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Dal Mediterraneo al 2% per la Difesa. Ecco i dossier italiani a Vilnius


Il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e il ministro della Difesa, Guido Crosetto, sono arrivati nelle repubbliche baltiche, in vista del vertice dell’Alleanza Atlantica che si svolgerà a Vilnius martedì 11 e mercoledì 12 luglio. Prima di raggiunger

Il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e il ministro della Difesa, Guido Crosetto, sono arrivati nelle repubbliche baltiche, in vista del vertice dell’Alleanza Atlantica che si svolgerà a Vilnius martedì 11 e mercoledì 12 luglio. Prima di raggiungere la capitale lituana, Meloni e Crosetto hanno fatto tappa a Riga, in Lettonia, dove hanno incontrato il Contingente italiano Baltic task group impegnato nell’operazione Baltic guardian, una delle iniziative messe in campo in ambito Nato per rafforzare la difesa e la deterrenza del fianco orientale atlantico a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina. L’occasione ha permesso al ministro Crosetto anche di incontrare la collega lettone, Ināra Mūrniece. La presenza dei militari italiani nel baltico è la plastica dimostrazione della complessità e dello sforzo che ogni singolo Paese Nato sta attraversando di fronte alle sfide che attendono lo spazio transatlantico nel prossimo futuro e che saranno al centro del summit alleato. L’Italia, tra l’altro, si presenta con una serie di dossier cruciali, dalla spesa militare al 2%, alle iniziative per la prodizione di munizionamento e per l’innovazione per la Difesa, fino alla sfida del Mediterraneo allargato, area di principale interesse nazionale, le cui fragilità dovranno essere affrontate da tutti i Paesi alleati.

La questione del 2%

Tra i temi che saranno affrontati in Lituania, uno che è stato al centro anche del dibattito nazionale è il raggiungimento del 2% del Pil da dedicare alla Difesa. Un impegno assunto al vertice Nato del Galles nel 2014 e confermato da tutti i governi. Sul tema, l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni ha posto un focus in particolare, e il ministro Crosetto ha ribadito più volte, anche in sede Atlantica, che non si tratta di un impegno facile per l’economia del Paese. L’inquilino di palazzo Baracchini ha anche presentato a Bruxelles la proposta di scorporare le spese della Difesa dai vincoli di bilancio, definito l’unico modo investire senza dover togliere risorse a interventi sociali. L’impegno del 2%, tra l’altro, è ormai considerato dall’Alleanza Atlantica un punto di partenza, con numerosi Paesi che già spingono per superarlo, e Crosetto ha più volte lanciato l’allarme per l’Italia di rischiare di diventare l’unico Paese alleato a non raggiungerlo o a non essere chiaro nei tempi con cui lo verrà raggiunto, mentre “gli altri Paesi già parlano del 3%”.

I requisiti Nato

Il nostro Paese sta gradualmente innalzando la propria spesa con l’obiettivo di raggiungere la soglia del 2% (circa 40 miliardi di euro, ne mancano ancora circa dieci), entro il 2028, prevedendo naturalmente anche la partecipazione a missioni, operazioni e altre attività. La spesa prevista si baserebbe principalmente sui fondi del ministero della Difesa, ma vedrebbe la partecipazione anche del ministero delle Imprese e Made in Italy e quello dell’Economia. All’interno dell’Alleanza, l’Italia rimane tra i venti Paesi, su trenta, a non aver ancora raggiunto il livello previsto in Galles. Ad oggi solo Grecia (3,9%), Stati Uniti (3,5%), Croazia (2,7%), Lettonia (2,3%), Regno Unito ed Estonia (2,2%), Polonia (2,1%), Portogallo, Turchia (2,1%) e Lituania (2,0%) spendono quanto previsto, e dall’est dell’Europa aumentano le voci che chiedono un aumento della soglia minima.

Munizioni e tecnologia

Le spese da destinare alla Difesa si collegano a un altro aspetto fondamentale, emerso in particolare a seguito dell’impegno assunto dall’Italia di inviare aiuti, anche militari, a Kiev: la produzione di munizionamento. Il consumo di munizioni sui campi ucraini ha dimostrato come l’industria occidentale non sia in grado di mantenere la produzione necessaria per affrontare un conflitto su grande scala. A Vilnius la Nato dovrà riflettere su quali decisioni dovranno essere poste in essere per assicurare il potenziamento della produttività con una pianificazione di medio-lungo periodo. A questo si unisce anche la necessità di spingere sull’innovazione tecnologica delle soluzioni e delle piattaforme per la Difesa. L’Italia in questo campo ha un ruolo di primo piano, dato che ospita a Torino una delle articolazioni della rete del Defence innovation accelerator for the North Atlantic (Diana), la rete federata di centri di sperimentazione e acceleratori d’innovazione con il compito di supportare le start up innovative facilitando la cooperazione tra settore privato e realtà militari lanciato dall’Alleanza Atlantica con l’agenda Nato 2030.

Impegno sul fianco sud

Altro tema che vedrà impegnato il nostro Paese sarà portare all’attenzione degli alleati il concetto che la sicurezza del Mediterraneo è parte essenziale del sistema di difesa transatlantico. Al di là della corrente crisi lungo il fianco orientale della Nato, dove l’Italia partecipa in prima linea con mezzi e militari al rafforzato dispositivo alleato di deterrenza, e in prospettiva artico, il Mare nostrum è oggi – e nel vicino futuro – un’area la cui instabilità coinvolge da vicino non solo i Paesi del meridione europeo, ma l’intero Vecchio continente. Energia, informazioni, materie prime e semilavorati passano sulle sue acque, le cui rotte devono essere mantenute aperte e sicure. A questo si aggiungono le crisi che attraversano il continente africano, economica, climatica e sociale, le cui ripercussioni saranno di portata epocale se non affrontate anche in seno alla Nato.

Una condizione aggravata ulteriormente dalla guerra russa in Ucraina, come dimostrato dalla crescente presenza di navi e sommergibili della Federazione russa nel bacino, a cui di recente si è aggiunto un gruppo navale cinese composto da tre navi moderne. È chiaro che l’Italia giocherà un ruolo di primo piano, ma la portata globale delle sfide non può prescindere un’azione congiunta anche da parte degli alleati transatlantici. Un concetto che di recente il ministro Crosetto ha affrontato anche con l’omologo statunitense Lloyd Austin, che ha sua volta ha riconosciuto il ruolo dell’Italia quale “alleato fondamentale sul fianco sud della Nato”, apprezzandone il “robusto contributo per la sicurezza nel mondo dai Balcani, il Medio Oriente l’Africa” e in prospettiva verso l’Indo-Pacifico.


formiche.net/2023/07/difesa-do…



Lukashenko non sopravvive senza Putin. Parla la leader dell’opposizione bielorussa Tikhanovskaya


Svetlana Tikhanovskaya è stata in visita a Roma nei giorni scorsi. La leader dell’opposizione democratica bielorussa, che vive in esilio da tre anni, ha incontrato Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, Antonio Tajani, vicepresidente del Consiglio e mi

Svetlana Tikhanovskaya è stata in visita a Roma nei giorni scorsi. La leader dell’opposizione democratica bielorussa, che vive in esilio da tre anni, ha incontrato Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, Antonio Tajani, vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri, e alcuni parlamentari italiani. Meloni le ha confermato la piena solidarietà del governo italiano alle forze dell’opposizione democratica bielorussa. “L’Italia è da sempre forte sostenitrice del nostro movimento democratico e sono stata qui per discutere di come sviluppare la nostra cooperazione”, spiega Tikhanovskaya a Formiche.net.

Tanti i temi al centro della visita: la situazione dei diritti umani in Bielorussia, le nuove minacce alla sicurezza regionale derivanti dal dispiegamento di armi nucleari e dalla presenza di mercenari Wagner e l’impegno dell’opposizione per portare il dittatore Alexander Lukashenko davanti alla Corte penale internazionale sul rapimento di bambini ucraini.

È soddisfatta dei suoi incontri a Roma?

Mi sento tra amici in Italia e sono rimasta colpita dal sostegno e dalla solidarietà nei confronti della Bielorussia. Ho partecipato al lancio del gruppo di amicizia con la Bielorussia al Parlamento italiano, è un segnale fortissimo per tutto il nostro popolo. In tutti i miei incontri ho ricevuto forti espressioni di sostegno. Inoltre, sono felice che qui ci sia una diaspora bielorussa molto attiva, che aiuta attivamente il movimento democratico bielorusso e l’Ucraina.

Cosa può fare l’Italia per la Bielorussia?

Chiedo ai nostri amici italiani di sostenerci nell’isolare il regime di Minsk con sanzioni più efficaci e mirate contro il regime e la Russia, tra cui sanzioni economiche e individuali, e sanzioni alla Russia per aver minato la nostra sovranità. Chiediamo inoltre di sostenere chi si batte a difesa dei diritti umani, i media e le famiglie dei perseguitati. Chiediamo sostegno per sollevare la questione della Bielorussia al prossimo vertice della Nato a Vilnius e per assicurarci che la voce dei bielorussi sia ascoltata in tutte le organizzazioni internazionali. Spero inoltre che si possa instaurare una collaborazione tra il settore privato italiano e quello bielorusso e che l’Italia possa ospitare personalità della cultura bielorussa e offrire stage e borse di studio a giovani bielorussi. È un investimento nel nostro futuro.

Cosa è cambiato nelle relazioni con i Paesi occidentali dopo l’invasione dell’Ucraina?

L’invasione russa dell’Ucraina ha aumentato la consapevolezza dell’importanza strategica della Bielorussia e del suo ruolo nella sicurezza regionale. Questo ha portato a un aumento del dialogo e delle consultazioni tra le nostre forze democratiche e i governi occidentali. Ha sottolineato la realtà delle minacce poste dai regimi autocratici, rafforzando la necessità della democrazia, del rispetto dei diritti umani e dello Stato di diritto. Tuttavia, pur apprezzando il sostegno internazionale, continuiamo a chiedere azioni più decisive, come già detto. È fondamentale che l’Occidente continui a sostenere il popolo bielorusso nella sua lotta per la democrazia, i diritti umani e la libertà.

Lukashenko è stato, almeno ufficialmente, il mediatore tra il presidente russo Vladimir Putin e Yevgeny Prigozhin dopo l’ammutinamento del gruppo Wagner. Qual è la situazione per il dittatore bielorusso?

Lukashenko non può sopravvivere un giorno senza Putin. Ecco perché è intervenuto come mediatore mentre Prigozhin marciava verso Mosca. Ed è per questo che sta soddisfacendo tutte le richieste del Cremlino. Questi due dittatori sono legati e cadranno insieme. Lukashenko non ha alcuna base o sostegno all’interno della Bielorussia: dipende completamente da Putin.

Quale ruolo ha avuto secondo lei nell’accordo tra Putin e Prigozhin?

Il ruolo di Lukashenko in tutto questo è stato molto esagerato. Non era altro che un messaggero di Putin per Prigozhin. Naturalmente Putin indebolito significa anche Lukashenko indebolito, quindi è nel suo interesse evitare il crollo del regime di Mosca. Ma sarebbe un grosso errore vederlo come mediatore di pace. Non ci si può fidare di lui e non rappresenta nessuno se non sé stesso. Purtroppo, la presenza di truppe russe, di armi nucleari e ora di Prigozhin sul nostro territorio rappresenta una minaccia diretta alla nostra sovranità. È anche una minaccia per i nostri vicini. Non possiamo escludere che la Russia lanci un altro attacco all’Ucraina dalla Bielorussia o che Lukashenko e Putin tentino nuove provocazioni ai confini. Allo stesso tempo, indebolendo Lukashenko, indeboliamo anche la Russia: la Bielorussia libera sarà la più grande sanzione contro la Russia e il miglior sostegno per l’Ucraina.


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Oggi i metalmeccanici tornano in sciopero per quattro ore proseguendo la mobilitazione nazionale indetta da Fiom, Fim e Uilm per il rilancio dell’industria ch


Sono state/i in centinaia a raccogliere l’appello per l’apertura della fase costituente di Unione Popolare, nonostante il caldo soffocante di Roma. L’inco


Niente ufficio Nato a Tokyo (per ora). L’agenda di Kishida al summit


La Nato è pronta a rinviare la decisione di istituire un ufficio di collegamento a Tokyo all’autunno o più tardi. Lo ha rivelato Nikkei alla vigilia dell’inizio del summit di Vilnius, in Lituania. Il giornale giapponese ha ricordato l’opposizione alla pro

La Nato è pronta a rinviare la decisione di istituire un ufficio di collegamento a Tokyo all’autunno o più tardi. Lo ha rivelato Nikkei alla vigilia dell’inizio del summit di Vilnius, in Lituania. Il giornale giapponese ha ricordato l’opposizione alla proposta del segretario generale Jens Stoltenberg della Francia, preoccupata per le relazioni con la Cina, e ha evidenziato come i 31 membri cercheranno di superare le divergenze e finalizzare la decisione entro la fine dell’anno. È un punto “meno prioritario” nell’agenda del summit, hanno spiegato fonti diplomatiche che lavorano sul documento finale al giornale.

Durante un briefing con i giornalisti a cui Formiche.net ha partecipato, un funzionario del ministero degli Esteri giapponese non ha voluto commentare le “questioni interne” alla Nato aggiungendo che Tokyo “osserva ciò che accade” nell’Alleanza in merito all’ufficio di collegamento.

Due i temi di fondo della missione del primo ministro giapponese Fumio Kishida in Lituania e in Belgio: confermare l’impegno del Giappone assieme alla Nato e all’Unione europea per rafforzare la cooperazione nell’Indo-Pacifico; migliorare il coordinamento con i Paesi like-minded a difesa dell’ordine internazionale libero e aperto, come recita anche il comunicato finale del G7 di Hiroshima, in Giappone.

A Vilnius, Kishida parteciperà a una sessione con i 31 membri della Nato e i partner dell’Asia-Pacifico (il cosiddetto AP4: Giappone, Australia, Repubblica di Corea e Nuova Zelanda). La sua presenza segue quella storica dell’anno scorso, la prima per un primo ministro giapponese al vertice alleato. Come 12 mesi fa, in cima all’agenda del summit c’è il contesto di sicurezza internazionale sconvolto dall’invasione russa dell’Ucraina: un fattore che ha accelerato l’impegno giapponese in Europa e quelli europeo e statunitense nell’Indo-Pacifico. È l’interconnessione tra i quadranti euro-atlantico e indo-pacifico che Kishida richiama spesso e che riguarda anche, inevitabilmente, la competizione con la Cina. Il primo ministro poi avrà anche alcuni incontri bilaterali a Vilnius. Un funzionario del ministero degli Esteri giapponese non ha potuto offrire ulteriori dettagli sugli incontri rispondendo a una domanda di Formiche.net sulla possibilità di un incontro con Giorgia Meloni, presidente del Consiglio.

A Bruxelles, Kishida prenderà parte al vertice Ue-Giappone con Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, e Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea. Si parlerà di cooperazione in materia di sicurezza e di economia, comprese le misure per il digitale e il cambiamento climatico. In particolare, Kishida chiederà ai leader europei di abolire le restrizioni sull’importazione sui prodotti alimentari giapponesi.

Venerdì il primo ministro farà rientro a Tokyo per ripartire domenica alla volta del Medio Oriente verso Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar. È questo l’esatto ambito geostrategico in cui si snodano le interconnessioni che muovono le orientazioni di Kishida, seguendo per altro (pur con caratteristiche proprio) la visione del suo predecessore Shinzo Abe. Un’eredità che ha un valore nelle scelte dell’attuale Giappone (anche perché si muove di pari passo con quella di altre potenze asiatiche come la Cina o l’India, e Tokyo non intende restare indietro).

