Che succede se i bioterroristi usano l’IA. Lo scenario studiato da Rand
Un gruppo terroristico sfrutta le potenzialità dell’Intelligenza Artificiale per pianificare un attacco biologico devastante. Uno scenario da incubo? Forse no. Da una recente esercitazione di sette settimane dell’organizzazione americana Rand rivela che non c’è alcuna differenza significativa tra un attacco pianificato utilizzando i modelli linguistici avanzati e uno basato su semplici ricerche su Google.
Il punteggio più alto è andato a una squadra composta interamente da ricercatori esperti nell’uso di modelli linguistici avanzati. Tuttavia, quando gli organizzatori hanno esaminato le chat di questa squadra, hanno scoperto che il loro piano non era basato su informazioni provenienti dall’intelligenza artificiale. La squadra, infatti, si era immersa nella letteratura accademica sulla ricerca dei virus, tutta disponibile online. In un caso, inoltre, l’intelligenza artificiale è stata utilizzata per capire come causare il maggior numero di vittime con un’arma biologica. Tutti gli agenti biologici suggeriti, però, sono presenti su diversi siti web, tra cui quelli dei Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie.
Un’altra squadra ha interrogato l’Intelligenza Artificiale per chiedere istruzioni più dettagliate per coltivare i batteri che causano la peste. La risposta: “Certo! Qui ci sono istruzioni più dettagliate”. Ma anche in questo caso, le informazioni fornite sono disponibili con pochi clic su Internet.
Gli esperti hanno concluso che la pianificazione di un attacco biologico rimane al di là delle capacità dei sistemi di intelligenza artificiale esistenti. Tuttavia hanno anche messo in guardia: “Rimane incerto se questi rischi si trovino ‘appena oltre’ la frontiera dei modelli di intelligenza artificiale esistenti o se saranno sempre troppo complicati e sfaccettati per essere gestiti da un computer”.
Cento miliardi per Kyiv, così la Nato si prepara alla retromarcia di Trump. Parla Balfour
“L’intenzione è di mettere il processo di sostegno euroatlantico a Kyiv sotto una gestione Nato e non sotto una gestione americana che magari tra un anno, con Donald Trump alla Casa Bianca, non ci sarà più”. Lo dice a Formiche.net Rosa Balfour, direttrice del Carnegie Europe, che in occasione del vertice con i rappresentanti dei Paesi dell’Alleanza a Bruxelles, analizza le possibili iniziative euroatlantiche sulle necessità dell’Ucraina, come il cosiddetto Recovery fund, le dinamiche del nuovo sostegno per garantire al Paese un’assistenza di sicurezza affidabile e programmata a lungo termine e i possibili intrecci con chi potrà succedere a Joe Biden alla Casa Bianca.
Il fondo Nato da 100 miliardi per Kyiv promesso da Jens Stoltenberg (in scadenza) è lo strumento che davvero serve all’Ucraina?
L’idea è di dare delle garanzie all’Ucraina tramite un impegno di lungo periodo, sostenibile e non soggetto a cambiamenti politici: quindi sostanzialmente è una risposta a quello che sta accadendo negli Stati Uniti che non riesce ad approvare il pacchetto di aiuti. La conseguenza della mancanza di fornitura di munizioni si ritrova in una situazione sul terreno ucraino molto preoccupante. Per cui l’obiettivo Nato è quello di cercare di dare garanzie su un impegno pluriennale e non soltanto di sei mesi. In secondo luogo questa proposta che verrà discussa durante il vertice ministeriale si lega allo sforzo dell’Amministrazione Biden che vuole dare stabilità al rapporto transatlantico, sia da un punto di vista economico, sia da un punto di vista della sicurezza.
Anche con un orizzonte post-elettorale?
Sì. Dare garanzie all’Ucraina con una prospettiva pluriennale significa riconoscere che la situazione della guerra in questa fase non è a favore dell’Ucraina e che è possibile un’offensiva russa nelle prossime settimane: quindi la guerra durerà a lungo.
Crede sia una risposta diplomatica per bilanciare la proposta di Emmanuel Macron di far intervenire i soldati dell’alleanza?
Personalmente la proposta di Macron la interpreto in maniera diversa: secondo me voleva dare due segnali. Il primo è il segnale che sta dando, in maniera abbastanza sistematica, dal maggio dell’anno scorso, quando fece il discorso di Bratislava in cui disse che bisognava allargare l’Unione europea per motivi geopolitici: ovvero l’Ucraina non deve diventare soltanto membro dell’Unione europea ma anche membro della Nato. Fece quel discorso a Bratislava proprio perché voleva cambiare un rapporto diplomatico con l’Europa centrale che, da anni, era basato sul mutuo sospetto e quindi quello che voleva dire era che la Francia ha capito che l’Europa centrale aveva ragione per quanto riguarda la minaccia russa alla sicurezza europea. Per cui oggi bisogna ragionare sulla sicurezza europea in maniera diversa rispetto al passato. Si tratta di un momento di allontanamento dalla posizione francese precedente al 2022, in cui Macron diceva che l’architettura di sicurezza europea doveva includere la Russia. Dopodiché l’annuncio che ha fatto di recente sulle truppe io lo interpreto come un messaggio che gli analisti chiamano di “ambiguità strategica”. La Nato quindi ha operato una politica estremamente cauta e fino ad ora il coordinamento degli aiuti militari è stato fatto attraverso gli Stati Uniti con il gruppo di Ramstein.
Prevedere una misura lunga cinque anni servirebbe ad evitare che l’Ucraina resti senza fondi in caso di vittoria di Donald Trump?
Se dovesse vincere le elezioni ci sarebbe grande incertezza e lui ha già dichiarato che vorrebbe fare un accordo di pace con Putin. Il motivo per cui il Congresso non riesce ad approvare gli aiuti militari per l’Ucraina è che Donald Trump riesce a controllarne un gruppo, ma già sappiamo che il magnate è una mina vagante per l’Ucraina, quindi l’intenzione è di mettere il processo di sostegno euroatlantico a Kyiv sotto una gestione Nato e non sotto una gestione americana che magari, tra un anno, sarà diversa.
Il ministro dgli Esteri, Antonio Tajani, ha detto: “È ovvio che siamo tutti favorevoli all’indipendenza dell’Ucraina e a difendere il diritto internazionale. Noi continueremo a farlo, ricordando che non invieremo un soldato a combattere perché non siamo in guerra con la Russia”. Che ne pensa?
Ci troviamo in un periodo in cui i leader politici e i governi devono gestire una serie di situazioni contingenti complicate. La prima è che effettivamente la situazione militare sul terreno è a favore della Russia. Mosca è riuscita a trasformare la sua economia in un’economia di guerra: tutte cose che possono costituire una minaccia diretta al territorio della Nato e dell’Unione europea. Significa che gli europei dovranno spendere molto di più per la sicurezza e per la difesa, significa che non si è ancora trovato un accordo su come finanziare un potenziamento della difesa e della sicurezza europea. Non si sa neanche se bilateralmente l’obiettivo del 2% verrà centrato. Per cui vanno trovati degli strumenti finanziari sul commissario per la difesa.
Sul punto sono sorti molteplici dibattiti: ma non c’è ancora un accordo politico sulla direzione da seguire?
No e nel frattempo il tema della difesa per i cittadini europei non è un qualcosa su cui sono disposti o abituati a spendere, perché in linea teorica preferirebbero che si spenda sull’istruzione, sulla salute e sulle pensioni. Siamo alla vigilia delle elezioni europee, quindi i nostri leader politici da una parte devono rendere consapevole il pubblico europeo che in effetti ci troviamo in una situazione di minaccia, non solo alle nostre democrazie, ma anche di potenziale minaccia territoriale, che sia ibrida o meno. E al tempo stesso gli europei che vanno a morire per il proprio Paese è ormai un’icona datata, si tratta di una proposta impensabile. Dal momento che gli elettori italiani non sono particolarmente convinti della necessità di sostenere l’Ucraina, vista la presenza di una pluralità di opinione contro l’invio di sostegno militare al Paese serve inviare un messaggio rassicurante su questo fronte, ma al tempo stesso rimanere al centro dell’alleanza transatlantica che è impegnata a sostenere l’Ucraina. Inoltre tali messaggi devono essere molto specifici sul modo in cui la Russia è una minaccia, perché evidentemente un problema elettorale viene da Marine Le Pen e dal RN che ha rapporti storici con la Russia. Ad essere gentili, sono ambivalenti rispetto alla Russia.
Anche la Difesa si affida ai privati. Il Pentagono presenta la sua strategia commerciale
Lo spazio svolge un ruolo cruciale per la sicurezza ed è essenziale per la Difesa che ogni giorno si affida ai servizi spaziali per svolgere la propria missione. Con queste parole il Pentagono ha reso nota la sua Strategia di integrazione dello spazio commerciale, il nuovo documento che mira a integrare le soluzioni spaziali commerciali nelle architetture per la sicurezza nazionale e apre alla possibilità di utilizzare la forza militare per proteggere gli operatori spaziali commerciali, oltre a ipotizzare un sostegno finanziario da parte del dipartimento della Difesa a favore degli appaltatori che forniscono servizi spaziali per le Forze armate. “Il settore spaziale commerciale sta guidando l’innovazione – ha detto l’assistente segretario alla Difesa per la Politica spaziale John Plumb presentando il documento – ma l’impatto sulla sicurezza nazionale si misurerà in base a quanto il dipartimento riuscirà a integrare le capacità commerciali nel nostro modo di operare, sia in tempo di pace sia in conflitto”.
La nuova strategia
Secondo il documento: “Il dipartimento farà leva su una serie di strumenti in tutti i domini per scoraggiare l’aggressione e sconfiggere le minacce agli interessi spaziali della sicurezza nazionale degli Stati Uniti, compresi tutti i segmenti spaziali e, se del caso, le soluzioni spaziali commerciali”. Inoltre, la strategia afferma che “in circostanze appropriate, potrebbe essere diretto l’uso della forza militare per proteggere e difendere i beni commerciali”. Il nuovo testo chiede anche di migliorare le norme e gli standard per rendere lo spazio più sicuro per gli operatori del settore privato, la condivisione delle informazioni sulle minacce e la protezione finanziaria per le aziende che supportano le missioni spaziali militari.
Integrazione commerciale
La strategia è una chiara indicazione che il Pentagono vuole collaborare con le imprese commerciali in tutti i settori dello spazio, un segnale della presa di coscienza del fatto che se in passato era il governo l’unica entità abbastanza grande da assumersi il rischio delle operazioni spaziali, ad oggi sono le imprese private a gestire una gran parte di queste attività. La strategia del Pentagono, infatti, afferma che: “una più profonda integrazione delle soluzioni spaziali commerciali rappresenta un cambiamento concettuale rispetto alle pratiche tradizionali su cui il Dipartimento ha fatto affidamento; data l’espansione del settore spaziale commerciale e la proliferazione delle capacità spaziali, il Dipartimento trarrà beneficio rendendo le soluzioni commerciali parte integrante – e non solo complementare – delle architetture spaziali della sicurezza nazionale”.
Sfruttare la velocità dei privati
Come sostenuto da tempo dai leader della Space force e del Comando spaziale statunitensi, e come emerso con chiarezza dalla guerra in Ucraina, un uso maggiore e migliore degli appaltatori commerciali e della catena di approvvigionamento spaziale può contribuire alla resilienza dell’architettura spaziale di sicurezza nazionale complessiva. Secondo la strategia, quindi, l’obiettivo è trovare il miglior “equilibrio” tra capacità governative e commerciali. La strategia, pur riconoscendo che esiste un “rischio intrinseco” nell’affidarsi ai sistemi commerciali, che comporta compromessi tra velocità e sicurezza, sottolinea anche il rischio di non riuscire a sfruttare “l’innovazione e la velocità” commerciali.
