Sn 1987A, un’esplosione fortemente asimmetrica
La complessa fisica che regola il collasso del nucleo di una stella massiccia e la successiva esplosione di una supernova può essere svelata da un’attenta analisi delle proprietà fisiche degli ejecta prodotti dall’esplosione, in particolare di quelli più interni, qualora essi non siano ancora stati investiti dalle onde d’urto riflesse che si propagano verso il centro del resto di supernova.
Diverse osservazioni del resto di supernova Sn 1987A, originato dall’esplosione di una supergigante blu nella Grande Nube di Magellano nel 1987, mostrano che gli ejecta interni presentano una morfologia fortemente asimmetrica. In particolare, il James Webb Space Telescope (Jwst) ha rivelato la presenza di ejecta ricchi in ferro con una struttura marcatamente bipolare, in espansione a una velocità di circa 2300 km/s. Questi ejecta sono particolarmente significativi, poiché si sono originati dalle regioni più profonde della stella progenitrice.
Nel pannello di sinistra, l’immagine di Sn 1987A ottenuta dalla camera NirCam del James Webb Space Telescope;
nel pannello centrale, la distribuzione di densità del resto di supernova, inclusi gli ejecta ricchi in ferro, come previsto da un modello sviluppato nel 2020 dal team di S. Orlando;
nel pannello di destra, la morfologia attuale del resto, come prevista dal nuovo modello presentato in questo studio. Crediti: S. Orlando et al., A&A, 2025
In uno studio in uscita su Astronomy & Astrophysics, un team di ricercatori guidato dall’astrofisico Salvatore Orlando dell’Inaf di Palermo ha sviluppato e analizzato un modello magnetoidrodinamico (ossia che tiene conto dell’interazione tra materia e campo magnetico) dell’evoluzione di Sn 1987A, dalla fase di supernova fino allo sviluppo del resto di supernova. Il modello riproduce con successo la morfologia bipolare degli ejecta ricchi in ferro osservata dal James Webb Space Telescope, mostrando come tali strutture derivino da un’esplosione fortemente asimmetrica. L’espansione degli ejecta è stata ulteriormente accelerata dal decadimento radioattivo del nichel in ferro, un processo che ha riscaldato il materiale interno del resto di supernova, aumentandone la pressione e contribuendo alla formazione di una “bolla di nichel”.
Il modello ha anche permesso di fare previsioni sull’evoluzione dell’emissione nei raggi X da parte degli ejecta nei prossimi anni. In particolare, l’interazione tra le onde d’urto riflesse e gli ejecta esterni ha riscaldato il materiale a temperature elevate, portandolo a emettere radiazione X. Questa emissione è in aumento dal 2021, e ci si attende che cresca ulteriormente man mano che gli ejecta più interni vengono investiti dalle onde d’urto inverse. Future osservazioni con telescopi a raggi X, come il satellite Xrism dell’Agenzia spaziale giapponese (Jaxa), forniranno importanti strumenti diagnostici per studiare le proprietà fisiche degli ejecta più interni.
Salvatore Orlando, astrofisico all’Inaf di Palermo e primo autore dello studio sugli ejecta di Sn 1987A in uscita su A&A. Crediti: Inaf Oa Palermo
«Le straordinarie immagini del telescopio Jwst hanno aperto una nuova finestra su Sn 1987A, l’esplosione stellare più iconica degli ultimi decenni. Grazie alla sua eccezionale sensibilità e risoluzione angolare», spiega Orlando, «Jwst ha rivelato che il ferro espulso durante l’esplosione non è distribuito in modo omogeneo, ma concentrato in due enormi “grumi” distinti, proiettati nello spazio a velocità elevatissime. Le difficoltà incontrate dai modelli attuali nel riprodurre questa sorprendente struttura del materiale espulso indicano che qualcosa di inatteso potrebbe essere avvenuto nei primissimi istanti dell’esplosione. Stiamo già considerando due possibili spiegazioni: da un lato, violente instabilità indotte dal flusso di neutrini nel cuore della stella morente; dall’altro, scenari più estremi in cui campi magnetici e rotazione giocano un ruolo cruciale nel generare un’esplosione bipolare. Tuttavia, nessuna di queste ipotesi riesce al momento a spiegare pienamente tutte le caratteristiche osservate. Per far luce su questo enigma, saranno fondamentali nuove osservazioni e simulazioni numeriche sempre più sofisticate».
- Per saperne di più:Leggi il preprint dell’articolo in uscita su Astronomy & Astrophysics “Tracing the ejecta structure of SN 1987A: Insights and diagnostics from 3D MHD simulations”, di S. Orlando, M. Miceli, M. Ono, S. Nagataki, M.-A. Aloy, F. Bocchino, M. Gabler, B. Giudici, R. Giuffrida, E. Greco, G. La Malfa, S.-H. Lee, M. Obergaulinger, O. Petruk, V. Sapienza, S. Ustamujic e J. Weng
Al via la terza edizione del Gerrei Astrofest
Da sabato 17 maggio a domenica 8 giugno, il Gerrei si trasformerà ancora una volta in un palcoscenico privilegiato per chi desidera avvicinarsi al mondo dell’astronomia con la terza edizione del Gerrei Astrofest, il festival di astronomia organizzato e finanziato dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) in collaborazione con il Gal Sole Grano Terra (Gal Sgt) e l’Unione dei comuni del Gerrei.
La manifestazione diventa quest’anno, a tutti gli effetti, un festival diffuso che coinvolgerà, durante quattro fine settimana a partire dal prossimo sabato, ben otto municipalità: San Basilio (17 maggio e 8 giugno), Sant’Andrea Frius (18 maggio), Silius (24 maggio), Villasalto (25 maggio), San Nicolò Gerrei (31 maggio), Escalaplano (1 giugno), Armungia (6 giugno) e Ballao (7 giugno). Forte del successo delle passate edizioni, che hanno visto una crescente partecipazione di pubblico di tutte le età, il programma prevede circa sessanta iniziative tra conferenze pubbliche, laboratori didattici, mostre, installazioni creative, giochi da tavolo, serate di osservazione delle stelle e astrotrekking.
Fondamentali per la qualità e la buona riuscita della manifestazione sono anche i partenariati scientifici con enti e istituti di ricerca come l’Agenzia spaziale italiana (Asi), l’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) e l’Università di Cagliari, che porteranno contenuti di alto profilo su vari temi fisici, astrofisici e aerospaziali di grande attualità.
Ideato e realizzato nel 2022 in via sperimentale dall’astrofisica dell’Inaf di Cagliari Silvia Casu, il Gerrei Astrofest è cresciuto costantemente. «Lavoriamo a questo evento ormai da molti anni per connettere il Sardinia Radio Telescope a un territorio, il Gerrei, ricco di natura intatta e di siti peculiari, nonché di una grande capacità di accoglienza che merita di crescere», spiega Casu. «Noi abbiamo solo aggiunto un pezzo, il radio telescopio, certamente importante, ma facente parte di un ecosistema più vasto che lo ha preceduto, che lo accompagna e che esisterà anche dopo».
Il ruolo centrale non potrà che essere ricoperto, appunto, dal grande radiotelescopio dell’Inaf costruito a San Basilio, nella piana di Pranusanguni. Il festival partirà proprio da Santu Asili ‘e monti (San Basilio in sardo) nel cui centro urbano è prevista l’inaugurazione sabato 17 maggio, a partire dalle 17, con i saluti istituzionali del primo cittadino nonché presidente dell’Unione dei comuni del Gerrei Albino Porru, di Antonino Arba e Silvia Doneddu, rispettivamente presidente e direttrice del Gal Sgt, della direttrice dell’Inaf di Cagliari Federica Govoni, del responsabile delle operazioni del Sardinia Radio Telescope Sergio Poppi e della responsabile scientifica del festival Silvia Casu.
Il Gerrei Astrofest non è solo un festival dedicato all’affascinante mondo dell’astronomia, ma anche una preziosa occasione per valorizzare il territorio, promuovendone le bellezze paesaggistiche, storiche e culturali. «Siamo molto felici che dopo le prime edizioni, svolte solo a San Basilio, adesso sia coinvolta tutta l’area del Gerrei. Sono iniziative molto importanti che fanno crescere il territorio e permettono a chi arriva da fuori di conoscere i nostri luoghi», dichiara Porru.
«L’importante collaborazione che nasce intorno al Gerrei Astrofest», sottolinea il presidente Arba, «si interseca con i progetti di accoglienza e ospitalità privati e pubblici che il Gal Sgt ha finanziato nel territorio, ma ancor di più con gli obiettivi promossi dalle Azioni di sistema “Naturalmente PerSI Percorsi Sentieri e Itinerari nel Gal Sgt”, che uniscono con un filo rosso il nostro patrimonio materiale e immateriale».
San Basilio ospiterà anche la giornata finale dell’otto giugno con un astrotrekking tematico sul Sistema solare che partirà all’alba dal centro urbano e raggiungerà il Sardinia Radio Telescope dopo una passeggiata di circa tre ore.
In mezzo, distribuita sui quattro fine settimana, una serie di ben sessanta attività tra cui spiccano due particolari tipologie. Anzitutto gli appuntamenti in assoluto più attesi dal pubblico: le osservazioni del cielo notturno con i telescopi. Per garantirle, partecipano anche quest’anno gli astrofili della storica Associazione astrofili sardi e quelli del Gruppo di fotografia astronomica Sardegna. Poi ci sarà il gioco con alcune belle novità provenienti dai gruppi di lavoro sul gaming dell’Inaf e con le proposte ludiche de La tana dei Goblin di Cagliari, associazione specializzata in giochi di ruolo e da tavolo. E poi mostre su Srt, laboratori didattici per tutte le età, conferenze tematiche e tanto altro, sempre accompagnati dall’accoglienza garantita dalle tante Pro Loco e dai comitati dei paesi partecipanti presso cui si potranno prenotare pranzi e cene tra gli eventi.
Il programma completo è disponibile sul sito web del festival.
Cronaca d’un’esercitazione per la difesa planetaria
Nella seconda metà di febbraio 2025 l’asteroide near-Earth 2024 YR4 aveva raggiunto una probabilità di circa il tre per cento di colpire la Terra per il 12 dicembre 2032. In seguito a una riduzione dell’incertezza dei parametri orbitali grazie alle osservazioni del James Webb Space Telescope, ora questa probabilità è scesa a zero, anche se resta un quattro per cento di probabilità che possa colpire la Luna per la stessa data. Per nostra fortuna 2024 YR4 è un asteroide roccioso di soli 60 metri di diametro e non avrebbe potuto provocare grossi danni, ma se fosse stato un asteroide di maggiori dimensioni, che cosa si sarebbe potuto fare? Per migliorare le nostre capacità di difesa planetaria si possono simulare casi realistici, in modo da affinare tecniche, strategie di deflessione e linea di comando così da essere più preparati nel caso di vero pericolo.
L’ultimo esercizio di difesa planetaria – o Hypothetical Asteroid Impact Threat Scenario – si è svolto in occasione della 9° International Academy of Astronautics (Iaa) Planetary Defense Conference che si è tenuta a Stellenbosch, una cittadina vicino a Cape Town in Sudafrica, fra il 5 e il 9 maggio 2025. In questo meeting si sono discussi i diversi aspetti della difesa planetaria, cosa fare per proteggere il pianeta dal rischio impatto di asteroidi near-Earth (Nea) e come organizzare le osservazioni in occasione dell’imminente flyby di Apophis del 13 aprile 2029. Il rischio impatto dei Nea è un problema non solo di tipo fisico, astronomico e astronautico, ma anche di natura politica ed economica, e i talk ne hanno illustrato anche questo aspetto. Durante la conferenza sono stati esposti i risultati ottenuti lavorando su dati e misure di posizione simulate dell’ipotetico asteroide a rischio impatto con la Terra. Sono state inoltre introdotte anche osservazioni dallo spazio e una missione spaziale di flyby con l’asteroide per vedere come cambiassero gli scenari mano a mano che si avevano a disposizione dati sempre più completi e con incertezze progressivamente più ridotte, come avviene nella realtà e che abbiamo toccato con mano nel caso di 2024 YR4.
L’orbita simulata di 2024 PDC25 con indicata la data della scoperta e quella dell’impatto. Crediti: Nasa/Cneos
Nell’esercizio, il 5 giugno 2024 alla Catalina Sky Survey viene scoperto un asteroide di magnitudine +21,5 come se ne scoprono tanti. La presenza dell’asteroide viene confermata e il Minor Planet Center gli assegna la sigla identificativa 2024 PDC25. Già da qua si capisce che è un esercizio, perché le sigle reali degli asteroidi hanno una parte alfabetica composta da sole due lettere e non da tre. Chiaramente questo è un dettaglio che può sfuggire al grande pubblico e in ogni slide mostrata alla conferenza era specificato che si trattava di un esercizio e non di un caso reale. Nei giorni immediatamente successivi la scoperta, il numero di osservazioni astrometriche è limitato a un breve arco orbitale e la probabilità d’impatto con la Terra stimata da Nasa ed Esa è di uno su diecimila per il 24 aprile 2041. Si tratta di un valore molto piccolo che non impensierisce nessuno, ma inizia il lavoro di follow-up con i telescopi al suolo. Purtroppo l’asteroide si sta allontanando e diventa sempre più debole, per cui sono necessari strumenti sempre più grandi per poterlo riprendere. Vi ricorda qualcosa? Certo: è esattamente quello che è avvenuto nel caso di 2024 YR4. Ed è quello che generalmente accade con tutti gli asteroidi near-Earth: vengono scoperti solo quando sono già vicino al nostro pianeta e le osservazioni per ridurre l’incertezza degli elementi orbitali non sono agevoli perché diventano presto molto deboli.
La simulazione
Nell’esercizio, con l’aumento del numero di osservazioni, l’orbita di 2024 PDC25 diventa più definita e la probabilità d’impatto supera l’un per cento a fine luglio 2024, raggiungendo la soglia di notifica dell’Iawn (International Asteroid Warning Network). L’Iawn è una collaborazione mondiale di organizzazioni e singoli astronomi raccomandata dalle Nazioni Unite che lavorano collettivamente per la difesa planetaria allo scopo di rilevare, monitorare e caratterizzare asteroidi potenzialmente pericolosi. Nel caso della scoperta di un asteroide a rischio impatto con la Terra il compito dell’Iawn è la diffusione dell’informazione ai governi, allo scopo di aiutarli ad analizzare le conseguenze dell’impatto e a pianificare le opzioni di risposta per mitigarlo. Le notifiche dell’Iawn arrivano solo se la probabilità d’impatto è pari o superiore all’un per cento e se l’asteroide ha un diametro pari o superiore a dieci metri. Il 1° agosto 2024 (Epoca 1), la probabilità d’impatto è dell’1,6 per cento e la data del potenziale impatto è sempre il 24 aprile 2041, il che significa che il “tempo di preavviso” è di circa 16,5 anni.
