Examining Novel Advertising Solutions: A Proposed Risk-Utility Framework
This week, the Future of Privacy Forum released Advertising in the Age of Data Protection: Background for a Proposed Risk-Utility Framework for Novel Advertising Solutions (v 1.0), which will be open for Public Comment until May 26, 2024.
- Download the Proposed Risk-Utility Framework HERE
- FPF welcomes public comments until May 26, 2024
The digital advertising industry is in the midst of a sea change. Around the world, privacy regulators have become far more critical of mainstream advertising business models. Both lawmakers and enforcers of existing laws are now more focused on strengthening individual privacy rights and specifically preventing many of the harms associated with the use of personal information in advertising. Meanwhile, large platforms such as Apple, Google, and Microsoft have taken significant steps in recent years to limit access to advertising-related data about their users through efforts like App Tracking Transparency (ATT), Intelligent Tracking Prevention (ITP), and an ongoing process to deprecate third party cookies in Google Chrome. Each change has ripple effects throughout the economy, changing the way advertisers do business and often impacting other social values.
In reaction to these regulatory and platform pressures, businesses are actively seeking new tools and solutions to maintain identity and addressability, or to provide greater privacy safeguards, ideally (in their view) doing so while sustaining as much business utility as possible. Many solutions involve privacy-enhancing technologies (PETs), while others involve a significant shift in business models, such as a return to contextual advertising, the use of solely first-party data, or a shift to client-side processing.
The goal of this Risk-Utility Framework and its associated Background (“Advertising in the Age of Data Protection”) is to provide a comprehensive rubric for navigating the many tradeoffs inherent in the evolving digital advertising landscape and the technology it is built upon. We do not assign values to each aspect of utility, risk, or social impact, but rather aim to holistically identify the many factors relevant for a policymaker or privacy leader to evaluate the impact of a given digital advertising proposal, solution, or system.
Download the Risk-Utility Framework HERE.
Perché molti civili palestinesi muoiono nonostante la precisione degli attacchi israeliani? Quanti ne stanno effettivamente morendo secondo fonti attendibili?
precisione? ma se gli israeliani hanno ucciso essi stessi degli ostaggi… come minimo se lo scopo era recuperare gli ostaggi hanno scelto le forze sbagliate… ma sappiamo tutti che l'attacco palestinese era previsto, la reazione deliberata, e che è tutto programmato da 50 anni. lo scopo è non dover rimanere nei confini assegnati dall'onu nel 1948. e in pratica togliere ai palestinesi anche il resto della terra che ancora hanno. allo stato di israele non servono relazioni normalizzate con i palestinesi perché impedirebbero loro ulteriori espansioni. la terra che hanno avuto non basta loro e comunque non sono disposti a condividerla con chi adesso ci vive. per loro era tutta di diritto loro.. si fotta l'ONU. Neppure l'onu ha accesso alle zone "contese", e questo significa che dovrebbe bastare la parola israeliana per dirti quello che avviene li da 50 anni.
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L’Altra Asia – Come sta lo Sri Lanka, a quasi due anni dal default
Sono passati quasi due anni da quando lo Sri Lanka è andato in default, a maggio del 2022. Il paese è in ripresa ma gran parte della popolazione vive ancora in condizioni drammatiche.
L'articolo L’Altra Asia – Come sta lo Sri Lanka, a quasi due anni dal default proviene da China Files.
GAZA. Israele si ritira dallo Shifa. L’ospedale è distrutto, cadaveri ovunque
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della redazione
Pagine Esteri, 1 aprile 2024 – Il ministero della Sanità di Gaza riferisce oggi che l’esercito israeliano ha ritirato carri armati e veicoli blindati dall’ospedale Shifa rimasto circondato e occupato dai militari per due settimane. Aggiunge che decine di corpi sono stati trovati dentro e intorno alla struttura ospedaliera. Israele non ha ancora confermato ufficialmente il ritiro.
“Decine di corpi, alcuni dei quali in decomposizione, sono stati recuperati all’interno e nei dintorni del complesso medico”, afferma il ministero in un comunicato. L’esercito israeliano aggiunge, “si è ritirato dopo aver bruciato vari edifici dell’ospedale e averlo messo completamente fuori servizio. La portata della distruzione all’interno del complesso e degli edifici circostanti è molto grande”.
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Un medico ha riferito questa mattina che sono stati recuperati più di 20 corpi e che alcuni erano stati schiacciati dai veicoli in ritirata. Ieri il direttore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), Tedros Adhanom Ghebreyesus, aveva detto che 21 pazienti dello Shifa sono stati uccisi, 107 rimangono in ospedale, tra cui quattro bambini. Ghebreyesus, ha riferito anche che un attacco aereo israeliano ieri ha colpito “una tendopoli” all’interno del complesso dell’ospedale di al-Aqsa di Deir Al Balah uccidendo quattro persone e ferendone 17. Israele sostiene invece di aver “colpito un centro di comando operativo del Jihad islami”.
L’ospedale Shifa oggi e prima del 7 ottobre
Con centinaia di migliaia di abitanti di Gaza sfollati a causa della guerra, centinaia di famiglie avevano cercato rifugio nel cortile e dentro l’ospedale Shifa prima dell’attacco cominciato il 18 marzo e inizialmente descritto da Israele come un’operazione “mirata” contro militanti di Hamas e Jihad che “avevano stabilito una loro base operativa nello Shifa”. Almeno 200 di questi, secondo il portavoce militare, sarebbero stati uccisi, altre centinaia arrestati. Le truppe israeliane avevano fatto irruzione per la prima volta allo Shifa a novembre.
Anche oggi si sono registrati attacchi aerei con vittime in varie zone di Gaza, mentre i combattimenti infuriano in diversi punti critici a sud come a nord del territorio. Almeno 60 palestinesi sono stati uccisi durante la notte secondo i dati riferiti dal ministero della Sanità. L’offensiva israeliana cominciata dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre nel sud dello Stato ebraico (1.200 israeliani civili e militari morti e circa 250 presi in ostaggio, 130 dei quali ancora a Gaza), ha ucciso almeno 32.782 palestinesi, per lo più donne e bambini. I dispersi sono migliaia.