Quattro priorità
La strategia di integrazione dello spazio commerciale evidenzia quattro priorità per raggiungere l’integrazione. In primo luogo, per garantire la disponibilità di soluzioni commerciali quando necessario, il Dipartimento utilizzerà contratti e altri accordi per delineare i requisiti. In secondo luogo, il Dipartimento realizzerà l’integrazione delle soluzioni commerciali in tempo di pace per consentire di utilizzare senza problemi le soluzioni spaziali commerciali durante le crisi e i conflitti. Terzo, le Forze armate Usa proteggeranno e difenderanno dalle minacce agli interessi spaziali della sicurezza nazionale degli Stati Uniti, nello spazio e a terra, e, se del caso, dalle soluzioni spaziali commerciali. Infine, il Dipartimento utilizzerà l’intera gamma di strumenti finanziari, contrattuali e politici disponibili per sostenere lo sviluppo di nuove soluzioni spaziali commerciali “che abbiano il potenziale per supportare le Forze congiunte”.
La strategia della Space force
Anche la Space Force dovrebbe pubblicare nei prossimi giorni la propria strategia commerciale. La nuova Forza armata ha intensificato negli ultimi anni le collaborazioni con l’industria e i suoi ufficiali hanno chiesto da tempo che il tema delle acquisizioni consideri le opportunità di acquistare servizi e sistemi dall’industria ogni volta che sia possibile. L’anno scorso, inoltre, è stato istituito un Ufficio per lo spazio commerciale con l’obiettivo di aiutare l’Ussf a integrare meglio queste capacità nelle sue aree di missione. L’impegno si è concentrato anche sulla creazione di una riserva spaziale commerciale (Commercial augmentation space reserve) per aumentare l’uso delle capacità del settore privato da parte della Forza spaziale durante una crisi o un conflitto.
Difesa comune, se l’Europa fa i conti senza l’oste. L’analisi di Camporini
La dinamica accelerata degli ultimi mesi, con la crisi in Medio Oriente che non dà segni di avviarsi verso una qualsiasi forma di evoluzione, quella ucraina dove a linee del fronte pressoché stabilizzate continuano senza soste gli attacchi aerei a tutto il territorio, in una riedizione della strategia di Goering, il risorgere della minaccia terrorista e le incertezze politiche dovute alle prossime stagioni elettorali, questa dinamica ha rilanciato il dibattito sull’insostenibilità di un’Europa che nel suo complesso non appare disporre di uno degli strumenti chiave della politica verso l’estero: quello di un’adeguata e credibile capacità militare.
Si rinvigorisce quindi un dibattito che, avviato a valle dell’incontro di Saint Malo del dicembre 1998, dopo i solenni impegni dello Helsinki Headline Goal, ha attraversato fasi di stanca, per non dire di paralisi. Oggi si parla nuovamente di esercito europeo, di fondi europei per la difesa, addirittura con ipotesi di eurobond, ipotesi stroncata sul nascere da Berlino. Viene addirittura lanciata dalla presidente della Commissione l’ipotesi di un Commissario per la Difesa, senza peraltro dire come dovrebbe coordinarsi e dividere i compiti con la figura dell’Alto Rappresentante.
Per chi crede fermamente nella futura ever closer Union questo è un dibattito surreale, di chi vuole costruire un tetto senza prima elevare i muri di sostegno. Dovrebbe essere ormai chiaro a chiunque che uno strumento militare comune o anche il solo impiego coordinato e sinergico delle risorse militari ha senso solo se si sa che cosa farne, se sono ben fermi gli obiettivi politici che si vogliono perseguire anche, ma non solo, con l’uso pur solamente ventilato delle capacità operative di unità armate. Anche per il solo ruolo di mediatore di conflitti, un sagace analista ha affermato che bisogna avere un revolver carico in tasca.
Tutto ciò a monte della soluzione di una miriade di altri problemi di ordine organizzativo, di comando e controllo, di struttura produttiva e industriale, per i quali nel passato sono state provate soluzioni, sempre su base contingente e occasionale, come per le missioni in Bosnia e in Macedonia, a valle di quelle Nato, o per l’Artemis del 2003 in Congo. Tutto questo per dire che sul piano organizzativo non c’è molto da inventare, ma basta aver chiaro che cosa fare e avere la determinazione di farlo in modo sistematico.
Le circostanze citate ci dicono quindi che sul piano operativo, anche a livello strategico, il rapporto Ue-Nato si può reggere su basi sufficientemente solide e chiare, come bene evidenziato dagli accordi Berlin Plus circa l’utilizzo delle strutture di pianificazione e comando dell’Alleanza Atlantica, Shape, da parte dell’Unione europea, in caso di specifiche necessità. La struttura di comando peraltro è elemento chiave e irrinunciabile per una credibile e quindi efficace postura militare e disporne può essere il primo indispensabile mattone di quella ‘autonomia strategica’ a suo tempo evocata e da taluni intesa come lo strumento per allentare il vincolo transatlantico, mentre al contrario dovrebbe essere quello per assurgere a partner ‘near peer’ in grado di negoziare autorevolmente con Washington per la definizione di politiche condivise.
Venendo agli aspetti più squisitamente tecnici, più che a vagheggiare di un esercito europeo, sarebbe il caso di puntare più modestamente, ma più concretamente ad una standardizzazione degli equipaggiamenti e dei sistemi d’arma, in modo da abbatterne drasticamente i costi unitari e di esercizio e nel caso di operazioni congiunte da poter contare sulla possibilità di mutuo supporto fra contingenti di diverse nazionalità attivando catene logistiche unitarie.
Ma anche questo appare un obiettivo difficilmente raggiungibile, per concrete motivazioni legate alla politica industriale.
Uno dei più pesanti fattori che incidono pesantemente sulla potenzialità operativa dei paesi europei nel loro complesso è la frammentazione della base industriale della difesa, che impedisce il conseguimento delle economie di scala necessarie per assicurare un sufficiente rendimento delle spese per la difesa di ciascun paese: in sintesi, si dovrebbe spendere di più, ma prima si deve spendere meglio. Ma per ovvie motivazioni legate alla difesa dell’occupazione e della base tecnologica nazionale, ogni governo difende strenuamente i propri campioni, come Dassault, Krauss-Maffei e Leonardo, per citarne solo alcuni.
Una reale politica di europeizzazione della difesa deve quindi comprendere una strategia per indurre i grandi complessi industriali a forme sempre più strette di collaborazione allo scopo di attuare progetti comuni per i principali sistemi d’arma: non si dovrebbero più verificare situazioni come quella dello sviluppo contemporaneo di due velivoli da combattimento, come Rafale e Eurofighter, con una duplicazione dei costi di sviluppo e un incremento inaccettabile dei costi di produzione e invece ci stiamo ricascando con GCAP e SCAF. La strada è quella di incentivi irrinunciabili, secondo il modello dello European Defense Fund, ma con risorse superiori di due ordini di grandezza.
Il modello Next Generation Eu, pur nella sua specifica eccezionalità, potrebbe indicare la strada, che al momento non appare percorribile per la rigida opposizione di molti stati membri, a partire dalla Germania, ma l’acuirsi delle crisi internazionali potrebbe indurre a rapidi ripensamenti, come per la crisi pandemica, aprendo la via a una nuova stagione, in cui le capacità operative dei paesi europei nel loro complesso, a sostegno di una coerente e condivisa politica estera comune, potrà ridare all’Ue il ruolo di interlocutore paritario che oggi francamente non ha.
GE Aerospace va in borsa. Per Procacci (Avio Aero) è un’opportunità anche per l’Italia
La quotazione in borsa di GE Aerospace rappresenta una grande opportunità: poterci muovere in un’azienda completamente focalizzata sul settore aeronautico, che è da sempre la nostra identità. Ha commentato così l’amministratore delegato di Avio Aero, Riccardo Procacci, l’annuncio ufficiale di GE Aerospace – parent company americana della società con sede a Rivalta di Torino – quale società quotata indipendente alla Borsa di New York ereditando il ticker “GE” dopo il completamento dello spin-off di GE Vernova, una decisione che segnala il focus aerospaziale intrapreso dal gruppo Usa. Come spiegato da H. Lawrence Culp Jr., presidente e ceo di GE Aerospace: “Con il lancio delle tre società indipendenti (GE HealthCare, GE Vernova e GE Aerospace ndr) ora completato, la giornata di oggi segna l’ultimo passo epocale nella trasformazione pluriennale di GE”.
Per Procacci, presente negli Stati Uniti alla cerimonia del suono della campanella in apertura a Wall Street, “Avio Aero sta prendendo parte a un momento cruciale nella storia di GE”, indicando come “ciò significherà non solo un ulteriore impulso a nuovi investimenti e piani di sviluppo, ma anche un rafforzamento del nostro ruolo di protagonisti dell’industria europea della propulsione”. Per l’ad italiano, infatti, grazie alla partecipazione della società nei principali programmi internazionali civili e militari, “continueremo a lavorare per definire il presente e il futuro dell’industria aerospaziale, collaborando con istituzioni, università, centri di ricerca e Pmi, in Italia e in Europa. Allo stesso tempo, proseguirà il nostro impegno come partner delle Forze armate italiane, al cui servizio siamo da oltre 115 anni”.
Il lancio di GE Aerospace rappresenta il completamento del processo pluriennale di trasformazione finanziaria e operativa di GE. Negli ultimi anni, GE ha adottato diverse misure per rafforzare in modo significativo il business, tra cui una riduzione del debito di oltre cento miliardi di dollari dal 2018. Allo stesso tempo, l’implementazione e l’adozione in tutta l’azienda di Flight deck, il modello operativo lean di proprietà di GE Aerospace, e una serie di iniziative volte al miglioramento del servizio al cliente hanno permesso un cambiamento nella stessa cultura aziendale. Queste basi hanno portato alla creazione di tre società indipendenti: GE HealthCare, specializzata appunto nelle tecnologie per la salute, GE Vernova, con un focus sul settore energetico, e appunto GE Aerospace.
Con circa 44mila motori commerciali e 26mila motori militari in servizio in tutto il mondo, GE Aerospace si presenta come società specializzata a livello globale nella propulsione, nei servizi e nei sistemi. L’azienda ha generato oltre trenta miliardi di dollari di fatturato rettificato nel 2023, di cui il 70% generato dai servizi e dai forti risultati dell’aftermarket dei motori. In occasione dell’Investor Day di GE Aerospace dello scorso marzo, l’azienda ha ribadito la sua guidance per il 2024 e ha presentato una previsione finanziaria di lungo termine, con l’aspettativa di raggiungere circa dieci miliardi di dollari di utile operativo nel 2028. Inoltre, GE Aerospace ha illustrato il piano quadro di allocazione del capitale finalizzato a investire nella crescita e nell’innovazione, restituendo anche il 70-75% circa dei fondi disponibili agli azionisti.
Tra i principali programmi che vedono il coinvolgimento degli stabilimenti di Avio Aero in Italia, Polonia e Repubblica Ceca, il GE Aerospace Advanced Technology di Monaco di Baviera e il GE Engineering Design Center di Varsavia c’è l’EuroDrone, un velivolo a pilotaggio remoto (Uav) di classe Male (Medium altitude long endurance), con capacità versatili e adattabili. Le sue caratteristiche lo rendono la piattaforma perfetta per missioni cosiddette Istar, cioè di Intelligence, sorveglianza, acquisizione obbiettivi e ricognizione e per operazioni di sicurezza nazionale. Ad essere scelto come sistema di propulsione del drone è stata, infatti, la versione militare del Catalyst di Avio Aero, il primo turboelica nella storia dell’aviazione con componenti realizzate tramite additive manufacturing, che assicurano minor peso e maggior efficienza al motore.
Grazie al rapporto di compressione di 16:1, il migliore del settore, il Catalyst garantisce una diminuzione dei consumi fino al 20%, una potenza di crociera e una capacità di carico maggiore del 10% e fino a tre ore in più di autonomia in una tipica missione Uav, rispetto ai motori concorrenti nella stessa categoria. Il controllo del motore digitale Fadec (Full authority digital engine control) presente sul Catalyst, inoltre, semplifica l’integrazione tra l’avionica e l’elica, questa realizzata dalla tedesca MT-Propeller.