Purtroppo delle caratteristiche fisiche di 2024 PDC25 si sa pochissimo. Le osservazioni fatte con il James Webb Space Telescope ci dicono che è un asteroide roccioso di tipo S e che ha un diametro compreso fra 90 e 160 m. Il diametro è uno dei parametri più importanti da determinare, insieme alla classe dell’asteroide, perché ci fornisce un’idea della massa e quindi dei danni che può causare l’asteroide nel caso colpisse la Terra. Con i dati orbitali disponibili, il corridoio d’impatto (ossia tutti i luoghi in cui potrebbe cadere l’asteroide) attraversa più della metà del globo, tagliando l’Europa orientale, il Mar Mediterraneo, l’Africa centrale fino al Capo di Buona Speranza, attraversa l’Atlantico meridionale fino alla costa antartica vicino alla Penisola Antartica, per poi entrare nel Pacifico meridionale. Dopo quattro anni dall’Epoca 1 (siamo nel 2028 all’Epoca 2), la situazione si definisce meglio, ma si aggrava: l’asteroide 2024 PDC25 ora ha una probabilità del cento per cento di colpire la Terra il 24 aprile 2041. Lo Space Mission Planning Advisory Group (Smpag) all’Epoca 1 aveva fatto delle raccomandazioni riguardo a diversi tipi di missioni spaziali che potevano essere fatte verso 2024 PDC25 e una di queste opzioni, una missione di flyby per determinarne meglio le caratteristiche fisiche, è stata effettivamente lanciata nel settembre 2027 e ha incontrato l’asteroide il 12 aprile 2028. Si conferma che l’asteroide è roccioso, ha un diametro equivalente compreso tra 145 e 155 metri e una forma molto allungata: si tratta di un sistema binario a contatto, con una forma simile a quella dell’asteroide Donaldjohanson visitato recentemente dalla missione Lucy della Nasa.
Il corridoio d’impatto di 2024 PDC25 dopo il flyby con la sonda all’Epoca 2. I cerchi rappresentano il punto nominale d’impatto su un corridoio di possibili luoghi d’impatto che oramai è molto ridotto. Crediti: Nasa/Cneos
Combinando le proprietà fisiche derivate dalla missione di flyby con la velocità d’impatto geocentrica di 13,8 km/s le energie d’impatto per l’asteroide vanno da 45 a 160 Mt, molto probabilmente da 60 a 105 Mt. Per confronto, l’energia emessa nella catastrofe di Tunguska, che è l’impatto più energetico mai osservato in tempi storici, è stimata in circa 10-15 Mt. La missione spaziale ha anche avuto un’altra ricaduta. La posizione dell’asteroide nello spazio ottenuto tramite la missione di flyby, insieme all’astrometria ottenuta da terra, ha ridotto notevolmente le incertezze orbitali e ora si sa che l’asteroide cadrà in un corridoio d’impatto di 470 × 200 km fra Congo e Angola. Il pericolo principale per quanto riguarda le cadute di piccoli asteroidi è l’airburst ad alta energia e bassa quota con conseguente creazione di onde d’urto distruttive su vaste aree. I danni al suolo raggiungerebbero probabilmente livelli insostenibili in prossimità dell’esplosione, con danni gravi che molto probabilmente si estenderebbero per circa 100-120 km di raggio e potenzialmente per 130 km o più. Con questi numeri e considerata la zona dell’impatto verrebbero coinvolte centinaia di migliaia di persone, con un numero variabile di vittime da diverse migliaia a oltre 1 milione a seconda del luogo esatto dell’impatto e dell’entità dei danni.
Giunti a questo punto della simulazione siamo nel 2028 e mancano solo 13 anni all’impatto. L’orbita dell’asteroide è piuttosto eccentrica quindi le date per una deflessione ottimale sono attorno al passaggio al perielio: novembre 2032, dicembre 2034, gennaio 2037 e marzo 2039, l’ultima data utile prima dell’impatto. Naturalmente, più la data della deflessione è avanti nel tempo e maggiore sarà la variazione di velocità richiesta per evitare l’impatto: fatto 1 il delta-v del 2032, quello per il 2039 è 3,9. Considerate le dimensioni dell’asteroide e il fatto che colpirà sulla terraferma in una zona densamente popolata, vengono proposte e analizzate diverse missioni spaziali per attuare la deflessione orbitale con diverse tecniche: impattore cinetico (Ki, kinetic impactor), esplosione nucleare (Ned, nuclear explosive devices) oppure flusso di ioni (Ibd, ion beam deflection) per cambiare la velocità dell’asteroide e modificarne di conseguenza l’orbita. Per asteroidi più piccoli di 40 metri l’opzione consigliata consiste invece nell’evacuazione della zona d’impatto. La tecnica dell’impattore cinetico è la sola realmente provata sul campo con la missione Dart della Nasa verso l’asteroide Dimorphos, le altre invece sono solo sulla carta. Qualsiasi sia la tecnica usata per cambiare l’orbita dell’asteroide, bisogna evitare che si spezzi in più parti e che, invece di un singolo asteroide, si generino diversi grossi frammenti in rotta di collisione. Per evitare questo scenario si adotta la regola empirica che ogni variazione di velocità impressa all’asteroide deve essere al massimo il dieci per cento della sua velocità di fuga, il che vuol dire, nel caso di un asteroide di 150 metri di diametro con una composizione rocciosa, restare con il delta-v al di sotto degli 8 mm/s.
L’esplosione del vulcano sottomarino Hunga Tonga – Hunga Ha’apai acquisita il 15 gennaio 2022 dallo strumento Abi a bordo del satellite Goes-West. Crediti: Noaa/Nesdis/Star
Analizzando in modo quantitativo le diverse tecniche di diflessione è stato dimostrato che è possibile spostare l’asteroide dal corridoio d’impatto originario. Usando gli impattori cinetici sarebbero necessarie da 4 a 7 missioni spaziali per spostare l’asteroide solo verso sud rispetto al corridoio d’impatto. Usando invece la tecnica dei raggi ionici, che consiste nel bombardare la superficie dell’asteroide con un flusso di ioni, basterebbero 2-3 sonde per la deflessione verso nord oppure 4-5 sonde per quella verso sud. Infine, nell’opzione nucleare, basterebbe una singola missione dotata di diversi dispositivi nucleari per deflettere l’asteroide prima dell’impatto previsto nel 2041. Quando si parla di deflessione nucleare bisogna pensare a un’esplosione nello spazio a breve distanza dalla superficie dell’asteroide che, emettendo raggi X, ne vaporizza una parte generando così un rinculo nella direzione opposta. In pratica si sfrutta l’effetto razzo generato dalla vaporizzazione della superficie: l’opzione nucleare non consiste nella disintegrazione dell’asteroide come si vede nei film. Nei vari scenari è stata considerata anche una deflessione parziale dell’asteroide ossia spostarlo dal corridoio d’impatto quel tanto che basta per farlo finire in un deserto come quello del Sahara. Tuttavia, anche la caduta in un luogo desertico provocherebbe non solo un cratere da impatto da 3 km di diametro, ma un meteotsunami, ossia uno tsunami non causato da un terremoto, bensì da una variazione improvvisa della pressione atmosferica sulla superficie marina. Se si vuole, un evento su scala maggiore di quello accaduto durante l’eruzione del vulcano sottomarino Hunga Tonga – Hunga Ha’apai nel 2022. L’altezza delle onde di tsunami come conseguenza della caduta di 2024 PDC25 è stata stimata in dieci metri sulle coste di Antartide, Africa e Sud America. Insomma un evento non proprio trascurabile e con delle ripercussioni molto più ampie di quanto si potesse immaginare. Per fortuna, nell’esercizio di difesa planetaria 2025, l’asteroide è di piccole dimensioni quindi senza modifiche del clima a livello globale.
Per chi volesse approfondire, i dati dell’esercizio di difesa planetaria alle Epoche 1 e 2 si trovano nella Planetary Defense Conference Exercise – 2025 del Cneos della Nasa.
Mentore Maggini, l’astronomo che dipingeva Marte
Mauro Dolci (direttore Inaf Abruzzo) e Paolo Maggini con in mano il manoscritto del libro “Il pianeta Marte” e una delle copertine di prova. Crediti: C. Badia/Inaf Abruzzo
Non solo scienziato, Mentore Maggini (Empoli, 1890 – Teramo, 1941) è stato un artista appassionato, capace di trasformare le sue osservazioni celesti in raffinati acquerelli. Tra gli astronomi italiani più importanti della prima metà del Novecento, Maggini ha diretto l’Osservatorio astronomico di Collurania (oggi Osservatorio astronomico d’Abruzzo) per quasi due decenni, distinguendosi per i suoi studi sui pianeti, in particolare Marte e Saturno, e per l’adozione precoce della fotometria fotoelettrica, una tecnica che all’epoca rappresentava l’avanguardia nell’analisi quantitativa della luce delle stelle.
Ma accanto alla competenza scientifica Maggini era anche un raffinato disegnatore: le sue osservazioni telescopiche si traducevano in acquerelli accurati e suggestivi, in cui il rigore si univa alla sensibilità estetica. Questa duplice anima — scienziato e artista — è oggi testimoniata da numerosi materiali originali, parte dei quali sono tornati simbolicamente “a casa” ieri, lunedì 12 maggio, grazie alla generosità del nipote, Paolo Maggini, che proprio a Teramo ha consegnato una serie di documenti appartenuti al nonno, tra cui spiccano il manoscritto originale del libro Il pianeta Marte (Ulrico Hoepli Editore – Milano, 1939) e una copia stampata, due copertine non utilizzate dello stesso volume (disegni/acquerelli su cartoncino nero), una fotografia con dedica di Padre Guido Alfani, il catalogo di orologi artistici “Die Kunst-Uhern” di Josef Georg Bohm (Praga, 1908), e due rarissimi volumi delle Misure di Stelle Doppie di Giovanni Schiaparelli (1888 e 1909), entrambi con dedica al fondatore dell’Osservatorio di Collurania, Vincenzo Cerulli.
Disegno di Marte eseguito con acquerello e china da Mentore Maggini. Crediti: C. Badia/Inaf Abruzzo
La raccolta donata non è solo un insieme di documenti d’archivio, ma un’importante testimonianza del metodo osservativo e del pensiero scientifico di Maggini, che aveva scelto di raccontare il cielo non solo con numeri e formule, ma anche con il colore e la forma. I suoi acquerelli planetari sono oggi considerati veri documenti scientifici, in cui si riconosce un’attenzione minuziosa per i dettagli visivi e per le variazioni atmosferiche registrabili al telescopio. In un’epoca in cui l’imaging elettronico non era ancora disponibile, la capacità di trasporre su carta quanto visto all’oculare rappresentava uno strumento fondamentale per la ricerca. I disegni di Maggini sono apprezzati ancora oggi per l’equilibrio tra precisione tecnica e senso estetico.
Tra le sue opere più rappresentative spicca Il pianeta Marte, del 1939, uno dei pochi volumi italiani dell’epoca interamente dedicati al Pianeta rosso. Ricco di disegni, mappe e confronti osservativi, il libro rappresenta una sintesi del lavoro di un’intera carriera. Le copertine illustrate, realizzate dallo stesso Maggini come proposte per l’editore, rivelano una sensibilità grafica inusuale per un’opera scientifica, e confermano la volontà dell’autore di avvicinare anche il pubblico non specialista alla bellezza dell’indagine astronomica.
In questo contesto si inserisce anche il legame affettivo con la sua famiglia, che trova espressione in un progetto editoriale poco noto ma significativo: Urania, un libro illustrato scritto da Maggini per la figlia, scomparsa prematuramente. Concepito come un racconto divulgativo per bambini, il volume univa contenuti scientifici e illustrazioni originali, nel tentativo di trasmettere la meraviglia del cielo alle nuove generazioni. Il titolo, evocativo e affettuoso, racchiude un doppio significato: Urania è la musa dell’astronomia, ma anche il nome della bambina per cui l’opera era stata pensata. Un gesto intimo che racconta l’uomo dietro lo scienziato.
I volumi di “Misure di Stelle doppie” con la dedica autografa di Schiaparelli. Crediti: C.Badia/Inaf Abruzzo
«Sono profondamente commosso. Questo materiale», ha raccontato Paolo Maggini, «è passato di mano in mano nella mia famiglia fin dagli anni Venti del secolo scorso. Era un debito che mio padre [il figlio di Mentore Maggini, ndr] sentiva verso l’Osservatorio, e che io ho ereditato. Questa, in fondo, è stata un po’ la nostra casa: qui hanno vissuto i miei nonni, mio padre e la sua sorellina Urania, scomparsa giovanissima».
I materiali donati saranno catalogati e resi disponibili per la consultazione nell’ambito dell’archivio storico dell’Osservatorio, recentemente digitalizzato, e sul portale Inaf dei beni culturali Polvere di Stelle, contribuendo così a restituire visibilità e accessibilità a una pagina importante della storia scientifica italiana. In un’epoca in cui la tecnologia domina lo studio dell’universo, il lavoro poliedrico di Maggini ricorda quanto l’occhio umano, armato di curiosità e strumenti modesti, possa cogliere la meraviglia dell’universo traducendosi in gesto creativo, emozione, memoria. «Donare questi documenti significa riportarli nel luogo a cui appartengono, e presto ne seguiranno degli altri», ha concluso Paolo Maggini. «È davvero come tornare a casa».
Einstein Telescope, a Firenze l’ottica adattiva
Nel quadro del progetto Pnrr Etic è stato inaugurato oggi, martedì 13 maggio, il laboratorio di ottica adattiva Adoni-Et all’Osservatorio astrofisico di Arcetri, la sede fiorentina dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf). L’evento inaugurale è stato aperto dai saluti istituzionali di Simone Esposito, direttore dell’Inaf di Arcetri, e Giovanni Passaleva, direttore della sezione di Firenze dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn). A seguire, prima del tradizionale taglio del nastro, Michele Punturo, coordinatore scientifico del progetto Etic e responsabile internazionale di Einstein Telescope (Et), e Armando Riccardi, responsabile di Adoni-Et, hanno illustrato rispettivamente le sfide del progetto Et e del nuovo laboratorio di ottica adattiva.
La realizzazione del laboratorio Adoni-Et rientra nel progetto Einstein Telescope Infrastructure Consortium (Etic), finanziato dal Ministero dell’università e della ricerca (Mur), nell’ambito della Missione 4 del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), di cui l’Infn è capofila. Inaf partecipa al progetto Pnrr Etic attraverso il laboratorio nazionale per ottiche adattive Adoni, che ha nella propria missione il trasferimento delle tecnologie adattive sviluppate per i telescopi ottici in altri campi scientifici. Nel campo degli interferometri gravitazionali come l’Einstein Telescope, l’obiettivo del laboratorio Adoni-Et è studiare un concetto innovativo per la correzione degli specchi di Et, che utilizza fasci infrarossi per controllare la forma di un elemento correttore mediante il riscaldamento locale. È previsto che il sistema funzioni in ciclo chiuso, regolando il riscaldamento locale utilizzando le informazioni di un canale di misura che verifica la forma effettiva degli specchi da controllare.
«Il laboratorio, progettato e realizzato grazie ai fondi del Pnrr-Etic, nasce dall’esperienza consolidata dell’Istituto nazionale di astrofisica e del suo laboratorio Adoni, punto di riferimento a livello nazionale e internazionale nel campo dell’ottica adattiva per applicazioni astronomiche», sottolinea il direttore di Inaf Arcetri Simone Esposito. «Le tecniche sviluppate in questo ambito trovano nuova applicazione nel controllo dei fasci ottici degli interferometri gravitazionali. Il programma Pnrr-Etic ha quindi offerto un impulso molto importante allo sviluppo multidisciplinare dell’ottica adattiva, estendendone l’uso a strumenti scientifici d’avanguardia come gli interferometri gravitazionali».