L’offensiva israeliana ha devastato gran parte di Gaza, comprese diverse strutture sanitarie, e gettato sull’orlo della carestia la popolazione civile palestinese. Una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 25 marzo ha chiesto un “cessate il fuoco immediato” e il rilascio di tutti gli ostaggi ma non è stata rispettata. Pagine Esteri
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Gli USA inviano altre armi a Israele: più di 2.000 bombe da sganciare su Gaza
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di Eliana Riva –
Pagine Esteri, 30 marzo 2024. Fonti di sicurezza americane hanno rivelato al Washington Post che negli ultimi giorni l’amministrazione Biden ha segretamente autorizzato il trasferimento a Israele di oltre 2.000 bombe e 25 aerei da guerra per miliardi di dollari.
Nonostante gli Stati Uniti critichino il modo in cui Netanyahu sta gestendo la guerra a Gaza e si dicano preoccupati per un attacco su larga scala a Rafah, dove la maggior parte della popolazione palestinese è rifugiata, il sostegno armato non viene assolutamente messo in discussione. Secondo rivelazioni pubblicate a marzo, dal 7 ottobre gli USA hanno inviato 100 carichi di armi a Tel Aviv.
Su richiesta di Biden, alcuni funzionari di sicurezza israeliani avrebbero dovuto recarsi alla Casa Bianca ad ascoltare le proposte americane per limitare il numero dei morti civili. Ma Netanyahu ha annullato la visita in seguito alla decisione degli Stati Uniti di astenersi e non porre il veto sulla risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che chiede un cessate il fuoco temporaneo a Gaza e il rilascio di ostaggi, senza subordinare la prima istanza alla seconda.
Washington consegnerà 1.800 bombe MK84 da 900 chilogrammi, e 500 bombe MK82 da 225 chilogrammi. Si tratta di armi con una potenza tale da demolire interi isolati e che non vengono più, di norma, utilizzate dagli eserciti su strutture civili o in contesti densamente abitati. Tuttavia, Israele ne ha fatto largo uso sulla Striscia, come nel caso dell’attacco al campo profughi di Jabalya, lo scorso 31 ottobre, che uccise circa 100 persone. Gli Stati Uniti hanno sganciato numerose MK84 durante la guerra del Vietnam e durante l’attacco all’Iraq del 1991, nell’operazione da loro denominata “Desert Storm”. Si tratta di ordigni utilizzati quando gli obiettivi principali sono forza e vastità della deflagrazione piuttosto che precisione nel colpire il bersaglio.
Foto aerea di una bomba M84 sganciata in Vietnam nel 1972
Dal 7 ottobre l’esercito israeliano ha sganciato 70.000 tonnellate di esplosivo su Gaza, utilizzando armi fornite principalmente da Stati Uniti e Germania.
I 25 caccia F-35A che Washington ha trasferito la scorsa settimana a Tel Aviv hanno un valore di 2,5 miliardi di dollari.
La risposta ufficiale dell’amministrazione USA è che l’accordo di fornitura era stato approvato prima della guerra e che per questo non richiedeva notifica pubblica. Lo stesso varrebbe per il nuovo pacchetto di 2.300 bombe.
Ma non sono democratici, compresi alcuni alleati del presidente Biden, ritengono che il governo degli Stati Uniti abbia la responsabilità di non consegnare armi fin quando Israele non si impegnerà seriamente a limitare le vittime civili e a far entrare aiuti a Gaza assediata sull’orlo della carestia. E che chiedono maggiore trasparenza e condivisione nelle decisioni sul sostegno militare a Tel Aviv.
Il senatore statunitense Bernie Sanders ha commentato la notizia criticando l’amministrazione Biden: “Non possiamo dire a Netanyahu di smetterla di bombardare civili e il giorno dopo mandargli migliaia di bombe”.
La notizia dell’invio segue una visita a Washington del ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant, durante la quale ha chiesto all’amministrazione Biden di accelerare la consegna di armi.
In 175 giorni nella Striscia di Gaza sono state uccise 32.600 persone, di cui 8.850 donne e 13.800 bambini.
Questa mattina a Rmeish, nel sud del Libano, è stato colpito un veicolo delle Nazioni Unite appartenente all’UNIFIL, la forza di interposizione ONU. L’esplosione ha causato almeno quattro feriti. Israele nega di aver effettuato il raid. All’inizio del mese, tuttavia, un drone israeliano ha colpito e distrutto un veicolo proprio nell’area di Naqoura, non lontano da Rmeish, uccidendo 3 persone.
Forze di interposizione ONU presenti in Libano
Sempre a Naqoura, alla fine di ottobre un missile aveva colpito la base militare dell’UNIFIL, senza causare vittime, come nel mese di novembre, quando i colpi di Israele hanno raggiunto invece una delle pattuglie ONU. All’inizio di marzo l’UNIFIL ha presentato la relazione finale dell’inchiesta sull’uccisione in Libano, nell’ottobre 2023, del giornalista di Reuters Issa Abdallah. Il report denuncia la volontà israeliana di colpire deliberatamente i civili presenti lungo il confine, chiaramente identificabili come giornalisti. L’Italia è presente in Libano con un contingente di circa 1.000 soldati. L’UNIFIL è composta da circa 10.000 militari provenienti da 49 diversi Paesi. Pagine Esteri
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io non ho *mai* ricevuto nessun messaggio #ITalert
intorno a me è stato tutto uno squillare, in almeno due occasioni, in ufficio. Nonostante gli abbondanti preavvisi, questo squillo generalizzato ha sempre finito per creare anche un po' di allarme.
Io mi sono però allarmato per il motivo opposto: non ho mai ricevuto nessuno dei messaggi di test. Tra la prima e la seconda occasione ho anche cambiato operatore. Possibile che il mio cellulare non sia, per qualche motivo, "compatibile"? Esiste un modo per essere certi che lo riceverò anch'io, nel caso non si tratti di un test ma di un'emergenza reale?
🕊️ Il #MIM augura buona Pasqua a tutte e tutti!
🎨 I nostri auguri di quest'anno sono realizzati insieme alle bambine e ai bambini della Scuola Primaria G. Falcone di Taranto, dell’I.C. di Casteggio in provincia di Pavia e dell’I.C. W. A.