Dall’adozione, a dicembre dello scorso anno, di tre nuovi documenti sulla sicurezza, tra cui una nuova Strategia di sicurezza nazionale che delinea piani audaci per una “capacità di contrasto”, all’approvazione a marzo di un bilancio che mira a raddoppiare la spesa per la difesa entro il 2027, il Giappone nominalmente pacifista ha subito una trasformazione. Il carattere securitario di questo orientamento è dovuto sia alla riscoperta della necessità strategica di approfondire la sfera di influenza nell’Indo Pacifico, sia all’altrettanto necessaria volontà di gestire l’attivismo cinese.

E il passaggio della guerra russa in Ucraina è stato determinante. Tokyo ha compreso – nell’ambito di un processo strategico già avviato – che quell’evoluzione richiedesse una spinta tattica. Allineare la risposta a Mosca con quella occidentale – chiaramente guidata dalla Nato – diventava una forma di condivisione del proprio destino con partner come Stati Uniti e Unione Europea, anche pensando a una potenziale trasposizione di quello scenario in Asia, con la Cina protagonista (magari a Taiwan?).

È vero che la mossa di bloccare l’apertura del liaison office giapponese è stata spinta anche dalla volontà francese. L’Eliseo ha infatti ufficialmente commentato con la stampa: “Non siamo favorevoli per una questione di principio. Nato significa Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico”. E ancora: “Per quanto riguarda l’ufficio, le stesse autorità giapponesi ci hanno detto di non essere estremamente interessate”. Ma è altrettanto vero che al di là della posizione di Parigi, secondo qualche critico tenuta per non indispettire eccessivamente Pechino che aveva attaccato l’apertura dell’ufficio nipponico della Nato, è piuttosto evidente che la sovrapposizione è in corso.

La Nato sta da tempo aumentando la propria attenzione alla Cina, anche perché la Cina sta aumentando le sue relazioni con la Russia e in più di un’occasione alzato critiche contro l’alleanza. Nell’ambito di questo shift strategico, è quasi impossibile pensare che Tokyo non acquisisca peso maggiore nelle dinamiche della Nato, così come la Nato potrebbe aumentare le proprie attività nell’Indo Pacifico.


formiche.net/2023/07/ufficio-n…



European Commission gives EU-US data transfers third round at CJEU


La Commissione europea concede il terzo round ai trasferimenti di dati tra UE e USA presso la CGUE La Commissione europea annuncia il terzo "Safe Harbor", senza modifiche sostanziali. noyb riporterà la terza decisione di adeguatezza alla CGUE. Fool me thrice...


noyb.eu/en/european-commission…

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Tutte le pretese di Erdogan al vertice di Vilnius


Una vigilia delicata e al contempo altamente complessa quella che il vertice di Vilnius affronta con la novità rappresentata dalla proposta turca relativa all’ingresso di Ankara nell’Ue, propedeutico alla ratifica della Svezia nella Nato. Una mossa, quell

Una vigilia delicata e al contempo altamente complessa quella che il vertice di Vilnius affronta con la novità rappresentata dalla proposta turca relativa all’ingresso di Ankara nell’Ue, propedeutico alla ratifica della Svezia nella Nato. Una mossa, quella di Recep Tayyip Erdogan, che se da un lato apre l’ennesimo fronte politico in seno allo status ibrido della Turchia (membro dell’alleanza, ma al contempo alleato strutturato di Russia, Cina e Iran), dall’altro certifica le nuove ambizioni del presidente da poco vincitore nelle urne.

Ue e Nato

“Apriamo prima la strada alla Turchia nella Ue e poi spianeremo la strada alla Svezia, proprio come abbiamo fatto con la Finlandia”, parole che Erdogan rilascia prima di imbarcarsi sul volo diretto a Vilnius dove domani si aprirà il vertice della Nato. Ufficialmente il suo obiettivo è subordinare la ratifica turca circa l’ingresso della Svezia nell’Alleanza all’apertura all’adesione della Turchia alla Ue. Secondo il presidente turco “i progressi del processo per l’ingresso della Svezia nella Nato dipendono dall’applicazione dei principi compresi con il memorandum trilaterale”.

Secca la replica di Bruxelles, secondo cui “l’allargamento non è legato alla Nato e non è una sorpresa dire che i due processi sono separati”, quasi a voler disinnescare una mina che Erdogan ha deciso di sistemare sotto il tavolo del meeting di Vilnius, aggiungendo un fronte alla già critica situazione che tocca la guerra in Ucraina e le relazioni con la Russia. La portavoce della Commissione Ue, Dana Spinant, ha precisato che si tratta di un processo che guarda al merito e che i due processi non possono che essere separati.

Della questione hanno parlato il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan e il Segretario di Stato americano Anthony Blinken con il tentativo di sbloccare l’impasse mentre Erdogan ha aggiunto che la porta della Nato per l’Ucraina è aperta: “Una fine giusta e duratura della guerra, giungere alla pace, faciliterà molto la procedura di ingresso dell’Ucraina nella Nato”.

Turchia e Usa

Appare di tutta evidenza come la mossa turca si inserisca all’interno di un quadro altamente complesso, con il giocatore Erdogan impegnato su più tavoli. “Mi aspetto di risolvere con Biden problemi su acquisto degli F-16 – ha spiegato ancora – rattristati che questione sia collegata ad adesione Svezia in Nato”. Parole che, nel solco delle posizioni già espresse nell’ultimo triennio, toccano le relazioni turco-americane alla voce difesa, con la richiesta dei caccia dopo che la Grecia ha acquistato 18 Rafale e ha prenotato due F-35. Nel vertice pre-Vilnius, Erdogan ha avuto modo si reiterare la sua richiesta a Biden ma ha poi scelto il piglio del sarcasmo per mettere a fuoco la questione: “Il rispettato Biden ha detto di aver mobilitato tutti i suoi sforzi su questo tema. Vuole lo stesso da noi. Il problema con l’F-16 riguarda una questione di rafforzamento generale della Nato contro i nemici. E c’è un prezzo, noi abbiamo pagato 1,45 miliardi di dollari. Non abbiamo visto alcuna reazione. Discuteremo la questione a Vilnius. Spero che in questo incontro risolveremo la questione. Siamo rattristati dal fatto che la questione sia collegata all’adesione della Svezia alla Nato. Si tratta di questioni diverse”.

Scenari

Ma non è tutto, perché la pirotecnica presenza di Erdogan in Lettonia comprende anche le relazioni turco-russe con, all’orizzonte, la prossima visita di Vladimir Putin ad Ankara, che segue idealmente quella di Volodymyr Zelensky di due giorni fa. Secondo il Cremlino ancora non ci sarebbe una data ufficiale, ma è chiaro l’indirizzo che Erdogan vorrebbe imprimere a questo prisma di temi, tutti interconnessi: farsi concavo e convesso con Kiev e Mosca, avanzare ulteriori richieste all’Ue, premere con la Nato per le imminenti esigenze dell’alleanza e costruirsi così una nuova narrazione che accompagni geopoliticamente il suo mandato da presidente.


formiche.net/2023/07/erdogan-v…



Come uccidere una rete decentralizzata (come il Fediverso)

di Ploum il 2023-06-23

In questo articolo molto interessante, Lionel Dricot ricostruisce la strategia dei #Gafam che sta dietro all'operazione Threads di Meta.

Un grosso grazie all'autore.

Buona lettura

L'anno è il 2023. L'intera Internet è sotto il controllo dell'impero GAFAM. Tutto? Beh, non del tutto. Perché alcuni piccoli villaggi stanno resistendo all'oppressione. E alcuni di questi villaggi hanno iniziato ad aggregarsi, formando il "Fediverso".
Con i dibattiti su Twitter e Reddit, il Fediverso ha iniziato a guadagnare fama e attenzione. La gente ha iniziato a usarlo davvero. L'impero ha cominciato ad accorgersene.

Capitalisti contro la concorrenza

Come ha detto Peter Thiel, uno dei principali investitori di Facebook: "La concorrenza è per i perdenti". Già, questi pseudo "il mercato ha sempre ragione" non vogliono un mercato quando ci sono dentro. Vogliono un monopolio. Fin dalla sua nascita, Facebook è stato molto attento a uccidere ogni concorrenza. Il modo più semplice per farlo è stato quello di acquistare le aziende che un giorno avrebbero potuto diventare dei concorrenti. Instagram e WhatsApp, per citarne alcune, sono state acquistate solo perché il loro prodotto attirava utenti e poteva gettare un'ombra su Facebook.
Ma il Fediverso non può essere comprato. Il Fediverso è un gruppo informale di server che discutono attraverso un protocollo (ActivityPub). Questi server possono anche eseguire software diversi (Mastodon è il più famoso, ma ci possono essere anche Pleroma, Pixelfed, Peertube, WriteFreely, Lemmy e molti altri).
Non si può comprare una rete decentralizzata!
Ma c'è un altro modo: renderla irrilevante. Questo è esattamente ciò che Google ha fatto con XMPP.


Come Google è entrato a far parte della federazione XMPP


Alla fine del XX secolo, i programmi di messaggeria istantanea (IM) erano di gran moda. Uno dei primi di grande successo fu ICQ, seguito rapidamente da MSN messenger. MSN Messenger era il Tiktok dell'epoca: un mondo in cui gli adolescenti potevano trascorrere ore e giorni senza adulti.
Poiché MSN faceva parte di Microsoft, Google ha voluto fargli concorrenza e nel 2005 ha presentato Google Talk, includendolo nell'interfaccia di Gmail. Ricordiamo che all'epoca non esistevano smartphone e pochissime applicazioni web. Le applicazioni dovevano essere installate sul computer e l'interfaccia web di Gmail era innovativa. MSN a un certo punto è stato persino fornito in bundle con Microsoft Windows ed era davvero difficile rimuoverlo. La creazione della chat di Google con l'interfaccia web di Gmail era un modo per essere ancora più vicini ai clienti rispetto a un software integrato nel sistema operativo.
Mentre Google e Microsoft lottavano per conquistare l'egemonia, gli appassionati di software libero cercavano di costruire una messaggistica istantanea decentralizzata. Come la posta elettronica, XMPP era un protocollo federato: più server potevano dialogare tra loro attraverso un protocollo e ogni utente si connetteva a un particolare server attraverso un client. Quell'utente poteva poi comunicare con qualsiasi utente su qualsiasi server utilizzando qualsiasi client. Questo è ancora il modo in cui ActivityPub e quindi il Fediverso funzionano.
Nel 2006, Google talk è diventato compatibile con XMPP. Google stava prendendo seriamente in considerazione XMPP. Nel 2008, mentre ero al lavoro, squillò il telefono. In linea, qualcuno mi disse: "Salve, siamo di Google e vogliamo assumerla". Ho fatto diverse telefonate e si è scoperto che mi avevano trovato attraverso la dev-list di XMPP.Stavano cercando degli amministratori di sistema per XMPP.
Quindi Google stava davvero adottando la federazione. Non era geniale? Significava che, improvvisamente, ogni singolo utente di Gmail diventava un utente XMPP. Questo non poteva che essere un bene per XMPP, giusto? Ero estasiato.


Come Google ha ucciso XMPP


Naturalmente, la realtà era un po' meno brillante. Innanzitutto, nonostante la collaborazione per lo sviluppo dello standard XMPP, Google stava realizzando una propria implementazione chiusa che nessuno poteva controllare. Si è scoperto che non sempre rispettavano il protocollo che stavano sviluppando. Non stavano implementando tutto. Questo ha costretto lo sviluppo di XMPP a rallentare, ad adattarsi. Nuove funzionalità interessanti non sono state implementate o non sono state utilizzate nei client XMPP perché non erano compatibili con Google Talk (gli avatar hanno impiegato moltissimo tempo per arrivare su XMPP). La federazione a volte si interrompeva: per ore o giorni non era possibile comunicare tra i server Google e i server XMPP regolari. La comunità XMPP fungeva da osservatrice e debugger dei server di Google, segnalando le irregolarità e i tempi di inattività (io l'ho fatto più volte, e questo è probabilmente il motivo dell'offerta di lavoro).
E poiché gli utenti di Google Talk erano molto più numerosi dei "veri utenti XMPP", c'era poco spazio per "non preoccuparsi degli utenti di Google Talk". I nuovi arrivati che scoprivano XMPP e non erano utenti di Google Talk avevano un'esperienza molto frustrante perché la maggior parte dei loro contatti erano utenti di Google Talk. Pensavano di poter comunicare facilmente con loro, ma in realtà si trattava di una versione degradata di ciò che avevano quando usavano Google Talk. Un tipico gruppo di utenti XMPP era composto principalmente da utenti di Google Talk e da alcuni geek.
Nel 2013, Google ha capito che la maggior parte delle interazioni XMPP avveniva comunque tra utenti di Google Talk. Non gli interessava rispettare un protocollo che non controllava al 100%. Quindi ha staccato la spina e ha annunciato che non sarebbe più stato federato. E ha iniziato una lunga ricerca per creare un servizio di messaggistica, a partire da Hangout (a cui sono seguiti Allo, Duo e poi ho perso il conto).
Come previsto, nessun utente di Google ha battuto ciglio. In effetti, nessuno di loro se n'è accorto. Nel peggiore dei casi, alcuni dei loro contatti sono diventati offline. Tutto qui. Ma per la federazione XMPP è stato come se la maggior parte degli utenti fosse improvvisamente scomparsa. Persino gli irriducibili fanatici di XMPP, come il vostro servitore, hanno dovuto creare account Google per mantenere i contatti con gli amici. Ricordate: per loro eravamo semplicemente offline. Era colpa nostra.
Sebbene XMPP esista ancora e sia una comunità molto attiva, non si è mai ripreso da questo colpo. Le aspettative troppo alte sull'adozione da parte di Google hanno portato a un'enorme delusione e a una silenziosa caduta nell'oblio. XMPP è diventato di nicchia. Così di nicchia che quando le chat di gruppo sono diventate di moda (Slack, Discord), la comunità del software libero le ha reinventate (Matrix) per competere mentre le chat di gruppo erano già possibili con XMPP. (Disclaimer: non ho mai studiato il protocollo Matrix, quindi non ho idea di come si comporti tecnicamente rispetto a XMPP. Credo semplicemente che risolva lo stesso problema e competa nello stesso spazio di XMPP).
XMPP sarebbe diverso oggi se Google non vi avesse mai aderito o non fosse mai stato considerato come parte di esso? Nessuno può dirlo. Ma sono convinto che sarebbe cresciuto più lentamente e, forse, in modo più sano. Che sarebbe più grande e più importante di oggi. Che sarebbe stata la piattaforma di comunicazione decentralizzata di default. Una cosa è certa: se Google non avesse aderito, XMPP non sarebbe peggiore di quello che è oggi.