«Come direttore della Sezione Infn di Firenze, sono particolarmente felice e orgoglioso dell’inizio delle attività del laboratorio Etic-Adoni, presso l’Osservatorio di Arcetri. Etic-Adoni è stato finanziato nell’ambito del progetto Pnrr Etic, con capofila l’Infn, che si occupa dello studio di fattibilità e della caratterizzazione del sito italiano candidato a ospitare Einstein Telescope e della creazione di una rete di laboratori di ricerca per lo sviluppo delle tecnologie che saranno adottate dal nuovo osservatorio gravitazionale, coinvolgendo molte università ed enti di ricerca italiani, tra cui l’Inaf», aggiunge il direttore di Infn Firenze Giovanni Passaleva. «L’Inaf è un partner fondamentale per Etic e con il laboratorio Etic-Adoni giocherà un ruolo chiave, trasferendo le proprie competenze di eccellenza nell’ottica adattiva nell’ambito della ricerca sulle onde gravitazionali. Si aggiunge così un altro tassello all’eccellenza della ricerca fiorentina, che vede Infn e Inaf collaborare insieme a uno dei progetti scientifici più importanti e rivoluzionari dei prossimi decenni, sulla storica collina di Arcetri che ospitò giganti della scienza come Galileo, Fermi, Occhialini, Hack e Pacini».
«I segnali generati dalle onde gravitazionali sono talmente deboli da richiedere strumenti perfettamente isolati e privi di distorsioni ottiche, per evitare che gli effetti di tali “imperfezioni” riducano drasticamente la sensibilità della detezione. Questo è particolarmente vero per l’Einstein Telescope, che si propone di aumentare di un ordine di grandezza la sensibilità rispetto all’attuale generazione di telescopi gravitazionali (Ligo, Virgo), richiedendo soluzioni innovative per il controllo del sistema. In particolare ogni differenza delle ottiche del fascio di misura dalla loro forma ideale, che sia un inevitabile residuo di fabbricazione o una deformazione dovuta alla variazione della loro temperatura, deve essere compensata. L’ottica adattiva ha esattamente questo scopo: agire con un elemento correttore all’interno del sistema per compensare gli effetti delle deformazioni delle ottiche in tempo reale», spiega il responsabile di Adoni-Et Armando Riccardi. «Il laboratorio Adoni-Et, presso l’Osservatorio astrofisico di Arcetri, ha lo scopo di trasferire l’esperienza acquisita in Inaf con le tecniche di ottica adattiva, per la correzione degli effetti della turbolenza atmosferica sulle immagini astronomiche, a Einstein Telescope. In particolare, nel laboratorio stiamo sviluppando e verificheremo la capacità di uno specchio deformabile di modulare la luce di un laser di potenza, per variare la mappa di temperatura di un’ottica da utilizzare come elemento correttore dei fasci di misura di Et (compensation plate) e verificare che le distorsioni del fronte d’onda ottenute siano in accordo con le accuratezze richieste da questo formidabile strumento per la detezione delle onde gravitazionali».
Con questo progetto del laboratorio Adoni, Inaf si candida concretamente a contribuire allo sviluppo di un sistema adattivo per Et anche attraverso la formazione di giovani ricercatrici e ricercatori.
Il consorzio Etic è composto da quattordici università ed enti di ricerca italiani, con l’obiettivo di sostenere la candidatura italiana a ospitare il futuro osservatorio di onde gravitazionali di nuova generazione Einstein Telescope (Et), una delle più grandi e ambiziose infrastrutture di ricerca che saranno costruite in Europa nei prossimi decenni, incluso nella roadmap di Esfri (European Strategy Forum on Research Infrastructure), l’organismo che indica su quali infrastrutture scientifiche è decisivo investire in Europa. A fronte di un investimento totale di 50 milioni di euro, le attività di Etic si stanno concentrando, da un lato, sulla caratterizzazione del sito candidato a ospitare Et, nell’area intorno alla miniera dismessa di Sos Enattos, nel Nuorese, in Sardegna, e dall’altro sulla realizzazione o potenziamento di una rete di laboratori di ricerca per lo sviluppo delle tecnologie che saranno adottate dal nuovo osservatorio gravitazionale.
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Sopravvivere su Venere? Il Pna ce la potrebbe fare
Immagine del pianeta Venere catturata dalla sona Mariner 10 della Nasa nel 1974. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech
Venere, il pianeta “gemello della Terra”, è un mondo estremamente inospitale. Ha una temperatura superficiale che raggiunge i 465 gradi Celsius, sufficiente a fondere il piombo. La sua pressione atmosferica è circa 94 volte quella terrestre, abbastanza da schiacciare qualsiasi cosa non sia stata appositamente progettata per resistere a condizioni così estreme. Inoltre, come se non bastasse, ha un’atmosfera avvolta da dense nubi cariche di acido solforico, una sostanza estremamente corrosiva. Eppure, nonostante queste condizioni proibitive, la possibilità della presenza di vita sul pianeta continua a stimolare l’interesse degli scienziati.
Ne è una dimostrazione un recente studio pubblicato su Science Advances in cui un team di ricercatori guidato da Janusz J. Petkowski, astrobiologo della Wrocław University of Science and Technology (Polonia), ha valutato la capacità dell’acido peptido nucleico – un analogo strutturale del Dna – di resistere in condizioni che simulano l’ambiente acido delle nubi venusiane.
La ricerca, dal titolo “Implicazioni astrobiologiche della stabilità e della reattività dell’acido peptido nucleico (Pna) nell’acido solforico concentrato”, prende spunto da due osservazioni e dai risultati di due studi. La prima osservazione riguarda la complessità strutturale delle molecole biologiche. Una caratteristica universale della vita è l’affidamento delle funzioni biologiche a polimeri complessi, sottolineano i ricercatori. Se gli esseri viventi richiedono queste molecole per portare avanti i loro processi, allora trovare candidati polimeri stabili nelle nubi venusiane è un passo necessario per stabilire la potenziale abitabilità del pianeta. La seconda osservazione ha a che fare con le caratteristiche proprie dell’atmosfera di Venere. Come anticipato, le nubi di Venere sono composte da acido solforico concentrato. Nonostante sia una sostanza corrosiva, diverse ricerche suggeriscono che è possibile che alcune molecole organiche complesse possano sopravvivere in un ambiente così ostile. Per quanto riguarda i due studi, il primo, condotto da un team di scienziati dell’Imperial College di Londra, è quello che riporta la dibattuta scoperta della fosfina – un gas che sulla Terra è prodotto da microbi che prosperano in ambienti privi di ossigeno. Il secondo studio, condotto da un gruppo di scienziati dell’Università Università di Cardiff, riguarda invece la rivelazione di ammonica.
Queste considerazioni, insieme al fatto che negli strati dell’atmosfera di Venere, ad altitudini comprese tra 48 e 60 chilometri, le temperature corrispondono a quelle riscontrate sulla superficie terrestre, hanno spinto gli scienziati a chiedersi se sia possibile che una molecola simile al Dna possa sopravvivere in condizioni analoghe a quelle delle nubi di Venere.
«Sia l’ammoniaca che la fosfina sono biomarcatori, possono cioè indicare la presenza di vita. Ma le nubi di Venere sono assolutamente ostili alla vita come la conosciamo sulla Terra», dice William Bains, ricercatore all’Università di Cardiff e co-autore dello studio. Per questo la nostra ricerca mira a esplorare il potenziale dell’acido solforico concentrato come solvente capace di supportare la chimica complessa necessaria alla vita in nubi apparentemente inabitabili».
In particolare, nello studio i membri del team hanno testato la stabilità e la reattività di un analogo strutturale della molecola del Dna in una soluzione concentrata di acido solforico. La molecola oggetto della ricerca è, come detto, l’acido peptido nucleico (Pna), un polimero a singolo filamento in grado di interagire strettamente e specificamente con il Dna e l’Rna, e per questa caratteristica ampiamente utilizzato come analogo degli acidi nucleici nella ricerca biomedica e in molti altri campi della scienza, compresa l’astrobiologia e le scienze planetarie. Sebbene si tratti di una molecola non presente oggi in natura, si ritiene che possa essere stata la prima macromolecola biologica utilizzata dalla vita sulla Terra.
Dal punto di vista strutturale, l’acido peptido nucleico è una molecola molto simile all’Rna, dal quale differisce però per la struttura che tiene insieme i diversi nucleotidi – i mattoncini che costituiscono gli acidi nucleici: non il classico scheletro zucchero (desossiribosio nel Dna e ribosio nell’Rna)/fosfato, ma un’ossatura fatta di N- (2-amminoetil) glicina (Aeg).
Nel riquadro (A), esameri di Pna composti da sei unità identiche e consecutive delle basi azotate: adenina (A6), guanina (G6), citosina (C6) e timina (T6). Lo scheletro di N- (2-amminoetil) glicina (Aeg) è colorato in rosso, le basi azotate in blu, i linker tra le due sottostrutture in rosa. Nel riquadro (B), le strutture dei monomeri che costituiscono la molecola di Pna: mA , mG , mC e mT. Crediti: Janusz J. Petkowski et al., Science Adavances, 2025
Per esplorare il potenziale della molecola di sopravvivere nelle condizioni delle nubi venusiane, i ricercatori hanno utilizzato quattro filamenti singoli di Pna, ciascuno composto da sei unità identiche (esameri) e consecutive delle basi azotate adenina, guanina, citosina e timina. Successivamente, hanno immerso i campioni in una soluzione di acido solforico al 98 per cento. Infine, hanno valutato la stabilità delle molecole a diverse temperature su scale temporali di ore, giorni e settimane.
Andiamo ai risultati: tutti gli omoesameri di Pna sono sopravvissuti alle concentrazioni testate, mostrando una degradazione inferiore al 28,6 per cento per almeno 14 giorni a temperatura ambiente (da 18 a 25 gradi Celsius), spiegano i ricercatori.
«Si pensa che l’acido solforico concentrato distrugga tutte le molecole organiche e quindi uccida ogni forma di vita, ma non è vero», osserva Petkowski. «Anche se molte biomolecole, come gli zuccheri, sono instabili in un simile ambiente, le nostre ricerche hanno dimostrano finora che altre sostanze presenti negli organismi viventi, come le basi azotate, gli amminoacidi e alcuni dipeptidi, non si degradano. Il nostro studio apre un nuovo capitolo sul potenziale dell’acido solforico come solvente per la vita, dimostrando che il Pna, una molecola complessa strutturalmente simile al Dna e nota per interagire in modo specifico con gli acidi nucleici, mostra una stabilità notevole nell’acido solforico concentrato a temperatura ambiente».
Le cose sono tuttavia cambiate a temperature più elevate: dopo 24 ore di incubazione in acido solforico a 80 gradi Celsius, i ricercatori hanno infatti osservato la completa degradazione (solvolisi) di tutti e quattro gli esameri.
«Il nostro studio dimostra che il Pna non è più stabile in acido solforico a temperature superiori a 50 °C. Pertanto, la nostra futura ricerca si concentrerà sulla creazione di un polimero genetico – una molecola in grado di svolgere il ruolo del Dna per vita sulla Terra – che sia stabile in acido solforico concentrato nell’intervallo di temperatura delle nubi di Venere, tra 0 e 100 gradi Celsius, e non solo a temperatura ambiente».
Aver trovato che una molecola come il Pna è in grado di resistere alle condizioni venusiane simulate naturalmente non significa che l’origine della vita nell’acido solforico concentrato sia possibile. Tuttavia, la possibilità che l’atmosfera di Venere possa supportare la vita basata esclusivamente sull’acido solforico non può essere esclusa. È possibile, ad esempio, che la vita possa usare l’acido solforico concentrato come solvente al posto dell’acqua, assente nell’atmosfera del pianeta.
«Scoprire che il Pna, con le sue somiglianze con il Dna, possa rimanere immerso nell’acido solforico concentrato per ore è davvero sorprendente. È un nuovo tassello di un puzzle molto più grande che ci aiuta a comprendere come la vita, seppur molto diversa dalla nostra, si forma e in quale parte dell’universo potrebbe esistere».
Secondo il team, queste scoperte offrono nuovi modi per comprendere la chimica dell’acido solforico: dimostrando la stabilità di un polimero come il Pna in acido solforico al 98 per cento, sottolineano i ricercatori, abbiamo compiuto un sostanziale passo avanti nell’esplorazione del potenziale di questo acido come solvente in grado di supportare la complessa chimica necessaria per la vita, dimostrando la potenziale abitabilità dell’atmosfera di Venere.
Il nostro lavoro è il primo passo fondamentale verso l’identificazione di un polimero di tipo genetico stabile in questo solvente unico, concludono i ricercatori. Sosteniamo l’idea che l’acido solforico liquido concentrato, sia nelle goccioline liquide delle nubi di Venere che sugli esopianeti, possa sostenere una vasta gamma di reazioni chimiche organiche che potrebbero essere in grado di supportare forme di vita diverse da quelle terrestri.
Per saperne di più:
- Leggi su Science Advances l’articolo “Astrobiological implications of the stability and reactivity of peptide nucleic acid (PNA) in concentrated sulfuric acid”, di Janusz J. Petkowski, Sara Seager, Maxwell D. Seager, William Bains,Nittert Marinus, Mael Poizat, Chad Plumet, Jim van Wiltenburg, Ton Visser e Martin Poeler
Space Jaws: lo squalo spaziale azzanna una stella
Se ne stava appostato, silente e invisibile, apparentemente innocuo, sepolto nel nero degli spazi interstellari in una galassia a seicento milioni di anni luce dalla Terra, pronto a sferrare l’attacco letale. Nel frattempo, da qualche parte nei paraggi, come nella scena di apertura della celebre pellicola di Spielberg del ‘75 una giovane e allegra bagnante si immergeva in un piacevole bagno notturno nelle acque del New England, potremmo supporre che, se fosse dotata di sentimenti umani, con la stessa spensierata noncuranza, una stella andava incontro alla sua morte. L’ha azzannata senza pietà, oltraggiando la sua stellare simmetria, stirandola da parte a parte, sparpagliandone il cadavere in un luminoso disco di accrescimento, prima di inghiottirla e fare pure un bel ruttino. Ruttino che non è passato inosservato agli occhi attenti di diversi telescopi, vera e propria prova del delitto appena consumato, traccia inconfutabile che inchioda il colpevole del cosmico misfatto.
Chi è l’artefice di tale azione feroce? Ma un buco nero, ovviamente. Squalo spaziale (“Space jaws”), lo hanno soprannominato così, quelli della Nasa. Il delitto, invece, in inglese viene detto tidal disruption event (Tde), ovvero evento di distruzione mareale. E ha coinvolto una povera stella che si trovava a transitare nei paraggi. L’impressionante forza di gravità del buco nero è più intensa per la parte della stella più prossima ad esso, mentre la regione più lontana è meno attratta. Questa differenza nella forza gravitazionale, che dà luogo alle cosiddette forze di marea, stira – o, se preferite, spaghettifica – la stella, i cui resti cominciano ad orbitare attorno al buco nero prima di essere inevitabilmente inghiottiti. Questo fenomeno sprigiona una grande quantità di energia – quella che teneramente chiamavamo prima ruttino – che può essere osservata in diverse bande dello spettro elettromagnetico. Quello che era dapprima un invisibile, quiescente, ignoto buco nero in questo modo si palesa, e gli scienziati possono studiarne le proprietà.