Sanità e Realtà
L'articolo Sanità e Realtà proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Nella sede del governo del Messico 19 gatti sono «beni immobili viventi»
Il governo ha conferito ai gatti che vivono nel Palazzo nazionale uno status ufficiale, che obbliga lo stato a prendersene cura
Buon compleanno NATO
Settantacinque anni di pace nella libertà assicurati ai suoi Stati membri, l’alleanza politico-militare più istituzionalizzata e longeva della storia, una membership passata dagli originari 12 membri che, a Washington, il 4 aprile 1949 sottoscrissero il Trattato dell’Atlantico del Nord agli attuali 32, sopravvissuta alla Guerra fredda, alla sua fine e al suo ritorno: questa è la Nato. Concepita “per tenere i russi fuori, gli americani dentro e i tedeschi sotto”, è ancora uno strumento essenziale per conseguire almeno i due obiettivi tuttora essenziali dei tre enunciati sinteticamente dal suo primo Segretario generale, Lord Ismay. Con buona pace di chi ne denuncia gli scopi bellicisti, l’Alleanza resta uno straordinario strumento di pace, essenzialmente difensivo, il solo disponibile per garantire la sopravvivenza delle democrazie occidentali.
Ma non è certo tempo di esercitarsi in vuoti trionfalismi autocelebrativi. La guerra in Ucraina, soprattutto la guerra in Ucraina, sta sottoponendo la Nato a uno stress test ben maggiore di quelli rappresentati dalle molte crisi internazionali che l’hanno vista testimone attiva o protagonista. La sensazione è che, per la prima volta, la sua credibilità – ovvero la credibilità della sua deterrenza – possa essere messa in discussione dal combinato disposto della straordinaria aggressività dei suoi nemici e da divisioni sul fronte interno. Ci sono almeno tre caratteristiche inedite nelle sfide con le quali l’Alleanza si trova a doversi misurare a tre quarti di secolo dalla sua nascita.
La prima è rappresentata dalla realistica prospettiva di un informale ma sostanziale disimpegno americano rispetto alla Nato e, più complessivamente, alla relazione transatlantica. La minaccia ha un nome e un cognome: Donald Trump. Nel caso tutt’altro che remoto che il peggior presidente americano della storia dovesse venire rieletto, il rischio di una pericolosa perdita di credibilità della solidarietà euro-americana si farebbe più reale, incoraggiando tutti gli sfidanti alla leadership globale delle democrazie. Questa leadership è sempre più incerta e contestata, ma affinché ne venisse decretato ufficialmente il tramonto, sarebbe necessario proprio dimostrare che nemmeno poste di fronte a una minaccia esistenziale al loro futuro le democrazie occidentali sono in grado di mostrare un effettivo fronte comune.
La seconda caratteristica è costituita dal moltiplicarsi e dal globalizzarsi delle sfide poste all’Occidente e alla struttura politica e istituzionale dell’ordine internazionale liberale. La gravità della guerra in Ucraina non può farci dimenticare l’emergenza mediorientale, con i rischi di allargamento del conflitto e la tessitura di alleanze sempre più strutturate tra attori locali, regionali e globali e con il saldarsi di inediti allineamenti tra attori regionali che operano in quadranti anche molto lontani, ma tutti quanti uniti dalla volontà di indebolire il ruolo degli Stati Uniti (basti pensare alle relazioni tra Hamas, Iran, Russia, Cina e Corea del nord). Né tanto meno possiamo disconoscere che l’aumento della rilevanza economica, tecnologica e militare della Cina richiama inevitabilmente l’attenzione di Washington verso il Pacifico. Non è un caso che al vertice del Galles del 2014, in cui venne assunto l’impegno dei partner a investire almeno il 2 per cento del loro Pil nella Difesa, l’inquilino della Casa Bianca era Barack Obama, il primo presidente “Pacifico” degli Stati Uniti. Ciò significa che la Nato è sempre più necessaria ma sempre meno sufficiente per garantire l’ordine liberale e che, evidentemente, i paesi europei devono farsi carico seriamente del concorso efficace alla sicurezza propria e a quella collettiva.
Terza caratteristica è che, per lo meno da 15 anni, si sono palesati degli sfidanti in grado di sfruttare gli errori americani e l’inettitudine europea. Pechino e Mosca, in primis, ma sostenute da una crescente corte di clientes (dai regimi impresentabili della Corea del nord e dell’Iran a una serie di più o meno emergenti attori del vecchio Terzo mondo) che non costituiscono ancora una “coalizione di volenterosi”, ma formano già un insieme eterogeneo che ritiene comunque che le proprie differenti aspirazioni siano meglio perseguibili nel caso di un rapido declino della leadership occidentale. Non era così, ad esempio, ai tempi dell’invasione americana dell’Iraq nel 2003 e della lunga guerra civile che ne seguì.
Paradossalmente, proprio la lunga ed erronea sensazione di invulnerabilità che la Nato ha concorso ad assicurare ben oltre il disfacimento dell’Urss nel 1991, certamente interrotta traumaticamente dagli attentai dell’11 settembre 2001 (i quali peraltro diedero luogo alla controversa “guerra al terrorismo”, che concorse a confondere strategie, obiettivi e allineamenti) ha contribuito a narcotizzare le opinioni pubbliche europee rispetto alla possibilità del ritorno della guerra di aggressione sul Vecchio continente e alla sua natura di minaccia esistenziale per la sicurezza delle nostre istituzioni e alla natura liberale delle nostre società aperte. Parallelamente, la stucchevole e autocelebrativa retorica dell’Unione europea come “potenza civile”, unico gigante erbivoro in un mondo popolato di carnivori, ha fatto sì che lo sviluppo dell’Unione vera e propria, che di fatto si realizza in concomitanza con la fine della Guerra fredda e con i successivi allargamenti della Nato, si realizzasse nella condizione di espungere il tema della Difesa e della sicurezza comune dagli obiettivi e dai compiti concretamente perseguiti e realizzati dalla Ue. Per meglio dire, ha fatto sì che la distanza tra le dichiarazioni altisonanti e gli atti concreti si allargasse vieppiù, con la conseguenza ulteriormente nefasta di abituare le opinioni pubbliche europee a rimuovere il tema della sicurezza (e del suo costo) dai propri calcoli costo-beneficio.
Ecco che allora i cosiddetto “Piano Stoltenberg” (la proposta di istituire un fondo di 100 miliardi di dollari da impegnare in un quinquennio per garantire un sostegno militare all’Ucraina certo nel tempo) non rappresenta semplicemente uno stratagemma (sicuramente concordato con l’Amministrazione Biden) per sottrarre la politica occidentale verso Kyiv ai possibili esiti nefasti delle elezioni presidenziali americane (Trump) e di quelle europee (sovranisti e putiniani vari), ma implica un aumento di soggettività dell’Alleanza medesima, le cui strutture istituzionali si farebbero così promotrici di iniziative da sottoporre agli Stati membri invece che rappresentarne il semplice strumento di coordinamento delle decisioni assunte nelle 32 capitali.
La sfida più grande che attende però la Nato (e l’Unione) è quella di contribuire a una cultura politica della responsabilità e del realismo liberale nell’ambito della sicurezza comune. Se oggi il comparto industriale di Stati Uniti ed Europa riesce a malapena a garantire la produzione di un milione di proiettili da 155 millimetri (a fronte dei tre milioni russi) non è solo perché abbiamo un’industria della Difesa sottodimensionata rispetto alla magnitudine delle minacce, ma anche perché abbiamo eccessivamente deindustrializzato (e troppo invece finanziarizzato) le nostre economie, perché ci siamo cullati nella perniciosa illusione che le logiche del just-in-time della riduzione sistematica degli stock fosse applicabile anche a comparti critici come quelli della Difesa o dei vaccini. Così come fa spiegato con chiarezza e coerenza che garantire la capacità ucraina di resistere all’aggressione russa lo spettro di un confronto diretto. Perché la Russia non può permettersi di ipotizzare nessuna provocazione alla Nato mentre è impegnata in una guerra imperialista che non può vincere. E va ricordato che, in queste condizioni, la superiorità tecnologica occidentale nel settore aereo e navale fornisce un vantaggio decisivo all’Alleanza nel breve e medio periodo. Mentre sulle forze terrestri e nel lungo periodo investimenti maggiori e un aumento sostanziale degli effettivi sono temi da affrontare inderogabilmente e laicamente (potenziamento della riserva? riattivazione della leva?). È innanzitutto una battaglia culturale quella che va affrontata e vinta, nella quale si abbia il coraggio di rivendicare che esistono investimenti necessari per la sicurezza comune, senza i quali le nostre società sono esposte alla minaccia dei sistemi autocratici.
L’occasione dei 75 anni dell’Alleanza atlantica, quindi, non deve ridursi a rievocazioni storiche e discorsi d’occasione, ma piuttosto costituire uno stimolo per dire chiaro e tondo come stanno le cose e quali sono i tempi di ferro con i quali possiamo scegliere di convivere oppure di fronte ai quali possiamo decidere di soccombere.
L'articolo Buon compleanno NATO proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Liberalismo, commercio e Geopolitica: è di Panebianco la settima lezione della Scuola di Liberalismo 2024
Democrazie e guerre, commercio, globalizzazione e geopolitica. Nell’Aula Malagodi della Fondazione Luigi Einaudi si è svolta questa sera la settima lezione della Scuola di Liberalismo 2024, “Liberalismo, commercio e geopolitica” a cura del professor Angelo Panebianco. “Le sfide della sicurezza hanno un impatto sulla vita democratica, sempre”, ha detto. “Quando le democrazie sembrano funzionare bene è perché non ci sono sfide alla loro sicurezza. In Europa ci sono fratture, come quella tra nord e sud, e questo ha un peso molto forte sui processi decisionali. Abbiamo visto il tentativo di arrivare a una soluzione concordata sull’Ucraina”.
La storia dell’Europa, ha spiegato “dopo la caduta dell’impero romano d’Occidente è una storia di divisioni, al contrario di quanto avvenuto in Cina. Questo rappresenta un peso perché impedisce all’Europa di raggiungere i veri obiettivi: occorre ricostituire una leadership, che prima era il motore franco-tedesco e ora non c’è più, e occorre che gli europei capiscano che devono giocarsi la competizione per i voti a livello europeo, non nazionale. Per tutti, gli interessi nazionali sono prevalenti, perché le élite conquistano il potere internamente non in Europa. Per questo la situazione di empasse è destinata a durare”.
È possibile un nuovo ordine internazionale? “Secondo me sì”, ha detto il politologo, “ma bisogna essere cauti nell’augurasi questo perché i nuovi ordini sono spesso il prodotto di un conflitto”, vedi Bretton Woods. “Esiste infatti un rapporto tra guerra e ordine internazionale. Sono tempi molto difficili perché l’assetto internazionale non ha ancora trovato il suo equilibrio. Credo che resteremo nell’incertezza”.
L’8 e il 9 giugno prossimo si terranno le elezioni europee. “Fin quando queste continueranno a svolgersi nel modo in cui si sono svolte tuttora, saranno solo un costoso sondaggio per capire chi è più forte o più debole sul piano nazionale. Quello che conta oggi è la forza relativa degli attori, dei singoli partiti che si misurano internamente. Le elezioni non sono fatte oggi per parlare dell’Europa, anche se poi è vero hanno un effetto perché cambiano gli equilibri del parlamento”.
Il manifesto di Ventotene, ha concluso Panebianco, “aveva alcuni aspetti interessanti, ma non so quanto sia attuale. Sono quei documenti che acquistano un valore simbolico. In Italia ne ha molto, ma fuori da qui non ha un valore particolarmente rilevante. Gli Stati Uniti al momento restano una metà molto lontana, perché non sono nati gli europei. L’identità europea non è, e non è mai stata, più saliente delle identità nazionali. Come ho già detto la storia dell’Europa è una storia di divisioni. Un popolo europeo può nascere solo per mezzo di un atto politico, non nascerà in modo spontaneo”.
L'articolo Liberalismo, commercio e Geopolitica: è di Panebianco la settima lezione della Scuola di Liberalismo 2024 proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Presentazione del libro “Civil conversazione” di Maria Teresa Guerra Medici
Più che la presentazione di un libro, una piacevole conversazione fra l’autrice, Gabriella Palli Baroni, Grazia Tolomeo e la curatrice del volume Rossana di Fazio.
Introduzione a cura di Lorenzo Infantino.