Ministero dell'Istruzione
🕊️ Il #MIM augura buona Pasqua a tutte e tutti! 🎨 I nostri auguri di quest'anno sono realizzati insieme alle bambine e ai bambini della Scuola Primaria G. Falcone di Taranto, dell’I.C. di Casteggio in provincia di Pavia e dell’I.C. W. A.Telegram
H di Ho visto un re
Interpretata da Enzo Jannacci «Ho visto un re» (testo composto da Dario Fo, musica di Paolo Ciarchi) fu pubblicata per la prima volta nel 1968. Canzone popolare «finta», scritta appositamente per lo spettacolo teatrale «Ci ragiono e canto», dà voce ad alcuni contadini che spiegano come tutti i potenti, non appena vengono toccati i loro interessi e le loro proprietà, piangono, mentre i villani, nelle stesse condizioni, devono ridere. Jannacci, in finale a Canzonissima, voleva portare questo brano, ma la commissione Rai si oppose. Il cantautore scelse così un’altra canzone, «Gli zingari». In quegli anni «Ho visto un re», insieme a «Vengo anch'io. No, tu no», divenne uno dei brani simbolo della contestazione studentesca.
Dai dai, conta su
Ah beh, sì beh
Dai dai, conta su
Ah beh, sì beh
Dai dai, conta su
Ah beh, sì beh
Dai dai, conta su
Ah beh, sì beh
Ah beh, sì beh
Ho visto un re
Sa l'ha vist cus'e'?
Ha visto un re!
Ah beh, sì beh
Un re che piangeva seduto sulla sella
Piangeva tante lacrime
Ma tante che
Bagnava anche il cavallo
Povero re
E povero anche il cavallo
Sì beh, ah beh, sì beh, ah beh
È l'imperatore che gli ha portato via
Un bel castello
Ohi che baloss!
Di trentadue che lui ce ne ha
Povero re
E povero anche il cavallo
Sì beh, ah beh, sì beh, ah beh
Ho visto un vesc
Sa l'ha vist cus'e'?
Ha visto un vescovo
Ah beh, sì beh
Anche lui, lui
Piangeva, faceva un gran baccano
Mordeva anche una mano
La mano di chi?
La mano del sacrestano
Povero vescovo
E povero anche il sacrista
Sì beh, ah beh, sì beh, ah beh
Conta su, dai
È il cardinale che gli ha portato via
Un'abbazia
Oh poer crist
Di trentadue che lui ce ne ha
Povero vescovo
E povero anche il sacrista
Sì beh, ah beh, sì beh, ah beh
Conta su
Ho visto un ric
Sa l'ha vist cus'e'?
Ha visto un ricco!
Un sciur!
Sì, ah beh, sì beh
Ah beh, sì beh
Il tapino lacrimava su un calice di vino
Ed ogni go, ed ogni goccia andava
Deren't al vin?
Sì, che tutto l'annacquava!
Pover tapin
E povero anche il vin
Sì beh, ah beh, sì beh, ah beh
Dai conta su
Il vescovo, il re, l'imperatore
L'han mezzo rovinato
Gli han portato via
Tre case e un caseggiato
Di trentadue che lui ce ne ha
Pover tapin
E povero anche il vin
Sì beh, ah beh, sì beh
Dai conta su
Dai, dai conta su
Ah beh
Dai conta su
Sì sì
Dai conta su, dai
Ho vist un villan
Sa l'ha vist cus'e'?
Un contadino!
Ah beh, sì beh
Ah beh, sì beh
Il vescovo, il re, il ricco, l'imperatore
Perfino il cardinale
L'han mezzo rovinato
Gli han portato via
La casa, il cascinale
La mucca
Il violino
La scatola di kaki
La radio a transistor
I dischi di Little Tony
La moglie
E po', cus'è?
Un figlio militare
Ah beh, sì beh
Gli hanno ammazzato anche il maiale
Pover purscel
Nel senso del maiale
Sì beh, ah beh, sì beh
Ma lui no, lui non piangeva
Anzi ridacchiava
Ah! Ah! Ah!
Ma sa l'e', matt?
No
Il fatto è che noi villan
Noi villan
E sempre allegri bisogna stare
Che il nostro piangere fa male al re
Fa male al ricco e al cardinale
Diventan tristi se noi piangiam
E sempre allegri bisogna stare
Che il nostro piangere fa male al re
Fa male al ricco e al cardinale
Diventan tristi se noi piangiam
Ah beh
Gli USA inviano altre armi a Israele: più di 2.000 bombe da sganciare su Gaza
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Pagine Esteri, 30 marzo 2024. Fonti di sicurezza americane hanno rivelato al Washington Post che negli ultimi giorni l’amministrazione Biden ha segretamente autorizzato il trasferimento a Israele di oltre 2.000 bombe e 25 aerei da guerra per miliardi di dollari.
Nonostante gli Stati Uniti critichino il modo in cui Netanyahu sta gestendo la guerra a Gaza e si dicano preoccupati per un attacco su larga scala a Rafah, dove la maggior parte della popolazione palestinese è rifugiata, il sostegno armato non viene assolutamente messo in discussione. Secondo rivelazioni pubblicate a marzo gli USA hanno concluso 100 accordi segreti di questo tipo con Tel Aviv.
Washington consegnerà 1.800 bombe MK84 da 900 chilogrammi, e 500 bombe MK82 da 225 chilogrammi. Si tratta di armi con potenza tale da demolire interi isolati e non vengono, di norma, utilizzate dagli eserciti su strutture civili o in contesti densamente abitati. Tuttavia, Israele ne ha fatto largo uso sulla Striscia, come nel caso dell’attacco al campo profughi di Jabalya, lo scorso 31 ottobre, che uccise circa 100 persone.
Dal 7 ottobre Israele ha sganciato 70.000 tonnellate di esplosivo su Gaza, utilizzando armi fornite principalmente da Stati Uniti e Germania.
I 25 caccia F-35A che Washington ha trasferito la scorsa settimana a Tel Aviv hanno un valore di 2,5 miliardi di dollari. La risposta ufficiale dell’amministrazione USA è che l’accordo di fornitura era stato approvato prima della guerra e che per questo non richiedeva notifica pubblica. Lo stesso varrebbe per il nuovo pacchetto di 2.300 bombe.
Ma non sono pochi i democratici, compresi alcuni alleati del presidente Biden, a ritenere che il governo degli Stati Uniti abbia la responsabilità di non consegnare armi fin quando Israele non si impegnerà seriamente a limitare le vittime civili e a far entrare aiuti a Gaza assediata sull’orlo della carestia. E che chiedono maggiore trasparenza e condivisione nelle decisioni sul sostegno militare a Tel Aviv.
Il senatore statunitense Bernie Sanders ha commentato la notizia criticando l’amministrazione Biden: “Non possiamo dire a Netanyahu di smetterla di bombardare civili e il giorno dopo mandargli migliaia di bombe”.