Illustrazione artistica che rappresenta le diverse fasi di un evento di distruzione mareale (Tde). Un buco nero supermassiccio inizialmente quiescente (1) cattura gravitazionalmente una stella che si trova nei paraggi (2). Le forze di marea spaghettificano la stella (3) e ciò che ne rimane viene distribuito in un disco di accrescimento che alimenta il buco nero (4). A seguito dell’accrescimento di materia il buco nero sprigiona una gran quantità di energia (5) che lo rende visibile dai telescopi a terra e nello spazio. Nel caso di At2024tvd, il lampo di energia appare spostato rispetto al centro della galassia che ospita il buco nero (6). Crediti: Nasa, Esa, StScI, R. Crawford (Stsci)
Questo qui ha la faccia di un buco nero supermassiccio, grosso quanto un milione di soli. E a differenza della maggior parte dei buchi neri supermassicci, che se ne stanno più e meno vivaci nel centro delle galassie che li ospitano, questo se ne sta discosto, a 2600 anni luce dal nucleo della galassia che lo accoglie. Il cuore di quest’ultima sembrerebbe infatti già occupato da un altro enorme buco nero, cento volte più massiccio di quello che ha provocato l’evento di distruzione mareale, e già noto agli scienziati. Stranamente, i due buchi neri non sono gravitazionalmente legati – vuol dire che in pratica l’uno non avverte l’influenza dell’altro – ma, secondo gli astronomi, è possibile che alla lunga il più piccolo possa spiraleggiare verso il centro della galassia e fondersi con l’altro in un buco nero più grande. Al Tde che ha consentito di scovare il crudele, sebben più piccino, buco nero è stato assegnato il criptico nome di At2024tvd. È la prima volta che un Tde viene localizzato fuori dal centro di una galassia. Lo studio che ne riporta la scoperta verrà presto pubblicato su The Astrophysical Journal Letters.
«At2024tvd è il primo Tde decentrato catturato da survey ottiche del cielo e apre la possibilità di scoprire questa sfuggente popolazione di buchi neri vaganti con future survey», dice la prima autrice dello studio, Yuhan Yao, dell’University of California a Berkeley. «Al momento, i teorici non hanno prestato molta attenzione ai Tde spostati dal centro. Credo che questa scoperta motiverà gli scienziati a cercare altri esempi di questo tipo di evento.»
Come si diceva agli inizi, l’episodio cruento è stato immortalato da diversi telescopi situati sulla Terra, che quotidianamente scandagliano l’intera volta celeste. Un luminoso e improvviso lampo, così si è presentato al mondo ignaro, simile a quelli sprigionati dalle esplosioni di supernova. Solo che in questo caso il lampo era particolarmente energetico e presentava larghe righe di emissione di svariati elementi chimici, segno inequivocabile della presenza di un buco nero supermassiccio. È stato lo specchio da poco più di un metro del telescopio ottico Zwicky Transient Facility, dell’Osservatorio di Monte Palomar, e che scandaglia ogni 48 ore l’intero emisfero celeste boreale, a notare per primo che qualcosa di anomalo stava accadendo, a diverse centinaia di milioni di anni luce dalla nostra galassia.
«Gli eventi di distruzione mareale sono molto promettenti per “illuminare” la presenza di buchi neri massicci che altrimenti non saremmo in grado di rivelare», spiega Ryan Chornock, professore associato a Berkeley e membro del team del telescopio che ha scoperto At2024tvd. «Gli astrofisici teorici hanno previsto che debba esistere una popolazione di buchi neri massicci situati lontano dai centri delle galassie, ma ora possiamo usare i Tde per trovarli.»
Da un confronto con dati preesistenti gli astronomi hanno notato lo scostamento del Tde dal centro della galassia ospitante. Un indizio ulteriore è venuto dal Chandra X-ray Observatory, che ha monitorato il brillamento della sorgente, visibile anche nei raggi X, rivelando anch’esso una posizione dell’evento non coincidente con il centro della galassia. Per fugare ogni dubbio, gli scienziati hanno osservato la sorgente di energia con il telescopio spaziale Hubble, sensibile stavolta alla componente ultravioletta del Tde, e sfruttandone la sopraffina risoluzione angolare, hanno potuto determinare con estrema accuratezza l’origine dell’evento, che si è confermato spostato rispetto al centro.
La galassia ospite dell’evento di distruzione mareale (Tde). Il buco nero supermassiccio responsabile del Tde è spostato rispetto al centro della galassia, come rivela il lampo di luce emesso in occasione del Tde. L’immagine, che mostra la posizione accurata del Tde, è stata realizzata col telescopio Hubble nell’ultravioletto. Crediti: Nasa, Esa, StScI, Y. Yao (Uc Berkeley); Elaborazione: J. DePasquale (Stsci)
Come ci sia finito là, lontano dal centro, gli scienziati ancora non se lo spiegano. Un’ipotesi la racconta Yao e avrebbe a che fare con altri due buchi neri supermassicci: «Se il buco nero ha subito una tripla interazione con altri due buchi neri nel nucleo della galassia, può comunque rimanere legato ad essa, orbitando attorno alla regione centrale». Un secondo scenario tira in ballo una passata fusione (merger) tra la galassia in cui il buco nero risiede attualmente e una galassia più piccola, fusione avvenuta oltre un miliardo di anni fa. Il buco nero responsabile del Tde non era altro che il buco nero centrale della piccola galassia interagente. Se così stanno le cose, gli scienziati prevedono che i due buchi neri supermassicci prima o poi si uniranno, nel centro della galassia attuale.
In futuro, strumenti come il Vera Rubin Observatory e Nancy Grace Roman Space Telescope consentiranno di osservare numerosi fenomeni transienti, eventi che si accendono all’improvviso e poi si placano, come quello che ha visto protagonista il buco nero di questa scoperta.
Potrebbe farlo ancora? Di mangiarsi una stella, s’intende. Certamente sì. Il quando non lo sappiamo. Il temibile tema di John Williams, due note sole per evocare il terrore assoluto di una minaccia che non si vede, continua a suonare. Nel nero impenetrabile degli spazi tra le stelle, nulla possono ardite spedizioni di sceriffi, cacciatori di squali e biologi marini. Il buco nero è ancora in agguato. E aspetta.
Per saperne di più:
- Leggi il preprint dell’articolo in uscita su The Astrophysical Journal Letters “A Massive Black Hole 0.8 kpc from the Host Nucleus Revealed by the Offset Tidal Disruption Event AT2024tvd”, di Yuhan Yao, Ryan Chornock, Charlotte Ward, Erica Hammerstein, Itai Sfaradi, Raffaella Margutti, Luke Zoltan Kelley, Wenbin Lu, Chang Liu, Jacob Wise, Jesper Sollerman, Kate D. Alexander, Eric C. Bellm, Andrew J. Drake, Christoffer Fremling, Marat Gilfanov, Matthew J. Graham, Steven L. Groom, K. R. Hinds, S. R. Kulkarni, Adam A. Miller, James C. A. Miller-Jones, Matt Nicholl, Daniel A. Perley, Josiah Purdum, Vikram Ravi, R. Michael Rich, Nabeel Rehemtulla, Reed Riddle, Roger Smith, Robert Stein, Rashid Sunyaev, Sjoert van Velzen e Avery Wold
Nicer e Xmm-Newton prendono il polso ad Ansky
Immagine ottenuta dalla Sloan Digital Sky Survey che mostra, al centro, Sdss 1335+0728, la galassia che ospita il buco nero supermassiccio Ansky, le cui eruzioni quasi periodiche sono oggetto dello studio. Crediti: Sloan Digital Sky Survey
Gli addetti ai lavori le chiamano eruzioni quasi periodiche, quasi-periodic eruption (Qpe), in inglese. Sono potenti esplosioni di raggi X che si ripetono periodicamente su scale temporali che vanno da poche ore a settimane, generate da buchi neri supermassicci situati al centro di galassie di piccola massa.
Utilizzando i dati raccolti da diversi telescopi per raggi X, un team di ricercatori e ricercatrici guidati dal Massachusetts Institute of Technology ha ora studiato, per la prima volta, l’ambiente fisico in cui si verificano queste emissioni, migliorando la comprensione del meccanismo che ne è alla base. I risultati dello studio, pubblicati la settimana scorsa sulla rivista The Astrophysical Journal, confermano quanto precedentemente ipotizzato dagli scienziati: alcune Qpe sarebbero causate dalle collisioni periodiche di un corpo orbitante di massa stellare con il disco di accrescimento del buco nero.
Il punto di partenza della ricerca è stata l’osservazione del buco nero supermassiccio soprannominato Ansky, un gigante cosmico da un milione di masse solari situato a 300 milioni di anni luce di distanza dalla Terra, in direzione della costellazione della Vergine.
Posizionato al centro della galassia Sdss 1335+0728, l’oggetto compatto ha fatto parlare di sé nel 2019, quando, dopo decenni di quiescenza, è improvvisamente tornato attivo, emettendo radiazione a diverse lunghezze d’onda e trasformando la galassia ospite in un nucleo galattico attivo. Ma è nel febbraio del 2024 che gli astronomi hanno notato qualcosa di strano: un’emissione di raggi X a intervalli quasi regolari. Per gli scienziati non ci sono dubbi: si tratta di emissioni quasi periodiche, una classe di brillamenti di raggi X a bassa energia, di breve durata, la cui origine resta tuttora incerta, nonostante le diverse ipotesi formulate.
Il buco nero supermassiccio Ansky è una delle dieci sorgenti di eruzioni quasi periodiche identificata finora. Tra tutte, è la più interessante: le sue emissioni ricorrenti sono le più energetiche che si conoscano. Inoltre, mostrano la cadenza e la durata più lunghe mai osservate, pari a 4,5 e 1,5 giorni rispettivamente.
Proprio le straordinarie caratteristiche dei lampi ricorrenti di raggi X di Ansky hanno spinto Joheen Chakraborty, ricercatore al Massachusetts Institute of Technology, e i suoi colleghi, tra cui gli italiani Riccardo Arcodia, Margherita Giustini, Giovanni Miniutti e Claudio Ricci, a studiare in dettaglio il buco nero, ottenendo informazioni utili a comprendere meglio la natura di queste emissioni.
Fotogramma del video Nasa che mostra l’oggetto di massa stellare (il pallino bianco) in orbita attorno al buco nero supermassiccio Ansky (rappresentato dal pallino nero). Impattando ripetutamente sul disco di accrescimento che circonda il buco nero, l’oggetto celeste produrrebbe degli shock che sarebbero alla base delle eruzioni quasi periodiche osservate nello studio. Crediti: Nasa.
Il meccanismo che genera le Qpe è infatti non del tutto conosciuto. Una delle teorie più accreditate circa la loro origine coinvolge un oggetto di massa stellare la cui orbita incrocia quella del buco nero. Secondo questa ipotesi, i brillamenti di raggi X quasi periodici sarebbero il prodotto di shock collisionali provocati dal corpo celeste che attraversa ripetutamente il disco di accrescimento del buco nero. Il meccanismo proposto è questo: a ogni orbita, l’oggetto di massa stellare perturberebbe il disco di accrescimento dell’oggetto compatto. Le interazioni, due per ogni giro, genererebbero onde d’urto che riscaldano localmente il disco, provocando l’espulsione di materia che emette nei raggi X. Le successive interazioni tra l’oggetto e il disco darebbero origine a nuove espulsioni di gas caldo, visibili come emissioni quasi-periodiche nei raggi X. In questo scenario, le emissioni si ripeterebbero fino alla scomparsa del disco o alla disintegrazione dell’oggetto in orbita, un processo che potrebbe richiedere anche alcuni anni. Orbiter–disk collision model: è così che gli scienziati chiamano questo modello.
Grazie ai dati raccolti dai telescopi spaziali Nicer della Nasa e Xmm-Newton dell’Esa, il team di ricerca ha analizzato le variazioni nell’intensità dei raggi X emessi da Ansky e mappato la rapida evoluzione del materiale espulso, confermando, almeno per Ansky, la validità del modello proposto.
«Le Qpe sono fenomeni misteriosi e di grande interesse», sottolinea Joheen Chakraborty. «Uno degli aspetti più affascinanti è la loro natura quasi periodica. Stiamo ancora sviluppando le metodologie e i modelli necessari per comprenderne le cause, e le proprietà insolite di Ansky ci stanno aiutando a perfezionare questi strumenti». I ricercatori hanno scoperto che ad ogni collisione tra l’oggetto compagno e il disco del buco nero viene espulsa una massa pari a quella di Giove. Le analisi indicano anche che il plasma viene rapidamente accelerato dalla pressione di radiazione ed eiettato a velocità che i ricercatori calcolano sia pari a circa il 15 per cento della velocità della luce. Nel corso dell’eruzione, inoltre, la massa di materiale espulso viene dispersa radialmente, espandendosi con una geometria sferica.
Margherita Giustini, ricercatrice al Centro de Astrobiología di Madrid e co-autrice dello studio pubblicato la scorsa settimana su ApJ
«I modelli più accreditati per spiegare l’origine delle eruzioni quasi-periodiche di raggi X sono collegati all’attività del buco nero supermassiccio che si trova al centro delle galassie ospiti», spiega a Media Inaf la co-autrice dello studio Margherita Giustini, ricercatrice italiana oggi al Centro de Astrobiología di Madrid. «Una classe di modelli spiega le eruzioni con un corpo/oggetto di piccola massa (ad esempio una stella, o un piccolo buco nero) in orbita attorno al buco nero centrale; altri tipi di modelli invocano instabilità magnetiche del flusso di materia in accrescimento sul buco nero. Nel caso di Ansky, il modello più plausibile per spiegare le osservazioni è lo scenario in cui una stella impatta ripetutamente sul disco di accrescimento che circonda il buco nero supermassiccio centrale della galassia. Ad ogni impatto sono prodotti degli shock che provocano l’espansione di nubi di gas molto caldo, che osserviamo brillare in raggi X. L’orbita della stella non perfettamente circolare, e i forti effetti gravitazionali dovuti alla presenza del buco nero supermassiccio centrale, fanno sì che le eruzioni di raggi X non siano perfettamente periodiche, bensì quasi-periodiche».
L’auspicio dei ricercatori è che in futuro si riescano a perfezionare i modelli che descrivono questi sistemi, migliorando così la capacità di studiarne le emissioni. Secondo Giustini, per fare ciò «sarà fondamentale avere a disposizione telescopi spaziali con una grande capacità di raccolta di raggi X “soffici” (ovvero fotoni con energia compresa tra circa 200 e 2000 eV) e capaci di osservare sorgenti cosmiche per lunghi periodi di tempo: in questa maniera potremo studiare in dettaglio l’evoluzione dell’emissione delle sorgenti di eruzioni quasi-periodiche di raggi X, e forse svelare i misteri della dinamica dei nuclei delle galassie e dei loro buchi neri supermassicci. In questo senso», conclude la ricercatrice, «Ansky è una sorgente davvero spettacolare, che potrà aiutarci a comprendere meglio alcuni dei fenomeni più misteriosi che l’universo ci ha svelato negli ultimi anni».
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “Rapidly Varying Ionization Features in a Quasi-periodic Eruption: A Homologous Expansion Model for the Spectroscopic Evolution” di Joheen Chakraborty, Peter Kosec, Erin Kara, Giovanni Miniutti, Riccardo Arcodia, Ehud Behar, Margherita Giustini, Lorena Hernández-García, Megan Masterson, Erwan Quintin, Claudio Ricci e Paula Sánchez-Sáe
- Leggi su Media Inaf l’articolo “Quando un buco nero si risveglia” (11 aprile 2025)
Guarda il video (in inglese) sul canale YouTube della Nasa:
Al cospetto di Eos, gigantesca nube molecolare
Se si manifestasse nel cielo buio in tutta la sua magnificenza, Eos, nube molecolare scoperta da un gruppo di ricercatori guidati da Blakesley Burkhart e Thavisha Dharmawardena, sovrasterebbe buona parte dello skyline di New York, come ci racconta questa immagine. Che vuol rendere l’idea della vastità di questa struttura che sovrasta le nostre inconsapevoli teste.