Non è stata la prima volta: la strategia di Microsoft


Quello che Google ha fatto a XMPP non è una novità. Infatti, nel 1998, l'ingegnere Microsoft Vinod Vallopllil scrisse esplicitamente un testo intitolato "Blunting OSS attacks" in cui suggeriva di "differenziare (de-commoditize) i protocolli e le applicazioni [...]. Estendendo questi protocolli e sviluppandone di nuovi, possiamo impedire ai progetti OSS di entrare nel mercato".
Microsoft ha messo in pratica questa teoria con il rilascio di Windows 2000, che supportava il protocollo di sicurezza Kerberos. Ma il protocollo è stato esteso. Le specifiche di tali estensioni potevano essere scaricate liberamente, ma era necessario accettare una licenza che vietava di implementare tali estensioni. Non appena si cliccava su "OK", non si poteva lavorare su nessuna versione open source di Kerberos. L'obiettivo era esplicitamente quello di uccidere qualsiasi progetto di rete concorrente, come Samba.
Questo aneddoto è stato raccontato da Glyn Moody nel suo libro "Rebel Code" e dimostra che l'uccisione di progetti open source e decentralizzati è un obiettivo davvero consapevole. Non accade mai a caso e non è mai causato dalla sfortuna.
Microsoft ha utilizzato una tattica simile per assicurarsi il dominio nel mercato dell'office con Microsoft Office, utilizzando formati proprietari (un formato di file può essere visto come un protocollo per lo scambio di dati). Quando le alternative (OpenOffice e poi LibreOffice) sono diventate abbastanza brave ad aprire i formati doc/xls/ppt, Microsoft ha rilasciato un nuovo formato che ha definito "aperto e standardizzato". Il formato era, di proposito, molto complicato (20.000 pagine di specifiche!) e, soprattutto, sbagliato. Sì, sono stati introdotti alcuni bug nelle specifiche, il che significa che un software che implementa il formato OOXML completo si comporta in modo diverso da Microsoft Office.
Questi bug, insieme alle pressioni politiche, sono stati uno dei motivi che hanno spinto la città di Monaco a tornare indietro dalla migrazione verso Linux. Quindi sì, la strategia funziona bene. Oggi, docx, xlsx e pptx sono ancora la norma. Fonte: Ero presente, indirettamente pagato dalla città di Monaco per rfar sì che il rendering di LibreOffice OOXML fosse più simile a quello di Microsoft invece di seguire le specifiche.

AGGIORNAMENTO:
Questa tattica ha persino una pagina di Wikipedia


Meta e il Fediverso


Chi non conosce la storia è destinato a ripeterla. Il che è esattamente ciò che sta accadendo con Meta e il Fediverso.
Si dice che Meta diventerà "compatibile con Fediverso". Potrete seguire le persone su Instagram dal vostro account Mastodon.
Non so se queste voci abbiano un fondo di verità, se sia possibile che Meta prenda in considerazione l'idea. Ma una cosa mi ha insegnato la mia esperienza con XMPP e OOXML: se Meta si unisce al Fediverso, Meta sarà l'unico a vincere. In effetti, le reazioni mostrano che stanno già vincendo: il Fediverso è diviso tra il bloccare Meta o meno. Se ciò accadesse, significherebbe un mediverso a due livelli, frammentato e frustrante, con poca attrattiva per i nuovi arrivati.

AGGIORNAMENTO: Queste voci sono state confermate: almeno un amministratore di Mastodon, kev, di fosstodon.org, è stato contattato per partecipare a un incontro ufficioso con Meta. Ha avuto la migliore reazione possibile: ha rifiutato gentilmente e, soprattutto, ha pubblicato l'e-mail per essere trasparente con i suoi utenti. Grazie kev!
Mail di Meta a Kev, da Fosstodon, e risposta

So che tutti sogniamo di avere tutti i nostri amici e familiari sul Fediverso, in modo da evitare completamente le reti proprietarie. Ma il Fediverso non cerca il dominio del mercato o il profitto. Il Fediverso non cerca la crescita. Offre un luogo di libertà. Le persone che si uniscono al Fediverso sono quelle che cercano la libertà. Se le persone non sono pronte o non cercano la libertà, va bene. Hanno il diritto di rimanere su piattaforme proprietarie. Non dovremmo costringerle a entrare nel Fediverso. Non dovremmo cercare di includere il maggior numero di persone a tutti i costi. Dovremmo essere onesti e fare in modo che le persone si uniscano al Fediverso perché condividono alcuni dei valori che lo animano.
Competendo contro Meta nella cervellotica ideologia della crescita a tutti i costi, siamo certi di perdere. Loro sono i maestri di questo gioco. Stanno cercando di portare tutti nel loro campo, per far sì che le persone competano contro di loro usando le armi che vendono.
Il Fediverso può vincere solo mantenendo la sua posizione, parlando di libertà, morale, etica, valori. Avviando discussioni aperte, non commerciali e non campate in aria. Riconoscendo che l'obiettivo non è vincere. Non è aderire. L'obiettivo è rimanere uno strumento. Uno strumento dedicato a offrire un luogo di libertà agli esseri umani connessi. Qualcosa che nessuna entità commerciale potrà mai offrire.

Testo originale: https://ploum.net/2023-06-23-how-to-kill-decentralised-networks.html
Distribuito con licenza Creative Commons BY-SA
Traduzione italiana: framapiaf.org/@nilocram
Illustrazione di David Revoy
Traduction en Français par Nicolas Vivant
Traducción Española de Matii
Deutsche Übersetzung von Janet und anderen

#Fediverso #Fediverse #Gafam #XMPP #Mastodon #SoftwareLibero
@Informa Pirata @Scuola - Gruppo Forum @Devol :fediverso: @maupao

in reply to nilocram

@andreabont prova a leggere qui, lo spiega meglio di quanto potrei far io

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Moro Crater Massacre: Una Carneficina di Civili Filippini


La tragica storia del Moro Crater Massacre del 1906 nelle Filippine. Uno sguardo sul contesto storico, i dettagli dell’evento e le sue durature conseguenze nelle relazioni tra gli Stati Uniti e le Filippine. Contesto StoricoContinue reading

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A proposito delle bombe a grappolo e della realtà della #guerra. Siamo sotto propaganda fin dall'inizio, ma la guerra è e resta una cosa sbagliata e immorale, un fallimento. L'obiettivo, una volta esplosa, è fermarla il prima possibile. Stiamo invece assistendo a un'escalation #Ucraina #bombeagrappolo
altreconomia.it/in-ucraina-le-…



Bombe a grappolo, tra necessità e doppiopesismi. Scrive il gen. Tricarico


Confidai proprio a Formiche nell’ottobre 2015 l’incredulità nel constatare come i russi facessero ricorso, senza battere ciglio, alle cluster bomb in Siria, all’avvio delle operazioni militari a sostegno del regime di Assad. Le immagini televisive che mi

Confidai proprio a Formiche nell’ottobre 2015 l’incredulità nel constatare come i russi facessero ricorso, senza battere ciglio, alle cluster bomb in Siria, all’avvio delle operazioni militari a sostegno del regime di Assad.

Le immagini televisive che mi capitò di vedere sul Tg5, inequivoche nel mostrare l’impatto di bombe a grappolo, e che a un riscontro si confermarono autentiche perché messe in circolazione proprio dai media russi, non suscitarono però allarme e disapprovazione. L’onda di sdegno di oggi di tutti i Paesi che hanno bandito l’uso delle cluster bomb, nel caso siriano (e in tutte le altre circostanze meno note) non diede alcun cenno di vita, sostanziando un doppiopesismo che pare ormai la regola imperante in ogni valutazione.

Eppure nel caso di Zelensky vi sono numerose ragioni, non solo tecniche, che dovrebbero far chiudere un occhio a chi grida, più o meno forte, allo scandalo e si adopera affinché gli ucraini non abbiano un sistema d’arma quanto mai necessario in questo momento.

Innanzitutto sul terreno si sono verosimilmente create le condizioni perché non si metta a rischio la vita di non combattenti, di civili innocenti.
Infatti i territori contesi paiono in larga parte popolati da soli soldati, separati da una linea di confronto lungo la quale, per profondità contenute, i reparti russi tentano di resistere alla pressione Ucraina. Con i loro armamenti più o meno pesanti, acquartieramenti, comandi, depositi di munizioni, carburante, mezzi di traporto e altro. Il tutto contenuto in ben identificabili e perimetrabili aree geografiche.

Pare insomma lo scenario ideale per l’impiego delle bombe a grappolo, l’esatto scenario per cui queste furono pensate; come scenario ideale era ad esempio quello delle chilometriche carovane di mezzi militari russi in marcia verso Kiev, quando si pensava che questa potesse cadere in pochi giorni.

Poi, per far dormire sonni tranquilli – se questo è il problema – a chi oggi cerca di intralciare la fornitura agli ucraini di bombe a grappolo, sarebbe sufficiente pretendere la garanzia – facilmente verificabile – di una pianificazione oculata delle missioni di volo o di artiglieria, in modo che le aree ad alta densità di reparti russi sia delimitata geograficamente con adeguato margine di sicurezza. Con una Intelligence da fonte satellitare o anche da piccoli droni, indispensabile a disegnare con esattezza l’area da saturare, e i più appropriati parametri dei sistemi d’arma, primo tra tutti lo spolettamento della quota di apertura dei contenitori delle bombette.

Si eviterebbe così con sufficiente accuratezza che le cluster bomb provochino significativi e indesiderati danni collaterali.

C’è però il concreto problema delle bombe inesplose, un problema per il quale sono circolate informazioni artefatte, soprattutto nelle cifre, nelle dimensioni del pericolo derivante dall’incappare in una bomba ancora attiva. Si è parlato addirittura del 40% sul totale dell’armamento lanciato, una cifra che francamente non trova riscontro nelle percentuali medie osservate sul campo.

Gli Stati Uniti pare si siano impegnati nel fornire Cluster il cui tasso di mancata attivazione sia contenuto al 3% o qualcosa di simile e credo che attorno a tale cifra si aggiri di norma il tasso di inefficienza degli armamenti in circolazione.

In ogni caso andrebbe attivata, a ostilità concluse, una opera di bonifica, che sarebbe però certamente meno ardua di quella comunque da attuare e volta a disattivare le ben più insidiose mine antiuomo delle quali i russi hanno disseminato i territori occupati.

Il problema pertanto non esiste, considerato che siamo in guerra; o comunque non è nei termini in cui è stato rappresentato dai media.

Esso inoltre andrebbe inquadrato in un’ottica complessiva in cui un Paese, aggredito, ridotto in una sua cospicua parte a un cumulo di macerie da un avversario che non ha risparmiato barbarie e crudeltà, che ha usato ogni arma propria ed impropria in maniera indiscriminata, ecco si vorrebbe che questo paese, già costretto da una serie di bizzarre limitazioni come quella di non poter usare la forza fuori dai propri confini, non potesse venire dotato di un tipo di armamento tutto sommato meno letale di ogni altro osservato in questa guerra e che più di ogni altro ora gli sarebbe necessario per liberare i propri territori da un invasore, tra l’altro aduso ad impiegare senza restrizioni, anche e soprattutto morali, proprio quel tipo di armi.


formiche.net/2023/07/bombe-gra…



#NotiziePerLaScuola

È disponibile il nuovo numero della newsletter del Ministero dell’Istruzione e del Merito.



Responsabili


Tutto questo è di indicibile noia e inutilità. Gli uni continueranno ad accusare il magistrato che inquisisce un politico amico d’essere politicizzato, mentre il problema è l’incapacità della politica di stabilire regole che preservino l’indipendenza del

Tutto questo è di indicibile noia e inutilità. Gli uni continueranno ad accusare il magistrato che inquisisce un politico amico d’essere politicizzato, mentre il problema è l’incapacità della politica di stabilire regole che preservino l’indipendenza del giudizio e il rispetto dei diritti individuali. Fra i quali non c’è soltanto la libertà, ma anche l’onorabilità. Mentre gli altri politici continueranno a chiamare “giustizia” l’ipotesi d’accusa, perché incapaci di elaborare accuse men che generiche e sloganistiche in campo politico. Gli uni e gli altri rimproverandosi a vicenda d’essere forcaioli a fasi alterne. Se può servire: lo siete stati quasi tutti ed è uno spettacolo penoso.

Concentriamoci sulle vie d’uscita. Ne segnalo due, pertinenti a quanto succede in queste ore. Una normativa e l’altra culturale o, se si preferisce, di costume.

1. In nessuno Stato di diritto esiste la possibilità che si impedisca a un procuratore di svolgere un’indagine. O, per meglio dire, sistemi come quello francese o tedesco prevedono che si possa farlo – dato che il procuratore dipende dal governo – ma presuppongono che il governo si assuma la responsabilità di quella scelta. Difatti accade assai di rado e mai riguardo a politici. Il procuratore non è un “giudice”, ma un magistrato che non giudica nessuno, cura le indagini e sostiene l’accusa. Se qualcuno chiama “giudice” il procuratore pensate all’ortopedico che chiami “femore” l’osso del vostro braccio e scappate via lontano: quello vi ammazza. Non è un giudice, ma deve essere libero di indagare, naturalmente nel rispetto della legge.

Quel che serve non è esercitare un controllo politico sull’attività delle Procure, ma farlo sui risultati che ottengono. La produttività può ben essere misurata anche in questo campo e chi lo nega cerca soltanto di non essere misurato. Si cancelli l’obbligatorietà dell’azione penale e si introduca la responsabilità: sei libero di indagare e accusare, ma se cumuli casi di cittadini che hai accusato e che sono stati assolti togli il disturbo. Può darsi che tu sia sfortunato, più facilmente sei incapace e potresti essere prevenuto o politicizzato, in ogni caso vai allontanato.

2. Dalle stanze del governo sono uscite parole intrise di preoccupante nervosismo circa i casi Delmastro e Santanchè. Che sono pure due cose di non gran rilievo. Se la prendono con questo piglio, se immaginano di potere condurre una battaglia non per la riforma della giustizia (più che giusta) ma per difendersi dalle iniziative giudiziarie, hanno già perso in partenza. Come altri prima di loro. Usino la civiltà, con un pizzico di sana malizia.

In questi giorni un politico del Partito democratico, Mario Oliverio, ha ricevuto un avviso di garanzia. È stato sparato sui mezzi d’informazione con il solito clamore conformista, con il solito servile ossequio copista nei confronti dell’accusa. Non si ricorderà mai abbastanza che non ci sarebbe una politica così ridotta se non avessimo un giornalismo corrivo al peggio. Soltanto che quella stessa persona è già stata accusata di altri reati infamanti, s’è messa in scena la stessa danza tribale, salvo poi – in silenzio e dopo tempo – essere assolta. Dunque, fra i tanti che ne avete, trovate un parlamentare della destra che dica: non conosco la posizione personale di Oliverio, non tocca a me giudicare, ma per me resta, ai sensi della Costituzione, un innocente fino a prova del contrario. Punto. Non aggiunga altro, che gli viene male. Punto.

Soltanto questo autorizzerebbe a chiedere reciprocità, nel rispetto del diritto e dei diritti individuali. Mentre da decenni, con oramai bolsa barbarie, praticano la reciprocità nell’inciviltà. Avviso ai deliranti: è diventato noioso, si sa già che è inutile, ciascuno resterà prigioniero delle infamità che dice e l’inquisitore oggi accusato d’essere rosso domani lo sarà d’essere nero, in un massacro della giustizia di cui fa le spese non il politico inquisito (e dai suoi protetto), ma il cittadino di cui a nessuno importa un fico secco.

La Ragione

L'articolo Responsabili proviene da Fondazione Luigi Einaudi.



Il Programma alimentare mondiale (WFP) userà i robot per distribuire aiuti in aree di conflitto


I veicoli consegneranno cibo, medicine e acqua in situazioni ritenute troppo a rischio per gli operatori umanitari. L'articolo Il Programma alimentare mondiale (WFP) userà i robot per distribuire aiuti in aree di conflitto proviene da Pagine Esteri. htt

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della redazione

Pagine Esteri, 10 luglio 2023 – Con una mossa innovativa volta a proteggere gli operatori umanitari e a migliorare la distribuzione di aiuti alimentari, il Programma Alimentare Mondiale (WFP/PAM) pianifica di introdurre veicoli robotici alimentati da intelligenza artificiale per la consegna di pacchi alimentari nelle zone di conflitto e di disastri naturali. Questi veicoli autonomi debutteranno l’anno prossimo, segnando un avanzamento nelle operazioni umanitarie.

