette a nudo come scrittore e come persona, parlandoci di sua madre e della sua angoscia metafisica, che la letteratura riesce soltanto in parte a calmare, ma ci consegna un ritratto insieme sottile e ammirativo di papa Francesco. Ma la cosa più sorprendente della sua opera è che ci permette di penetrare nei due grandi misteri: la fede e la risurrezione. Sì, la fede è un rifiuto radicale della mortalità, proprio nel modo in cui il Dio biblico si è rivelato come il Dio che ha fatto uscire il popolo di Israele dalla casa di schiavitù per chiamarlo alla libertà e alla vita. Afferma il teologo americano Robert Jenson: «Dio è chiunque abbia risuscitato Gesù dai morti, avendo prima rialzato Israele dall’Egitto»[19]. E questa fede era al cuore della fede personale di Gesù. Nel suo unico dibattito con i sadducei, che sono eternamente presenti e che lo saranno fino alla fine dei tempi, egli enuncia la sua convinzione più profonda, quella che gli permetterà di resistere, nella preghiera al Getsemani, malgrado la sua angoscia poco socratica: il suo «Abbà» «non è il Dio dei morti, ma dei viventi» (Mc 12,27a). Le critiche più forti al cristianesimo hanno giudicato a lungo queste parole come una forma di fascinazione per la morte, ma esse non sarebbero, invece, una potente e indefettibile affermazione della vita? Questo corrisponde alla domanda che inquieta Cercas: «E se la resurrezione della carne e la vita eterna fossero la massima forma di insurrezione alla portata degli uomini, la ribellione superlativa?»[20].
Non possiamo che ringraziare Cercas per un libro così originale e potente che ci ha offerto. Ma dopo Emil Cioran o Friedrich Nietzsche, non è davvero paradossale che sia un non credente a parlarci così bene di cosa sia la fede nella sua essenza?
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[1] J. Cercas, Il folle di Dio alla fine del mondo, Milano, Guanda, 2025, 88.
[2] Ivi, 59.
[3] È un’allusione al romanzo di Montesquieu, Lettere persiane, un romanzo epistolare del 1721, che permetteva all’autore di dire cose sull’Occidente facendo dialogare due outsider.
[4] Ivi, 163.
[5] Ivi, 32.
[6] Ivi, 101.
[7] Ivi, 102.
[8] Ivi, 134.
[9] Ivi.
[10] Ivi, 451.
[11] Ivi, 421.
[12] Ivi, 54.
[13] Ivi, 393.
[14] Ivi, 59.
[15] Ivi, 486.
[16] Ivi, 41.
[17] Ivi, 329.
[18] Ivi, 375.
[19] R. Jenson, Systematic Theology,I, Oxford, Oxford University Press, 1997, 63.
[20] J. Cercas, Il folle di Dio alla fine del mondo, cit., 163.
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Potrebbe anche non esserci più un mondo
Ursula K. Le Guin ha definito H. P. Lovecraft (1890-1937) «uno scrittore eccezionalmente, quasi impeccabilmente pessimo». E un po’ di ragione forse l’aveva, se si giudicasse lo scrittore secondo il metro abituale della critica letteraria. Ma di abituale non c’è proprio nulla nella biografia, nell’opera e, soprattutto, nell’enorme influenza postuma che lo scrittore di Providence ha avuto sulla produzione (cinema, letteratura, videogiochi e galassia digitale) di horror, fantasy e fantascienza degli ultimi novant’anni.
Lovecraft ha riconfigurato il terrore: il suo «cosmicismo» sancisce l’insignificanza del genere umano in una terra desolata, popolata da forze aliene distruttive. Non c’è redenzione nella sua terrificante mitologia. In essa, la ragione implode, producendo follia e morte: Edgar Allan Poe, tra i padri; Stephen King e Alien, tra i figli, per semplificare.
Quell’uomo infelice e spesso infermo, cresciuto in una famiglia devastata dalla malattia mentale, era anche un formidabile epistolografo. Si stima che abbia scritto 100.000 lettere, un quinto delle quali sarebbe sopravvissuto. Questa particolare lettera che presentiamo, di oltre 150 pagine, è indirizzata a un oscuro corrispondente del Vermont, Woodburn Harris. Uno zibaldone da erudito autodidatta, che esplora vasti campi dello scibile: l’Atene di Pericle, la nozione del tempo attraverso otto secoli di storia; e poi la tragedia greca, l’Inghilterra elisabettiana, i Maya; ricostruzioni à rebours di intere civiltà attraverso la sessualità, l’estetica e l’architettura, per affermare gerarchie etniche e culturali.
La lettera presenta azzardate teorie sul «successo» di questa o quella civiltà, sul primato di questa o quella razza, con pregiudizi devastanti e allarme per l’avanzamento della barbarie moderna contro i pilastri delle civiltà «classiche», quella anglosassone in primis. È una critica feroce della società americana contemporanea: «Oggi come oggi non si può dire che la vita di un uomo civile e sensibile in America sia davvero degna di essere vissuta se non nella misura in cui egli è in grado di compiere una fuga immaginosa dall’ambiente invasivo, vuoi nel passato del suo flusso culturale, vuoi nell’ipotetico futuro offerto dai suoi sogni» (p. 115).
Lovecraft è un pedagogo impietoso e un ideologo infiammato, intento a demolire le tre grandi illusioni con le quali l’uomo cerca di mitigare il proprio sgomento: l’amore romantico, la religione, la democrazia. È un razzista, nativista, campione dell’«uomo umanistico», individualista all’estremo, con echi che rimbalzano da Mark Twain a Walt Whitman, da R. Waldo Emerson a Benjamin Franklin; un’anima disincantata e orgogliosamente frondista.
Quindi, perché leggere questa lettera, perché scriverne? Non solo per trovarobato culturale, ma perché l’A. non ha eguali nel secolo: una summa mundi di questa ambizione ci incolla al medesimo microscopio di un bizzarro reperto biologico di cui siano noti regno e ordine, ma si ignori la specie. E tra il molto rottamabile ci sono anche vere intuizioni: «Vorrei correggere la tua impressione radicalmente sbagliata che Shakespeare avesse un atteggiamento o un metodo da intellettuale. Santiddio! Non ti rendi conto che quel tipo era l’esatto opposto, un poeta incolto, imprevedibile, spontaneo, non accademico, noncurante […]. Shakespeare, come artista immortale, è stato un puro caso di genio» (p. 27).
Gli strali più violenti vengono rivolti contro l’era tecnocratica e il grande capitale, contrapposti a un ideale di civiltà aristocratica, un’arcadia dove prevale l’essere e non il fare, lo spirito e l’intelligenza creativa sull’homo oeconomicus: «Ciò che adesso sta rendendo la democrazia non soltanto possibile ma disgraziatamente inevitabile è il declino dell’elemento umanistico dell’io in quanto l’era delle macchine distrugge l’umanismo e scinde la vita degli uomini nel meccanicismo robotico e nella semplicità animale» (p. 127).
Il cerchio si chiude con la proiezione di un’esile ma essenziale speranza, che forse sarebbe piaciuta anche a Leopardi: «Il tedio che prende i più non è altro che un deterioramento fisico dovuto alle stesse cause che in seguito causeranno la morte. Non vale la pena vivere la vita come noi la conosciamo, ma in teoria potrebbe» (p. 147).
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