Rappresentazione artistica della nube molecolare Eos sui cieli di New York. La nube è invisibile ai nostri occhi perché emette luce nel lontano ultravioletto. Crediti: NatureLifePhoto/Flickr (New York City Skyline), Burkhart et al. 2025
Inconsapevoli perché, differentemente da quella delle stelle che punteggiano le notti terrestri, la luce prodotta da Eos è invisibile ai nostri occhi. E in verità anche a quelli di molti strumenti. Tant’è che solo ora gli scienziati ne scoprono l’esistenza, benché si tratti a tutti gli effetti di una nostra dirimpettaia cosmica. Solo trecento anni luce separano infatti Eos dalla Terra. Eppure egregia è stata nascondersi, fino a che i ricercatori non l’hanno guardata con gli occhi giusti. Occhi sensibili all’ultravioletto lontano, come quelli dello spettrografo Fims-Spear, a bordo del satellite coreano Stsat-1. Che hanno visto, per la prima volta, l’emissione delle molecole di idrogeno che compongono la nube.
La scoperta ha ricevuto anche l’attenzione del New York Times ed è stata pubblicata su Nature Astronomy alla fine di aprile. «Questa è la prima nube molecolare in assoluto scoperta osservando direttamente l’emissione nel lontano ultravioletto dell’idrogeno molecolare», dice Burkhart, professoressa associata presso la School of Arts and Sciences della Rutgers University nel New Jersey, Stati Uniti. «I dati hanno mostrato molecole di idrogeno luminose rilevate tramite fluorescenza nell’ultravioletto lontano. Questa nube sta letteralmente brillando nel buio». Non a caso i suoi scopritori le hanno attribuito il nome della dea greca dell’aurora. Eos apre nuovi, inaspettati scenari nello studio delle nubi molecolari.
È un fatto inedito, quello di stanare una nube molecolare in virtù della sua radiazione ultravioletta. Le nubi molecolari, dense strutture di gas freddo, costituiscono la materia prima per generare le stelle. Il loro ingrediente principale è l’idrogeno molecolare, seguito, in misura molto minore, da altre molecole come il monossido di carbonio (in formula chimica, CO). E proprio quest’ultimo, visibile da terra con relativa facilità utilizzando strumenti operanti nel radio e alle lunghezze d’onda millimetriche – uno fra tutti, l’interferometro Alma –, viene da anni utilizzato come tracciante di queste importanti regioni, culle di nuove stelle e sistemi planetari.
Esempio di una nube molecolare (in questo caso M16) vista dal telescopio Hubble. Crediti: Nasa, Esa, StScI, J. Hester e P. Scowen (Arizona State University)
Esistono delle “ricette” che gli scienziati utilizzano per convertire la luce emessa dal monossido di carbonio nella massa di idrogeno molecolare della nube, che come si diceva è il costituente che fa da padrone in queste regioni. Si ricorre a questi metodi un po’ tortuosi per stabilire quanto idrogeno molecolare è presente in quanto osservare direttamente questa componente del mezzo interstellare è opera decisamente ardua. Per questo lo studio di Burkhart e collaboratori fa notizia, perché anziché “fare il giro” del monossido di carbonio, gli scienziati sono andati a guardare dritta in viso l’emissione delle molecole di idrogeno. Aprendo nuove strade per lo studio delle nubi molecolari.
«L’uso della tecnica di emissione di fluorescenza nell’ultravioletto lontano potrebbe riscrivere la nostra comprensione del mezzo interstellare, svelando nubi nascoste nella [nostra] galassia e persino fino ai limiti più lontani rilevabili all’alba cosmica», spiega Dharmawardena, fellow del programma Nasa Hubble presso la New York University, co-prima autrice dello studio.
Anche volendo, il monossido di carbonio in questa nube proprio non si vede. CO-dark, vengono dette le nubi che contengono poco monossido di carbonio e che eludono dunque le tecniche convenzionali per rivelarle. Questo spiega perché Eos sia stata scoperta solo adesso, nonostante la sua prossimità al Sistema solare. Si tratta infatti di una delle strutture più vicine al nostro sistema planetario ed è situata al bordo della Bolla Locale, una cavità del mezzo interstellare che ci accoglie al suo interno. Gli astronomi hanno stimato per Eos una massa pari a 3400 volte quella del Sole, e un’estensione della nube sul piano del cielo larga quanto quaranta lune piene.
Rappresentazione artistica della Bolla Locale, una cavità svuotata di gas all’interno della quale giace il Sistema solare. Crediti: Leah Hustak (StScI)/Cfa
Il gruppo di ricercatori spera di rivelare nuove nubi molecolari come Eos, che sfuggono alle tecniche canoniche. E di svelarne a distanze decisamente più remote, che tracciano epoche prossime al Big Bang. Studiare il gas molecolare è fondamentale per comprendere i processi che portano alla formazione delle stelle e dei sistemi planetari nel corso della vita dell’universo. Utilizzando il James Webb Space Telescope (Jwst), Burkhart assieme ad altri scienziati potrebbe aver rivelato l’emissione di idrogeno molecolare più lontana mai osservata. «Utilizzando Jwst, potremmo aver trovato le molecole di idrogeno più lontane dal Sole. Quindi, abbiamo trovato sia alcune delle molecole più vicine sia alcune di quelle più lontane, utilizzando l’emissione nel lontano ultravioletto», conclude la scienziata.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “A nearby dark molecular cloud in the Local Bubble revealed via H2 fluorescence” di Blakesley Burkhart, Thavisha E. Dharmawardena, Shmuel Bialy, Thomas J. Haworth, Fernando Cruz Aguirre, Young-Soo Jo, B-G Andersson, Haeun Chung, Jerry Edelstein, Isabelle Grenier, Erika T. Hamden, Wonyong Han, Keri Hoadley, Min-Young Lee, Kyoung-Wook Min, Thomas Müller, Kate Pattle, J. E. G. Peek, Geoff Pleiss, David Schiminovich, Kwang-Il Seon, Andrew Gordon Wilson e Catherine Zucker
Dal Mur quasi 27 milioni per lo studio delle stelle
Un finanziamento di quasi 27 milioni di euro per la realizzazione di laboratori, la riqualificazione di spazi per la ricerca e per la divulgazione. Sono le risorse destinate per il 2025 all’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) dal Ministero dell’università e la ricerca (Mur) nell’ambito del Fondo per l’edilizia e le infrastrutture di ricerca per gli enti di ricerca.
Il ministro Anna Maria Bernini ha firmato il decreto che va a ripartire la nuova annualità che ha una dotazione complessiva di 94 milioni di euro. «I nostri enti di ricerca sono gioielli, un vanto per l’Italia, un riferimento scientifico a livello internazionale», spiegaBernini. «Noi abbiamo la responsabilità di far sì che queste eccellenze possano crescere e proseguire nel percorso intrapreso. È necessario poter garantire risorse per nuovi progetti, finanziare infrastrutture sempre più complesse, sostenere le tecnologie più avanzate. Il nuovo finanziamento di 94 milioni del Fondo dell’edilizia e di ammodernamento delle infrastrutture di ricerca va in questa direzione. Permette agli enti scientifici di rafforzare le loro attività di studio e di aprire nuovi fronti di studio capaci di generare concrete e positive ricadute per migliorare la qualità della vita. Vogliamo dare continuità a un lavoro già eccellente, fiore all’occhiello del Paese. Noi ci crediamo. E i risultati si ottengono credendoci».
94 milioni di euro per la ricerca scientifica italiana.Nuove risorse, relative alla nuova annualità 2025, per potenziare le infrastrutture di 10 Enti di Ricerca: un investimento concreto per affrontare le grandi sfide del presente e costruire il futuro. pic.twitter.com/khtQXFmBE7
— Ministero dell’Università e della Ricerca (@mur_gov_) May 11, 2025
«È con grande soddisfazione che accogliamo questo stanziamento», commenta Roberto Ragazzoni, presidente dell’Istituto nazionale di astrofisica, «che consente di continuare a dare forma ai tanti interventi di ammodernamento strutturale e tecnologico presso gli osservatori di Torino, Milano, Padova, Firenze, Roma (assieme anche all’Istituto di astrofisica e planetologia spaziali), Napoli, Catania e Palermo. In un momento così trasformazionale dell’astronomia, l’Inaf riqualifica, valorizza, acquisisce e costruisce spazi per studi, laboratori, aree per la divulgazione attraverso progetti che interessano l’intera nazione».
I 94 milioni di euro del Fondo per l’edilizia e le infrastrutture di ricerca sono stati ripartiti tenendo conto delle richieste e dei progetti formulati da ciascun ente per interventi di edilizia e di ammodernamento delle infrastrutture scientifiche. Per ciascun ente, il monitoraggio delle risorse assegnate sarà effettuato tenendo conto del cronoprogramma delle attività da realizzare sulla base dello stesso finanziamento concesso.
Buchi neri: sono davvero oggetti singolari?
Il terreno nel quale devono incontrarsi e raccordarsi le due grandi teorie della fisica moderna, la Relatività generale e la fisica quantistica, è il luogo più sconosciuto dell’universo: il centro dei buchi neri. Più precisamente, tutto quel che c’è dentro l’orizzonte degli eventi, il limite osservabile oltre il quale la luce stessa è catturata dalla gravità e non può più uscire, oggi conosciuto come singolarità. Il terreno nel quale si sono incontrati fisici di tutto il mondo per parlarne, invece, è Trieste. È successo nel novembre 2024, e dalla discussione è nato un articolo, pubblicato questa settimana nel Journal of Cosmology and Astroparticle Physics. Fra gli organizzatori dell’incontro e coautori dell’articolo c’è anche Stefano Liberati, nato a Roma e ora professore ordinario alla Sissa di Trieste. L’abbiamo raggiunto durante un meeting di lavoro a Bruxelles, per farci raccontare di più su questa discussione.
Stefano Liberati, professore ordinario di fisica delle particelle alla Sissa, Trieste. Attualmente è presidente della Sigrav – Società italiana di relatività generale e fisica gravitazionale, direttore dell’Ifpu – Istituto di fisica fondamentale dell’universo, e coordinatore nazionale dell’iniziativa specifica Infn Quagrap sulla fenomenologia della gravità quantistica. È anche membro del consiglio scientifico di Sissa MediaLab e svolge attività editoriale per le riviste internazionali Jcap, Universe, e Proceedings of the Royal Society A. Crediti: Stefano Liberati
Innanzitutto, cos’è una singolarità?
«È una regione dove la Relatività generale non è predittiva e quindi sono punti dove lo spaziotempo non è definito. A volte si dice che la curvatura dello spaziotempo e la densità di energia esplodono (vanno all’infinito) ma a essere rigorosi non c’è un “lì” ben definito. Possiamo solo dire che “lì” gli aspetti quantistici della gravità non sono trascurabili».
Per questo nell’incontro che avete fatto lo scorso novembre avete parlato di buchi neri “alternativi” a quelli descritti dalla Relatività generale?
«I buchi neri descritti dalla Relatività generale sono strutture “incomplete”. Solitamente si presume che qualunque effetto esercitato dalla gravità quantistica sulla singolarità non influenzi le osservazioni esterne. Tuttavia, il fatto che differenti modi di “completare” la soluzione di un buco nero possano generare fenomenologie diverse, potenzialmente testabili in futuro, sfida questo presupposto. In altre parole, potremmo ottenere indizi su ciò che accade alla singolarità senza dover necessariamente accedere alla regione “singolare” stessa».
Quindi le altre soluzioni che avete discusso si allontanano dalla Relatività o la includono?
«Le soluzioni che abbiamo discusso sono, se vuole, anche una conseguenza dei limiti della Relatività Generale e di quanto ci aspettiamo dagli effetti della gravità quantistica, che generalmente evitano la formazione della singolarità: la relatività generale è incompleta perché prevede un punto dove non è più predittiva, ma gli effetti della gravità quantistica suggeriscono come estendere lo spaziotempo oltre quel punto e ottenere oggetti regolari (nel senso di non-singolari)».
Queste teorie alternative, che voi chiamate appunto non-singolari dato che evitano l’esistenza di una singolarità al centro del buco nero, sono una novità recente?
«Sebbene idee di questo tipo siano presenti fin dalla fine degli anni Sessanta, nell’ultimo decennio questo studio ha avuto un impulso importantissimo grazie all’osservazione diretta delle onde gravitazioni e alle immagini dei buchi neri prodotte dall’Event Horizon Telescope. Come dicevamo, non stiamo parlando di teorie alternative, ma dell’idea che gli effetti quantistici della gravità debbano in ultima istanza evitare la realizzazione di una singolarità, regolarizzandola e producendo quindi uno spaziotempo ovunque ben definito, regolare. Questi oggetti possono essere esteriormente molto simili ai buchi neri della relatività generale ma non completamente uguali e quindi offrono una possibilità di testare indirettamente deviazioni dalla teoria standard».
Vogliamo descriverle, allora, queste altre possibilità generate dalla gravità quantistica?
«Ce ne sono, essenzialmente, tre. Una prima possibilità è che si produca un buco nero con un orizzonte esterno (il bordo oltre il quale neanche la luce può sfuggire) ma che abbia anche un orizzonte interno. All’interno di questo secondo orizzonte si ha una regione regolare con una metrica spesso (ma non necessariamente) simile a quella di un universo in espansione. Per analogia pensi a una pesca: il bordo esterno è il solito orizzonte del buco nero, il bordo interno della polpa è l’orizzonte interno e il nocciolo è la regione con una metrica cosmologica che “supporta” l’intera struttura e previene che collassi. Questi sono i tipici buchi neri regolari».
Rappresentazione schematica di un buco nero che ammette una regione di “singolarità” al centro (a sinistra), secondo la Relatività generale, e delle due alternative non singolari: il buco nero regolare con due orizzonti, uno interno e uno esterno (al centro), e il wormhole (a destra). Crediti: Sissa Medialab/ Immagine di sfondo di Eso/Cambridge Astronomical Survey Unit (eso.org/public/images/eso1101a…)
E fra i due orizzonti, ovvero nella “polpa”, che cosa c’è?
«C’è la regione di intrappolamento, ovvero la regione dove anche i raggi di luce che tenderebbero ad andare verso l’estero sono curvati verso l’interno, fino ad accumularsi sull’orizzonte interno. Dentro l’orizzonte interno i raggi di luce si possono invece muovere verso l’esterno, ma finiscono per accumularsi dietro l’orizzonte interno senza attraversarlo».
La seconda?
«Una seconda alternativa è che invece di un orizzonte interno (un bordo interno della regione dalla quale neppure la luce può scappare) ci sia un raggio minimo e che oltre quello tutto si inverta, ovvero che tutto quello che collassando raggiunge quel raggio da li in poi si riespanda. Questo è il caso in cui all’interno dell’orizzonte del buco nero ci sia un wormhole ovvero un passaggio che si connette con una regione che espelle tutto quello che è stato ingoiato dal buco nero. Questa è un tipo di soluzione che si può descrivere anche come una transizione da buco nero a buco bianco di cui, per esempio, ha parlato anche Rovelli in un suo recente libro. Alcuni modelli di gravità quantistica favoriscono questa soluzione, che noi chiamiamo black-bounces o hidden wormholes».