Secondo un funzionario del PAM, l’aumento della violenza contro gli operatori umanitari negli ultimi anni ha reso necessarie soluzioni alternative. L’uso di robot potrebbe potenzialmente mitigare i rischi associati alla consegna di aiuti in zone pericolose. Bernhard Kowatsch, responsabile del dipartimento di innovazione del PAM, sostiene che i veicoli potrebbero rivoluzionare la situazione, consentendo la consegna di cibo, medicine e acqua in situazioni ritenute troppo a rischio per gli operatori umanitari.

Il concetto di veicoli robotici è stato inizialmente sviluppato durante il conflitto ad Aleppo, in Siria, tra il 2012 e il 2016. I metodi tradizionali per la distribuzione di aiuti con gli aerei erano difficili ed costosi nelle aree di combattimento, hanno reso necessario un approccio più efficiente. Il PAM, in collaborazione con il Centro Aerospaziale Tedesco (DLR), ha lavorato al progetto AHEAD (Autonomous Humanitarian Emergency Aid Devices) per perfezionare questi veicoli.

I robot dotati di capacità anfibie e di trasportare fino a 2 tonnellate di cibo, utilizzano una combinazione di dati satellitari e sensori. Questa tecnologia consente ai conducenti remoti di guidare i veicoli in modo efficace. Tuttavia, il PAM programma di effettuare test di veicoli senza conducente all’inizio dell’anno prossimo, un passo cruciale per raggiungere la piena autonomia nella consegna di aiuti alimentari.

La messa in campo di robot con intelligenza artificiale per la consegna di aiuti offre un enorme potenziale, specialmente in aree di conflitto come il Sud Sudan, dove l’insicurezza alimentare grave colpisce milioni di persone. Pagine Esteri

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L'articolo Il Programma alimentare mondiale (WFP) userà i robot per distribuire aiuti in aree di conflitto proviene da Pagine Esteri.



Israele, Jenin e la prossima guerra


L'occupazione militare è il terreno di prova delle tecnologie israeliane più avanzate da collocare sul mercato internazionale delle armi L'articolo Israele, Jenin e la prossima guerra proviene da Pagine Esteri. https://pagineesteri.it/2023/07/10/mediori

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di Miriam Zenobio*

(le foto di Jenin dopo l’ultima operazione militare israeliana sono di Michele Giorgio)

Pagine Esteri, 10 luglio 2023 – La domanda che riecheggia in molti titoli di giornale è se Israele abbia raggiunto i suoi obiettivi a Jenin, segnando quella che viene già definita come la più significativa operazione militare israeliana nel campo profughi della Cisgiordania settentrionale dopo la famigerata operazione Scudo difensivo del 2002. Tuttavia, in mezzo a queste discussioni, ciò che rimane inesplorato è la vera natura di questi obiettivi. Mentre alcuni non prendono nemmeno in considerazione la legalità o legittimità di questa operazione proclamata come azione di antiterrorismo, gli osservatori più accorti sottolineano giustamente che tali sforzi alimentano la resistenza armata palestinese invece di sradicarla. A più di settant’anni dalla Nakba e in più di mezzo secolo di occupazione, sembra che i presunti obiettivi “antiterroristici” di Israele continuino a non essere raggiunti. In sostanza, nonostante le fluttuazioni, la resistenza armata palestinese continua a riemergere. Persino gli Stati Uniti, dopo aver tratto insegnamenti dalla guerra urbana contro-insurrezionale di Israele, alla fine hanno riconosciuto la loro inadeguatezza nel sedare la resistenza in Iraq e in Afghanistan. Di conseguenza, il generale Petraeus si è rivolto alla Pacificazione dell’Algeria del generale francese David Galula come quadro di riferimento per integrare le strategie di contro-insurrezione con mezzi di persuasione politica.

In altre parole, la violenza genera violenza, ma Israele non sembra essere preoccupato da questa prospettiva. E questo pone una domanda: chi trae veramente vantaggio dalla continua campagna di Israele tra le guerre? Jenin potrebbe essere la chiave della risposta.

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La routinizzazione della guerra e l’integrazione del conflitto armato nella vita quotidiana hanno portato il famoso sociologo israeliano Baruch Kimmerling a descrivere Israele come l’incarnazione del “militarismo totale”. Egli sosteneva che il militarismo civile fosse centrale nella percezione di sé della società e nello sviluppo delle sue dottrine sociali, militari, interne e di politica estera. Kimmerling ha sostenuto che la militarizzazione della società israeliana era così pervasiva che anche istituzioni apparentemente non correlate, come il sistema scolastico e giudiziario, ne mostravano l’influenza diffusa. Analogamente alla sua notevole analisi dello statalismo israeliano come religione di Stato, Kimmerling ha osservato come il militarismo in Israele funzioni come religione civile della sicurezza. Quindi, come qualsiasi altra religione, il militarismo sarebbe adottato da ogni cittadino israeliano in tenera età senza alcuna discussione. A livello istituzionale, ciò si traduce in una sacra enfasi sulle considerazioni militari e strategiche come fattori primari che influenzano il processo decisionale civile, sociale e politico. In sostanza, tutti gli aspetti della società israeliana sono orientati alla preparazione e all’impegno costante nella guerra.

Così come alimenta l’autoidentificazione collettiva e guida tutti gli aspetti della vita in modo evidente, il militarismo israeliano ha una portata anche sulla sfera economica?

Il miracolo economico di Israele, nonostante le sue continue guerre, è stato ampiamente discusso. Tuttavia, è plausibile che queste guerre non abbiano ostacolato il suo successo, ma piuttosto vi abbiano contribuito. I critici sostengono da tempo che l’occupazione di Israele ha avuto un impatto negativo sull’economia del Paese, con costi significativi. Essi affermano che l’enfasi del Paese sul militarismo ha portato a continui investimenti nell’espansione delle infrastrutture degli insediamenti, spesso a spese degli svantaggiati all’interno di Israele. Tuttavia, un esame più attento rivela che l’approccio militarista di Israele è stato la forza trainante della crescita, della prosperità e persino dell’ingegno del suo settore economico più importante, facendogli guadagnare la stimata reputazione di “start-up nation”. Mi riferisco in particolare al settore tecnologico e all’industria militare, che, come ha commentato Yotam Feldman, “non appartiene a pochi venditori, ma è di proprietà dell’intero Paese”.

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Nel suo stimolante documentario “The Lab” (2013), Feldman mostra efficacemente le connessioni tra l’operazione Scudo difensivo (2002) a Jenin e lo sviluppo di importanti prodotti di punta della fiorente industria israeliana del commercio di armi, come il CornerShot brevettato dal tenente colonnello Amos Golan. In effetti, le esportazioni di armi di Israele hanno subito un’impennata senza precedenti nel 2002, sfruttando il clima post 11 settembre. Il valore di queste esportazioni è salito alle stelle, più che raddoppiando rispetto all’anno precedente e culminando in uno sbalorditivo record di oltre 4 miliardi di dollari. Sorprendentemente, due decenni dopo, questa cifra è salita a ben 12 miliardi di dollari. In particolare, i Paesi firmatari degli Accordi di Abramo contribuiscono per il 24% a questa somma, mentre i Paesi europei rappresentano il 29% della composizione delle esportazioni, al secondo posto dopo i Paesi asiatici.

Perché c’è una domanda così alta di armi israeliane? La risposta potrebbe inizialmente apparire ovvia: Israele si è affermato come produttore leader e innovativo di armi, guadagnandosi il plauso per le sue avanzate capacità tecnologiche che consentono di massimizzare gli obiettivi militari con un bassissimo costo di vita (militare, non civile) in quella che viene ormai condotta come una guerra sempre più remota. In una candida conversazione con Feldman, Binyamin Ben-Eliezer, ex generale, ministro dell’Industria, delle Infrastrutture e della Difesa a più riprese, ha risposto con sicurezza che la gente gravita naturalmente verso prodotti che sono stati rigorosamente testati. Molte compagnie dell’industria militare israeliana affermano con orgoglio che le loro creazioni sono state sottoposte a test approfonditi per diversi decenni, vantando fiducia nella loro qualità e affidabilità.

Pertanto, l’industria militare israeliana considera l’occupazione della Palestina come un fertile terreno di prova. Naomi Klein ha osservato come, grazie all’occupazione, Israele sia diventato “uno showroom aperto ventiquattro ore su ventiquattro, un esempio vivente di come si possa godere di una relativa sicurezza in mezzo a una guerra costante”. Con orgoglio, gli sviluppatori di armi israeliani, molti dei quali sono veterani dell’esercito, affermano che la Cisgiordania e la Striscia di Gaza agiscono come laboratori reali, consentendo loro di sperimentare nuove tecnologie e armi direttamente sul campo.

D’altronde, perché limitarsi a impiegare un ambiente di simulazione, con ritagli di cartone in finti villaggi palestinesi, quando si possono apprendere le più avanzate tecniche di guerra urbana, come il “mouse-holing”, le manovre dei bulldozer blindati e i nidi di trappole esplosive, proprio nel mezzo di un vero

villaggio con veri palestinesi? E’ questo il caso delle esercitazioni militari svolte a Masafer Yatta, aka Zona di tiro 918, nelle colline a sud di Hebron, dove un migliaio di persone oltre a vivere sotto continua minaccia di espulsione, vedono i loro villaggi trasformarsi in qualcosa di simile al set cinematografico di Fauda – se non fosse che le ferite sono vere.

In questo complesso scenario, l’importanza di Jenin non può essere sottovalutata. È stato, infatti, proprio, nell’aprile 2002 che l’IDF ha effettuato una svolta strategica, scatenando una forza devastante che l’ha distinta dai precedenti sforzi militari israeliani in Cisgiordania. Stephen Graham racconta questo momento cruciale, sottolineando l’impareggiabile potenza dimostrata dall’IDF a Jenin, e in misura minore in altre città della Cisgiordania, con un numero impressionante di morti e sfollati, a fronte di pochissime perdite israeliane. Inoltre, Michael Evans sostiene che l’operazione Scudo difensivo a Jenin non solo ha segnato un punto di svolta nella strategia di guerra urbana di Israele, ma è anche servita come esempio paradigmatico di una nuova forma di guerra asimmetrica. L’operazione Defensive Shield ha mostrato l’evoluzione delle strategie successivamente impiegate da altri eserciti statali tecnologicamente avanzati quando si sono confrontati con gruppi di insorti, a scapito delle ingenti perdite civili che si sono verificate nei teatri urbani densamente popolati dove hanno avuto luogo.

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Inutile dire che gli Stati Uniti sono stati i primi a adottare le tattiche pionieristiche di contro-insurrezione urbana potenziate dai sofisticati armamenti israeliani e dalle loro tecnologie avanguardistiche – come dimostrano i casi documentati di soldati americani, vestiti con l’equipaggiamento dell’IDF, che hanno diligentemente osservato e assimilato le lezioni dello sfollamento e demolizione del campo profughi di Jenin nel 2002. Tuttavia, le forze armate americane non sono state le sole a riconoscere il valore dell’incorporazione di metodi israeliani e di armi avanzate nelle loro strategie antiterroristiche, che hanno poi impiegato in Iraq e Afghanistan. Attirando l’attenzione a livello globale, gli ufficiali militari di varie nazioni convergono ogni anno in Israele per partecipare alle simulazioni militari organizzate dai principali produttori di armi del Paese. Tra i principali beneficiari, il Brasile ha dimostrato una notevole scrupolosità, tanto che uno dei quartieri più afflitti dalla Guerra alla droga a Salvador, noto come Baixa dos Sapateiros, si è guadagnato il soprannome di Striscia di Gaza bahiana.

Il rapporto dell’Europa con il settore degli armamenti di Israele, come ha osservato Antony Loewenstein nel suo ultimo libro “The Palestine Laboratory”, non è da meno e Horizon ha giocato un ruolo cruciale nello scambio. Il generale israeliano Yoav Gallant ha criticato l’ipocrisia dell’Europa. Da un lato, l’Europa critica le azioni politiche di Israele, ma dall’altro, ammira con convinzione la capacità di Israele di infliggere danni significativi con perdite minime. È interessante notare che, secondo alcuni rapporti, la presidenza francese avrebbe chiesto consiglio alle autorità israeliane durante gli ultimi violenti disordini popolari in Francia.

Tutto ciò suggerisce che Israele non dipende solo ontologicamente dall’occupazione dei palestinesi, ma anche economicamente. L’occupazione della Palestina funge da incubatrice di idee per la risoluzione dei problemi che vengono tradotte in modo fruttuoso nell’industria delle armi ed esportate in tutto il mondo accrescendo il suo status a livello internazionale. Come nel 2002, anche oggi, ciò che resta da vedere da quest’ultima operazione a Jenin non è se abbia raggiunto gli obiettivi antiterrorismo di Israele, ma piuttosto cosa prospetta per la guerra futura. Pagine Esteri

*Ricercatrice in Middle Eastern Studies e International Security Studies. Ha vissuto e studiato in Israele-Palestina e ha esperienze lavorative presso le Nazioni Unite e l’Istituto Affari Internazionali.

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Yan Pei-Ming a Firenze: pittore di storie


Yan Pei-Ming a Firenze: pittore di storie Yan Pei-Ming Firenze
Yan Pei-Ming arriva a Firenze con le sue tele monumentali: dal 7 luglio al 3 settembre Palazzo Strozzi presenta Yan Pei-Ming – Pittore di storie, la più grande mostra in Italia dedicata all’artista franco-cinese. A cura di Arturo Galasino, Direttore Generale della Fondazione Palazzo Strozzi, l’esposizione propone un percorso di oltre trenta opere che portano lo spettatore dentro la potente ...

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In Cina e Asia – Terminata la visita di Yellen in Cina. Dialogo "diretto e produttivo”


In Cina e Asia – Terminata la visita di Yellen in Cina. Dialogo yellen
I titoli di oggi:

Terminata la visita di Yellen in Cina. Dialogo "diretto e produttivo"
Multa per Ant e Tencent. La campagna di rettifica è davvero conclusa?
Cina: prezzi alla produzione ai minimi dal 2015
AIIB: revisione interna ritiene le accuse di influenza del Pcc "prive di ogni fondamento"
Cina, venticinquenne arrestato per furto di dati di migliaia di universitari
Uzbekistan: Mirziyoyev verso il terzo mandato consecutivo da presidente

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Rivoluzione Pixelfed: in arrivo un nuovo modo di accedere a Pixelfed in meno di 60 secondi, con il proprio account Mastodon.

@Che succede nel Fediverso?

#Pixelfed ha presentato una novità bellissima per tutto il #Fediverso, replicabile per tutti gli altri progetti!


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in reply to Poliverso - notizie dal Fediverso ⁂

da un lato geniale, da un'altro pericola perchè accentra ancor più potere alle grandi istanze mastodon.
Ma in definitiva io sono per semplificare e secondo me i progetti minori dovrebbero approffittare dell'enorme popolarità di mastodon.