L'articolo Presentazione del libro “Civil conversazione” di Maria Teresa Guerra Medici proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Ben(e)detto del 3 aprile 2024
Presentazione dell’Osservatorio Carta, Penna e Digitale presso Assocarta
26 marzo 2024, ore 12:30, in presenza presso la sede di ASSOCARTA – Bastioni Porta Volta 7, Milano e in videoconferenza
Associazione Italiana Editori, Federazione Carta e Grafica e Federazione Italiana Editori Giornale: invitano le aziende alla presentazione del nuovo Osservatorio Carta, Penna e Digitale.
L'articolo Presentazione dell’Osservatorio Carta, Penna e Digitale presso Assocarta proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
#LaFLEalMassimo – Regole Concorrenza e Innovazione divergenza USA EU
Questa rubrica conferma in apertura il sostegno alla battaglia portata avanti dal popolo Ucraino per la difesa della propria sovranità e in via indiretta anche della nostra libertà e celebra il sacrificio degli eroi silenziosi come Navalny e rigettando le illazioni di Putin in merito a un eventuale ruolo dell’Ucraina nell’attacco terroristico subito di recente dalla Russia.
Mente il quadro geopolitico si conferma incerto e con la concreta prospettiva che nuovi fronti di guerra si aprono sia sul campo che su altri versanti (dal commercio alla sicurezza informatica) un altro elemento di attenzione è costituito dalla curiosa “divisione del lavoro che si va delineando tra gli Stati Uniti e l’Europa
Al di là del mare Atlantico si sperimenta, si investe e si alimenta il fuoco sacro dell’innovazione, che negli ultimi decenni ha prodotto internet, gli smartphone, i social media e altre rivoluzioni tecnologiche più specifiche che hanno modificato il nostro modo di vivere e di lavorare e potrebbero farlo ulteriormente nei prossimi anni (si pensi anche solo alla possibilità di lavorare da remoto che è conosciuto una forte accelerazione durante la pandemia). In America hanno aperto la strada all’Intelligenza Artificiale generativa e si dirigono verso la sfida di quella generale, mentre in Europa ci vantiamo di aver già regolato quello che non comprendiamo ancora e creato argini e ripari da rischi che non sappiamo neanche se esistono veramente.
Con l’antitrust, che di recente ha colpito Apple, ci illudiamo di tutelare i consumatori e di sanzionare gli abusi di posizione dominante, ma di fatto puniamo il successo che non siamo capaci di conseguire e ci abbandoniamo a ritorsioni contro imprese che realizzano ogni giorno una centralità e sovranità del consumatore. Questa divisione avrà conseguenze rilevanti in futuro e si sta già sedimentando in un substrato culturale che ci vede subire passivamente il vento del cambiamento, non di rado osservandolo con sospetto e diffidenza mentre specializziamo nella regolamentazione che inizia con le migliori intenzioni, ma finisce troppo spesso per degenerare in una burocrazia autoreferenziale, che ostacola l’iniziativa individuale, l’innovazione e ci rende meno liberi e più poveri.
L'articolo #LaFLEalMassimo – Regole Concorrenza e Innovazione divergenza USA EU proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
Il liberalismo morale di Luigi Einaudi
Più che celebrare è opportuno ricordare Luigi Einaudi a 150 anni esatti dalla sua nascita. Qualsiasi celebrazione, infatti, corre il rischio di virare verso la retorica, retorica che per indole e per carattere erano quanto di più lontano dalla personalità Einaudi.
Le molte vite di Einaudi si sono intrecciate sino alla sua morte: continuò ad esser un professore sia quando ebbe la guida del Ministero del Bilancio, sia quando divenne Governatore della Banca d’Italia e, infine, quando divenne, lui monarchico, Presidente della neonata Repubblica.
In ciascuna di queste attività, così come prima nell’insegnamento e nella continua opera di divulgazione che condusse da pubblicista, mantenne sempre fede al suo orientamento liberale in politica e liberista in economia.
Ed è proprio il suo liberismo che vorrei proporre in questo abbozzo di ricordo.
Certo, Einaudi era un accademico, un professore, come si è detto, che però volle sempre contribuire a chiarire, a spiegare, a render comprensibili anche le leggi dell’economia all’opinione pubblica più vasta, evitando il linguaggio iniziatico proprio dei mandarini, grazie anche ad una prosa mai paludata, sempre fresca e tersa.
Einaudi non fu un economista sistematico: resterà sempre troppo forte in lui, anglofilo dichiarato come lo fu prima di lui il Conte di Cavour, l’ascendente esercitato dall’empirismo inglese e scozzese, e quindi la continua attenzione agli insegnamenti che venivano impartiti, prima di tutto a lui ed al suo pensiero, da quella che Bobbio descrisse come la “lezione dei fatti” (1).
Einaudi partiva sempre da un esempio concreto, prendeva a proprio riferimento non l’astratto – e quindi: inesistente – homo oeconomicus, ma l’imprenditore, l’agricoltore, lo speculatore, l’operaio, per esporre il problema concreto e fornire a questo una risposta altrettanto concreta.
Se Einaudi non fu sistematico, il concretismo, l’empirismo lo vaccinarono dall’ideologismo, ovvero, e nonostante le semplificazioni, rifiutò sempre di esser dipinto come un liberista tetragono, pronto ad applicare sempre e solo la ricetta liberistica a qualsiasi problema fosse chiamato ad affrontare.
Quell’immagine liberista fu, non a caso, definita dallo stesso Einaudi, in una risposta al deputato socialista Calosso, un “fantoccio mai esistito e perciò comodo a buttare a terra” (2), respingendo, assieme al fantoccio, la stessa tesi, summa liberistica, secondo cui i singoli uomini urtandosi l’un l’altro finirebbero per fare l’interesse proprio e quello generale, definendo tale summa come una autentica “invenzione degli anti liberisti, si chiamassero o si chiamino essi protezionisti o socialisti o pianificatori”.
Perché, per Einaudi, nessuno che abbia mai letto il libro classico di colui che è considerato per antonomasia il prototipo dei liberisti, Adam Smith, potrebbe mai ammettere che si possa applicare tale fantoccio liberista allo stesso Smith. Nella Ricchezza delle nazioni, infatti, lo scozzese iniziatore della stessa scienza economica, scrisse chiaramente che “la difesa è più importante della ricchezza” assoggettando quindi i cittadini ad imposte per perseguire il bene comune, per poi scrivere parole di fuoco contro i proprietari terrieri assenteisti.
Allontanato da sé il fantoccio liberista, Einaudi chiarirà a più riprese l’essenza della sua posizione economica. Troppo spazio richiederebbe qui l’affrontare la querelle che vide contrapposto lo stesso Einaudi all’altro grande pensatore liberale, Benedetto Croce, sul tema dei rapporti tra il liberalismo politico ed il liberalismo economico. Sia detto di passata: querelle che in realtà fu per molti aspetti più apparente che reale.
Dicevo: non a caso Einaudi, nello scansare il fantoccio costruito dai suoi avversari, si richiama ad Adam Smith.
Dallo scozzese, infatti, Einaudi non ereditò solo il chiaro empirismo, ma ancora prima il fondamento morale, prima che economico, della sua impostazione anche economica.
Tanto Smith quanto Einaudi, infatti, furono, prima che economisti, dei moralisti, ovvero degli studiosi della morale umana. Sarebbe impossibile pienamente comprendere La Ricchezza delle Nazioni senza aver letta e metabolizzata la Teoria dei Sentimenti Morali dello scozzese, così come è riduttivo tentare di qualificare il pensiero economico einaudiano senza partire dal fondamento morale della sua personale interpretazione del liberalismo tout court e del liberalismo economico.
Già nel corso del primo dopoguerra, e siamo nel 1920, Einaudi si premurerà di respingere le invocazioni di coloro i quali, dopo il flagello del conflitto mondiale e i timori del biennio rosso, anelavano “l’uniformità, il comando, l’idea unica a cui tutti obbediscano, il Napoleone”(3), in conformità ad un apparente bisogno dell’animo umano, il quale “rifugge dai contrasti, dalle lotte di uomini, di partiti, di idee, e desidera la tranquillità, la concordia, la unità degli spiriti, anche se ottenuta col ferro e col sangue”(4).
A tali invocazioni Einaudi rispondeva fermamente, tanto da voler abbozzare un “inno, irruente ed avvincente … alla discordia, alla lotta, alla disunione degli spiriti”. Perché, si chiede Einaudi, si dovrebbe mai volere che lo stato abbia un proprio ideale di vita a cui “debba napoleonicamente costringere gli uomini ad uniformarsi… perché una sola religione e non molte, perché una sola opinione politica o sociale o spirituale e non infinite opinioni?”.
Nel rispondere a queste domande retoriche Einaudi fa ricorso al tema classico del conflittualismo liberale, il tema che sessant’anni prima era stato magnificamente esposto nel volume On Liberty di John Stuart Mill. Ed anche qui il richiamo non è affatto casuale: nel 1925, e siamo nel pieno della temperie fascista, Einaudi scriverà una breve ma intensa prefazione alla edizione di On Liberty edita da Piero Gobetti, descrivendo il libro del filosofo ed economista inglese come “il libro di testo di una verità fondamentale: l’importanza suprema per l’uomo e per la società di una grande varietà di tipi e di caratteri e di una piena libertà data alla natura umana di espandersi in innumerevoli e contrastanti direzioni”.
Questa sintesi einaudiana fa il paio con il principio milliano (5) “la verità può diventare norma di azione solo quando ad ognuno sia lasciata amplissima libertà di contraddirla e di confutarla. È doveroso non costringere un’opinione al silenzio, perché questa opinione potrebbe essere vera. Le opinioni erronee contengono sovente un germe di verità. Le verità non contraddette finiscono per essere ricevute dalla comune degli uomini come articoli di fede (…) la verità, divenuta dogma, non esercita più efficacia miglioratrice sul carattere e sulla condotta degli uomini”.
Violando queste massime liberali perché protettive del conflitto di idee e di opinioni, prevale l’aspirazione all’unità, all’impero di uno solo: vana chimera, per dirla con Einaudi, l’aspirazione di chi abbia “un’idea, di chi persegue un ideale di vita e vorrebbe che gli altri, che tutti avessero la stessa idea ed anelassero verso il medesimo ideale” (6).
Così, però, ammonisce l’economista piemontese, non deve essere: “il bello, il perfetto non è l’uniformità, non è l’unità, ma la varietà ed il contrasto”. Da queste premesse, che sono come si è visto premesse di indole etica e morale, deriva la vera obiezione di Einaudi contro i sostenitori dei regimi collettivisti, o pianificatori, o protezionisti.
Al liberalismo, infatti, ripugna un assetto collettivista in quanto in un simile assetto, affinché possa funzionare, non può esistere libertà dello spirito, libertà del pensiero, in quanto quei regimi economici – se si escludono i modelli comunitari volontari tipici, ad esempio, dei vecchi conventi, o dei tentativi degli Owen, dei Cabet, dei Fourier di creare società comunistiche – devono necessariamente fare affidamento ad una struttura gerarchica della società, in cui il rapporto tra uomo e uomo non può essere rapporto improntato al principio di libertà bensì al suo opposto, al principio di dipendenza.
Ed allora, ecco che il parallelo di Einaudi, che poi è l’alternativa tra i due modelli, è rappresentato dalla necessaria ed intima relazione intercorrente tra le istituzioni sociali ed economiche rispetto all’ambizione dell’uomo.
L’uomo moralmente libero, e così la società composta da uomini siffatti e che condividano il sentimento di profonda dignità della persona, non potrà che creare, o tentare di creare, istituzioni economiche simili a sé stesso (7).
In una società dove tutto è dello stato, dove non esiste proprietà privata salvo quella di pochi beni personali, dove la produzione sia organizzata collettivamente, per mezzo di piani programmati centralmente, quali individui avranno maggior facilità di emergere? Non saranno certo i migliori, ammonisce Einaudi, bensì i “procaccianti”, coloro i quali fanno premiare l’intrigo al posto dell’emulazione.
E sarà sempre su queste basi morali ed etiche che Einaudi rifiuterà la nuova economia di Walter Rathenau, ritenendo il tipo di economia proposto dal tedesco come assolutamente inconciliabile con l’idea di stato liberale (8).