Ma questi hidden wormholes potrebbero esistere davvero?
«In realtà al momento delle tre possibilità questa sembra quella meno afflitta da potenziali instabilità, anche se è presto per dirlo definitivamente. Se ci fossero instabilità, oggetti ultracompatti senza orizzonte corrispondenti agli hidden wormholes sarebbero dei wormholes come quello di Interstellar, se ha visto il film. Ovvero un’evoluzione degli hidden wormholes potrebbe lasciare come relitto un wormhole attraversabile. Ma non abbiamo evidenza al momento di un meccanismo che comporti tale evoluzione».
L’ultima?
«Infine, un’altra possibilità, la più radicale, è che l’oggetto non possieda neppure un orizzonte, risultando simile a una stella, ma estremamente più compatto, persino rispetto a una stella di neutroni. Esistono soluzioni statiche di questo tipo, generalmente sostenute da effetti quantistici del vuoto. Tuttavia, non è ancora stato dimostrato che tali oggetti possano formarsi direttamente attraverso un collasso gravitazionale. È anche ipotizzabile che, poiché un buco nero regolare è soggetto a una serie di instabilità legate al suo orizzonte interno, possa evolvere in un tale oggetto privo di orizzonte».
Una domanda un po’ provocatoria: queste soluzioni parlano sempre di cose che sono dentro l’orizzonte degli eventi. Ma se quella regione non è esplorabile a livello osservativo, come facciamo a capire se una di queste è valida? Non si corre il rischio che sia pura speculazione?
«Il punto è che le modifiche all’interno dell’orizzonte comportano una soluzione che, globalmente, è leggermente diversa da quella della Relatività generale e quindi, almeno in teoria, testabile con osservazioni esterne: sia attraverso le onde gravitazionali che potrebbe emettere, sia attraverso le caratteristiche della sua ombra/immagine. È su queste possibilità che molta ricerca si sta concentrando al momento. Per trovare qualcosa bisogna sapere dove andare a cercarla».
Per saperne di più:
- Leggi su Journal of Cosmology and Astroparticle Physics l’articolo “Towards a Non-singular Paradigm of Black Hole Physics“, di Raúl Carballo-Rubio, Francesco Di Filippo, Stefano Liberati e Matt Visser
Campionati di astronomia, ecco i 18 vincitori
Urania, la mascotte dei Campionati nazionali 2025. Crediti: Giulia Iafrate
I partecipanti lo avevano indovinato: quest’anno la mascotte della finale nazionale dei 23esimi Campionati italiani di astronomia, che si è tenuta a Giulianova e Teramo dal 6 all’8 maggio 2025, era il pastore abruzzese Urania. La gara, alla quale hanno preso parte 90 studenti e studentesse provenienti da tutta Italia, è il punto di arrivo di un percorso iniziato a novembre 2024 con 9754 partecipanti da 326 scuole, comprese cinque scuole italiane all’estero. La fase di preselezione di dicembre 2024 ha ridotto i concorrenti a 1128, rimasti poi in 90 al termine della gara interregionale, che si è svolta a febbraio 2025.
I partecipanti alla finale nazionale – divisi in quattro categorie: 22 Junior 1, 22 Junior 2, 32 Senior e 14 Master – hanno dovuto aiutare Urania e il suo amico pastore delle Alpi Wolfgang a calcolare le coordinate delle stelle Arturo e Markab. E non solo: hanno anche dovuto salvare la Terra dall’impatto dell’asteroide Werewolf, calcolare con quale velocità il campione di discesa libera su Marte taglia il traguardo lungo la pista del Monte Olimpo, studiare le orbite delle stelle di un sistema binario, calcolare la magnitudine dell’ammasso M13 osservato da un pianeta al suo centro e disegnare l’analemma (il percorso apparente del Sole in cielo nel corso dell’anno) se l’asse terrestre fosse perpendicolare all’eclittica. Ps: se volete sapere la risposta all’ultimo quesito, il Sole si muoverebbe avanti e indietro su un segmento orizzontale! Le due prove, teorica e pratica, si sono svolte presso il liceo scientifico “Albert Einstein” di Teramo, con problemi di difficoltà e contenuti diversi a seconda della categoria.
Tutto questo in poche ore e, soprattutto, senza alcun aiuto: niente computer, niente telefonini e niente appunti. Solo carta, penna, righello, calcolatrice e cervelli fumanti, ma con una straordinaria dose di studio, concentrazione e una travolgente passione per l’astronomia!
La Finale ha avuto inizio con la cerimonia di apertura, martedì 6 maggio, presso il palazzo Kursaal di Giulianova. Nell’occasione sono stati premiati i plurifinalisti, alcuni dei quali anche con 5 o 6 esperienze alle spalle, ed è intervenuta la professoressa Marica Branchesi, ordinario di astrofisica presso il Gran Sasso Science Institute, che ha raccontato l’avvincente scoperta delle onde gravitazionali.
Le prove si sono svolte il giorno successivo a Teramo e, appena finite, sono iniziate le valutazioni, che hanno visto la giuria – composta da Giuseppe Cutispoto, Silvia Galleti, Giulia Iafrate, Marco Lucente, Agatino Rifatto, Daniele Spiga e Gaetano Valentini, tutti dell’Inaf, e Angela Misiano della Sait Planetario di Reggio Calabria – fare notte fonda per avere la classifica pronta per la mattina successiva, giovedì 8 maggio, in modo da procedere alla stampa dei diplomi in tempo per la cerimonia di chiusura, che si è tenuta nel pomeriggio sempre nel palazzo Kursaal.
Nel frattempo, la mattina dell’8 maggio, i partecipanti e i loro docenti si sono sfidati nelle astronomiadi: veloci tornei di beach volley, calcio balilla e padel in riva al mare. Eclatante il risultato della partita di beach volley in cui i docenti hanno battuto i loro studenti 21 a 18.
I vincitori dei 23esimi Campionati italiani di astronomia. Da sinistra in piedi: Gaia Palumbo, Ilenia Trunfio, Nicola Bortoluzzi, Gabriele Lambertini, Francesco Leccese, Luca Di Maria, Giulio Dandrea, Ettore Costantini, Alessandro Fabi, Davide Barberi. Da sinistra davanti: Matteo Cerrano, Rachele Pia Matarazzi, Irene Di Egidio, Andrea Di Silvestro, Chiara De Paoli. Nella foto sono assenti Luca Rucco, Riccardo Brunetta e Andrea Cusimano. Crediti: Giulia Iafrate/Inaf
Nel corso della cerimonia di chiusura è stata nominata la squadra nazionale che rappresenterà l’Italia alle Olimpiadi internazionali di astronomia e astrofisica (Ioaa) che si svolgeranno a Piatra Neamț (Romania) dal 18 al 25 ottobre per la categoria Junior 2 e a Mumbai (India) dall’11 al 21 agosto per le categorie Senior e Master. I dieci azzurri, selezionati fra i 18 vincitori dei Campionati nazionali, sono: Gaia Palumbo (Junior 2), Liceo scientifico “Leonardo da Vinci”, Reggio Calabria; Ettore Costantini (Junior 2), Licei “Ampezzo e Cadore”, Cortina d’Ampezzo (BL); Alessandro Fabi (Junior 2), Liceo scientifico e delle S.A. “P. Ruffini”, Viterbo; Luca Rucco (Junior 2), Liceo scientifico e delle S.A. “E. Fermi”, Aversa (CE); Davide Barberi (Junior 2), Liceo scientifico “Leonardo da Vinci”, Reggio Calabria; Gabriele Lambertini (Senior), Liceo scientifico e delle S.A. “G. Bruno”, Budrio (BO); Francesco Leccese (Senior), Liceo scientifico “G. Banzi Bazoli”, Lecce; Ilenia Trunfio (Master), Liceo scientifico “Leonardo da Vinci”, Reggio Calabria; Riccardo Brunetta (Master), Liceo scientifico “Leopardi-Majorana”, Pordenone; Andrea Cusimano (Master), Liceo scientifico “T. Levi Civita”, Roma.
«Questa finale ha messo alla prova ragazzi e ragazze dotati di una preparazione straordinaria e di una passione per l’astronomia che va ben oltre la semplice competizione», dice Daniele Spiga, autore dell’esercizio sull’asteroide in rotta di collisione. «Per loro, l’astronomia e l’astrofisica non sono solo materie da studiare, ma vere e proprie fonti di ispirazione, che danno sapore e slancio alla vita. La finale è anche un’ottima occasione per stringere nuove amicizie che si rafforzano da un anno all’altro. L’unico piccolo neo? Nessuno è riuscito a scongiurare l’impatto dell’asteroide Werewolf con la Terra!».
Piacevolmente sorpresa dall’alto livello della preparazione dei partecipanti, oltre a proclamare i 18 vincitori dei Campionati, che si aggiudicano la medaglia “Margherita Hack”, la giuria ha assegnato anche 18 diplomi di merito e due menzioni speciali (l’elenco completo dei diplomi e testi e soluzioni delle prove sono disponibili sul sito dei Campionati). E ora, mentre applaudiamo tutti i finalisti e i vincitori e ci prepariamo a tifare per la nostra squadra nazionale, l’appuntamento è all’edizione 2026 dei Campionati italiani di astronomia, la cui finale si terrà a Monza.
Napoli, tra città e cosmo
Per il 250esimo anniversario della Mappa topografica della città di Napoli e de’ suoi contorni, la prima cartografia moderna realizzata a Napoli con strumenti scientifici, l’Osservatorio astronomico di Capodimonte ha realizzato la mostra “Napoli, tra città e cosmo: 250 anni di cartografia a Napoli tra panorami urbani e mappe celesti”, curata da Mauro Gargano in collaborazione con la casa d’arte Hubert Bowinkel. Per celebrare questa importante ricorrenza, verranno esposte straordinarie e rare carte geografiche e topografiche del territorio napoletano e meravigliose tavole astronomiche che accompagnano lo sviluppo coevo della cartografia celeste. Un viaggio tra Terra e cielo, dove la rappresentazione dello spazio terrestre si intreccia con la scoperta dei misteri dell’universo. La mostra sarà aperta venerdì 9 maggio alle ore 18:30 nella Sala delle Colonne dell’Osservatorio di Capodimonte. Il percorso si articola in tre suggestive sezioni: panorami urbani, che racconta l’evoluzione del paesaggio napoletano attraverso mappe e vedute storiche; mappe celesti, che testimonia il progresso della cartografia astronomica e il desiderio umano di esplorare l’universo; e strumenti di misura, veri e propri capolavori della tecnica che hanno reso possibile la rappresentazione sempre più accurata del cielo e della Terra. Un percorso che intreccia scienza e arte, conducendo il visitatore attraverso il tempo e lo spazio.
Programma della giornata inaugurale
A partire dalle 16:30, si terrà l’incontro “Visioni di Napoli” a cui parteciperanno storici, architetti e astrofisici, autori dei saggi per il volume Visions of Naples, edito da Arte’m, che rifletteranno sull’importanza, in ambito locale e nel più ampio contesto nazionale e internazionale, della cartografia urbana e celeste, e sui progressi delle due discipline nello sviluppo della pianificazione urbana e nella comprensione dell’universo.
Questa veduta di Napoli del 1648, realizzata da Abraham Verhoeven e pubblicata da Martin Binnart ad Anversa, occupa un posto di rilievo nella storia dell’iconografia urbana della città. Si tratta della prima riduzione della celebre veduta Orlandi-Baratta. Crediti: Collezione Bowinkel
Dalle ore 18:00 sarà attiva una postazione mobile di Poste Italiane per l’emissione di un annullo filatelico speciale dedicato alla Mappa del Duca di Noja, un’opera che ha segnato la storia della cartografia urbana e scientifica e di cui l’Osservatorio conserva un esemplare dal giugno 1813. Gli appassionati e i collezionisti potranno ottenere questo annullo esclusivo, che vuole rendere omaggio a un documento che ha contribuito alla conoscenza e alla rappresentazione del territorio napoletano.
La serata di Capodimonte proseguirà alle 20:30 con una conversazione scientifica di Pietro Schipani, direttore dell’Osservatorio di Capodimonte, dal titolo “Messaggeri celesti e come captarli”, un viaggio fra gli strumenti dell’astronomia del presente e del futuro che permettono di raccogliere le informazioni dall’universo vicino e lontano e comprenderne la struttura. Seguiranno le osservazioni ai telescopi dell’Osservatorio.
Per saperne di più:
Per la difesa planetaria, rimanete in ascolto
Elizabeth Silber, ricercatrice al Sandia National Laboratories ed esperta in rilevazione di infrasuoni in atmosfera. In particolare, la sua ricerca si concentra sul rilevamento degli infrasuoni di sorgenti esplosive e non convenzionali, sulla fisica delle onde d’urto atmosferiche e sulla modellazione computerizzata delle esplosioni meteoriche, con applicazioni che vanno dalla difesa planetaria alla sicurezza globale. Ha inoltre contribuito al rilevamento e all’analisi geofisica del rientro della capsula Osiris-Rex, facendo progredire la nostra capacità di monitorare i veicoli spaziali e le entrate nell’atmosfera utilizzando sensori a terra e in volo. Crediti: Elizabeth Silber
Per monitorare l’ingresso in atmosfera di meteoroidi, bolidi o detriti spaziali, bisogna rimanere in ascolto. È quanto afferma chi, come Elizabeth Silber, ricercatrice al Sandia National Laboratories, si dedica allo studio degli ingressi in atmosfera attraverso gli infrasuoni, onde sonore di frequenza troppo bassa per essere udite dall’orecchio umano. Una tecnica, quella del rilevamento con gli infrasuoni, che si basa sul fatto che qualunque corpo massiccio entri nell’atmosfera a una velocità elevata genera un’onda d’urto, che si propaga nello spazio come un’onda sonora a bassa frequenza. Onda d’urto che può essere registrata da reti già esistenti, in particolare quella gestita dalla Ctbto (Comprehensive Test Ban Treaty Organization), un’organizzazione che ha il compito di
di rilevare esplosioni nucleari. Ma come si può sfruttare questo metodo di rilevazione in favore della difesa planetaria? Media Inaf l’ha chiesto alla stessa Silber, che ha presentato i risultati del suo ultimo studio all’assemblea generale dell’Egu (la European Geosciences Union) che si è tenuta dal 27 aprile al 2 maggio 2025 a Vienna.
Come e quando viene utilizzato il rilevamento di infrasuoni?
«Innanzitutto, con infrasuoni si intendono le onde sonore con frequenze troppo basse per essere udite dall’uomo, in genere inferiori a circa 20 Hz. Queste onde a bassa frequenza possono percorrere grandi distanze attraverso l’atmosfera terrestre con una minima perdita di energia, caratteristica che rende gli infrasuoni uno strumento eccellente per il monitoraggio di una varietà di eventi naturali e di origine umana, come meteoriti, fulmini, eruzioni vulcaniche, esplosioni, cascate, eccetera. Il rilevamento degli infrasuoni offre un approccio robusto e versatile per l’osservazione di potenti fenomeni atmosferici, di giorno o di notte, con la pioggia o con il sole, in regioni remote dove altri metodi di osservazione sono difficili. Per quanto riguarda i meteoroidi (palle di fuoco luminose) che entrano nell’atmosfera terrestre, gli infrasuoni possono aiutarci a stimare l’energia e la posizione dell’evento. Inoltre, sensori di infrasuoni appositamente posizionati hanno registrato il rientro atmosferico di capsule spaziali, come Osiris-Rex della Nasa, fornendo una convalida della traiettoria».