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Quattro italiani su dieci rinunciano a curarsi. Siamo alla sanità “per censo” l Contropiano
"Attualmente, già il 42% dei cittadini meno abbienti è costretto a rinunciare alle cure poichè, non riuscendo ad ottenerle nell’ambito del sistema pubblico, non ha i mezzi per rivolgersi alla sanità a pagamento. Anche le fasce economicamente più deboli sono spinte verso il privato non avendo accesso al Servizio Sanitario Nazionale a causa delle lunghe liste di attesa."
Fedi Garden to Instance Admins: “Block Threads to Remain Listed”
The presence of Threads within the Fediverse remains a polarizing and controversial subject, with a deepening divide between those that want to embrace it, and those who want to keep it out. Recently, these calls seem to be renewed, with community members even demanding that Mastodon’s flagship instance block the server.
A number of instance admins opened their Private Mentions this week to see the following message:
Hi,Could I ask, has [your instance] now defederated threads.net?
The rules for being listed on fedi.garden will require blocking instances cited in human rights reports on genocide. This would require blocking Threads.The rules for being listed on fedi.garden will require blocking instances cited in human rights reports on genocide. This would require blocking Threads.
Of course it’s your decision what you do, I’m asking just so I can update the fedi.garden website accurately.”
These admins had been making use of Fedi.Garden, a community index intended to point prospective new members to vetted parts of the network. Reflecting a recent policy change, the service operator began reaching out to their members.
What is Fedi Garden?
Fedi Garden describes itself as “a small, human-curated list of nice, well-run servers on Mastodon and the Wider Fediverse.” As a service, it follows in a long tradition of directories designed to help connect people to individuals or communities based on interest, location, profession, or politics.
For newcomers, an entry point for discovery can be crucial in deciding whether they stay on the network, or go elsewhere. This initial point of contact can set expectations on behaviors, norms, and other points of connection to discover.
A Change in Policy
For the most part, Fedi Garden’s long-standing policy for included instances mirrored the Mastodon Server Covenant, setting basic standards on community stewardship and admin competency. For many instances, it’s a great starting point for providing a consistent quality of life, in terms of what to expect.
Recently, the project announced the addition of a policy that every listed server will be required to block Threads.net. To be clear: the service operator is not going to defederate with instances who federate with Threads, nor are they advocating for admins to treat each other this way.
“I don’t think it’s nice to federate with a company that has been cited in multiple independent reports of massacres/genocides,” FediGarden’s operator tells us, “That’s why I’m adding the rule about not federating with such companies. If servers want to do that it’s their decision, but it doesn’t seem a nice thing to do. I can’t honestly recommend such servers.”
Why Block Threads?
Aside from the fact that Threads is a Meta product, it also appears to have policy issues that stand in stark contrast with the rest of the network: a recent report by GLAAD reveals that homophobia and transphobia have largely flourished within networks stewarded by Meta, and transphobic content still seems to flow freely from accounts like Libs of Tiktok on the platform. Similarly, Facebook’s own moderation practices have exacerbated cultural tensions to the point of promoting violence and genocide.
Threads has also remained problematic with regards to news and politics: according to The Verge, the platform’s head boss doesn’t see politics and hard news as being worth the risk. Given the platform’s aversion to political content, this could raise questions about organic discovery coming from the rest of the Fediverse to Threads.
Community Members React
Many people celebrated the change, citing the protection against vulnerable users as a valuable decision. Not everyone was happy, though: Some admins, like Cliff Wade from All Things Tech, feel uncomfortable about the fact that they hadn’t agreed to additional requirements when they joined, and now feel pressured.
“It wasn’t really about the stupid ‘I want to change the rules’ thing so to speak,” he writes, “It was all about how we as admins were approached with a bullying attitude as that’s what several other admins mentioned, long before I ever mentioned it.”
Cliff and his co-admin Kyle Reddoch are now working on their own alternative index, that doesn’t include this requirement. It’s a massive undertaking, and requires vetting communities asking permission for inclusion, and regularly checking in on community developments. Still, they’re optimistic.
“[We] are making a list on our Wiki of instance that both federate and defederate from Threads,” Kyle writes, “we feel people [should] have the choice themselves and not have someone else choose for them.”
Moving Forward
Fedi Garden’s operator has updated the rules on their site, and adjusted their lists. Various projects have been tracking FediPact adoption, such as the tracker on Veganism Social. One thing that’s important to understand, though, is that Fedi Garden and this FediPact tracker aren’t the only tools for tracking safe spaces in the network.
“FediGarden is a tiny site with a tiny following, its account has about 1% of the follower numbers of FediTips,” FediGarden tell us, “FediGarden isn’t some massive gateway onto the Fediverse, it’s just a small list of servers that are Covenant-compliant but also under a certain size, to encourage decentralisation.”
With the Fediverse being what it is, we’re bound to see more indexes and discovery tools come and go, with their own processes and policies for inclusion and promotion. There is no singular landing page for the network, nor a standard point of discovery to the network.
The post Fedi Garden to Instance Admins: “Block Threads to Remain Listed” appeared first on We Distribute.
Telegram, il Cremlino chiede a Durov di "stare più attento" dopo l'attacco a Mosca
Il Cremlino ha richiesto al proprietario di Telegram, il 39enne russo Pavel Durov, di prestare "maggiore attenzione" dopo che l'applicazione di messaggistica sarebbe stata utilizzata per reclutare gli uomini armati che hanno attaccato il Crocus City Hall, una sala da concerto alla periferia di Mosca
@Informatica (Italy e non Italy 😁)
hdblog.it/sicurezza/articoli/n…
Telegram, il Cremlino chiede a Durov di "stare più attento" dopo l'attacco a Mosca
Al momento non ci sarebbero piani per bloccare in Russia l'app di messaggistica"HDblog.it
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Domenica le amministrative in Turchia. Erdogan vuole riprendersi Istanbul
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di Redazione
Pagine Esteri, 29 marzo 2024 – Domenica i cittadini e le cittadine della Turchiatorneranno alle urne per un appuntamento elettorale di grande importanza. Il 31 marzo infatti si terranno le elezioni amministrative, a poco meno di un anno da quelle generali che hanno portato il capo dello Stato, Recep Tayyip Erdogan, al terzo mandato presidenziale e mantenuto al potere l’AKP (Partito Giustizia e Sviluppo), formazione di destra, nazionalista e religiosa.
Al voto sono chiamati circa 61 milioni di aventi diritto, di cui un milione di giovani che si recherà ai seggi per la prima volta, per eleggere sindaci, amministratori e consiglieri di 81 province in 30 aree metropolitane e 1.351 distretti.