Bombe a grappolo all’Ucraina? Jean spiega la controversa decisione Usa


Gli Usa forniranno all’Ucraina proiettili a grappolo per obici da 155 mm e forse per lanciarazzi multipli HIMARS. Le bombe a grappolo (cluster bomb), sviluppate dalla Germania durante la Seconda Guerra Mondiale, sono armi areali, lanciabili da vettori ter

Gli Usa forniranno all’Ucraina proiettili a grappolo per obici da 155 mm e forse per lanciarazzi multipli HIMARS. Le bombe a grappolo (cluster bomb), sviluppate dalla Germania durante la Seconda Guerra Mondiale, sono armi areali, lanciabili da vettori terrestri o aerei. Gli Usa forniranno all’Ucraina quelle per artiglieri da 155 mm, considerate fondamentali per neutralizzare le fanterie russe trincerate nel Sud-Est dell’Ucraina, al fine di guadagnare il tempo necessario allo sminamento indispensabile per la creazione di brecce nel dispositivo russo, potentemente fortificato, senza far subire perdite eccessive alle truppe d’assalto ucraine. L’artiglieria costituisce il mezzo indispensabile per la controffensiva di Kiev, che si trova a corto di munizioni, dati i ritardi che subisce la mobilitazione industriale occidentale e l’esaurimento delle scorte Nato.

Le bombe a grappolo modello M 864 – che costituiscono almeno in un primo tempo la massa di quelle che saranno fornite dagli Usa – contengono, a seconda dell’anno di fabbricazione, da 72 a 86 sub-munizioni o bombette, che si disperdono in un’area delle dimensioni di un campo di calcio. Entrano nelle trincee, rendendole impercorribili. Un numero ridotto dei tipi più recenti è programmato per autodistruggersi entro 48 ore dall’arrivo sul terreno, in modo da non costituire per anni, come le mine antiuomo, un pericolo per la popolazione e obbligare a difficili e costose operazioni di bonifica. Particolarmente vulnerabili sono i bambini attirati dal fatto che le bombette sono simili a palline. Si è rinunciato a colorarle per facilitare la bonifica, dato che la cosa ne faciliterebbe la neutralizzazione da parte del nemico.

La percentuale dei mancati funzionamenti (dud rate) delle M 864 è discussa: varia dall’1,2 al 5% (mediamente 2,35% secondo il Pentagono). Raggiunge il 20% secondo le organizzazioni umanitarie, portate a sottolinearne la pericolosità nel post-conflitto.

Sono condannate dalla “Convenzione di Dublino” del 2008 le cluster bomb, 111 Stati l’hanno firmata, rinunciando al loro uso, stoccaggio, trasferimento e costruzione. Gli Usa, come la Russia, la Cina l’India, ecc. non vi hanno aderito. Allora il Pentagono affermò che non poteva rinunciarvi, data la loro efficacia e il fatto che Stati potenzialmente ostili agli Usa le mantenevano nei loro arsenali. Le organizzazioni umanitarie assimilano le bombe a grappolo alle mine antiuomo e le condanno con l’eccezione di quelle utilizzate per lanciare fili metallici per creare cortocircuiti alle reti elettriche, impiegate dalla Nato nel 1999 nella guerra del Kosovo. Gli Stati europei – incluso l’UK – hanno firmato la Convenzione e si sono dichiarati contrari alla decisione Usa di consegnare all’Ucraina di “bombe a grappolo”.

Di fatto, sia Kiev che Mosca hanno impiegato consistenti quantità di bombe a grappolo attingendo ai depositi ex-sovietici. La decisione di Biden è stata contestata anche da parte di taluni parlamentari democratici, preoccupati non solo della reazione avversa degli alleati (anche dell’Italia, con qualche “distinguo” da parte di Londra), ma anche dalla preoccupazione di perdere la “verginità morale” nel sostegno all’Ucraina. Interessante è perciò esaminare i motivi che hanno indotto Biden a prendere tale decisione, da tempo sollecitata da Zelensky.

Dell’efficacia militare contro le linee fortificate russe, si è già parlato, unitamente alla preoccupazione di Kiev di ridurre le perdite dei propri soldati e di accelerare la controffensiva, in modo anche da consolidare il sostegno occidentale all’Ucraina. Sono fatti più importanti delle critiche rivolte all’uso di armi tanto odiose per le opinioni pubbliche. Il loro trasferimento a Kiev mobiliterà non solo “gli utili idioti di Putin” ma anche le organizzazioni umanitarie. A poco vale la promessa di Zelensky di utilizzarle solo sul territorio ucraino, in aree non abitate. In caso di successo, le forze ucraine nella loro avanzata dovranno attraversare le aree contaminate da bombette inesplose, subendo perdite, come quelle Usa che in Iraq nel 2003 persero 21 soldati.

Oltre che per la loro efficacia contro i trinceramenti, il motivo essenziale che ha indotto Biden a decidere di fornire bombe a grappolo all’Ucraina consiste nella carenza delle scorte di munizionamento convenzionale, a cui fanno riscontro i grandi “stocks” di quelli di bombe a grappolo (si parla di 4,7 milioni di proietti, di cui mezzo milione di M 864) e nel fatto che la controffensiva ucraina, sta proseguendo con consistenti perdite e a velocità inferiore a quanto desiderabile per neutralizzare il punto più debole della resistenza ucraina: la saldezza della coalizione che appoggia Kiev. È probabile che l’argomento entrerà nel dibattito politico italiano, con le solite accuse di un’Europa asservita agli Usa.

In ogni caso, la sofferta decisione di Biden non verrà mutata. Verrà sicuramente discussa al Summit Atlantico. Ma si troverà qualche giustificazione per confermarla. L’unica possibilità di una sua modifica sta nel rafforzarsi dell’opposizione della sinistra dei democratici americani. Il costo di una rinuncia sarebbe comunque molto pesante per gli ucraini. Pagherebbero con un aumento di caduti per la mancanza di adeguati rifornimenti di munizioni e i “pudori” delle opinioni pubbliche occidentali.


formiche.net/2023/07/decisione…



Gli Usa e il fianco Sud. Il vertice Nato visto dall’amb. Julianne Smith


A Vilnius la guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina sarà al centro delle riflessioni dei Paesi alleati, ma si affronteranno anche le sfide del futuro con una visione a 360 gradi. Saranno annunciate diverse iniziative legate alla missione prin

A Vilnius la guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina sarà al centro delle riflessioni dei Paesi alleati, ma si affronteranno anche le sfide del futuro con una visione a 360 gradi. Saranno annunciate diverse iniziative legate alla missione principale della Nato – la deterrenza e la difesa – e vedremo anche proposte legate alle nuove questioni della competizione globale, dalla sicurezza informatica e dal clima ai problemi economici e sanitari globali. Questa è la forza della Nato: continuare a evolversi, creare nuovi partenariati e rafforzare quelli esistenti, rimanendo impegnati fornire ai nostri amici ucraini tutto il sostegno di cui hanno bisogno.

I partenariati saranno preziosi, soprattutto perché la Nato è intenzionata ad allargare il suo sguardo a livello globale. Per la prima volta l’Alleanza transatlantica ha incluso la Cina come competitor nel suo Concetto strategico, lanciato al vertice di Madrid dello scorso anno. Per la prima volta gli alleati hanno convenuto che Pechino rappresenta una sfida sistemica. Riteniamo, infatti, che i cinesi stiano cercando di erodere l’attuale sistema internazionale basato sulle regole, creato più di settant’anni fa. Di conseguenza, l’Alleanza sta cercando di rafforzare le sue relazioni con alcuni Paesi dell’Indo-Pacifico. Al vertice di Vilnius parteciperanno i leader di quattro di questi partner: Australia, Nuova Zelanda, Corea del Sud e Giappone. Insieme, potremo affrontare le sfide comuni. Inoltre, l’Alleanza sta cercando di creare una serie di strumenti per proteggere la Nato da alcune delle sfide che la Cina potrebbe porre nell’area euroatlantica. Su questo punto, alcuni ritengono che la Nato stia cercando di espandersi nella regione indo-pacifica. Non è così. La Nato è un’alleanza difensiva nella regione europea e nordatlantica, ma la sua missione è proteggere i Paesi membri dalle sfide che si profilano all’orizzonte anche da altri quadranti.

Quindi il nostro obiettivo non è l’eventuale adesione di questi Paesi partner alla Nato, ma piuttosto lavorare insieme su grandi questioni globali come la sicurezza informatica, la disinformazione e altre sfide comuni. Oltre all’Indo-Pacifico, inoltre, l’Alleanza ha obiettivi chiari anche per il fianco meridionale. La Nato ha attualmente più di quaranta Paesi partner in tutto il mondo, molti dei quali si trovano proprio nella regione meridionale della Nato, nel Mediterraneo, in Africa e in Medio Oriente. Gli alleati hanno numerosi programmi in queste regioni e molti di questi Stati hanno espresso interesse a rafforzare i loro partenariati con l’Alleanza in varie forme. Alcuni desiderano avere maggiori input dalla Nato nella riforma dei loro sistemi di sicurezza interna; altri vorrebbero la partecipazione degli Alleati per migliorare la loro sicurezza informatica; altri ancora chiedono aiuto per contrastare le campagne di disinformazione che Cina e Russia stanno portando avanti nelle loro regioni. Su tutti questi partenariati incombe tuttavia una minaccia comune: l’instabilità.

Diversi partner vorrebbero rafforzare il loro rapporto con la Nato proprio per garantire una maggiore stabilità ai loro vicini e alle loro regioni. Questo ruolo è fondamentale per l’Alleanza e al vertice si cercheranno nuove iniziative da mettere in atto ora e nei prossimi anni. Su questi temi gli Stati Uniti e l’Italia possono dare un grande contributo lavorando insieme. I nostri due Paesi condividono relazioni bilaterali molto forti, abbiamo una lunga storia di lavoro e collaborazione in sfide sia nella zona euroatlantica sia in altre regioni del mondo. L’Italia ospita 30mila soldati statunitensi con le loro famiglie e svolge un ruolo cruciale di leadership all’interno dell’Alleanza, continuando a sostenere l’Ucraina con assistenza economica, umanitaria e di sicurezza, oltre a essere leader in diverse operazioni e missioni della Nato. Per quanto riguarda il futuro, ci sarà sicuramente una maggiore cooperazione, anche nel G7, nelle relazioni tra Stati Uniti e Unione europea e nelle Nazioni Unite. Insieme, Washington e Roma continueranno a lavorare sulle sfide globali come il cambiamento climatico, la migrazione o le questioni sanitarie ed economiche.

Articolo apparso sul numero 144 della rivista Airpress


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Dialogo e partenariati, la ricetta dell’amb. Peronaci per il summit di Vilnius


Ci troviamo in un momento di preparazione del prossimo vertice Nato a Vilnius, un appuntamento importante, che servirà a riaffermare l’unità tra alleati e la determinazione a contrastare la guerra di aggressione all’Ucraina. In Lituania, l’Alleanza prende

Ci troviamo in un momento di preparazione del prossimo vertice Nato a Vilnius, un appuntamento importante, che servirà a riaffermare l’unità tra alleati e la determinazione a contrastare la guerra di aggressione all’Ucraina. In Lituania, l’Alleanza prenderà delle decisioni strategiche che porteranno non solo al rafforzamento degli assetti, ma a una riorganizzazione complessiva con uno sguardo di medio-lungo periodo. Come ribadito anche nel corso del recente tour europeo del presidente ucraino Zelensky, il messaggio che la Nato vuole mandare è chiaro: “Siamo più forti di quando la guerra è iniziata”.

Il secondo messaggio che i Paesi alleati intendono veicolare è quello di una Nato aperta e interessata a dialogare a 360 gradi attraverso l’attivazione di diversi partenariati politici, secondo una direttiva illustrata anche dal Concetto strategico di Madrid.

Non è un caso che al summit lituano saranno presenti anche i partner dell’Asia-Pacifico, i cosiddetti Paesi AP4 (Australia, Giappone, Repubblica di Corea e Nuova Zelanda), in una visione della sicurezza globale concretamente integrata. Non mancheranno, del resto, decisioni rispetto al rafforzamento delle partnership con i Paesi del fianco sud, dall’Africa del nord al Golfo. Un’azione che la Nato sta portando avanti da diversi anni attraverso programmi come i Dialoghi mediterranei e l’Iniziativa di cooperazione di Istanbul. Progetti importanti, che prevedono anche lo sviluppo di missioni operative. Ne è un esempio la missione Nato in Iraq, che si sta evolvendo da una presenza puramente difensiva a un’attività di partenariato per la riforma della sicurezza interna con una piena ownership degli iracheni.

La Nato, dunque, può offrire un contributo concreto a quella che nel Concetto strategico è stata definita la sicurezza cooperativa. Un contributo reso più importante, in questo momento, dalla necessità di rispondere a una guerra ma che ci deve veder lavorare anche, e forse soprattutto, prima e dopo i conflitti, attraverso quelle attività di prevenzione e stabilizzazione che rappresentano uno dei core task identificati dal documento redatto a Madrid nel 2022.

Il Concetto strategico, infatti, individua due minacce principali; la Russia e il terrorismo. La prima è concentrata sul fianco est, la seconda a sud. Ma il punto centrale è la consapevolezza di come tutte queste minacce siano integrate tra loro. Atlantico e Mediterraneo, del resto, sono collegati attraverso il Golfo all’oceano Indiano e al Pacifico. Uno degli obiettivi di Vilnius, allora, sarà approfondire tutti i partenariati politici. Dobbiamo essere consapevoli, infatti, che senza una presenza forte di Paesi che si basano sui valori democratici e sullo stato di diritto, in molte regioni del mondo altri attori, come Russia e Cina, stanno occupando spazi che un domani sarà molto difficile recuperare.

Di fronte a questo scenario, fondamentale sarà ribadire l’unità di intenti tra gli alleati, e in particolare la relazione che lega l’Italia e gli Stati Uniti. Gli Usa, infatti, sanno di trovare nel nostro Paese oltre che un alleato, un amico. Gli italiani hanno una tradizionale presenza degli Stati Uniti e una profonda gratitudine per il loro ruolo dopo la Seconda guerra mondiale nel percorso che ha portato alla Nato e a questo sistema internazionale che riteniamo sia da difendere. Una comprensione che va al di là dei semplici rapporti tra governi e che lega le due comunità di cittadini. L’Italia, inoltre, può dare agli Stati Uniti una presenza nelle organizzazioni internazionali, a partire dall’Unione europea, aperta alla continua cooperazione transatlantica.

Con l’ingresso della Finlandia, e presto della Svezia, ci sarà anche molta più Europa nella Nato, e sarà di conseguenza ancora più importante costruire un rapporto forte tra le due sponde dell’Atlantico. Il supporto degli alleati americani potrà anche aiutare i Paesi membri dell’Ue a costruire il progetto della Difesa comune. Nel Vecchio continente, infatti, spendiamo molto per la nostra sicurezza, ma se continueremo a spendere divisi, lo faremo male. La collaborazione transatlantica potrebbe invece aiutare a investire meglio le risorse europee. Una necessità che caratterizza anche l’Italia, che a Vilnius riconfermerà in pieno l’impegno al necessario incremento delle spese per la Difesa fino a raggiungere l’obiettivo del 2% del Pil.

Abbiamo un percorso di avvicinamento a questo traguardo, rafforzato dalla consapevolezza che, come indicano i dati economici, l’Italia è il Paese che in Europa crescerà di più, a 1,2%. Ma oltre a quanto spendere, è importante come spendere. L’Italia fornisce all’alleanza anche capacità e contributi effettivi. Il nostro Paese partecipa ai battlegroup che vanno dalla Lettonia fino alla Bulgaria e fornisce assetti aerei pregiati per le attività di air policing dell’Alleanza lungo tutto il fianco settentrionale e orientale. A Vilnius, dunque, verranno gettate le basi per il futuro dell’Alleanza, un futuro che dipende dalla capacità della Nato di adattarsi alle nuove realtà. Il prossimo anno, a Washington, festeggeremo i 75 anni della fondazione del Patto atlantico, e come italiani, e soprattutto come alleati, avremo davvero qualcosa di cui essere orgogliosi.