Sarebbe quindi possibile seguire l’ingresso e la traiettoria di un meteoroide?
«Non proprio, e infatti a riguardo è opportuno fare una precisazione. Gli infrasuoni non possono tracciare in tempo reale oggetti come bolidi o detriti spaziali, semplicemente perché le onde sonore viaggiano relativamente lente, e impiegano minuti o addirittura ore per raggiungere le stazioni di rilevamento. Tuttavia, il rilevamento degli infrasuoni può individuare l’origine di questi segnali dopo il verificarsi dell’evento. Quando più stazioni rilevano lo stesso evento, le loro direzioni misurate dovrebbero idealmente convergere verso un’unica posizione. Ma a volte queste direzioni non si allineano perfettamente, lasciandoci delle incertezze».
Come mai?
«Le mie ricerche indicano che queste discrepanze potrebbero essere dovute alla geometria di ingresso dell’oggetto stesso. In particolare, nel caso di eventi ad angolo ridotto, le diverse stazioni potrebbero rilevare il suono proveniente da diverse parti della traiettoria dell’oggetto piuttosto che da un unico punto. Comprendere e tenere conto di questo fattore geometrico può migliorare la nostra capacità di determinare con precisione il luogo in cui si è verificato un evento, a vantaggio sia della difesa planetaria che delle attività di monitoraggio dei detriti spaziali».
Quindi, quello che si vede è solo il momento dell’ingresso in atmosfera?
«In genere, quando non sono disponibili informazioni supplementari dettagliate (come i dati ottici o radar, spesso nel caso di località remote), si approssima l’emissione acustica del bolide come se provenisse da un singolo “lampo”, coincidente con il punto di massima deposizione di energia o con il picco di luminosità. Sebbene questa semplificazione sia efficace per i bolidi in forte discesa, diventa sempre più problematica per le entrate ad angolo ridotto che estendono la loro deposizione di energia lungo lunghe traiettorie. Il mio studio attuale affronta questa limitazione, dimostrando che la considerazione esplicita della geometria dell’ingresso può migliorare l’accuratezza della localizzazione e, di conseguenza, le capacità di difesa planetaria».
A questo punto, però, sorge una domanda: come si può conoscere la traiettoria in anticipo?
«Questa è una grande domanda: è proprio così! In genere non conosciamo in anticipo la traiettoria precisa dei bolidi, soprattutto quando vengono rilevati su aree remote. Invece, ne deduciamo la traiettoria dopo l’evento utilizzando i dati osservativi disponibili, comprese le osservazioni ottiche e le rilevazioni satellitari e radar, quando sono disponibili. Per i detriti orbitali, invece, spesso prevediamo il rientro in anticipo perché le caratteristiche orbitali dei satelliti e dei detriti sono continuamente monitorate. Questi rientri avvengono di solito con angoli poco profondi, poiché gli oggetti in orbita terrestre bassa di solito si abbassano gradualmente a spirale mentre perdono quota, anziché cadere a picco. Allo stesso modo, le capsule spaziali per il rientro dei campioni, come Osiris-Rex, sono progettate e controllate per entrare nell’atmosfera con traiettorie specifiche e predeterminate. Quindi, anche se gli infrasuoni da soli non sono in grado di avvertire in anticipo del percorso di un oggetto, l’integrazione di questi dati acustici con le traiettorie conosciute o dedotte fa progredire notevolmente la nostra capacità di interpretare e localizzare con precisione questi eventi dopo il fatto».
Quanto comune è, oggi, l’utilizzo di questa tecnica a servizio della difesa planetaria?
«L’infrasuono è stato effettivamente utilizzato per rilevare grandi meteoroidi e piccoli asteroidi che entrano nell’atmosfera terrestre per molti decenni. In particolare, il primo rilevamento infrasonico noto di un evento di questo tipo è stata l’esplosione di Tunguska del 1908 in Siberia. Tuttavia, per la maggior parte del 20esimo secolo, le rilevazioni di bolidi tramite infrasuoni sono rimaste accidentali, in gran parte catturate da reti progettate principalmente per altri scopi. Solo negli ultimi decenni, in particolare in seguito alla creazione di reti di monitoraggio infrasoniche globali dedicate, la rilevazione sistematica e di routine dei bolidi è diventata importante».
Lei ha citato diverse volte anche i detriti spaziali, oltre alle capsule di rientro sulle quali abbiamo controllo. Possono essere considerati anche questi alla stregua dei bolidi e quindi beneficiare dello stesso metodo di localizzazione?
«Sì, i detriti spaziali che rientrano nell’atmosfera terrestre producono segnali infrasonori molto simili a quelli dei bolidi naturali. Entrambi gli oggetti viaggiano a velocità molto elevate, generando forti onde d’urto quando interagiscono con l’atmosfera. Di conseguenza, i metodi di rilevamento degli infrasuoni utilizzati per i bolidi sono direttamente applicabili anche ai detriti spaziali. La mia ricerca dimostra che considerare la geometria di ingresso, particolarmente importante per i detriti che rientrano nell’atmosfera terrestre con angoli poco profondi, può migliorare la nostra capacità di localizzare questi eventi. Poiché la quantità di detriti orbitali continua a crescere, è sempre più importante tracciare con precisione il loro rientro. Pertanto, quantificare l’effetto della geometria di ingresso sulla direzione apparente di arrivo del segnale infrasonico offre vantaggi per il monitoraggio degli eventi di rientro dei detriti spaziali».
Guarda sul canale YouTube della CtbTo il video sulla rete per infrasuoni:
Urano e la stella che gioca a nascondino
Quando l’orbita di un pianeta lo porta tra la Terra e una stella distante, ciò che avviene è molto più di una semplice partita a nascondino. È un’opportunità per migliorare le proprie conoscenze sull’atmosfera e gli anelli di quel pianeta. I planetologi la chiamano occultazione stellare ed è esattamente ciò che è successo a Urano il 7 aprile scorso.
L’evento è durato circa un’ora ed è stato visibile unicamente nella parte ovest dell’America settentrionale. L’osservazione è stata guidata dai planetologi del Langley Research Center della Nasa con l’utilizzo di 18 osservatori professionali. Il rendering animato che vedete qui sotto, prodotto dal Langley Research Center Advanced Concepts Laboratory della Nasa, mostra cosa accade durante un’occultazione stellare e illustra un esempio di grafico della curva di luce registrato dagli scienziati. La curva consente di ottenere misurazioni atmosferiche, osservando le variazioni della luce stellare mentre il pianeta eclissa la stella.
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«Urano ha transitato davanti a una stella distante dalla Terra circa 400 anni luce», spiega William Saunders, planetologo presso il Langley, responsabile scientifico e capo dell’analisi per la Uranus Stellar Occultation Campaign 2025. «Nel momento in cui Urano ha iniziato a occultare la stella, la sua atmosfera ha rifratto la luce stellare, facendo apparire la stella sempre più fioca fino a essere completamente oscurata. Il fenomeno inverso è accaduto alla fine dell’occultazione, creando quella che chiamiamo curva di luce. Osservando il fenomeno con numerosi grandi telescopi siamo riusciti a misurare la curva di luce e determinare le proprietà di molteplici strati atmosferici di Urano».
Osservare i transiti di Urano permette alla Nasa di misurare la temperatura, la densità e la pressione della stratosfera e di determinare come siano cambiate dall’ultima occultazione significativa avvenuta nel 1996.
L’immagine di Urano, ottenuta con NirCam (Near-Infrared Camera) a bordo del telescopio spaziale James Webb della Nasa, cattura in modo straordinario la calotta polare nord del pianeta e i deboli anelli interni ed esterni. Nell’immagine del Webb sono visibili anche 9 delle 27 lune di Urano, in senso orario a partire dalle ore 2: Rosalinda, Puck, Belinda, Desdemona, Cressida, Bianca, Porzia, Giulietta e Perdita. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Stsci
«Le atmosfere dei giganti gassosi come Giove, Saturno, Urano e Nettuno sono eccellenti laboratori atmosferici perché privi di una solida superficie. Ciò ci permette di studiare la formazione delle nuvole, le tempeste, e l’andamento dei venti senza variabili aggiuntive ed effetti prodotti dalla superficie, che possono complicare le simulazioni» spiega Emma Dahl, ricercatrice post-dottorato al Caltech di Pasadena, in California.
Le osservazioni sono state possibili grazie al contributo di numerosi collaboratori, che hanno fornito prospettive uniche dell’occultazione stellare con l’utilizzo di strumenti diversi.
«È stata la prima volta che abbiamo collaborato a un progetto di questa portata per un’occultazione», dice Saunders. «Sono molto grato a ogni membro del team e agli osservatori per aver preso parte a questo evento straordinario. La Nasa utilizzerà le osservazioni di Urano per determinare come l’energia si muove nell’atmosfera e cosa causa l’inspiegabile temperatura alta degli strati più esterni. Altri useranno i dati per misurare gli anelli di Urano, la turbolenza atmosferica e la precisione della sua orbita intorno al Sole».
Conoscere la posizione di Urano non è semplice come sembra. Il primo e unico veicolo spaziale a essere passato accanto al pianeta è stato Voyager 2 nel 1986. La sua esatta posizione è conosciuta con una precisione di circa 160 km, il che rende l’analisi dei nuovi dati fondamentale per la futura esplorazione del gigante di ghiaccio da parte della Nasa.
Il 12 novembre 2024, i ricercatori e i collaboratori al Langley avevano eseguito un test per prepararsi all’evento di aprile. Il centro di ricerca aveva coordinato due telescopi in Giappone e uno in Thailandia per osservare l’occultazione stellare più fioca visibile solamente in Asia. Grazie a tale preparazione gli osservatori hanno potuto imparare a calibrare i propri strumenti per le occultazioni stellari e a dimostrare che più osservatori, lavorando insieme, avrebbero potuto catturare il grande evento di aprile. Anche ricercatori del Paris Observatory e dello Space Science Institute, in contatto con la Nasa, hanno contribuito alle misure di novembre 2024. Utilizzando due telescopi in India hanno attuato osservazioni di Urano e dei suoi anelli, permettendo ai ricercatori di migliorare due importanti aspetti: le previsioni sulle tempistiche dell’evento di aprile, arrivando a una precisione di un secondo, e la stima della posizione prevista di Urano durante l’occultazione, migliorata di 200 chilometri.
Nei prossimi sei anni Urano occulterà diverse stelle più deboli, ma l’attenzione è già rivolta al 2031, quando il pianeta oscurerà una stella ancora più luminosa di quella osservata ad aprile: un’occasione che la Nasa spera di sfruttare al meglio con nuove misurazioni aeree e, forse, spaziali.
Oggi i planetari compiono cent’anni
Locandina del filmato per planetari “100 anni di eternità”
Il 7 maggio del 1925, al Deutsches Museum di Monaco di Baviera, veniva aperto al pubblico il primo planetario. A cent’anni di distanza, i planetari di tutto il mondo festeggiano la ricorrenza con una serie di manifestazioni che culmineranno proprio nella data del centenario. L’Associazione dei planetari italiani (Planit) partecipa ai festeggiamenti organizzando un evento speciale, in collaborazione con Focus e Città della scienza di Napoli, che si svolgerà al planetario di Città della scienza oggi, mercoledì 7 maggio, a partire dalle ore 18:30.
Vi prenderà parte Roberto Ragazzoni, presidente dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), con un intervento dal titolo “Cieli immensi e cieli infiniti”, che si riferisce ai cieli immensi dei planetari e a quelli infiniti che gli astronomi osservano dalle cime delle montagne più remote della Terra e dallo spazio. E anche Dario Tiveron, presidente di Planit, che sottolineerà l’importanza dei planetari per la didattica e la divulgazione.
«Da cent’anni i planetari sono un ponte tra scienza, cultura, arte e immaginazione, luoghi dove le meraviglie dell’universo incontrano il pubblico di ogni età», spiega Tiveron. «Questo evento rappresenta un momento di celebrazione per il loro ruolo fondamentale nella nostra società, ulteriormente valorizzato dal recente accoglimento da parte dell’Istituto Treccani del termine ‘planetarista’, che riconosce finalmente l’identità di coloro che operano nelle cupole dei planetari, combinando competenze ampie e trasversali».
Nel corso della serata sarà anche proiettato il filmato 100 Years of Eternity, uno spettacolo di 35 minuti realizzato da Tobias Wiethoff e dal planetario di Bochum per conto di GdP (Associazione dei planetari di lingua tedesca), proprio per il centenario dei planetari.
«La collaborazione con Planit per celebrare il centenario dei planetari è stata per Focus un’opportunità straordinaria che abbiamo colto con entusiasmo», prosegue Gian Mattia Bazzoli, direttore di Focus. «I planetari svolgono un lavoro fondamentale di divulgazione scientifica – capillare, approfondito e spesso nascosto – che arricchisce il nostro tessuto culturale, stimola la curiosità scientifica fin dalla giovane età e democratizza l’accesso alla conoscenza astronomica attraverso esperienze immersive uniche, e tutto questo merita il nostro supporto. È proprio per questo che consideriamo un privilegio aver potuto contribuire alla realizzazione della versione italiana del video 100 Years of Eternity. Essere poi ospitati per la prima volta nel planetario della Città della scienza e nella splendida Napoli, dove finora non avevamo mai realizzato iniziative, rende questa occasione ancora più speciale e significativa».
A partire dalle ore 20:00, all’esterno del planetario, sarà possibile anche osservare il cielo (tempo permettendo) grazie ai telescopi dell’Unione astrofili napoletani. L’evento di Napoli rientra in una collaborazione più ampia realizzata tra Focus e Planit in occasione del centenario, che prevede, oltre al contributo di Focus per acquisire la licenza e realizzare la versione italiana del video, che così è stato reso disponibile gratuitamente a tutti i planetari soci di Planit, anche la presenza dell’Associazione dei planetari al prossimo Focus Live, che si terrà dal 7 al 9 novembre al Museo nazionale scienza e tecnologia di Milano, con un planetario gonfiabile per i tre giorni del festival.
Fonte: comunicato stampa Planit
Guarda il trailer in italiano di 100 Years of Eternity:
Leptoni all’origine dei raggi X nei getti dei blazar
Circondato da un disco luminoso e con due getti prodotti da un buco nero supermassiccio, uno dei quali orientato verso la Terra, il blazar Bl Lacertae ha fornito un’opportunità unica: comprendere come vengono generati i raggi X in ambienti estremi come i getti relativistici, flussi di plasma ad altissima energia. Le osservazioni condotte dalla missione Ixpe (Imaging X-ray Polarimetry Explorer) della Nasa e dell’Agenzia spaziale italiana (Asi) in collaborazione con telescopi radio e ottici hanno rivelato che i raggi X sono prodotti dall’interazione tra elettroni ad alta velocità e fotoni (particelle di luce). I risultati sono stati pubblicati oggi su The Astrophysical Journal Letters.
«La produzione di raggi X era uno dei più grandi misteri sui getti dei buchi neri supermassicci», dice Iván Agudo, primo autore dello studio e astronomo presso l’Instituto de Astrofísica de Andalucía Csic in Spagna. «Ixpe, con l’aiuto di una serie di telescopi di supporto a terra, ha finalmente fornito gli strumenti per risolverlo».