Questa nuova tornata elettorale rappresenta un test significativo sia per Erdogan e il “suo” Akp che per i partiti di opposizione, frammentati a seguito della sconfitta della variegata coalizione formata da partiti di sinistra, centrosinistra e destra guidata dal Partito repubblicano popolare (Chp) alle elezioni parlamentari e presidenziali del maggio 2023, dopo aver conquistato nel 2019 – quando l’affluenza totale era stata dell’84,52% – le due principali città del paese come Ankara e Istanbul.
Da una parte, il presidente turco e leader dell’Akp misurerà il sostegno al suo governo in un clima dominato ormai da molti anni da una grave crisi economica, con l’inflazione che continua a erodere velocemente il potere d’acquisto di salari e pensioni.
Le amministrative potrebbero anche servire per misurare gli equilibri interni al partito al potere e individuare i possibili eredi del presidente Erdogan il quale, poche settimane fa, ha affermato che quelle di domenica potrebbero essere le sue ultime elezioni prima del ritiro dalla vita politica.
Il voto testerà però anche la capacità del Chp di mantenere il controllo delle città chiave del paese. Se i repubblicani riuscissero nell’intento potrebbero di nuovo presentarsi come principale alternativa all’Akp, condizionando le altre forze politiche di opposizione.
L’attenzione si concentra soprattutto sullo scontro a Istanbul con i suoi 16 milioni di abitanti ufficiali. Cinque anni fa la vittoria era andata a Ekrem Imamoglu, esponente del Partito Popolare Repubblicano, ma il governo aveva annullato la competizione obbligando gli elettori a tornare alle urne. L’Akp era però uscito di nuovo sconfitto dalla competizione. Se dovesse riconfermarsi, Imamoglu – sostenuto anche dalla destra moderata dell’Iyi Parti – potrebbe aspirare a correre per la presidenza alle prossime elezioni generali previste nel 2028.
Contrariamente a quanto era avvenuto nel 2019 e poi alle generali del 2023, questa volta però il movimento curdo non correrà insieme ai repubblicani. A Istanbul il Dem, il Partito per l’uguaglianza e la democrazia, ha presentato un suo candidato che aspira al terzo posto. A sfidare Imamoglu, per conto dell’AKP, ci sarà l’ex ministro dell’ambiente Murat Kurum, sostenuto personalmente da Erdogan oltre che dagli ultranazionalisti di destra dell’Mhp.
«È arrivato il momento di riprendere il lavoro da dove era stato interrotto, porre fine a questo periodo di fango e sporcizia e rimetterci al servizio della popolazione come abbiamo fatto per 30 anni. La città è tornata ai problemi del 1994, questi sono stati 5 anni persi» ha tuonato il presidente della Repubblica in un comizio a sostegno di Kurum pochi giorni fa. – Pagine Esteri
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L'articolo Domenica le amministrative in Turchia. Erdogan vuole riprendersi Istanbul proviene da Pagine Esteri.
La facoltà di “Scienze Repressive” della Hebrew University
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972mag.com/hebrew-university-n…
(Traduzione a cura di Federica Riccardi)
A cura di Orly Noy –
Pagine Esteri, 23 marzo 2024. “Un’università che promuove la diversità e l’inclusione è un’università che favorisce l’uguaglianza”. Queste sono alcune delle parole usate dalla Hebrew University di Gerusalemme, una delle più importanti istituzioni accademiche del Paese, per descrivere i suoi presunti valori e la sua visione. La settimana scorsa, però, l’università ha deciso di sospendere la professoressa Nadera Shalhoub-Kevorkian, un’importante studiosa di diritto e cittadina palestinese di Israele.
La scandalosa decisione, emessa senza una regolare udienza, è arrivata subito dopo la puntata del podcast di Shalhoub-Kevorkian su Makdisi Street, in cui esponeva le sue posizioni critiche nei confronti del sionismo e dell’assalto di Israele a Gaza. Ma la studiosa è stata nel radar dell’università per mesi (e addirittura anni), dopo aver firmato una petizione a fine ottobre che chiedeva un cessate il fuoco a Gaza e descriveva la guerra come un “genocidio”. La Shalhoub-Kevorkian, ha scritto l’università, dovrebbe “trovare un’altra sede accademica che corrisponda alle sue posizioni”.
La sospensione svuota certamente di significato alcuni dei corsi “illuminati” che l’università ha da offrire. Infatti, cosa può insegnare un’università, che sospende un membro anziano della facoltà senza un’udienza, ai suoi studenti in un corso intitolato “La Corte Suprema in uno Stato democratico”? Cosa può insegnare un’istituzione accademica, che si allinea ai sentimenti più estremi e falsi della società, su “Libertà, cittadinanza e genere”? Cosa può insegnarci su “Diritti umani, femminismo e cambiamento sociale” un’istituzione che mette a tacere in modo crudele e prepotente la voce critica di una donna, di una docente e di un membro di una minoranza perseguitata?
In una dichiarazione che presentava la sua visione dell’istituzione accademica diversi anni fa, il presidente dell’università, il professor Asher Cohen – che insieme al rettore, il professor Tamir Sheafer, ha autorizzato la sospensione di Shalhoub-Kevorkian – ha affermato che l’università ha “guidato un processo di inclusione delle popolazioni che compongono la società israeliana. Crediamo in un campus eterogeneo, pluralista ed egualitario, dove il pubblico proveniente da contesti diversi si conosce e viene introdotto al valore della coesistenza”. Sono queste le parole importanti di un uomo che sembra però incapace di ascoltare voci politiche critiche che differiscono dalle sue.
Nella stessa dichiarazione, Cohen si vanta della grande responsabilità dell’università “nei confronti della società israeliana, e in particolare di Gerusalemme”. Questa è la stessa Gerusalemme dove metà della città è sotto occupazione e dove oltre 350.000 palestinesi sono oppressi ogni giorno, le loro case demolite e i loro figli tirati arbitrariamente giù dal letto e arrestati nel cuore della notte – senza che nessuno dei dirigenti della torre d’avorio di Cohen dica una parola su di loro.