Il vero contrasto, infatti, non è tra anarchia ed organizzazione, niente affatto. Il vero discrimine corre tra l’obbligo di adottare un dato metodo di organizzazione, da un lato, e la libertà di scegliere tra parecchi metodi concorrenti, di sostituire l’uno all’altro, di usarne contemporaneamente parecchi o molti.
Il primo metodo è proprio di coloro i quali abbian saggiato il frutto dell’autorità, del comando, mentre il secondo metodo è quello delle persone cui la scienza e l’esperienza abbiano fatto persuase che l’unica, “la vera garanzia della verità è la possibiltà della sua contraddizione, che la principale molla di progresso sociale e materiale è la possibilità di cercare di adottare nuove vie senza il consenso dei dottori dell’università di Salamanca, senza attendere le direttive delle ‘superiori autorità’” (9).
La storia dell’uomo aveva quindi dimostrato la lotta, ed alla fine: la supremazia, di quell’ideale di stato il quale si vuole astenere dall’imporre “agli uomini una foggia di vita. Con le guerre di religione, gli uomini vollero che non ci fosse una unità religiosa imposta dallo stato. Con le guerre di Luigi XIV, di Napoleone, e con quella ora terminata [la Prima Guerra Mondiale, N.dA.] gli uomini combatterono contro l’idea dello stato il quale impone una forma di vita politica, di vita economica, di vita intellettuale. Vinse, e non a caso, quella aggregazione di forze militari, presso cui lo stato è concepito come l’ente il quale assicura l’impero della legge (…) all’ombra del quale gli uomini possono sviluppare le loro qualità più diverse, possono lottare fra di loro, per il trionfo degli ideali più diversi. Lo stato limite, lo stato il quale impone limiti alla violenza fisica, al predominio di un uomo sugli altri, di una classe sulle altre, il quale cerca di dare agli uomini le opportunità più uniformemente distribuite per partire verso mete diversissime o lontanissime le une dalle altre. L’impero della legge come condizione per l’anarchia degli spiriti”(10).
Einaudi, si è detto, non fu un sistematico, non fu un dottrinario. Ma fu coerente. La sua coerenza vedeva perfettamente che per assicurare il pieno sviluppo della personalità umana l’intervento dello stato era non solo opportuno ma necessario. Se infatti lo stabilire i fini e gli obiettivi di una società è opera che spetta ai politici o ai filosofi, il ruolo degli economisti diviene quello di indicare via via i mezzi migliori per il raggiungimento di tali obiettivi. Ma in questo il liberismo non opera come un principio economico, non è qualcosa che si contrapponga al liberalismo etico (11): è una soluzione concreta che gli economisti daranno a quel problema loro affidato per meglio comprendere quale sia lo strumento più perfetto per raggiungere quel fine stabilito dal politico o dal filosofo.
E questi strumenti saranno quelli idonei a condurre la “lotta a fondo contro tutti coloro che nelle industrie, nei commerci, nelle banche, nel possesso terriero hanno chiesto i mezzi del successo ai privilegi, ai monopoli naturali ed artificiali, alla protezione doganale, ai divieti di impianti di nuovi stabilimenti concorrenti, ai brevetti a catena micidiali per gli inventori veri, ai prezzi alti garantiti dallo stato” (12). Ed ancora, saranno necessarie, sempre, le leggi di protezione dei più deboli come le leggi di protezione ed assistenza degli invalidi al lavoro, degli anziani, il divieto di lavoro minorile, l’accesso alla istruzione scolastica per i capaci e meritevoli privi di mezzi, il riconoscimento non solo della libertà sindacale ma della pluralità dei sindacati e del loro ruolo nel pareggiare la forza contrattuale degli imprenditori, ovvero quella stessa libertà (liberale) che aveva fatto alzare la testa agli operai del biellese che Einaudi aveva seguiti e di cui raccontò, ammirato, la dignità delle loro conquiste, elogiando non il socialismo autoritario bensì il socialismo sentimento.
Insomma, per il liberale, e in questo senso: per il liberista, l’intervento dello stato – l’impero della legge – sempre sarà necessario ogni qualvolta non si riesca diversamente a garantire l’uguaglianza dei punti di partenza, senza privilegi di nascita, nella corsa della vita. La corsa, ed il suo esito, dipenderà poi dai talenti di ciascuno – l’anarchia degli spiriti.
Ed all’economista, in ogni caso, spetterà sempre l’ingrato compito di ricordare al politico che vicino alle Oche del Campidoglio, simbolo del successo e della popolarità, si trova la Rupe Tarpea, dove si rischia di finire se non si rispettano le regole ed i principi della buona economia. Perché, dopo tutto, gli economisti piuttosto che esser divisi in fantocci dovrebbero esser divisi, come ricordava Maffeo Pantaleoni, in sole due schiere: da una parte coloro i quali conoscono la scienza economica e, dall’altra parte, coloro i quali non la conoscono.
(1) N. Bobbio, Profilo ideologico del novecento, Milano, 1990, 105.
(2) L. Einaudi, Corriere della Sera, 22 agosto 1948, ora ne Lo scrittoio del Presidente (1948-1955), Torino, 1956, 7-11.
(3) L. Einaudi, Verso la città divina, in Rivista di Milano, 20 aprile 1920. 285-287, ora in L. Einaudi, Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Bari 1954, 32-36.
(4) L. Einaudi, Verso la città divina, op. loc. cit.
(5) J.S. Mill, La libertà (1860), ed. Piero Gobetti, 1925, 3-6.
(6) L. Einaudi, Verso la città divina, op. loc. cit.
(7) L. Einaudi, Il nuovo liberalismo, in La Città Libera, 15 febbraio 1945, 3-6.
(8) L. Einaudi, in La Riforma Sociale, sett.-ott. 1918, 453-458 e passim.
(9) L. Einaudi, ult. loc. cit.
(10) L. Einaudi, Verso la città divina, op. cit.
(11) L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, in La Riforma Sociale, marzo-aprile 1931.
(12) L. Einaudi, Lineamenti di una politica economica liberale, Roma, Partito liberale italiano, 1943.
L'articolo Il liberalismo morale di Luigi Einaudi proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
In Fondazione Einaudi Barbano presenta il suo nuovo libro “La Gogna”
Perché le intercettazioni continuano a essere la lingua della democrazia? Perché la distruzione di tante vite e reputazioni non basta a fermare la gogna? Il direttore de Il Riformista, Alessandro Barbano, risponde a queste domande nel suo nuovo libro “La gogna”, edito da Marsilio, presentato questa sera nell’Aula Malagodi della Fondazione Luigi Einaudi, e lo fa attraverso l’analisi del più disastroso terremoto giudiziario della storia repubblicana: lo scandalo del Consiglio superiore della magistratura. Attraverso documenti, testimonianze e indizi inediti, o fin qui ignorati, Barbano torna “sulla scena del delitto”, nella hall dell’Hotel Champagne, dove, secondo la versione ufficiale, nella notte tra l’8 e il 9 maggio 2019, un gruppo di politici e magistrati congiurava per mettere le mani sulla procura di Roma.
Un’indagine li ha smascherati, un processo rigoroso li ha espulsi. L’autore spiega perché questo racconto non sta in piedi: troppe incompiutezze legislative, azzardi investigativi, forzature istituzionali e ipocrisie giudiziarie mostrano che, con una scientifica diffusione di intercettazioni e con una narrazione rovesciata dello scandalo, si è compiuto un cambio di potere. Di rottura della forma parla l’autore, spiegando che, in quella circostanza, “le intercettazioni sono state diffuse per la prima volta ai media in corso d’opera, cioè diffuse ai giornali quando Palamara era ancora intercettato. Questa è una cosa che non era mai successa nella storia della Repubblica”. Dopo i saluti istituzionali a cura del presidente della Fondazione Luigi Einaudi, Giuseppe Benedetto, sono intervenuti, moderati dall’avvocato Massimiliano Annetta, il professore di Diritto Penale presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, Tullio Padovani, l’onorevole Enrico Costa, e il presidente di Sezione del Tribunale di Roma, Alberto Cisterna. “Leggendo il libro ho avuto la convinzione di trovarmi di fronte a un saggio di criminologia fenomenologica, secondo la quale il reato è una realtà sociale diffusa e non tutti i reati si scoprono, esiste una cifra oscura”, ha detto il professor Padovani. “Questo testo, che rappresenta un eccellente esempio di giornalismo investigativo, porta alla luce volti precisi, smaschera, e si basa su verità documentate”, ha aggiunto. “Oggi in Italia non sono divisi i poteri ma ci si divide il potere, e in questo momento storico chi ha la frazione di potere più significativa, a mio avviso, è la magistratura, che è la politica”.
“Purtroppo la giustizia oggi è poco credibile e questo per una grande responsabilità della politica, che utilizza la giustizia come una scorciatoia”, ha detto Enrico Costa. “Molti, per esempio, la usano come clava, soprattutto a livello locale: un lavoro che ho recentemente presentato rivela come su 150 sindaci indagati, a seguito di un esposto presentato dall’opposizione, di destra e di sinistra, quasi tutti sono stati prosciolti”. Nel libro di Barbano, ha aggiunto, “trovo tutte le sfumature della mia attività parlamentare, perché affronta il tema delle intercettazioni senza rilievo penale, del controllo sulle intercettazioni, parla del Trojan, che va regolato rispetto alle intercettazioni ambientali, perché molto più invasivo, del marketing giudiziario e delle prerogative parlamentari”.
È straordinario, ha concluso Cisterna, che Barbano “abbia trovato una verità che altrove è rimasta latente, nonostante abbia basato il suo lavoro su carte già consultate da altri”.
L'articolo In Fondazione Einaudi Barbano presenta il suo nuovo libro “La Gogna” proviene da Fondazione Luigi Einaudi.
7 ottobre 2023 – 7 aprile 2024. Sei mesi di morte e distruzione
Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint
della redazione
Pagine Esteri, 7 aprile 2024 – Sono passati sei mesi dall’attacco di Hamas nel sud di Israele e dall’inizio dell’offensiva militare dello Stato ebraico nella Striscia di Gaza. Israele non mostra alcun segno di fermarsi e i colloqui in Egitto e Qatar non indicano ancora alcuna possibilità di un cessate il fuoco definitivo. La guerra a Gaza, dice Israele, è una rappresaglia per gli attacchi sul suo territorio da parte di gruppi armati, guidati dalle Brigate Qassam di Hamas, che hanno ucciso circa 1.200 persone e ne hanno fatte prigioniere circa 250. Ma il costo di questa ritorsione senza fine è stato eccezionalmente alto per tutta la popolazione di Gaza.
Almeno 33.137 palestinesi sono stati uccisi dai bombardamenti aerei e dall’offensiva di terra di Israele, riferisce il Ministero della Sanità di Gaza. Altre migliaia di persone risultano disperse e si presume siano morte sotto le macerie di case ed edifici distrutti.
Bambini e donne costituiscono la stragrande maggioranza delle persone uccise. Save the Children denuncia che sono stati uccisi più di 13.800 bambini. La Mezzaluna Rossa Palestinese afferma che circa 1.000 bambini hanno perso una o entrambe le gambe. L’UNICEF stima che almeno 17.000 minori palestinesi siano attualmente non accompagnati o siano stati separati dai loro genitori. Migliaia sono gli orfani. Oltre 75 mila persone sono rimaste ferite e non possono essere assistite perché il sistema sanitario di Gaza è in gran parte distrutto o danneggiato.
La situazione umanitaria a Gaza è peggiorata notevolmente nel 2024 poiché l’esercito israeliano limita l’arrivo degli aiuti alla popolazione, in particolare nel nord della Striscia. L’Unrwa, la principale e meglio organizzata delle agenzie delle Nazioni Unite che operano a Gaza, non riesce a svolgere il suo ruolo perché boicottata e ostacolata da Israele che la accusa di essere “collusa” con Hamas. 2,3 milioni di persone, perciò, rischiano la fame: l’Onu avverte che la carestia si diffonderà in varie parti di Gaza entro maggio. Una trentina di persone, in prevalenza neonati e bambini, sono già morte per disidratazione e malnutrizione. Diverse organizzazioni e centri per i diritti umani accusano Israele di usare la fame come arma di guerra.