Articolo apparso sul numero 144 della rivista Airpress


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Dall’Italia servono proposte concrete per il Sud della Nato. I consigli di Minuto-Rizzo


Quello di Vilnius è un vertice molto atteso, anche perché si trova proprio ai confini con la Russia mentre perdura la sua invasione dell’Ucraina. Si tratterà quindi di un evento dalla grande valenza simbolica. Sarà importante anche perché, almeno nelle pr

Quello di Vilnius è un vertice molto atteso, anche perché si trova proprio ai confini con la Russia mentre perdura la sua invasione dell’Ucraina. Si tratterà quindi di un evento dalla grande valenza simbolica. Sarà importante anche perché, almeno nelle previsioni, dovrebbe essere scelto il prossimo segretario generale della Nato, con il mandato di Jens Stoltenberg che scade a settembre. Un tema tutt’altro che scontato, anche perché al momento l’unico candidato in qualche modo ufficializzato è il ministro della Difesa britannico, mentre c’è meno chiarezza su eventuali altri nomi. Naturalmente tra i molti temi sul tavolo delle discussioni, al centro ci sarà l’andamento della guerra in Ucraina. Fare previsioni in questo senso è molto difficile, perché si corre sempre il rischio di essere smentiti da come evolve la situazione sul campo. Quello che tuttavia sembra emergere è che in occidente ci sia una certa aria di vittoria. L’impressione generale, insomma, è quella che la Russia si stia dimostrando più debole di quello che si pensava all’inizio, e che in qualche modo i russi siano arrivati al massimo della loro penetrazione all’interno dell’Ucraina invasa.

Questo fa emergere due elementi importanti. Primo, la riconferma degli aiuti per Kiev. Qui si inserisce un tema che riguarda gli Stati Uniti, dal momento che l’indebitamento complessivo americano impatterà sulle spese future degli Usa, e l’aiuto americano potrebbe quindi rallentare. L’aiuto americano potrebbe quindi rallentare, per evitare lo sfondamento del tetto del deficit. Sul tema sono in corso i negoziati a Washington per vedere come estendere tale termine, ma nel frattempo questo elemento caratterizzerà di certo il dibattito tra gli alleati. Il secondo elemento rilevante è il possibile allargamento della Nato anche alla Svezia. Il vertice avviene dopo la rielezione di Erdogan in Turchia, ed è una questione che non può ulteriormente essere rinviata. A luglio, allora, potremmo assistere all’adesione formale anche di Stoccolma. Questo porta a un cambiamento forte dell’Alleanza, con la dimensione nordica che diventa molto più preponderante rispetto a prima.

Altra questione, invece, è l’ipotesi di un ingresso ucraino nella Nato, che per ora resta molto improbabile, almeno nei termini di una membership ufficiale. Quello che più probabilmente avverrà, in linea con quanto già è in atto, è un avvicinamento ucraino al Patto atlantico per quanto riguarda l’operatività e altre forme di sostegno alla sicurezza. Accanto a questi temi centrali, l’agenda Nato dovrà affrontare anche la sfida sistemica posta dalla Cina: non è un caso che al summit siano stati invitati quattro Paesi amici della Nato dell’indo-pacifico, com’era già successo a Madrid. Tuttavia, per quanto l’Asia sia assolutamente un tema centrale, esistono anche sfide sistemiche che arrivano dal sud, dal Mediterraneo, dal Medio Oriente, dal Sahel e dalla regione dei grandi laghi africani. Sono contesti molto fragili, in cui si intrecciano temi come la migrazione, la sicurezza e il terrorismo, che è tutt’altro che scomparso. Tuttavia non possiamo aspettarci, come Paese, che siano i lituani (solo per fare un esempio) a portare al tavolo delle discussioni il fianco sud. C’è una sensibilità nordico-orientale che vede come minaccia esistenziale la Russia, nei cui confronti è necessario vincere (nonostante i termini di questa ricercata vittoria rimangano poco chiari) e che al vertice avrà sicuramente enfasi.

L’Italia, allora, dovrebbe farsi portatrice di un’attenzione più specifica nei confronti del Mare nostrum, se possibile alleandosi con gli altri Paesi mediterranei a partire dalla Spagna, il Portogallo, la Grecia e magari la Francia, anche perché non si può parlare genericamente di una “attenzione verso il Mediterraneo”. Certo molte iniziative sono già state prese: la Nato ha già avviato diversi partenariati in tutta la regione, dal Medio Oriente, al Golfo, fino al Maghreb, basati su azioni concrete per rafforzare i contatti, creare una cultura comune, fornire assistenza tecnica perché questi Paesi possano costruire istituzioni di sicurezza moderne. È quella che la Nato chiama “cooperative security”. E l’Alleanza Atlantica ha due iniziative che si citano ormai troppo poco, e che andrebbero recuperate: il Dialogo mediterraneo e l’Iniziativa di cooperazione di Istanbul. Due progetti multilaterali, cui partecipano in totale undici Paesi, che dovrebbero essere rivitalizzati. Sembra invece che la Nato si sia un po’ dimenticata di tali questioni, con la maggioranza degli alleati che guarda ad altro. Ne è un esempio il fatto che a Madrid siano state invitate solo Giordania e Mauritania. Sono allora i Paesi Nato del sud che hanno interesse a cercare di creare un consenso intorno a questi temi.

I partenariati, del resto, sono fondamentali per un’alleanza nata per difendere i Paesi dell’Europa occidentale (oggi allargata anche a quella centrorientale) e del Nord America dalla minaccia dell’allora Unione Sovietica. Oggi l’Alleanza Atlantica si è trasformata, dopo la fine della Guerra fredda e le crisi in Jugoslavia, in un’organizzazione di sicurezza, il cui compito è quello di proiettare stabilità anche a livello regionale e globale. Questo si traduce nella necessità di creare legami, condividere idee e coltivare una rete di Paesi che la pensa, più o meno, allo stesso modo. Nel nostro Paese non c’è storicamente una grande cultura tecnica sulla sicurezza. Ci sono certamente alcuni grandi obiettivi di carattere generale, ma non basta. Questo governo in realtà parte bene, a livello dei principi. Vediamo il presidente del Consiglio, il ministro degli Esteri e quello della Difesa tutti orientati nello stesso senso su questi temi. Ora, però, bisogna formulare proposte specifiche, anche recuperando i partenariati già avviati. Troppo spesso l’opinione pubblica dimentica che l’Italia è un membro fondatore della Nato, che ha partecipato e partecipa da protagonista a tutte le operazioni dell’Alleanza, assumendone talvolta anche il comando. È stata per vent’anni in Afghanistan ed è il quinto contributore dell’Alleanza. Anche di recente il nostro Paese ha dislocato le sue Forze armate per la protezione aerea dei Paesi baltici, oltre a schierare truppe in battlegroup nell’Europa dell’est.

La situazione attuale è caratterizzata naturalmente dalla guerra in Ucraina, con tutte le incognite sul quando e come finirà, al netto di un indebolimento russo i cui effetti sono ancora da comprendere. Quindi, come si è detto, l’attenzione è fortemente spostata verso oriente e, in prospettiva, a settentrione. Di fronte a questa evoluzione c’è dunque bisogno di azioni e proposte. E l’Italia ha tutte le carte in regola per farsi sentire.

Articolo apparso sul numero 144 della rivista Airpress


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Simone Le Marteau, I. Apparatus. A partire «dagli anni Novanta si è manifestata appieno una serie di cambiamenti sociali covati lentamente nel periodo prece


Feddit: come può un utente #Mastodon seguire una comunità #Lemmy? Quali sono le comunità italiane nate dopo l'esplosione della redditmigration? Quali sono quelle nate prima? Si può aprire un nuovo thread da Mastodon?

Tutte le risposte nel post linkato (qui leggibile su feddit)


Feddit: come seguire una comunità Lemmy da Mastodon? Quali sono le comunità italiane nate dopo l'esplosione della redditmigration? Quali quelle nate prima? Si può aprire un nuovo thread da Mastodon?

Un utente #Mastodon può seguire una comunità #Lemmy in 2 modi:
- cliccare sul nome utente di una comunità (per esempio @fediverso ) e seguirla
- scrivere il nome della comunità (possibilmente completo di @ ma non è sempre necessario) nella casella di ricerca di #Mastodon

#Mastoaiuto




Basta un Patto nord-atlantico o la sfida si è allargata? Risponde Benedikt Franke


Il prossimo vertice Nato di Vilnius sarà un’importante occasione per fare il punto sulla guerra in corso in Europa e sulle sue conseguenze per la futura posizione dell’Alleanza. Oltre all’integrazione della Finlandia e, si spera, della Svezia, il futuro r

Il prossimo vertice Nato di Vilnius sarà un’importante occasione per fare il punto sulla guerra in corso in Europa e sulle sue conseguenze per la futura posizione dell’Alleanza. Oltre all’integrazione della Finlandia e, si spera, della Svezia, il futuro rapporto con l’Ucraina sarà in primo piano nelle discussioni. Sebbene un’adesione immediata alla Nato sia altamente improbabile, potremmo finalmente assistere a un piano d’azione per l’adesione di Kiev chiaramente definito, che delinei i passi da compiere e le condizioni da soddisfare. Sarebbe un grande miglioramento rispetto alla continua ripetizione del memorandum di Budapest ai vertici precedenti. Come minimo, dovremmo sperare in alcune concrete garanzie di sicurezza. Il vertice sarà anche un momento cruciale per pensare al di là dell’Ucraina e allinearsi ulteriormente sulle sfide più ampie che dobbiamo affrontare.

La brutale invasione della Russia è solo il segno più evidente del tentativo delle potenze revisioniste di erodere l’ordine internazionale basato sulle regole, ma non è certo l’unico. Che si tratti delle ambizioni sfrenate della Cina nel mar Cinese meridionale o della disintegrazione in corso del Sudan, del conflitto persistente in Medio Oriente o del crescente malcontento nel sud globale, le sfide agli interessi fondamentali dell’Alleanza sono numerose. La Nato dovrà farci i conti, e non solo con queste. Se a ciò si aggiungono pressanti meta-sfide come il cambiamento climatico, la competizione tecnologica o il non allineamento, si arriva al vertice più geopolitico di sempre.

Ciò pone la questione di quanto “nord-atlantica” possa e debba rimanere la Nato alla luce di sfide così globali. Possiamo davvero blindare la nostra stanza e permetterci di ignorare ciò che accade nel resto della casa? Oppure dobbiamo aprirci ad altre regioni e alleanze, coinvolgere altri alleati ed elaborare una strategia in cui la forza della Nato aiuti la più ampia comunità liberaldemocratica a prevalere contro coloro che cercano di eroderla, minarla e, infine, sconfiggerla? La Nato ha già dato la risposta e credo che sia quella giusta. Il raggiungimento e il contemporaneo rafforzamento del nucleo principale sono stati al centro della strategia della Nato per decenni, ma ciò che abbiamo visto in preparazione del vertice di Vilnius ha una marcia in più. Avendo accettato l’imperativo di alzare il tiro di fronte a quella che noi tedeschi chiamiamo affettuosamente zeitenwende (cioè un punto di inflessione nella geopolitica), gli alleati stanno spingendo molto in patria e, a quanto pare, ancora di più all’estero.

L’intensificarsi delle relazioni tra Nato e Giappone ne è un esempio. Il Giappone si è recentemente dotato di una nuova strategia di sicurezza nazionale che privilegia la cooperazione con Paesi e alleanze affini. La Nato è un alleato naturale per quel Paese. Non solo condivide gli stessi valori fondamentali, ma la sua esperienza nel dissuadere (con successo) un rivale espansionistico chiaramente definito per decenni contiene molti insegnamenti preziosi per lo Stato asiatico, sempre più preoccupato per le ambizioni incontrollate della Cina. Per sottolineare questa crescente amicizia, la Nato ha annunciato l’apertura di un ufficio a Tokyo e il primo ministro giapponese parteciperà al vertice di Vilnius. Alcuni sperano addirittura che questo sia il primo passo verso un’eventuale adesione del Giappone – e anche dell’Australia e della Nuova Zelanda – all’Alleanza.

Sebbene un’alleanza regionale basata sul modello della Nato (e in definitiva sugli stessi standard operativi e militari) sia probabilmente quanto di più lontano si possa (e si debba) sognare, il passaggio a una maggiore cooperazione è sotto gli occhi di tutti. Non è necessario guardare fino all’Indo-Pacifico per riconoscere la necessità e l’utilità che la Nato si spinga oltre l’Atlantico settentrionale. Che si tratti del Mediterraneo meridionale, del mar Nero o del golfo di Guinea, la difesa del territorio e dei valori Nato non inizia dai confini dell’Alleanza. Difesa e deterrenza globali non sono certo un approccio inedito per la Nato, ma le crescenti ambizioni illiberali e revisioniste obbligano l’Alleanza a riempirlo rapidamente di contenuti. È importante sottolineare che questo non deve essere visto (e definito) come “espansione”.

La Nato non si sta spostando verso est o verso sud, ma i Paesi dell’est e del sud si stanno spostando verso nord e verso ovest. Questi Stati si rendono sempre più conto degli enormi vantaggi che derivano da relazioni più strette con l’alleanza di maggior successo al mondo. In qualsiasi modo la si guardi, la Nato ha mantenuto tutti i suoi membri al sicuro in un lungo periodo di cambiamenti senza precedenti. È quindi il potere di attrazione (non di spinta) della Nato che gli illiberali di questo mondo dovrebbero temere di più. Dovremmo mantenerlo tale!

Articolo apparso sul numero 144 della rivista Airpress


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Verso il summit. Il ruolo italiano nella Nato spiegato da Cesa


In prospettiva del prossimo vertice Nato che si terrà a Vilnius a luglio, vorrei innanzitutto esprimere un auspicio: ovvero che si arrivi a un completamento degli iter previsti per gli ingressi dei nuovi Paesi nell’Alleanza Atlantica, tra cui la Svezia, s

In prospettiva del prossimo vertice Nato che si terrà a Vilnius a luglio, vorrei innanzitutto esprimere un auspicio: ovvero che si arrivi a un completamento degli iter previsti per gli ingressi dei nuovi Paesi nell’Alleanza Atlantica, tra cui la Svezia, secondo quanto previsto al precedente summit Madrid. Proprio di recente abbiamo infatti assistito all’ingresso della Finlandia che, tra l’altro, ha appena partecipato a pieno titolo per la prima volta ai lavori dell’Assemblea parlamentare della Nato, in Lussemburgo. Durante la quattro giorni della sessione primaverile della Nato ha partecipato anche l’Italia, che in quell’occasione ha preso parte a un incontro bilaterale con la delegazione dell’Ucraina, che ha ringraziato il presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il governo italiano per il sostegno profuso del nostro Paese durante gli ultimi oltre dodici mesi di guerra. Oltre a ribadire la volontà ucraina di aderire all’Alleanza Atlantica ma con molto realismo, il presidente Volodymyr Zelensky è infatti consapevole che sarà possibile farlo solo al termine del conflitto con la Russia.