C’è molto da dire sui quartieri palestinesi di Silwan e Sheikh Jarrah, entrambi a poche centinaia di metri dal campus di Mount Scopus, che devono affrontare le espropriazioni di terre e proprietà da parte dei coloni sostenuti dallo Stato. Ma è particolarmente grave che la Hebrew University non ha mai ritenuto opportuno protestare contro la violenta oppressione in atto nel villaggio di Issawiya, le cui case sono chiaramente visibili dalle finestre degli edifici del campus, a pochi metri di distanza. Possibile che nelle serate che Cohen trascorre nel suo ufficio non senta il rumore degli spari della polizia israeliana, che da tempo sono la colonna sonora del villaggio, proprio sotto la sua finestra?
Se solo il grande peccato dell’ Hebrew University (ed è davvero un grande peccato) fosse l’oblio. La sospensione di Shalhoub-Kevorkian si aggiunge a una lunga lista di persecuzioni politiche e di indottrinamento militarista promossi dall’istituzione nel corso degli anni.
Dopo tutto, questa è la stessa università che, nel gennaio 2019, ha assecondato una brutta campagna di incitamento condotta da un gruppo studentesco di destra contro la dottoressa Carola Hilfrich, sostenendo falsamente che aveva rimproverato uno studente per essersi presentato al campus in uniforme militare. Invece di difenderla dalle false accuse, l’università ha emesso una vergognosa lettera di scuse per l'”incidente”. Questa è la stessa università che, pochi mesi dopo, ha scelto di trasformare il campus in un piccolo campo militare, ospitando corsi per l’unità di intelligence dell’esercito israeliano – una di una lunga serie di proficue collaborazioni con l’esercito – nonostante le proteste di studenti e docenti.
Questa è la stessa università che, più volte, ha molestato e messo a tacere le associazioni studentesche palestinesi, concedendo al contempo crediti accademici agli studenti che fanno volontariato con il gruppo di estrema destra Im Tirtzu. E questa è la stessa università che, negli ultimi cinque mesi, non ha detto nulla su come Israele distrugge sistematicamente le scuole e gli istituti di istruzione superiore di Gaza, tradendo vergognosamente non solo i loro colleghi assediati, bombardati e affamati a Gaza, ma i principi stessi del mondo accademico.
In una lettera al deputato Sharren Haskel per spiegare la loro decisione, il presidente Cohen e il rettore Sheafer hanno accusato la Shalhoub-Kevorkian di essersi espressa in modo “vergognoso, antisionista e incitante” dall’inizio della guerra, schernendola per aver definito la politica di Israele a Gaza un genocidio. Ma non è la sola a farlo. Non solo il popolo palestinese e centinaia di milioni di persone in tutto il mondo considerano la calamità di Gaza un genocidio, ma la stessa Corte Internazionale di Giustizia, il più alto tribunale del mondo, ha preso sul serio questa pesante accusa e ha stabilito che non può essere respinta a priori.
È come se Cohen e Sheafer non solo fossero sorpresi di apprendere che Shalhoub-Kevorkian è palestinese, ma che è anche – il cielo non voglia! – antisionista. Se il sionismo fosse un prerequisito per l’ammissione all’università, i suoi dirigenti avrebbero dovuto essere obbligati a informare ogni docente e studente prima di varcare i cancelli. È lecito affermare che uno dei motivi principali per cui non lo fanno, a parte le restrizioni legali, è che la Hebrew University beneficia della presenza di palestinesi per presentarsi al mondo accademico internazionale come un modello di pluralismo, liberalismo e inclusione. Nel frattempo, può continuare a perseguitare i palestinesi in patria, lontano dagli occhi del mondo.
Questo atto vergognoso si sta già ripercuotendo con forza nel mondo accademico e nei media di tutto il mondo, marchiando la Hebrew University con la vergogna che merita. Fino ad allora, l’unico corso che posso trovare nei moduli dell’università che sembra appropriato da insegnare agli studenti è quello offerto dal Dipartimento di Scienze Politiche – Machiavelli, il filosofo del governo tirannico.
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*Orly Noy
Orly Noy è redattrice di Local Call, attivista politica e traduttrice di poesia e prosa in farsi. È presidente del comitato esecutivo di B’Tselem e attivista del partito politico Balad. I suoi scritti affrontano le linee che si intersecano e definiscono la sua identità di Mizrahi, di donna di sinistra, di migrante temporanea che vive all’interno di un’immigrata perpetua, e il costante dialogo tra di esse.
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L'articolo La facoltà di “Scienze Repressive” della Hebrew University proviene da Pagine Esteri.
LIBRI. Si può “ignorare l’assenza” ma le rose rosse ricresceranno sempre
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di Pietro Basso –
Pagine Esteri, 29 marzo 2024. “Non sono le pallottole ad uccidere, è il silenzio”, ha scritto Muhammad Taha. Se ciò è vero, è benvenuta quest’opera prima di Valeria Roma (“Ignorare l’assenza. La letteratura palestinese nell’immaginario italiano” Meltemi editore), che non rispetta l’imperativo di coprire di silenzio la vita quotidiana, la lotta, la cultura, la causa dei palestinesi. E ci fornisce una guida critica essenziale, ordinata senza pedanteria, dalla scrittura asciutta ed elegante, che finora mancava, della letteratura palestinese in lingua italiana, e del suo contributo al rinnovamento di una letteratura italiana da tempo raggrinzita nel provincialismo.
Il toro – la pretesa del sionismo di cancellare il passato e il presente della Palestina e dei palestinesi per escludere che possano mai avere un futuro – è subito preso per le corna. Una postura necessaria specie in tempi come questi in cui impazza, dentro e fuori Israele, un sionismo a tal punto intriso di fanatismo religioso da mettere in discussione perfino la possibilità di una coesistenza pacifica tra le stesse “quattro tribù” ebraiche (di cui ha parlato Rivlin). Un sionismo a tal punto preda della sua auto-esaltazione da pretendere di avere chiuso una volta per tutte la “questione palestinese” con il proclamare Israele “lo stato degli ebrei”, legittimando a posteriori e, nel contempo, a priori la pulizia etnica compiuta, e da ultimare, ai danni del popolo palestinese.
Sennonché questa pretesa, che la hasbarà rilancia pure in Italia con illimitato fanatismo e altrettanto illimitata libertà d’azione, urta contro la coriacea realtà di un’esistenza sociale piena di ferite e di mutilazioni, ammanettata, umiliata, dispersa, e tuttavia irriducibile a semplice ammasso di polvere del deserto. Certo: un secolo di colonizzazione ha mutato in modo radicale ambiente, demografia, rapporti sociali della Palestina. Qualunque esule torni alla ricerca del mondo di ieri, o almeno delle sue tracce, finisce per restare, immancabilmente, deluso. Ma questa esistenza sociale rinasce di continuo dalle sue ceneri come l’araba fenice. Si rinnova, ringiovanisce, urla periodicamente la sua rabbia e il suo desiderio di libertà e di riscatto con le sue sollevazioni di massa (sono già quattro da quel fatidico 8 dicembre 1987). Parla di sé, a sé e al mondo intero, con la letteratura.