La condizione degli sfollati, l’80% della popolazione, è drammatica. L’esercito israeliano ha intimato agli abitanti del nord della Striscia di andare al sud già all’inizio dell’offensiva di terra. Da allora nessuno è più stato in grado di tornare alle proprie case poiché l’esercito israeliano ha creato un corridoio militare che da est e ovest taglia a metà la Striscia. La maggior parte degli sfollati si trova in installazioni delle Nazioni Unite come scuole e ospedali o in tendopoli a Rafah, la città più meridionale di Gaza, al confine con l’Egitto, che Israele minaccia di invadere come le altre città palestinesi, allo scopo, afferma il premier Netanyahu di eliminare “l’ultimo bastione di Hamas”. Molti degli sfollati vivono in strada o e in edifici distrutti solo in parte.
Gli attacchi aerei, di terra e anche dal mare hanno danneggiato o distrutto circa il 62% di tutte le case di Gaza lasciando più di un milione di persone senza un tetto. Ad oggi ci sono 26 milioni di tonnellate i detriti e le macerie che dovranno essere rimosse prima di poter avviare la ricostruzione se e quando terminerà la guerra. I danni stimati dalla Banca Mondiale e dalle Nazioni Unite sono di 18,5 miliardi di dollari. Colpite anche le infrastrutture pubbliche. Oltre al nord, i danni più gravi si registrano nel capoluogo Gaza city e a Khan Younis, nel sud, dove gli attacchi israeliani hanno distrutto migliaia di case e infrastrutture civili. Otto scuole su dieci a Gaza sono danneggiate o distrutte. Oltre 625mila studenti non hanno accesso all’istruzione.
Solo 10 dei 36 ospedali, cliniche e centri sanitari sono in grado di funzionare parzialmente, in condizioni di eccezionale difficoltà. La maggior parte dei pazienti non può ricevere ricevere cure adeguate per la carenza di medicine e attrezzature e per la stanchezza degli operatori sanitari esausti dopo sei mesi di lavoro incessante. Molte operazioni e amputazioni sono state eseguite senza anestesia. Di recente, un assedio durato due settimane dentro e intorno all’ospedale Shifa di Gaza city, il più grande di Gaza, ha lasciato il complesso sanitario in gran parte distrutto. L’esercito israeliano ha ucciso almeno 400 persone nello Shifa durante l’assedio e ne ha arrestate altre centinaia.
Infine gli attacchi militari hanno ucciso il maggior numero di operatori dell’informazione di qualsiasi conflitto moderno. Il Comitato per la Protezione dei Giornalisti stima in 90 il numero di reporter e cameraman uccisi. L’Ufficio stampa governativo di Gaza parla di 140 giornalisti uccisi. Pagine Esteri
Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint
L'articolo 7 ottobre 2023 – 7 aprile 2024. Sei mesi di morte e distruzione proviene da Pagine Esteri.
Si legge ovunque delle preoccupazioni di Israele relative a un probabile attacco iraniano. Gli Usa stanno in ogni modo cercando di esacerbare i toni rilanciando minacce a destra e sinistra qualora dovesse arrivare una risposta da parte dell'Iran.
Questo accade dopo che Israele ha deciso di bombardare l'ambasciata Iraniana in Siria, una roba gravissima sia dal punto di vista del diritto internazionale sia dal punto di vista simbolico. In questo caso servirebbe una netta condanna da parte del Consiglio di Sicurezza dell'ONU per questo atto, ma come spesso accade, quando c'è da proteggere Israele, gli Usa si oppongono con tutte le loro forze. Infatti si sono opposti a una bozza di risoluzione proposta dalla Russia la quale condannava questo attacco e la violazione della sovranità di un Paese.
Solo una volta nel corso della storia è successa una cosa simile, fu quando nel 1999, durante i bombardamenti in Jugoslavia da parte della Nato, gli Usa bombardarono l'ambasciata Cinese senza alcuna motivazione valida. Resta il fatto che la propaganda sta concentrando tutti i suoi sforzi su una potenziale risposta da parte dell'Iran dimenticando del perché questa risposta potrebbe arrivare. Hanno già messo le mani avanti riportando a reti unificate la propaganda sionista, la quale recita che qualora venissero attaccati dall'Iran, avrebbero il diritto di difendersi. Immaginate se qualcuno avesse bombardato un'ambasciata Usa. Chi avrebbe avuto il diritto di difendersi? Gli Usa o chi li ha attaccati?
Ovviamente nessuna menzione sul fatto che l'unico Paese, in questa specifica situazione, che eserciterebbe il diritto di difendersi, sarebbe proprio l'Iran. Tutto ciò perché è stato deliberatamente attaccato da Israele. Preparano il terreno per giustificare un'eventuale contro risposta israeliana facendo in modo che qualora dovesse accadere quanto sopra riportato, avrebbero campo libero per venirci a raccontare del "diritto di Israele di difendersi". Israele, l'ho sempre detto, è uno dei paesi più furbi e subdoli al mondo, tanto che li ho sempre definiti le "stelle e strisce del Medio Oriente". Infatti anche la mossa di chiudere una trentina di ambasciate all'estero, tra cui anche quella in italia, sventolando il pericolo Iran, lo dimostra ampiamente e serve solo ed esclusivamente per alimentare la propaganda.
L'azione israeliana di bombardare l'Iran serve per due motivi, il primo perché a Gaza hanno fallito su tutti i fronti: militare, tattico, strategico, umanitario e hanno perso faccia e quel piccolissimo pizzico di credibilità che ancora avevano. Il secondo perché a fronte di quanto precedentemente espresso, hanno bisogno come il pane di tirare dentro gli Stati Uniti d'America e allargare la guerra. Nel caso dovesse intervenire l'Iran, gli Usa non potrebbero stare a guardare perché sarebbe seriamente a rischio la loro influenza nell'area proprio perché la minaccia su Israele, che è una specie di pentagono o base della Cia in Medio Oriente, stavolta diventerebbe concreta.
Questa vicenda è la fotografia di come si è sempre comportato Israele, di ciò che ha sempre fatto e di come venga rigirata la frittata per consentire a questi criminali di dettare legge in Medio Oriente per salvaguardare gli interessi degli Stati Uniti d'America. Israele provoca, bombarda in barba a qualsiasi legge, occupa territori, pratica apartheid e quando gli rispondono esercitando realmente il diritto di autodifesa, allora quei quattro fanatici messianici danno il via alla carneficina dicendoci che devono difendersi. Vi rendete conto di cosa sono, vero? Oltre che veri terroristi, questi sono un pericolo per il mondo intero. Perché pur di rimanere lì per fare gli interessi a stelle e strisce, gli stanno consentendo di fare tutto, a partire da una pulizia etnica e finire con bombardamenti deliberati ovunque ne abbiano voglia. Salvo poi fare le vittime...
👉 Instagram
👉 Facebook
T.me/GiuseppeSalamone
Vuoi supportare feddit.it? Ecco come fare
Come puoi verificare qui it.liberapay.com/Feddit-it/ l'istanza feddit-it riceve attualmente un finanziamento €.1,85 a settimana da parte di 4 donatori.
Le donazioni vengono utilizzate esclusivamente per ripagare il server e il dominio.
Se il nostro progetto ti piace, se lo utilizzi da Lemmy o da Mastodon o da qualsiasi altro software del #Fediverso, puoi cliccare su questa pagina e contribuire con un piccolo aiuto
Profilo di Feddit-it - Liberapay
Queste donazioni verranno utilizzate esclusivamente per ripagare il server e il dominio utilizzati per il progetto Feddit.it.Liberapay
reshared this
ECUADOR. La polizia irrompe nell’ambasciata messicana
@Notizie dall'Italia e dal mondo Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint
Nella notte tra venerdì e sabato la polizia ha fatto irruzione nell’ambasciata messicana a Quito, in Ecuador, portando via con la forza l’ex vicepresidente ecuadoriano Jorge Glas, che aveva chiesto asilo politico nella sede diplomatica.
“Quello che è appena accaduto è un oltraggio al diritto internazionale e all’inviolabilità dell’ambasciata messicana in Ecuador. Totalmente inaccettabile”. È la barbarie. Non è possibile che violino i confini diplomatico come hanno fatto. È vergognoso per uno stato”, ha detto dichiarato Roberto Canseco, ambasciatore incaricato.
“Mi hanno picchiato. Sono stato colpito mentre ero a terra. Ho fisicamente cercato di impedire loro di entrare. Hanno fatto irruzione come criminali nell’ambasciata messicana in Ecuador. Questo non è possibile. Non può essere. È pazzesco”, ha aggiunto Canseco.
Proprio ieri le tensioni tra i due Paesi avevano raggiunto l’apice. A seguito di alcune dichiarazioni del presidente messicano Andrés Manuel López Obrador in merito alle ultime elezioni in Ecuador, il presidente Noboa ha dichiarato l’ambasciatore messicano “persona non gradita”.
Jorge Glas, condannato per casi di corruzione, è rimasto all’interno dell’ambasciata messicana a Quito dal 17 dicembre 2023 al momento del raid.
Aveva due ordini di arresto, uno dei quali legato ad un processo per peculato.
Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint
L'articolo ECUADOR. La polizia irrompe nell’ambasciata messicana proviene da Pagine Esteri.
Notizie dall'Italia e dal mondo reshared this.
Ecco la vista più dettagliata (finora) sulla storia dell'Universo in espansione l AstroSpace
"I risultati confermano le basi del modello cosmologico standard dell’Universo, e forniscono uno sguardo senza precedenti sulla natura dell’energia oscura e sui suoi effetti sulla struttura su larga scala dell’Universo."
Ministero dell'Istruzione
A 15 anni dal tragico terremoto che il #6aprile del 2009 colpì #LAquila e i territori limitrofi il pensiero del #MIM è rivolto alle 309 vittime di quella notte, ai familiari e a tutte le persone coinvolte.Telegram
CINA. Rottamazione di macchinari e automobili, il piano di Pechino per sostenere la crescita
Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint
di Michelangelo Cocco
Pagine Esteri, 6 aprile 2024 – Il Consiglio di stato di Pechino ha avviato una campagna nazionale per incoraggiare un massiccio aggiornamento di macchinari e attrezzature e la sostituzione di beni durevoli obsoleti, un progetto definito “strategico” che, nelle intenzioni dichiarate dal governo della Rpc, dovrebbe sostenere l’economia (nel 2024 si punta a una crescita del Pil del 5 per cento), le imprese e le famiglie.
Il piano annunciato dall’esecutivo prevede l’aumento del 25 per cento entro il 2027 (rispetto al valore del 2023) degli investimenti in macchinari e attrezzature per l’industria, l’agricoltura, l’edilizia, i trasporti, l’istruzione, la cultura, il turismo e l’assistenza medica.
Il sostegno (fiscale e finanziario) del governo punterà anche all’accelerazione della sostituzione dei beni durevoli, a cominciare dalle automobili (BYD ha al momento cinque modelli in vendita a meno di 100.000 RMB, equivalenti a meno di 13.000 euro). Entro il 2027 dovrebbe raddoppiare il tasso di rottamazione degli autoveicoli e aumentare del 30 per cento quello di sostituzione degli elettrodomestici.
Secondo le stime della Commissione nazionale per le riforme e lo sviluppo (Ndrc), la sostituzione di macchinari e attrezzature potrebbe creare un mercato di oltre 5.000 miliardi di RMB all’anno (circa 704,19 miliardi di dollari USA). Insomma una soluzione per sostenere la domanda interna nel medio periodo, che tuttavia non affronta le cause della sua debolezza, tra le quali spiccano le disuguaglianze sociali e la scarsa fiducia degli imprenditori privati nelle prospettive dell’economia nazionale.
Secondo le stime della Banca centrale, il programma varato dal Consiglio di stato farà aumentare la domanda di automobili ed elettrodomestici rispettivamente di 629,3 miliardi di RMB e 210,9 miliardi di RMB e contribuirà a una crescita del Pil che potrà oscillare tra gli 0,16 e gli 0,5 punti percentuali.