Come Paesi membri della Nato, a Vilnius, ci focalizzeremo su come contribuire alla discussione sul rafforzamento della postura dell’Alleanza Atlantica lungo i sui confini, aumentando così le potenzialità di difesa come elemento di deterrenza nei confronti di Paesi come la Russia. Uno degli obiettivi principali del vertice di luglio, come previsto dal Documento sottoscritto in Lussemburgo, sarà l’adeguamento delle spese militari, concordando nuovi impegni e investimenti per la Difesa anche oltre il 2024, superando il livello minimo del 2% del Pil già richiesto dalla Nato. Su questo tema, come delegazione italiana, abbiamo tra l’altro sollevato un’importante questione: specificare quali siano le voci che rientrano nel 2%, come ad esempio gli investimenti in cyber-security, il contrasto al terrorismo, le crisi alimentari, e così via. Inoltre, siamo convinti che si debba lavorare per far passare un messaggio-chiave, e cioè che investire sugli armamenti significa investire sulla Difesa e sulla libertà dei nostri popoli e delle nostre democrazie, che rappresentano valori fondanti dell’Alleanza euroatlantica.

La delegazione parlamentare italiana in Lussemburgo, sia durante i lavori in Assemblea sia all’interno del Comitato permanente, ha sottolineato anche la necessità di porre maggiore attenzione nei confronti del Dialogo Mediterraneo. Si tratta di un’iniziativa avviata nel 1994, che attualmente coinvolge sette Paesi non-Nato: Algeria, Egitto, Giordania, Israele, Mauritania, Marocco e Tunisia. Come delegazione italiana, dopo una serie di incontri con la presidente dell’Assemblea, Joëlle Garriaud-Maylam, e con il Comitato permanente, abbiamo ottenuto in tale quadro un importante risultato. Nella primavera del 2024, si svolgerà infatti in Italia una conferenza sul Dialogo Mediterraneo che pensiamo possa avere come sfondo le città di Roma, Napoli e Palermo, con l’obiettivo di allargare questo dialogo anche ad altri Paesi dell’Unione africana e del Medio Oriente.

L’Italia, lo ricordiamo, è infatti uno dei Paesi fondatori dell’Alleanza Atlantica, nonché il secondo Paese per numero di truppe impegnate in missioni Nato e il quinto contributore del Patto Atlantico. Il nostro Paese ha dunque sempre avuto un ruolo cruciale, anche in una prospettiva storica. Basti pensare al Gruppo speciale Mediterraneo e Medio Oriente, nato proprio su iniziativa italiana. Nell’attuale scenario geopolitico è importante quindi rilanciare questo gruppo e questo tema, anche alla luce dell’attuale politica estera italiana che la presidente Meloni e il governo stanno promuovendo, in cui il Mediterraneo allargato rappresenta una regione prioritaria. L’esperienza dell’Ucraina ci insegna infatti che non si può sottovalutare nulla. Penso al quadro di instabilità che interessa Paesi-chiave del Mare nostrum come, ad esempio, la Tunisia o, ancora, il Libano. Sono situazioni che come Italia devono interessarci da molto vicino.

La chiave potrà dunque davvero essere, come viene di recente ribadito in più occasioni, di spingere sui partenariati con i Paesi del Mediterraneo. Il Dialogo Mediterraneo della Nato si basa infatti su due pilastri: stimolare un dialogo politico e incentivare la cooperazione pratica. Sono sempre più centrali, dunque, il ruolo del Comitato politico e la forma stessa del partenariato, che è responsabile di tutte le partnership. Questo tema è fondamentale: noi italiani torneremo ad essere protagonisti nell’area mediterranea e siamo pronti per farlo.

Articolo apparso sul numero 144 della rivista Airpress


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Yellen in Cina: la tempesta del «disaccoppiamento»


Yellen in Cina: la tempesta del «disaccoppiamento» 8122586
La segretaria del Tesoro degli Stati uniti accusa Pechino di «pratiche economiche inique». E garantisce di non volere una separazione delle economie. La Cina non si fida

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Uccisi tre palestinesi in Cisgiordania


Con Abdel Jawad Saleh, sale a 201 il numero dei palestinesi uccisi da soldati e coloni dall'inizio del 2023. L'articolo Uccisi tre palestinesi in Cisgiordania proviene da Pagine Esteri. https://pagineesteri.it/2023/07/07/medioriente/uccisi-tre-palestine

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della redazione

Pagine Esteri, 7 luglio 2023 – L’esercito israeliano ha ucciso due combattenti palestinesi nella città di Nablus, questa mattina, in un raid sfociato in scontri a fuoco che hanno provocato il ferimento altri di due giovani e l’arresto di altri tre. Khairy Shaheen e Hamza Maqbool sono stati circondati all’interno di una casa nella Città Vecchia e hanno detto di non volersi arrendere. Quindi sono stati uccisi quando le truppe israeliane hanno lanciato l’attacco all’edificio.

pagineesteri.it/wp-content/upl…

Secondo Israele, Shahee e Maqboul avevano attaccato a colpi di arma da fuoco una pattuglia della polizia sul Monte Gerizim due giorni fa.

Un terzo palestinese Abdel Jawad Saleh, colpito al petto durante proteste contro l’occupazione a Umm Safa (Ramallah), è morto poco dopo l’arrivo all’ospedale.

Con Abdel Jawad Saleh, sale a 201 il numero dei palestinesi uccisi da soldati e coloni dall’inizio del 2023, di cui 161 in Cisgiordania e a Gerusalemme, 37 a Gaza e tre nel territorio israeliano. Pagine Esteri

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L'articolo Uccisi tre palestinesi in Cisgiordania proviene da Pagine Esteri.



Kenya. Proteste contro l’aumento delle tasse, scontri e arresti


Scontri in Kenya tra la polizia e i manifestanti che protestano contro l'aumento delle tasse deciso dal governo. Scontri e arresti in diverse città L'articolo Kenya. Proteste contro l’aumento delle tasse, scontri e arresti proviene da Pagine Esteri. htt

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di Redazione

Pagine Esteri, 7 luglio 2023 – Scontri si sono verificati oggi in diverse città del Kenya tra la polizia e i sostenitori dell’opposizione che protestano contro una serie di aumenti delle tasse.
Alcuni manifestanti hanno bloccato temporaneamente le strade con pneumatici in fiamme che la polizia ha successivamente spento e hanno lanciato pietre contro gli agenti.

Solo nella capitale Nairobi la polizia avrebbe arrestato 17 manifestanti. Altri 11 attivisti sono stati arrestati in altre città.
I notiziari televisivi hanno mostrato filmati che mostravano la polizia che sparava gas lacrimogeni per disperdere i manifestanti nella città portuale di Mombasa, nella città occidentale di Kisumu e nella città di Kisii, anch’essa a ovest.

«Abbiamo visto manifestanti trascinati a terra» hanno denunciato i leader dell’opposizione in una dichiarazione, chiedendo un’indagine sulla condotta della polizia contro le proteste.

Il leader dell’opposizione Raila Odinga ha convocato le proteste per opporsi agli aumenti delle tasse imposti dall’esecutivo in un momento in cui sulla popolazione già pesa una elevata inflazione determinata dall’automento dei prezzi di prodotti di base come la farina di mais.

L’Alta corte del Kenya ha ordinato la sospensione degli aumenti, ma il governo ha comunque elevato l’IVA sui carburanti portandola dall’8 al 16%. Da parte sua il senatore dell’opposizione che ha presentato il ricorso al massimo organismo giudiziario ha chiesto l’arresto, per oltraggio, del capo dell’autorità di regolamentazione del settore energetico. L’Alta corte dovrebbe pronunciarsi lunedì su questa richiesta.

Il governo afferma che gli aumenti delle tasse, che dovrebbero aumentare di 200 miliardi di scellini (1,42 miliardi di dollari) all’anno, sono necessari per aiutare a far fronte ai crescenti rimborsi del debito e per finanziare iniziative per la creazione di posti di lavoro in Kenya, la più grande economia dell’Africa orientale.

Rivolgendosi a circa 2.000 sostenitori, Odinga ha accusato però il presidente William Ruto di non essere riuscito a frenare l’aumento del costo della vita e di perseguitare i deputati dell’opposizione. «I membri del parlamento hanno tradito il popolo» ha accusato, aggiungendo che Ruto ha anche disatteso le sue stesse promesse.

Da quando i due uomini si sono affrontati in un’elezione ravvicinata vinta da Ruto lo scorso agosto, si sono scontrati su una serie di questioni relative all’alto costo della vita e alla gestione delle future elezioni.
Alla manifestazione, Odinga ha annunciato la sua intenzione di raccogliere 10 milioni di firme per rimuovere il suo rivale dall’incarico. – Pagine Esteri

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La “rivoluzione” garantista di Giorgia Meloni


Dopo Silvio Berlusconi e Matteo Renzi, è il turno di Giorgia Meloni. Con una differenza, però. Mentre i primi due presidenti del Consiglio furono personalmente toccati dalle indagini giudiziarie, di cui denunciarono di conseguenza la regia “politica”, Gio

Dopo Silvio Berlusconi e Matteo Renzi, è il turno di Giorgia Meloni. Con una differenza, però. Mentre i primi due presidenti del Consiglio furono personalmente toccati dalle indagini giudiziarie, di cui denunciarono di conseguenza la regia “politica”, Giorgia Meloni non è direttamente parte in causa. Lo è, però, il suo inner circle.

Si cominciò con i fedelissimi lombardi Carlo Fidanza e Nicola Procaccini per arrivare oggi a Delmastro, alla Santanchè e, da ultimo, al figlio di quell’Ignazio La Russa che della Santanchè è il principale sponsor in Fratelli d’Italia. Casi diversissimi tra loro. Casi che Giorgia Meloni ha voluto drammatizzare facendo filtrare un’interpretazione tutta politica, accusando la magistratura di svolgere “un ruolo attivo di opposizione” così “inaugurando anzitempo la campagna elettorale per le Europee”.

Insomma, a differenza dei suoi predecessori, è stata la presidente del Consiglio a fare di sè il contraltare dell’eterno conflitto tra politica e magistratura. Un atteggiamento che polverizza la storia giustizialista di Fratelli d’Italia e che interrompe bruscamente la catena di richieste di dimissioni di cui in passato la stessa Meloni, dalla Guidi alla Boschi, si fece portavoce.

Se fosse una vera “rivoluzione culturale” Giorgia Meloni dovrebbe difendere le donne e gli uomini del proprio governo anche in caso di rinvio a giudizio. Ma, almeno per il ministro Santanchè, è opinione diffusa che ciò non accadrà. Vedremo l’atteggiamento che la premier assumerà nei confronti del sottosegretario Delmastro, oggetto di una evidente forzatura giudiziaria del Gip, che l’ha inquisito coattivamente per rivelazione di segreto d’ufficio contro il parere della Procura che per quel reato aveva chiesto l’archiviazione.

La drammatizzazione meloniana si regge su un teorema nient’affatto forzato: la magistratura aggredisce FdI per bloccare la riforma della Giustizia annunciata, e solo in parte avviata, dal ministro Nordio. A sostenere la tesi non sono solo i giornali riconducibili al governo. Lo ha fatto anche Marcello Sorgi sulla Stampa. “L’annuncio della riforma – ha scritto oggi Sorgi – è considerato un tradimento ed ha messo in allarme le correnti togate” che prima hanno cercato di depotenziare le misure care a Nordio facendo pressioni sul sottosegretario a palazzo Chigi Alfredo Mantovano, un ex magistrato, “e poi, a mali estremi, l’estremo rimedio delle inchieste”.

Si misureranno nei prossimi giorni la reale portata delle inchieste giudiziarie e la tempra del garantismo di Giorgia Meloni. Certo è che, con l’Italia calata, sia pure da non belligerante, in un contesto bellico, col Pnrr da gestire, la crisi migratoria da fronteggiare e le riforme da avviare, appare sconfortante doversi occupare anziché di alta politica di bassa cucina giudiziaria. È la maledizione italiana. Una condizione che dai primi anni Novanta vede la poltica subornata da una magistratura incline ad incarnare una certa idea di etica pubblica piuttosto che ad applicare le leggi nel rispetto dei principi fondamentali dello Stato di diritto.

L'articolo La “rivoluzione” garantista di Giorgia Meloni proviene da Fondazione Luigi Einaudi.



A partire dalle ore 10.30, a Roma, negli spazi del Circolo Arci “Concetto Marchesi” nel Parco Tiburtino III, in Via del Frantoio 5, si terrà un incontro pu


La Biblioteca del MIM celebra il 140° anniversario della pubblicazione del libro "Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino" con un'esposizione di volumi dedicata.


Grecale


Con coraggio leonino, anziché affrontare la questione del Meccanismo europeo di stabilità hanno preferito rimandare tutto. Una furbata ottusa, che prolunga lo strazio. Almeno si utilizzi il tempo per fiutare l’aria che tira: in particolare il Grecale, ven

Con coraggio leonino, anziché affrontare la questione del Meccanismo europeo di stabilità hanno preferito rimandare tutto. Una furbata ottusa, che prolunga lo strazio. Almeno si utilizzi il tempo per fiutare l’aria che tira: in particolare il Grecale, vento che soffia dalla Grecia.

La leggenda vuole che la Grecia sia stata sderenata dall’austerità, imposta dall’Unione europea, per salvare le banche tedesche. I greci sono stati affamati, lasciati senza soldi, costretti a vendere tutto, senza sanità. Una leggenda che va fortissimo presso tutti quelli che non sono greci e la cui fondatezza è ben rappresentata dalla bizzarra tesi secondo cui il Mes non va ratificato perché s’è ben visto gli effetti che ha avuto in Grecia. Peccato il Mes manco esistesse, all’epoca. E comunque è già stato ratificato. La Grecia ha anche ratificato la riforma (manca soltanto l’Italia), lo ha pure usato e con soddisfazione. La leggenda, insomma, si diffonde presso i boccaloni. Veniamo alla realtà.

La Grecia paga un tasso d’interesse, sul suo enorme debito (168% del Pil), inferiore a quello che paga l’Italia (con un debito intorno al 142% del Pil); lo vede scendere più rapidamente (nel 2027 sarà inferiore al nostro); ha un avanzo primario superiore al nostro. La sua economia cresce più velocemente della nostra (le previsioni dicono: +2,3% nel 2023; +3% nel 2024; + 1,3% nel 2025 e + 1,1% nel 2026). Eppure nel 2009 la Grecia era in ginocchio. Allora fu Giorgos Papandreou a comunicare ufficialmente quanto l’Istituto greco di statistica aveva appurato: i bilanci trasmessi dai precedenti governi erano falsi. Fu una tempesta violentissima e la Grecia fu salvata dall’intervento degli altri Paesi europei. Che pasticciarono all’inizio (proprio perché non esisteva il Mes) ma intervennero.

L’attuale capo del governo Kyriakos Mitsotakis – trionfalmente rieletto e che dispone della maggioranza assoluta, leader di Nuova Democrazia (partito conservatore che aderisce al Partito popolare europeo) – fu allora favorevole alle misure europee. Era già membro del governo di Antonis Samaras, dopo la drammatica crisi, e si distinse per la riforma della pubblica amministrazione, la riduzione della spesa pubblica e il licenziamento di circa 10mila dipendenti pubblici inutili. Poi le elezioni le vinse il partito Syriza, guidato da Alexis Tsipras, che prima raccolse il dissenso dal governo Samaras, cavalcando l’opposizione alle misure di risanamento, ma poi ebbe il merito di attuarle e di rompere con il suo ministro tanto caro ai populisti di sinistra: Gianis Varoufakis. Per capirsi: i seguaci della leggenda che vuole la Grecia sderenata pendono dalle labbra di Varoufakis, ma fanno fatica a capire che i greci manco un seggio gli hanno dato. Niente voti, conta un piffero. I greci, quelli veri, badano ai loro interessi e a crescere, non alle leggende farlocche.