Il prezioso lavoro di Isabella Camera d’Afflitto e di altre studiose e studiosi capaci di un’attitudine exotopa scevra da sentimentalismi ha presentato anche ad un pubblico che non ha conoscenza della lingua araba la grande ricchezza e varietà di generi della letteratura araba contemporanea. “Svegliatevi Arabi! In piedi! / Su dal fango che fino al ginocchio vi serra. / Perché vi appoggiate a speranze che son tradimento, / se già vi attanaglia la morte? / Dio è il più grande, cos’è questo sonno? / Orsù, fuori dal vostro giaciglio, nel turbine entrate”, aveva intimato (nel 1913) il poeta libanese Ibrahim al-Yazigi. Non ha gridato invano. Si può constatarlo pure da questa rassegna che si muove nel solco appena indicato. E lo fa con mano sicura, senza risparmiare meritate stoccate a mostri sacri quali Pier Paolo Pasolini, e distinguendo in maniera opportuna gli scrittori o le scrittrici di maggior successo da quelli/e di maggior valore.
L’autrice ha scelto di presentare le singole opere letterarie come altrettante tessere di un mosaico che via via si completa con “gli oggetti, le tradizioni, i giochi, ma anche le macerie della Palestina dimenticata”. La quotidianità che ne emerge è inevitabilmente punteggiata di caserme, demolizioni, assassinii, pogrom, sofferenze, discriminazioni, pervasa da un’ansia permanente che sconfina nell’angoscia, se non nella disperazione, quando il servilismo degli sconfitti divenuti obbedienti diventa norma di comportamento fino alla delazione, e tutto, proprio tutto, appare perduto. Come se l’avverso destino avesse riservato alla Palestina e ai palestinesi nient’altro che una catena di nakbah e di naksah.
Sull’intero quadro grandeggia la guerra. Una guerra infinita, in cui si è trattati da “infiltrati”, e ci si sente profughi, nella propria terra di nascita. Una guerra, a cui non ci si può sottrarre neppure con l’esilio. Una guerra a cui non si vogliono sottrarre i coraggiosi, le coraggiose, nei quali/nelle quali la collera periodicamente esplode sprigionando con una forza ogni volta nuova il desiderio, il sogno collettivo di liberazione. Ma se la stessa continuità dell’esistenza è un modo di resistere, allora anche le “armi passive”, le abbondanti riserve della memoria, la malinconia, la nostalgia (gurbah), l’auto-ironia, il sarcasmo, possono arginare il senso di straniamento che incombe, e arrivare a fendere, piccoli raggi di luce, il buio fitto che impedisce di intravvedere l’uscita, quando e come che sia, dall’enorme carcere a cielo aperto che è ormai diventata l’intera Palestina storica, e non soltanto la striscia di Gaza.
Nelle sue differenti articolazioni di letteratura dei territori occupati, racconti dell’esilio, del ritorno e del carcere, letteratura impegnata (i grandi nomi di Kanafani e Habibi), letteratura fantascientifica, per l’infanzia e perfino noir, la letteratura palestinese è presentata qui come una forma di resistenza alla macchina dell’oppressione israeliana. Se l’occupazione e l’espropriazione della Palestina è stata ed è insieme fisica e metaforica, allora la scrittura esprime la reazione di un corpo sociale, di tanti corpi-menti individuali, vivi e capaci di creatività, liberi anche nella più snervante prigionia. Così, attraverso le parole, una lingua che sfida di continuo i padroni del carcere e i loro volonterosi complici, la Palestina e la causa dei palestinesi rinascono, rispuntano di continuo, a sorpresa, da sotto le macerie dei bulldozer incaricati di spianarla. Nella sua pungente polemica con l’“ipotesto sionista” che declassifica i palestinesi ad altrettanti calchi immodificabili e omogenei di un’atavica arretratezza “di razza”, Valeria Roma ha inteso mostrare come nell’esperienza sociale palestinese ci sia spazio, invece, per le aspirazioni e le differenze individuali, per una modernità che si colloca oltre lo spirito gregario del clan senza per questo dissolvere i legami comunitari.
Il valore di tale polemica fuoriesce da questa specifica materia, dacché la “grande narrazione sionista” su Israele, sulla Palestina, sul popolo palestinese, rappresenta il tipo più estremo ed intransigente di revisionismo storico in chiave etnocratica in circolazione. Come ha osservato E. Said occupandosi della questione palestinese, “in Occidente pressoché l’unico gruppo etnico verso il quale è tollerata, se non incoraggiata la denigrazione a sfondo razziale, è quella araba”. E non v’è dubbio che quando la grancassa della propaganda anti-palestinese insiste sul “terrorismo” dei palestinesi, è degli arabi in generale che si parla. Ma io sono convinto che non si tratti solo degli arabi, né di tutti gli arabi presi in blocco al di là delle profondissime differenze di classe che segnano le società arabe. Nell’incredibile fortuna e diffusione che l’ideologia anti-palestinese ha nel mondo occidentale odierno, e non solo, la Palestina e i ribelli palestinesi sono un simbolo di un “qualcosa”, di un pericolo, ancora più ampio.
“Cerco la vera Palestina, la Palestina che vale più dei ricordi, più di una penna di pavone”, fa dire Ghassan Kanafani al suo Said in Ritorno ad Haifa. Ed escludendo che la vera Palestina possa essere quella di un tempo irrimediabilmente passato, formula la domanda bruciante: cos’è, dov’è la vera Palestina oggi? Questa rassegna ci aiuta a capirlo. Non saremo mai abbastanza grati alla sua autrice e ai traduttori delle opere che ha recensito per averlo consentito. La Palestina e i palestinesi, afferma Aysar al-Saifi, sono “un seme, un viaggio, un campo e una lettera”, facendo eco al poeta algerino Malek Haddad: “Je suis chez moi en Palestine”. La Palestina come luogo del cuore. La Palestina, allarga lo sguardo Mahmoud Suboh, è un “universale fantastico”, “racchiude nella sua storia tutte le particolari resistenze nel mondo, come Omero voce della collettività del popolo greco”. Ma se, ad onta del falso antagonismo tra democrazie e autocrazie, davvero “il male del nostro tempo è la perdita della libertà” ovunque (Walid Daqqa), la Palestina e i palestinesi – lungi dall’essere stati cancellati dalla storia – esprimono, nella loro semplice esistenza, e tanto più nella loro ribellione, la voce, il grido di dolore, la speranza delle masse oppresse del mondo intero.