Il governo di Pechino lanciò un’iniziativa simile durante la crisi finanziaria del 2008, rendendo elettrodomestici come televisori e frigoriferi più accessibili ai consumatori delle aree rurali, attraverso massicci sussidi, riuscendo in tal modo a compensare con l’aumento della domanda interna la riduzione delle esportazioni.
Secondo i dati della Banca centrale, i 40 miliardi di RMB di sussidi di allora stimolarono la crescita del Pil di 0,33 punti percentuali nel 2010 e di 0,32 nel 2011.Pagine Esteri
Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint
L'articolo CINA. Rottamazione di macchinari e automobili, il piano di Pechino per sostenere la crescita proviene da Pagine Esteri.
AFRICA. Trent’anni fa, il genocidio in Ruanda
Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint
di Geraldina Colotti
Pagine Esteri, 6 aprile 2024 – L’aereo privato su cui il 6 aprile 1994 viaggiavano il presidente ruandese Juvenal Habyarimana e il suo omologo burundese, Cyprien Ntaryamira – un jet Falcon 50 regalo del primo ministro francese, Jacques Chirac – fu abbattuto da un missile mentre stava atterrando all’aeroporto di Kigali, capitale del Ruanda. Insieme ai due presidenti, di etnia hutu, morirono anche il capo dell’esercito ruandese e i 12 passeggeri. Tempo prima, Habyarimana aveva chiesto aiuto all’allora presidente di Francia, François Mitterrand per far fronte all’offensiva tutsi del Fronte Patriottico Ruandese (Fpr), che attaccava dall’Uganda.
La Francia era il grande alleato di Habyarimana, figlio di una ricca famiglia hutu, andato al potere con un colpo di stato nel 1973: lo considerava un baluardo contro le mire espansionistiche statunitensi nella regione. Parigi sosteneva il governo degli hutu contro il “complotto anglofono” che, dall’Uganda, intendeva creare un “Tutsi-land” di lingua inglese che ne riducesse l’influenza. Per questo, dal 1990, intervenne per fermare l’avanzata dei tutsi e si adoperò per armare e addestrare l’esercito ruandese. Nel 1993, sotto l’egida delle Nazioni unite, erano stati firmati gli Accordi di Arusha tra il Fpr e Habyarimana, contestato anche all’interno dell’hutu power per aver assunto un atteggiamento più moderato.
L’abbattimento dell’aereo, attribuito ai tutsi, innescò 100 giorni d’inferno. Fino al 19 luglio, quando il Fronte Patriottico Ruandese, guidato da Paul Kagame, prese il potere, venne massacrato circa un milione di tutsi, e anche di hutu moderati: un genocidio, durante il quale il mondo rimase a guardare. Si può valutare la proporzione del massacro, considerando che il Ruanda, piccolo stato dell’Africa centrale che si trova nella regione dei Grandi Laghi. è un territorio poco più grande della Sicilia. Allora era abitato da circa 7,5 milioni di persone, appartenenti a tre gruppi etnici: i Twa (circa l’1% della popolazione), di ceppo pigmoide, gli hutu (tra l’85 e il 90%), provenienti dal ceppo bantù, e i tutsi o watussi (meno del 14%), del ceppo nilotico.
Quello che venne descritto come la conseguenza incontrollata di un odio interetnico (quindi dell’incapacità dei popoli africani di governarsi da soli), fu invece principalmente un retaggio della dominazione coloniale (e anche dell’”evangelizzazione”), alimentato ad arte nel contesto dello scontro fra potenze per la rapina del continente dopo la caduta del muro di Berlino.
foto wikimedia commons
Come hanno provato documenti declassificati, l’Operation Turquoise, ufficialmente una missione “umanitaria” francese per proteggere i propri cittadini, servì a coprire (o a foraggiare) l’azione di due gruppi paramilitari principalmente responsabili del massacro, le milizie Interahamwe e gli Impuzamugambi. Nonostante l’allarme sull’incombere del genocidio, preparato dagli incitamenti all’odio razziale lanciati dalla Radio delle Mille Colline, fossero già arrivati alle istituzioni internazionali, nulla di tutto questo giunse, pare, sulla scrivania dell’allora presidente socialista François Mitterrand.
Eppure la Francia, unica potenza oltre agli Usa a mantenere una forte influenza sul continente africano anche dopo la caduta dell’Urss, dal 1959 aveva firmato oltre 60 accordi di cooperazione militare che interessavano 24 nazioni. Otto di questi accordi, obbligavano Parigi a intervenire qualora avesse riscontrato una minaccia. Un potere di cui la Francia, tra il 1959 e il 1996, ha fatto uso per 28 volte: 14 per difendere i governi in carica da “minacce interne”, 7 per “aggressioni esterne”, e 7 per “motivi umanitari”, come l’Operation Turquoise, o nel quadro di operazioni multilaterali.
I prodromi del genocidio in Ruanda vanno rintracciati nella spartizione dell’Africa e nelle conseguenze prodotte dalla creazione di frontiere artificiali decise alla Conferenza di Berlino del 1885; e nell’imposizione di concetti politici, istituzioni e norme sociali tarate su visioni esterne, avulse dalle strutture preesistenti nel continente africano.
Come hanno rilevato diversi storici africani (Ki-Zerbo, M’Bokolo, Kagabo…), e come si ricava dalle testimonianze dei primi esploratori europei, popolazioni appartenenti a differenze etnie convivevano all’interno di società feudali dotate di strutture anche sofisticate, condividendo usanze e religioni. Come hanno analizzato, in Italia, gli studi di Michela Fusaschi (ripresi anche da Alberto Sciortino), la società ruandese della cosiddetta epoca dei regni (tra il XV e il XVI secolo) mostrava una complessa scala gerarchica del potere.
Al vertice c’era un mwami, che regnava mediante famiglie vassalle tutsi a cui distribuiva la terra. I capi del suolo e del bestiame esistenti in ogni provincia erano sia hutu che tutsi. Il re, che possedeva tutto il bestiame e tutto il suolo, era anche garante dell’unità del popolo, mentre un collegio di abiiru, a sua volta composto sia da hutu che da tutsi, garantiva la trasmissione delle funzioni reali. Nel vicino Burundi, altro teatro del genocidio di trent’anni fa, non c’era scontro tra pastori e contadini per l’uso della terra, erano diffusi i matrimoni misti fra hutu e tutsi, e gli stessi tutsi erano divisi al loro interno in due classi sociali.
foto di Gil Serpereau
Dopo la Conferenza di Berlino, chiamata a dirimere forti rivalità fra potenze coloniali per il controllo delle risorse, ai regni del Ruanda e dell’Urundi (come veniva chiamato allora l’odierno Burundi) toccò essere dominati dal colonialismo tedesco. I diversi livelli di accettazione o resistenza ai regimi coloniali avranno la loro influenza anche in futuro quando, durante la Prima guerra mondiale, con un mandato dell’allora Società delle Nazioni, Ruanda e Urundi verranno poi consegnati al Belgio, nel 1919.
Le potenze coloniali, specialmente l’impero britannico, usavano un sistema amministrativo di governo indiretto per dominare i popoli sottomessi mediante le loro istituzioni. A differenza dei tedeschi che avevano sostanzialmente lasciato inalterato sia il potere tradizionale che la gerarchizzazione sociale ruandese in cambio dell’accettazione del loro Protettorato, i belgi applicarono a modo loro l’indirect rule: senza delegare completamente neanche una parte del governo locale ai capi tradizionali, si riservarono di ratificare ogni decisione.
Occorre ricordare che, nel 1885, il re Leopoldo II del Belgio era riuscito a impossessarsi del Congo, un territorio immenso grande 76 volte il Belgio, rendendosi protagonista del genocidio di circa 10 milioni di persone nell’arco di un ventennio. Uno sterminio abilmente mascherato sotto la patina della ricerca scientifica, del progresso e della filantropia, e della lotta ai mercanti di schiavi arabi.
Dieci anni dopo la morte di Leopoldo II, con il mandato fiduciario ricevuto dalla Società delle Nazioni, il Belgio si trovò ad amministrare sia l’allora Congo belga che i due piccoli regni di Ruanda e Urundi, unificati sotto il comando di un Governatore generale e di un Consiglio generale con sede a a Bujumbura, odierna capitale del Burundi.
Fu l’amministrazione coloniale belga a dare una connotazione etnica alle differenze sociali fra tutsi e hutu. E fu sempre il colonialismo a usare quelle disuguaglianze per fini politici, sia nella fase dell’indipendenza che in quella successiva. Dal 1928, venne imposta e istituzionalizzata la superiorità del gruppo tutsi, anche attraverso gli insegnamenti nelle scuole “d’elite” gestite dai missionari, orientati a convertire quelle élite per “convertire l’intero Ruanda”. I contadini hutu erano sottoposti al lavoro forzato.
Gli archivi di quel periodo riportano alcune dichiarazioni del vescovo francese Léon Classe, il quale, nel 1930, manifestava il timore che, se il governo belga avesse eliminato “la casta tutsi”, questo avrebbe portato il paese “verso l’anarchia e il comunismo odiosamente antieuropeo”. Alla fine degli anni Venti sulle carte di identità comparve allora l’appartenenza etnica. Dove l’aspetto non consentiva una distinzione sicura, si decise che chi possedeva più di dieci vacche veniva catalogato tutsi, chi ne aveva meno, era hutu.
Nel mix di oppressione di classe e oppressione coloniale, la crisi economica mondiale, iniziata nel 1929, esacerbò le contraddizioni anche in Ruanda e in Burundi. Per evitare che le aspirazioni indipendentiste incendiassero le élite tutsi, più istruite, le autorità coloniali pigiarono sul pedale delle differenze etniche cambiando le pedine. E appoggiarono gli hutu nell’esplosione sociale del 1959, che porterà all’indipendenza del 1962.
foto di Pierre-Yves Beaudouin / Wikimedia Commons / CC BY-SA 4.0
La prima rivolta dei contadini hutu, nel 1959, trovò base in un “manifesto”, redatto da un gruppo di intellettuali vicini alla chiesa cattolica, anch’essa dedita a una svolta “politica”. Un testo che costituirà poi, con successivi aggiornamenti, un punto di partenza per le politiche di repressione contro i tutsi. In quella temperie, gli hutu formarono il Mouvement Démocratique Républicain, Parti pour l’émancipation du Peuple Hutu, e l’Association pour la Promotion de la Masse, che avevano come obiettivo principale quello di liberarsi dall’oppressione interna.
I tutsi fondarono l’Union National du Rwanda (che appoggiava la monarchia, ma si definiva di orientamento marxista) e il Rassemblement Démocratique du Rwanda, la cui priorità era la lotta di liberazione anticoloniale.
Allora, nel contesto del mondo diviso in due blocchi, una gran parte d’umanità si organizzava dietro le bandiere del comunismo e alimentava le speranze della rivoluzione bolscevica del 1917. Fra il 13 marzo e il 7 maggio del 1954, l’esercito popolare vietnamita, guidato dal mitico generale Vo Nguyen Giap, aveva sconfitto le forze coloniali francesi nella battaglia di Ðiện Biên Phủ.
Una vittoria che determinò la fine del dominio francese in Indocina e pesò sugli accordi di pace firmati durante la conferenza di Ginevra il 21 luglio del 1954. Una vittoria di importanza storica, che ha simboleggiato la sconfitta irreversibile del colonialismo occidentale nel cosiddetto Terzo mondo. E in quell’anno cominciò anche la guerra di liberazione algerina, condotta dal Fronte di Liberazione Nazionale (Fln).
Il vento delle indipendenze stava spirando con forza, influenzato dal contesto della “guerra fredda” fra Stati Uniti e Unione sovietica. Il colonialismo belga cercava di interferire nelle spinte indipendentiste, e di pesare, imponendo il modulo già usato dalla Francia con Haiti. Nel 1804, Haiti diventò la prima repubblica di schiavi liberi. Uno schiaffo a cui la Francia, per “compensare” la perdita di entrate determinate dal suo sistema schiavista e dalle piantagioni di zucchero e caffè, rispose imponendo alla repubblica, sotto la minaccia di un intervento armato, un debito di 150 milioni di franchi d’oro, equivalente al bilancio annuale della Francia dell’epoca.