Ora Mitsotakis annuncia che non soltanto ridurrà il debito riducendo la spesa (il che gli consentirà di fare ulteriormente scendere la pressione fiscale), ma i debiti bilaterali con alcuni Paesi Ue, per un valore di 5,3 miliardi, li rimborsa ora e se ne libera. Il che rende la Grecia ancora più credibile sui mercati e favorisce i finanziamenti. Il tutto non nascondendolo agli elettori e men che meno prendendo i voti raccontando cose opposte a quelle che sarà poi necessario fare, ma dicendo papale papale che il solo modo per lasciarsi alle spalle il falso in bilancio è pubblicare dati affidabili e il solo per rimediare al crollo patito è crescere. Dentro l’Ue, anche ratificando il Mes.

Visto che si sono presi quattro inutilissimi mesi per pensarci prima di fare l’ovvio, ovvero ratificare la riforma del Mes, provino a usarli anche per studiare il caso greco. Possibilmente quello vero, lasciando la fuffa a quanti si ritrovano uniti dall’antieuropeismo, all’estrema destra come all’estrema sinistra. Fiutino il Grecale, non perché il governo greco sia perfetto, ma perché ha trovato una via conservatrice che porta da qualche parte.

La Ragione

L'articolo Grecale proviene da Fondazione Luigi Einaudi.



#NoiSiamoLeScuole questa settimana racconta la Scuola primaria “Padre Pio da Pietrelcina” di Valmontone, a pochi chilometri dalla Capitale.


Godflesh - Purge


Però per chi vuole c'è il sangue che scorre dentro i computer, quella sottile ansia mista a piacere che solo i Godflesh sanno dare. Un disco molto molto importante, ancora più utile in questi nostri tempi, che i Godflesh avevano già abbondantemente descritto. Un grandissimo ritorno per un disco che diventerà fondamentale in una discografia che non ha eguali.
@Musica Agorà iyezine.com/godflesh-purge

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Taiwan, nel G7 studiano altre sanzioni alla Cina: avranno un impatto devastante sull’economia globale


Tuttavia, date le dimensioni e i legami dell’economia cinese, per i governi occidentali sarebbe molto più difficile approvarle rispetto alle punizioni contro Mosca per la guerra contro l'Ucraina. L'articolo Taiwan, nel G7 studiano altre sanzioni alla Cin

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di Michelangelo Cocco*

Pagine Esteri, 7 luglio 2023– Almeno 3.000 miliardi di dollari andrebbero subito in fumo se i paesi del G7 sanzionassero la Cina in caso di crisi su Taiwan. L’economia globale perderebbe una cifra equivalente al Pil del Regno Unito nel 2022. Il dato è al centro di una ricerca congiunta pubblicata da Atlantic Council e Rhodium Group, Sanctioning China in a Taiwan Crisis, Scenarios and Risks. Lo studio del think tank con sede a Washington che si occupa di «stimolare la leadership degli Stati Uniti nel mondo» e del centro di ricerca con focus sul settore privato in Cina muove da un confronto in corso tra policymaker e aziende dei sette paesi pesi più avanzati (ufficialmente non se ne parla all’interno dei governi). Tuttavia queste discussioni rivelano che un’ennesima crisi dello Stretto (sarebbe la quarta, dopo quelle del 1954-55, 1958 e 1995-96) rappresenta uno scenario tutt’altro che fantapolitico.

Secondo il rapporto, il coordinamento costante tra funzionari statunitensi ed europei ha evidenziato che «l’invasione russa dell’Ucraina ha rimodellato i contorni di ciò che era possibile nel regno della politica economica».

Quando parliamo di “crisi” intendiamo non solo uno scontro militare, ma anche altri due scenari, che a Taipei ritengono più probabili: un blocco dell’Isola da parte della marina e dell’aviazione cinese, e/o un grande attacco informatico contro le sue infrastrutture. Entrambi metterebbero in ginocchio l’economia di Taiwan, fortemente dipendente dall’export.

Prima di esaminare i risultati del paper, è importante riflettere sulle sue conclusioni. Secondo Atlantic Council e Rhodium Group, contro queste eventuali mosse di Pechino le contromisure economiche non basterebbero: esse sono «complementari, piuttosto che sostitutive, degli strumenti militari e diplomatici per mantenere la pace e la stabilità nello Stretto di Taiwan». Tuttavia a chi abbia analizzato l’ascesa di Xi Jinping e la riorganizzazione alla quale ha sottoposto negli ultimi dieci anni il partito e l’esercito appare evidente che nella “Nuova era” proclamata dal presidente cinese la questione taiwanese ha assunto una rinnovata centralità. In questo quadro, nessuna pressione militare e diplomatica potranno far recedere Pechino dalla “riunificazione” del territorio che considera una provincia ribelle. Pertanto, ciò che servirebbe con urgenza è una soluzione politica, basata su un nuovo accordo complessivo tra la potenza egemone e quella in ascesa.

Al contrario, si studiano le sanzioni, che colpirebbero tre ambiti principali: le banche (divieto di utilizzare il sistema SWIFT; limitazioni delle transazioni; mercato internazionale precluso ai titoli di debito cinesi); le élite politiche e militari (blocco dei beni e restrizioni ai visti); le compagnie legate all’esercito (restrizioni al commercio e agli investimenti; su obbligazioni e azioni; controlli sull’export).

Tuttavia, date le dimensioni (dieci volte quella russa) e i legami dell’economia cinese, per i governi del G7 sarebbe molto più difficile approvarle rispetto alle punizioni contro Mosca per l’invasione dell’Ucraina. I due think tank evidenziano «gli interessi nazionali differenti, la diversa disponibilità a sopportare le ripercussioni economiche e le sfaccettature uniche delle loro relazioni con Washington». In effetti, se al Congresso Usa è già stato introdotto (il 29 marzo scorso) un progetto di legge ad hoc (lo “STAND with Taiwan Act”) per sanzionare la Cina se «l’Esercito popolare di liberazione avvia un’invasione di Taiwan», il presidente francese, Emmanuel Macron, pochi giorni dopo (il 9 aprile), ha avvertito in un’intervista a Politico che «la cosa peggiore sarebbe pensare che noi europei su questa questione (Taiwan, ndr) dobbiamo seguire l’agenda degli Stati Uniti e una reazione eccessiva cinese». Per Washington Taiwan rappresenta una questione di sicurezza nazionale, per le capitali europee no. Le divergenze politiche riflettono quelle dell’opinione pubblica, con l’83 per cento degli statunitensi che ha un’idea “negativa” della Cina (Pew Research Center, aprile 2023), mentre il 62 per cento degli europei vorrebbe rimanere neurale in caso di conflitto tra Cina e Stati Uniti su Taiwan (European Council on Foreign Relations, giugno 2023).

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Shanghai

Anche se l’ultimo vertice, a Hiroshima, ha ostentato unità sulla Cina, raggiungere un accordo tra i paesi del G7 per applicare eventuali sanzioni contro Pechino richiederebbe tempo e difficili compromessi. Un embargo contro la Cina equivarrebbe secondo alcuni alla “distruzione reciproca assicurata” immaginata in caso di impiego in guerra degli ordigni nucleari. Si tratta certamente di un’iperbole: in realtà quella delle punizioni e delle rappresaglie è una strada che Stati Uniti, Unione Europea e Cina hanno imboccato già da qualche tempo. Con il dialogo politico che si è fatto difficile e intermittente, avanzano le sanzioni. Come, ad esempio, quelle varate il 22 marzo 2021 da Bruxelles (in base al nuovo EU Global Human Rights Sanctions Regime) contro quattro funzionari e un’entità cinese per la repressione dei musulmani nella provincia del Xinjiang, reciprocate il giorno stesso da Pechino – uno scontro che ha contribuito alla sospensione del Comprehensive Agreement on Investiment (Cai) negoziato per sette anni tra la Cina e l’Ue. Oppure le tre compagnie cinesi (di Hong Kong) colpite, per la prima volta, da un pacchetto di sanzioni dell’Ue sulla guerra in Ucraina, l’undicesimo, approvato il 21 giugno scorso (Asia Pacific Links Ltd; Tordan Industry Limited; Alpha Trading Investments Limited) per il loro contributo finanziario o tecnologico allo sforzo bellico russoL’esposizione del sistema finanziario globale nei confronti di quello cinese è relativa soprattutto ai flussi commerciali internazionali: le banche cinesi mantengono conti (in dollari e in euro) presso istituti di credito internazionali per facilitare i pagamenti cross border. Stando così le cose, il G7 avrebbe due opzioni: sanzionare solo alcune banche con legami con il settore militare e tecnologico, senza alcun impatto sostanziale sui flussi finanziari complessivi del paese, oppure colpire le grandi banche di stato, causando i succitati 3.000 miliardi di ammanco al commercio e agli investimenti globali.

Punire alti funzionari del governo e dell’Esercito popolare di liberazione rappresenta invece un’eventualità alla quale i soggetti presi di mira si sono già preparati, rendendo molto complicato identificare i loro patrimoni detenuti all’estero.

C’è infine il controllo sulle esportazioni di componenti chiave, che potrebbe avere anch’esso un effetto boomerang sui paesi del G7. Prendiamo ad esempio il settore aerospaziale, predestinato alle sanzioni in caso di scontro su Taiwan. Sarebbero interessati 2,2 miliardi di dollari di export dei paesi del G7 verso la Cina, la quale potrebbe mettere in campo una rappresaglia da 33 miliardi di dollari, attraverso il blocco dell’acquisto di aerei e componenti dai paesi più avanzati.

Col ricorso sempre maggiore alle sanzioni contro la Cina, il governo di Pechino ha iniziato ad affinare gli strumenti per contrastarle. Anzitutto spingendo i paesi amici a utilizzare la sua divisa, in luogo del dollaro, nei commerci bilaterali. Lo yuan – che rappresenta tuttora una percentuale trascurabile delle riserve valutarie internazionali, il 2,7% – è sempre più utilizzato da paesi come Argentina, Brasile, oltre alla Russia, che hanno firmato con Pechino accordi ad hoc per regolare in yuan i loro commerci con la Cina.

In conseguenza di questo cambiamento, a marzo le banconote con l’effigie di Mao (48,4 per cento) hanno superato il biglietto verde (46,7 per cento), diventando la valuta più utilizzata dalla seconda economia del pianeta nei suoi scambi con l’estero. Non solo, a Pechino ritengono che in futuro lo yuan potrà essere impiegato sempre di più nelle transazioni tra paesi terzi, proprio in risposta a quella che stigmatizzano come l’“utilizzo del dollaro come arma” da parte degli Stati Uniti che i paesi non allineati stanno osservando contro la Russia (espulsa dal sistema interbancario SWIFT) e la Cina.

In secondo luogo Pechino sta spingendo per la promozione a livello globale del CIPS. L’alternativa “made in China” allo SWIFT, lanciata nel 2015 dalla Banca centrale, nel 2022 ha “processato” transazioni pari a 96.700 miliardi di yuan (oltre 14.000 miliardi di dollari) con 1.420 istituzioni finanziarie connesse in 109 paesi e regioni del mondo. Il sud del mondo ha iniziato a vedere sempre più il CIPS come una alternativa al CHIPS (utilizzato per le grandi transazioni, in dollari) proprio in seguito alle sanzioni imposte contro la Russia. Infine, la Cina sta sperimentando anche lo yuan digitale (e-CNY), che l’anno scorso è stato il gettone digitale (token) più utilizzato nelle transazioni internazionali. Pagine Esteri

*Questo articolo è stato pubblicato in origine da Rassegna Cina, del Centro Studi sulla Cina Contemporanea

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In Cina e Asia – Yellen chiede a Pechino riforme economiche


In Cina e Asia – Yellen chiede a Pechino riforme economiche yellen
Yellen chiede riforme economiche
Xi visita il comando militare responsabile per Taiwan
Fukushima: la Cina limita ulteriormente le importazioni dal Giappone
Le fregate russe attraccano a Shanghai
BYD apre stabilimento in Brasile, è il primo fuori dall'Asia
Hong Kong: approvata controversa riforma delle elezioni distrettuali
Funzionari del Tesoro a Hong Kong per fermare il flusso di tecnologia in Russia
Vietnam: l'industria culturale inciampa nel Mar cinese meridionale

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Tra i tagli di Scholz la Difesa fa eccezione. Ecco la proposta tedesca


La Difesa è l’eccezione e non la regola. Questo il risultato del Consiglio dei ministri della Germania, che proprio questa settimana ha approvato una bozza di bilancio per il prossimo anno che prevede una generale riduzione delle spese, ma non per il sett

La Difesa è l’eccezione e non la regola. Questo il risultato del Consiglio dei ministri della Germania, che proprio questa settimana ha approvato una bozza di bilancio per il prossimo anno che prevede una generale riduzione delle spese, ma non per il settore della Difesa.

L’eccezione non fa la regola

Il piano del governo del cancelliere Olaf Scholz prevede infatti una spesa di circa 445,7 miliardi di euro per il 2024, in diminuzione del 7% rispetto ai 476,3 miliardi di euro preventivati per il 2023; a fronte però di una spesa per la Difesa che aumenterà di 1,7 miliardi di euro rispetto a quest’anno, raggiungendo così quota 51,8 miliardi di euro nel 2024. Un dato che, seppur in controtendenza rispetto ai diversi tagli, è inferiore alle aspettative auspicate dal ministro della Difesa, Boris Pistorius, e dall’ambizioso piano dei “100 miliardi” annunciato lo scorso anno per modernizzare la Bundeswehr, l’esercito tedesco con la più grande operazione di riarmo degli ultimi 70 anni di storia tedesca.

Il budget per la Difesa

Alla luce dello scoppio della guerra in Ucraina, Berlino si era detta volenterosa a rivedere la propria filosofia militare per perseguire l’obiettivo di raggiungere la soglia del 2% del Pil da destinare alla Difesa, così come richiesto dalla Nato a partire dal vertice del 2014 in Galles. Un obiettivo ambizioso che la Germania punta a raggiungere entro la fine del decennio. Il prossimo step per stabilire con certezza quanti saranno i fondi da destinare alla Difesa, avverrà a dicembre, quando il Parlamento tedesco sarà chiamato ad approvare la versione finale del bilancio.

La proposta di Berlino

A giugno scorso il Bundesrat aveva dato il via libera definitivo al fondo speciale da 100 miliardi di euro per il potenziamento e la modernizzazione della Bundeswehr, che dalla sua formazione nel 1955 non ha mai subito un rinnovamento di tale portata. Una somma talmente consistente da comportare una modifica stessa della Costituzione. Per anni infatti dopo la fine della Guerra fredda, la Germania era stata nel mirino delle critiche per la sua parsimonia nelle spese militari. Ancor prima della celebre frase dell’ex presidente Usa, Donald Trump, “Angela, devi pagare”. L’obiettivo del 2% fissato dalla Nato, tuttavia, è finora rimasto lettera morta, nonostante dal 2015 – in seguito all’annessione russa della Crimea – la spesa militare tedesca sia aumentata, ma senza però mai superare l’1,5% del Pil. In un’intervista rilasciata a fine gennaio al quotidiano Sueddeutsche zeitung, il ministro Pistorius aveva dichiarato che i 100 miliardi “non sarebbero bastati” ” a raggiungere gli obiettivi per cui è stato istituito a seguito della guerra mossa dalla Russia contro l’Ucraina.


formiche.net/2023/07/tagli-al-…



Il Partito della Rifondazione Comunista esprime un plauso per il coraggio della GIP di Roma Emanuela Attura per l'imputazione coatta nei confronti del Sottosegr