Con i versi di un poeta napoletano: “c’è una musica di fanfare, del grande esercito coloniale” (ci spacca i timpani ogni giorno), e “c’è una musica della terra, del Sud che si ribella”… Qui terra non è solo agricoltura: ulivi, cotone, sesamo, fichi, agrumi, mandorle, nespole, orzo, rose, gelsomino, che pure tanta parte hanno nella letteratura palestinese. È terra come fonte della vita e della strenua difesa della vita della natura e della specie umana dalla brutale pretesa totalitaria dell’industria del controllo carcerario, della dazione di morte, del distruttivo colonialismo “ecologista”, in cui per sua stessa sventura si è specializzato lo stato “ebraico”, avanguardia tecnico-politica, educatore e fornitore di tutti gli apparati statali capitalistici del Nord e del Sud, dell’Est e dell’Ovest. Ai nostri giorni, infatti, la guerra, l’economia di guerra, la disciplina di guerra grandeggiano non più soltanto sulla Palestina storica, incombono sull’intero globo con le loro apocalittiche minacce. Palestina, allora, è il mondo. E la sua letteratura è entrata da tempo, non a caso, nella letteratura del mondo. Ma di quale mondo si parla? E quale futuro per questo mondo?
Al momento per la “questione palestinese” non è in vista alcuna soluzione. All’oggi l’intera storia della lotta secolare dei palestinesi per la propria liberazione può apparire come un seguito di occasioni mancate, di insuccessi, di sconfitte, di tradimenti. Nonostante ciò, è questo che inquieta le élite globali, la questione palestinese resta aperta. La resistenza palestinese, in sempre nuove e articolate forme, di cui la letteratura non è certo l’ultima, è viva. E continua a riscuotere simpatia e solidarietà nel mondo intero da parte di tutti/e coloro che odiano l’oppressione delle nazioni, il colonialismo vecchio e nuovo, l’apartheid, il razzismo, il militarismo – tratti essenziali dell’odierno stato di Israele. Non lo dico io: lo sostengono gli intellettuali ebrei e israeliani più illuminati, quali N. Chomsky e I. Pappe. Lo dicono anche quei giovani cittadini di Israele – per pochi che essi siano – che condannano i pogrom e si rifiutano di servire nell’esercito.
Non è solo per una ragione di ordine demografico che la questione palestinese resta aperta. Resta aperta come questione nazionale e, sempre più, come questione sociale. Nazionale perché la resistenza palestinese rende evidente l’ingiustizia di un popolo senza stato; sociale, di date classi sociali, perché si è creato in questi decenni uno strato di borghesi e burocrati palestinesi benestanti, privilegiati collusi con Israele, mentre la grande massa proletaria e semi-proletaria dei palestinesi di Gaza, della Cisgiordania, della diaspora dei campi profughi, dei palestinesi cittadini di Israele, vive in condizioni di atroce povertà e deprivazione (è l’80%!), e deve affrontare soprusi e tormenti di ogni tipo.
Il richiamo all’unità che negli ultimi anni è salito dalle piazze palestinesi non è tanto, secondo me, un richiamo all’unità delle rappresentanze politiche storiche, sempre più indebolite e prigioniere dei propri vincoli con Israele, i governi occidentali e/o le petrolmonarchie, quanto un richiamo all’unità degli strati più oppressi, diseredati, impoveriti. Quelli che, insieme ad una parte della gioventù istruita senza lavoro, hanno riempito le piazze in tanti paesi del mondo arabo nelle due ondate di sollevazioni del 2011-2012 e del 2018-2020.
A questo riguardo Maher Charif ha parlato di “gruppi sociali popolari che hanno fatto irruzione, per la prima volta in questa forma, sulla scena dell’azione politica” gridando “pane, dignità e giustizia sociale”, e fissando un obiettivo ancor più alto e radicale: “il popolo vuole abbattere il regime”. Nonostante il loro provvisorio scacco, questi avvenimenti hanno messo in luce che non esiste solo un mondo arabo, ne esistono due sempre più distanti ed estranei: il campo delle classi dominanti, in vario modo legate all’ordine mondiale capitalistico, e il campo delle classi sfruttate. Per la Palestina e i palestinesi le cose si stanno muovendo in questa stessa direzione, da decenni. E poiché la spaccatura in profondità di tutte le società – anche di quelle più ricche, come gli Stati Uniti e l’Europa – è un dato universale, ecco che si sono create le condizioni affinché il messaggio di lotta delle masse oppresse e sfruttate della Palestina e del mondo arabo arrivi molto lontano.
Questo studio dimostra che, anche attraverso la letteratura, il messaggio è arrivato perfino nella torpida Italia, presentandoci una “identità palestinese” in continua trasformazione, che si sottrae alle “etichette semplificatorie e discriminanti della nazionalità, della cittadinanza, dell’appartenenza religiosa” per assurgere a significati di maggior respiro e profondità, una Palestina agente in Italia. Per paradosso, lo sforzo sistemico messo in atto per desertificare la “questione palestinese”, per “spogliarla della sua sacralità” riducendola a semplice affare di procedure amministrative (Murid al-Barghuthi), si sta rovesciando nel suo contrario, e la investe di una forza simbolica eccezionale. La Palestina è ovunque. Ovunque sia assente la libertà per la presenza dei meccanismi di sfruttamento e di dominio che stanno togliendo il respiro alla classe lavoratrice di tutte le razze, le nazionalità, le religioni o le non-religioni, e alla stessa natura. Ovunque si lotti senza paura per liberarsi da questi meccanismi universali. Senza cessare di essere la Palestina storica nella drammatica concretezza del suo presente, Palestina è il luogo in cui le rose rosse rinasceranno sempre.
Buona lettura.
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J. Alfred Prufrock
Unknown parent • •eh, un po' sì
comunque vorrei capire un po' meglio come funziona
nel sito istituzionale leggo che
La "verifica della configurazione" è esattamente quella che vorrei fare, se fosse chiarito anche cosa andrebbe verificato 😅
J. Alfred Prufrock
Unknown parent • •anch'io fermo alla 9, purtroppo