Il governo haitiano dovette persino chiedere in prestito denaro alle banche francesi, pagando un alto tasso di interesse, riuscendo a saldare il “debito” solo intorno al 1950, a scapito del proprio sviluppo interno. Anche il Congo, la cui indipendenza diventerà effettiva il 30 giugno del 1960, sarà obbligato a pagare il debito estero del Belgio e a rimborsare un prestito mai ricevuto, in cambio dell’indipendenza. E il grande Patrice Lumumba, dirigente anticolonialista e Primo ministro della Repubblica democratica del Congo verrà ucciso nel 1961 con la complicità dell’ex potenza coloniale.
Ruanda e Burundi divennero indipendenti nel 1962. Tra il 1959 e il ’62, circa 500.00 tutsi vennero obbligati a fuggire, prevalentemente in Uganda, dove prese forma il Fronte Patriottico Ruandese, composto da tutsi e hutu moderati. Da allora, la dominazione coloniale nel continente africano continuò con altre forme.
Il dopo ’89 ha fatto emergere nuove rivalità fra potenze e nuovi intrecci di interesse. A distanza di trent’anni, il genocidio in Ruanda resta un “paradigma”. Nel 2006, la parlamentare statunitense, Cynthia Mc Kinney, che fu inviata speciale del presidente Bill Clinton in Africa, dichiarò in una intervista: “Quanto successo in Ruanda non è un genocidio pianificato dagli hutu. È un cambiamento di regime. Un colpo di stato terrorista perpetrato da Kagame con l’aiuto di forze straniere. Scrissi personalmente a Bill Clinton per dirgli che la sua politica era un fallimento in Africa”.
Il 6 aprile del 1992, con la “guerra umanitaria” contro l’allora Jugoslavia era iniziato il processo di “balcanizzazione del mondo”, che avrebbe visto il ruolo dei media e degli apparati ideologici di controllo occidentale, attori sempre più presenti nei conflitti. Il genocidio in Ruanda, preparato a lungo nei circoli di potere e alimentato dai media che hanno soffiato sul conflitto etnico, appare oggi come un “laboratorio” di quella strategia del “caos controllato” con cui l’imperialismo costellerà di massacri il sud globale.
Il 15 luglio del 2024, in Ruanda – un paese dove almeno il 40% della popolazione è povero – vi saranno le elezioni presidenziali. Paul Kagame, che guida il Fronte Patriottico Ruandese dalla vittoria armata del 1994, si candida per il quarto mandato consecutivo, dopo aver vinto le elezioni nel 2003, nel 2010 e nel 2017 con oltre il 90% dei voti. Nell’ambito degli accordi per inviare i migranti in Ruanda, all’inizio dell’anno Kagame ha incontrato anche il premier israeliano Netanyahu: per accogliere migliaia di palestinesi cacciati dalla Striscia di Gaza, previo un generoso finanziamento. “Non c’è altra soluzione per i residenti di Gaza se non l’emigrazione – hanno affermato i rappresentanti di Israele -. Non hanno nessun posto dove tornare oggi. Gaza è distrutta e non ha futuro perché rimarrà così”.
Il Ruanda sta vivendo un boom nel settore edile, a prezzo dell’espulsione massiccia della popolazione povera dalle vecchie abitazioni, ma deve far fronte a una carenza di manodopera. L’arrivo di migliaia di palestinesi viene quindi visto come una possibile soluzione. Anche il presidente del Ciad, Mahamat Idriss Déby, a sua volta in ottimi rapporti con Tel Aviv, ha mostrato attenzione alla proposta. Il Ciad, la cui popolazione è musulmana sunnita per il 60%, ha stabilito relazioni diplomatiche con Israele nel 2019 e Benjamin Netanyahu si è recato lì per l’occasione. Nel febbraio dello scorso anno è stata la volta del presidente ciadiano di ricambiare, recandosi in Israele.
Twitter WhatsAppFacebook LinkedInEmailPrint
L'articolo AFRICA. Trent’anni fa, il genocidio in Ruanda proviene da Pagine Esteri.
Yellen in Cina, sulle tracce di Deng Xiaoping
La segretaria al Tesoro americana inizia il suo viaggio da Guangzhou e rievoca lo storico viaggio del 1992 con cui Deng Xiaoping diede nuovo impulso alle riforme. Un messaggio per Xi Jinping, che un recente ciclo di contenuti di Xinhua ha paragonato proprio al "piccolo timoniere"
L'articolo Yellen in Cina, sulle tracce di Deng Xiaoping proviene da China Files.
reshared this
Perché Israele non riconosce la Palestina come nazione?
A Israele non stanno bene i confini attuali. Riconoscere lo stato arabo significherebbe rinunciare a tutte le mire territoriali attuali. A tornare nei confini originali del 1948. E questo a loro non conviene. Questo è il motivo per cui alimentano e coccolano il terrorismo, come se fosse l'unico strumento per mantenere questo stato di guerra perenne, che permette, poco alla volta, di continuare a strappare territori. E intanto sfoltire la popolazione locale. La decimazione. Ma anche peggio… ben oltre il 10%. Questo fa israele da 50 anni. E la cosa davvero triste è per quanto cinico sta pure funzionando. E' il tipo caso in cui dai una mano a qualcuno e quello si prende l'intero braccio. Appena i locali impazziscono e fanno lo stesso ecco la giustificazione per altre violenze. Se stanno buoni e zitti succede lo stesso. L'esistenza di israele non può più essere messa in discussione, ma la loro politica ovviamente si. E dubito che sia essere antisemiti. Gli israeliani sono in parte di etnia semita, come i palestinesi, quindi essere antisemiti significa anche essere contro i palestinesi. Anche chi è contro i palestinesi è antisemita. E gli israeliani sono essi stessi anti-semiti. Personalmente la parte israeliana che trovo più difficile giustificare moralmente sono i "coloni". ma la loro risposta agli USA è stata "Ma voi lo avete fatto con i pellerossa…" quindi sanno quello che stanno facendo. Neppure l'onu ha accesso alle zone "contese", e questo significa che dovrebbe bastare la parola israeliana per dirti quello che avviene li da 50 anni. A Israele non stanno bene i confini attuali. Riconoscere lo stato arabo significherebbe rinunciare a tutte le mire territoriali attuali. A tornare nei confini originali del 1948. E questo a loro non conviene. Questo è il motivo per cui alimentano e coccolano il terrorismo, come se fosse l'unico strumento per mantenere questo stato di guerra perenne, che permette, poco alla volta, di continuare a strappare territori. E intanto sfoltire la popolazione locale. La decimazione. Ma anche peggio… ben oltre il 10%. Questo fa israele da 50 anni. E la cosa davvero triste è per quanto cinico sta pure funzionando. E' il tipo caso in cui dai una mano a qualcuno e quello si prende l'intero braccio. Appena i locali impazziscono e fanno lo stesso ecco la giustificazione per altre violenze. Se stanno buoni e zitti succede lo stesso. L'esistenza di israele non può più essere messa in discussione, ma la loro politica ovviamente si. E dubito che sia essere antisemiti. Gli israeliani sono in parte di etnia semita, come i palestinesi, quindi essere antisemiti significa anche essere contro i palestinesi. Anche chi è contro i palestinesi è antisemita. E gli israeliani sono essi stessi anti-semiti. Personalmente la parte israeliana che trovo più difficile giustificare moralmente sono i "coloni". ma la loro risposta agli USA è stata "Ma voi lo avete fatto con i pellerossa…" quindi sanno quello che stanno facendo. Neppure l'onu ha accesso alle zone "contese", e questo significa che dovrebbe bastare la parola israeliana per dirti quello che avviene li da 50 anni.Ma chi conosce chi vive sul posto sa cosa sta succedendo. Diciamo che gli invasori israeliani non si comportano come i romani 2000 anni fa.
reshared this
rag. Gustavino Bevilacqua reshared this.
Ministero dell'Istruzione
#NoiSiamoLeScuole questa settimana racconta dei laboratori digitali per la #scuola 4.0 e delle attività di mentoring contro la dispersione scolastica all’IIS Lazzaro Spallanzani di Castelfranco Emilia e all’IC Sassuolo 4 Ovest di Sassuolo, grazie ai …Telegram
Il Consiglio per il commercio e la tecnologia Ue-Stati Uniti porta buoni frutti. Ma ora è in pausa per le rispettive elezioni
Il punto sui principali dossier prima delle rispettive elezioni alla sesta riunione del Consiglio per il commercio e la tecnologia Ue-Stati UnitiFederico Baccini @federicobaccini (Eunews)
Sdh - A Mickey Finn at the Nemo Point Hotel
Veniamo dunque a quelli che la band stessa definisce gli ingredienti: si comincia con due pezzi fragorosi in stile Touch and Go come The Ponytail e Nothing Keep You Sound, per passare poi a Shut Up!
@Musica Agorà
iyezine.com/sdh-a-mickey-finn-…
Sdh - A Mickey Finn at the Nemo Point Hotel
L'ultima volta che io e il mio socio abbiamo passato in radio gli Sdh, mi chiesi piuttosto oziosamente quali fossero le parole che si nascondono dietro l'acronimo, la sigla Sdh.In Your Eyes ezine
Musica Agorà reshared this.
huginn
in reply to Poliverso - notizie dal Fediverso ⁂ • • •Fatto
Grazie di tutto ❤
suoko
in reply to Poliverso - notizie dal Fediverso ⁂ • • •Non ci sarebbero commissioni per nessuno con gli importi bassi.
Se lo abilitate arrivo anche io
Poliverso - notizie dal Fediverso ⁂
in reply to suoko • •Annunci e creazione comunità reshared this.
skariko
in reply to suoko • • •ciao intanto grazie anche solo per il pensiero 😀
È da un po' che sto pensando/provando a permettere anche l'utilizzo di Satispay ma non sono ancora riuscito a capire con certezza se viene mostrato anche il numero di telefono o meno (non sarebbe il massimo sinceramente) tra i non-contatti.
Se hai voglia di fare tu per primo una prova posso girarti in privato il codice QR per la donazione cosi puoi dirmi se e quali dati personali vengono condivisi pubblicamente cioè se oltre al mio, immagino nome e foto, vedi anche il numero di telefono. Fammi sapere in caso!
like this
Poliverso - notizie dal Fediverso ⁂ likes this.
suoko
in reply to skariko • • •L'opzione negozio/donazioni l'hai vista?
support.satispay.com/it/articl…
Satispay Help Center
support.satispay.comskariko
in reply to suoko • • •suoko
in reply to skariko • • •skariko
in reply to suoko • • •Moonrise2473
in reply to suoko • • •Per le transazioni web prendono il 1.50% di commissioni che è superiore a quello che prende stripe per le carte di credito, e a quel punto uno può usare quello (viene usato stripe su libera pay)
Noi l'abbiamo tolto dal nostro e-commerce perché pensano di fare un favore a bonificare l'importo immediatamente invece dovrebbero fare come stripe e mandare il tutto una volta a settimana che se il cliente chiede il reso non c'è il costo del bonifico in uscita
E poi la dashboard è grezza da morire, non puoi nemmeno effettuare uno storno ma devi aprire un ticket con l'assistenza ogni volta che c'è un reso parziale o totale
Poliverso - notizie dal Fediverso ⁂ likes this.
suoko
in reply to skariko • • •Purtroppo il numero di telefono credo sia d'obbligo, non esiste un @nick da poter usare.
Cmq meglio di PayPal, dato che lì anche se puoi usare un Nick, dopo vedi nome e cognome in chiaro
skariko
in reply to suoko • • •suoko
in reply to skariko • • •Per me sinceramente un numero di telefono vale quanto un nickname se non meno (se non proprio nulla).
L'era dei ladri via dcb è finita da tempo.
skariko
in reply to suoko • • •suoko
in reply to skariko • • •lgsp@feddit.it
in reply to Poliverso - notizie dal Fediverso ⁂ • • •like this
Poliverso - notizie dal Fediverso ⁂ likes this.
reshared this
Poliverso - notizie dal Fediverso ⁂ reshared this.
Poliverso - notizie dal Fediverso ⁂
in reply to lgsp@feddit.it • •Annunci e creazione comunità reshared this.
huginn
in reply to Poliverso - notizie dal Fediverso ⁂ • • •