Rappresentazione artistica del getto emesso dal blazar Bl Lacertae. Crediti: Nasa
Lanciato in orbita nel dicembre 2021, con a bordo rivelatori sviluppati da un gruppo di ricerca dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) e dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), Ixpe è ad oggi l’unico satellite in grado di misurare la polarizzazione dei raggi X, ovvero la direzione media delle onde elettromagnetiche che compongono la luce a frequenze molto superiori a quelle visibili (i raggi X). Analizzando proprio questa proprietà, è stato possibile individuare due possibili meccanismi in grado di spiegare la presenza di raggi X nei getti relativistici: uno che implica i protoni (adroni), l’altro gli elettroni (leptoni). Nello specifico, se i raggi X nei getti di un buco nero risultano altamente polarizzati, sarebbero prodotti da protoni in rotazione nel campo magnetico del getto o da protoni che interagiscono con i fotoni del getto; se invece presentano una polarizzazione inferiore, allora potrebbero essere prodotti dalle interazioni elettrone-fotone.
Nel novembre 2023, Ixpe ha osservato il blazar Bl Lacertae per sette giorni, mentre diversi telescopi a terra ne misuravano la polarizzazione ottica e radio. In quel periodo, la luce ottica ha raggiunto un picco di polarizzazione del 47,5 per cento mentre i raggi X non hanno superato il 7,6 per cento. Tale significativo divario risulta compatibile con un processo noto come scattering Compton, che si verifica quando un fotone perde o guadagna energia dopo aver interagito con una particella carica, tipicamente un elettrone. Ixpe ha, quindi, permesso di scoprire che, nel caso di un getto di blazar, tali elettroni possiedono energia sufficiente per diffondere fotoni di luce infrarossa fino a lunghezze d’onda di raggi X.
«Grazie a questi dati e alle osservazioni coordinate nelle bande radio e ottica, siamo riusciti a escludere completamente i processi adronici come causa dell’emissione ad alta energia di questa sorgente, e a favorire fortemente gli scenari leptonici, ovvero getti relativistici composti principalmente da elettroni», spiega Jorge Otero, tra gli autori principali dello studio e ricercatore presso la Sezione Infn di Padova. «Si tratta di un risultato cruciale per la fisica astroparticellare – il primo vincolo diretto sulla natura dell’emissione di alta energia nei blazar e sulla composizione dei getti di plasma relativistico nei nuclei galattici attivi – ottenuto tramite misure di polarizzazione a più lunghezze d’onda».
«Ixpe riuscito a risolvere un altro mistero legato ai buchi neri», conclude Enrico Costa, ricercatore dell’Inaf e tra gli ideatori e promotori dell’esperimento Ixpe dieci anni fa. «La visione polarizzata a raggi X di Ixpe ha risolto diversi misteri di lunga data, e questo è uno dei più importanti. In altri casi, i suoi risultati hanno messo in discussione teorie consolidate, aprendo nuove domande. Ma è così che funziona la scienza e, di sicuro, Ixpe sta facendo ottima scienza».
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “High optical to X-ray polarization ratio reveals Compton scattering in BL Lacertae’s jet”, di Ivan Agudo, Ioannis Liodakis, Jorge Otero-Santos, et al.
Ofione: una famiglia di stelle fuori dal comune
Nell’universo, le stelle tendono a formare “famiglie”: grandi gruppi composti da astri nati all’interno della medesima nube molecolare e nello stesso momento. Con il tempo, queste stelle si allontanano dal loro “nido”, disperdendosi nella galassia d’origine. Nei gruppi più piccoli, la dispersione può avvenire anche velocità sostenute. Tuttavia, nelle famiglie numerose, i membri si muovono spesso insieme a velocità tipiche di pochi chilometri al secondo, mantenendo traiettorie simili.
Utilizzando i dati della terza release di dati del satellite Gaia, un team di ricercatori guidati dalla Western Washington University ha ora scoperto una nuova, grande, famiglia di giovani stelle che rappresenta un’eccezione alla regola. Gli astronomi l’hanno chiamata Ofione, è situata a circa 652 anni luce dalla Terra, al centro della costellazione dell’Ofiuco, a nord-ovest del centro della Via Lattea, ed è una popolazione stellare diversa da tutte le altre conosciute: i suoi membri, infatti, non solo mostrano una velocità di dispersione di oltre venti chilometri al secondo, ma hanno anche uno schema di espansione insolito, allontanandosi dal loro sito d’origine in maniera caotica.
La mappa della Via Lattea realizzata dalla missione Gaia dell’Agenzia Spaziale Europea sulla base delle osservazioni di oltre un miliardo e mezzo di stelle. La mappa mostra la luminosità totale e il colore degli astri osservati dal satellite, inclusi nella Early Data Release 3 (Gaia Edr3) del 2020. I puntini gialli al centro dell’immagine indicano la posizione delle oltre mille giovani stelle che formano la famiglia stellare Ofione, individuata da Huson e colleghi analizzando i dati del satellite. Crediti: Esa/Gaia/Dpac
«Ofione è composta da stelle che si stanno per disperdere nella galassia in modo del tutto caotico e disorganizzato, ben lontano da ciò che ci aspetteremmo da un gruppo tanto numeroso», spiega Dylan Huson, ricercatore alla Western Washington University, negli Usa, e primo autore dell’articolo, pubblicato su The Astrophysical Journal, che riporta i risultati della scoperta. «Il processo, inoltre, accadrà in una frazione del tempo che normalmente impiegherebbe una famiglia così numerosa a separarsi. Ofione, sottolinea lo scienziato, «è una famiglia di stelle diversa da qualsiasi altra che abbiamo visto finora».
Per individuare Ofione, Huson e colleghi hanno sviluppato un modello grazie al quale sono riusciti a studiare le stelle giovani e di bassa massa relativamente vicine al Sole. Applicando questo modello – chiamato Gaia Net – a centinaia di milioni di spettri stellari inclusi nella terza release di dati del satellite Gaia, i ricercatori hanno esaminiamo la distribuzione di giovani stelle di piccola massa con età fino a 20 milioni di anni nel nostro vicinato cosmico, identificando la famiglia in questione.
«È la prima volta che un modello simile può essere applicato a stelle giovani, grazie all’enorme quantità e qualità dei dati spettroscopici necessari per farlo funzionare», sottolinea lo scienziato dell’Esa e project scientist della missione, Johannes Sahlmann. «Misurare in modo affidabile i parametri di molte stelle giovani contemporaneamente è diventato possibile solo di recente. Questo tipo di osservazione su larga scala è uno dei traguardi più straordinari della missione Gaia»
Ma com’è possibile che questa popolazione di stelle si comporti in modo così insolito? Gli scienziati un’idea se la sono fatta, e chiama in causa sia le esplosioni di supernove che gli enormi agglomerati di stelle vicine.
In particolare, i ricercatori propongono che ad accelerare la dispersione delle stelle possano essere state esplosioni di supernove. Nelle vicinanze di Ofione sono già stati identificati diversi vuoti attribuibili alle supernove, sottolineano i ricercatori. È possibile che queste esplosioni abbiano spazzato via materiale da Ofione, facendo sì che le sue stelle si muovessero più rapidamente e in modo più disordinato. Inoltre, poiché la famiglia di stelle si trova vicino ad altri enormi agglomerati di giovani stelle, è possibile che alla rapida dispersione abbiano contribuito le interazioni mareali con gli astri vicini, che ne hanno influenzato il comportamento nel tempo.
«Il nostro studio cambia radicalmente il modo di pensare ai gruppi stellari e il modo di identificarli», osserva Marina Kounkel, ricercatrice alla University of North Florida, negli Usa, e coautrice dello studio. «I metodi precedenti identificavano le famiglie stellari raggruppando le stelle con movimenti simili, ma con questo approccio Ofione sarebbe passata inosservata. Senza l’enorme quantità di dati di alta qualità forniti da Gaia, e senza i nuovi modelli che ci permettono di analizzarli a fondo, ci saremmo persi un pezzo importante del puzzle stellare».
Dopo oltre un decennio dedicato alla mappatura del cielo, il satellite Gaia ha concluso le sue osservazioni a gennaio del 2025. Tuttavia, gli scienziati si aspettano di fare ancora molte altre scoperte. Nei prossimi anni, infatti, sono previste ulteriori pubblicazioni di dati: la quarta release è attesa entro la fine del 2026, mentre la legacy data release – l’ultima, definitiva, versione dei dati – arriverà alla fine del 2030.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “Gaia Net: Toward Robust Spectroscopic Parameters of Stars of all Evolutionary Stages” di Dylan Huson, Indiana Cowan, Logan Sizemore, Marina Kounkel e Brian Hutchinson
Amazon in orbita in competizione con SpaceX
Per apprezzare l’entità dello scontro tra titani che sta avvenendo nelle orbite terrestri, pensiamo che il 28 aprile abbiamo assistito al primo botta e risposta tra Elon Musk e Jeff Bezos. Mentre l’attenzione dei media era concentrata sul lancio del primo gruppo di 27 satelliti della costellazione Kuiper voluta dal fondatore di Amazon che ora è a capo di Blue Origin, SpaceX realizzava una delle sue doppiette spaziali, lanciando nello stesso giorno due carichi di Starlink. Il primo, con 27 satelliti, è partito dalla base di Vandenberg, in California, mentre il secondo, con 23 satelliti, 13 dei quali equipaggiati per fornire il servizio Direct to Cell, è partito da Cape Canaveral giusto 3 ore lo Atlas 5 della United Launch Alliance con i satelliti di Jeff Bezos. Come se l’uomo più ricco del mondo volesse ricordare a quello che lo segue nella classifica della ricchezza che dovrà fare molta strada prima di insidiare il monopolio di Starlink nella fornitura di internet orbitale.
Nominal start to our KA-01 mission. We’ve already established contact with all 27 Kuiper satellites in orbit, and initial deployment and activation sequences are proceeding as planned. Thanks to @ULAlaunch for a successful launch – the first of many missions together. pic.twitter.com/XyG0UCgjuX— Project Kuiper (@ProjectKuiper) April 29, 2025
In effetti sarebbe meglio parlare di monopolio spaziale tout-court visto che anche nel campo dei lanciatori SpaceX la fa da padrone. Per avere un’idea dell’abisso che c’è tra SpaceX e le altre industrie spaziali (alcune delle quali blasonatissime) bisogna considerare che quello dei satelliti Kuiper è stato il primo lancio dello Atlas 5 nel 2025, mentre per SpaceX si è trattato dei lanci numero 49 e 50 dall’inizio dell’anno. Di questi, 33 hanno portato in orbita satelliti Starlink che ora costituiscono un’armada di oltre 7200 satelliti, tutti nello stesso guscio orbitale, a poco più di 500 km di altezza. La costellazione Kuiper prevede di lanciare circa 3200 satelliti che orbiteranno leggermente più in alto e utilizzeranno le piattaforme di terra Amazon con connettere gli utenti che avranno la possibilità di utilizzare in contemporanea i servizi del cloud Amazon, avendo così a disposizione grandi capacità di calcolo per elaborare i dati.
Secondo il sito di Blue Origin, i satelliti Kuiper sono stati progettati dedicando grande attenzione alla sostenibilità e promettono di essere più rispettosi dell’oscurità del cielo per non intralciare il lavoro degli astronomi. Ma, adesso, quello che conta è lanciare. Le regole dell’utilizzo delle frequenze impongono che metà della costellazione sia operative entro il 30 giugno 2026, cosa che richiede un ritmo di lancio frenetico. Conscio di questa necessità, Jeff Bezos ha fatto uno shopping compulsivo nel campo dei lanciatori. Potendo contare solo su una dozzina di lanciatori New Glenn, il razzo pesante di Blue Origin che ha fatto il primo lancio a gennaio, ha rastrellato tutto quanto era disponibile sul mercato comprando 9 Atlas, 38 Vulcan, 18 Ariane 6 per finire con 3 Falcon 9. Il rischio di perdere le frequenze è troppo grande per essere schizzinosi.
Ecco come nascono le protostelle massicce
Cepheus A Hw2 è la protostella di circa 16 masse solari al centro dell’immagine. Le fasi turbolente successive alla sua nascita e le grandi masse di gas e polveri in gioco, creano due fenomeni perpendicolari tra loro: i getti di collimazione, che espellono sopra e sotto la protostella tutto ciò che essa non riesce a trattenere, e il disco di accrescimento che invece le invia continuamente gas e polveri e che si è potuto osservare grazie al tracciamento dell’ammoniaca (NH3) con il telescopio Vla. I colori del disco descrivono la velocità del gas localmente e sono codificati dalla scala colorata in basso. Crediti: A. Sanna et al.
Come si formano e come si accrescono le stelle di grande massa? Uno studio guidato dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) affronta queste domande risolvendo per la prima volta un dibattito di lungo corso riguardante l’esistenza, o meno, di un disco di accrescimento attorno a Cepheus A Hw2, la seconda protostella supermassiccia più vicina al Sole, avente una massa di sedici volte quella della nostra stella. Grazie a osservazioni effettuate con i radiotelescopi del Jansky Very Large Array (Vla), il disco e i gas che si muovono al suo interno sono stati osservati con un dettaglio finora mai raggiunto. Le simulazioni di laboratorio hanno completato il quadro gettando così nuova luce su come le stelle giganti accumulino un’enorme massa proveniente dal disco di accrescimento durante i loro primi millenni di vita.
In ambito astronomico e divulgativo sentiamo spesso parlare delle supernove e del fatto che siano ciò che resta di incredibili esplosioni dovute al collasso di enormi stelle ormai esauste. Non è però comune sentir parlare di come queste stelle massicce, che per definizione hanno una stazza di almeno otto masse solari, riescano a formarsi e ad accrescere la loro massa quando sono ancora molto giovani. La risposta sta nell’esistenza e nelle proprietà del cosiddetto disco di accrescimento, ovvero una grande concentrazione di gas e polveri che gravita spiraleggiando intorno alle protostelle durante la loro formazione e le nutre aumentandone la massa. Il tutto, prima ancora che avvenga l’innesco di una fusione nucleare stabile che possa definirle come stelle vere e proprie.
Una delle questioni più intriganti discusse tra gli specialisti negli ultimi decenni è stata capire se i dischi di accrescimento fossero caratteristici solo di stelle medio-piccole come il Sole, che è una nana gialla, o se fossero in grado di sostenere anche gli enormi flussi di materia necessari ad accrescere una giovane stella decine di volte più massiccia della nostra.
A dissolvere questo dubbio è arrivato uno studio, appena pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics, che coinvolge una dozzina di centri di ricerca e università tra Usa, Europa e Sudamerica, tra cui quattro osservatori dell’Inaf: Cagliari, Arcetri (Firenze), Bologna e Napoli. Le osservazioni sono state eseguite con una potente rete di radiotelescopi che si trova negli Stati Uniti, il Jansky Very Large Array per osservare la radio-sorgente Cepheus A Hw2. Questa sorgente possiede alcune interessanti caratteristiche che la fanno ritenere una protostella piuttosto massiccia, tra l’altro molto osservata dagli astronomi negli ultimi 40 anni. Dista infatti solo 2300 anni luce da noi e ciò consente di poterla osservare con il Vla alla definizione minima di 100 unità astronomiche ovvero con un dettaglio sufficiente a individuarne il disco. Inoltre, Hw2 possiede una massa stimata in ben sedici volte quella del Sole.
Per poter verificare l’esistenza di un disco di accrescimento intorno a Hw2, risolvendone struttura e proprietà, il radiotelescopio americano – finanziato dalla National Science Foundation (Nsf) e gestito dal National Radio Astronomy Observatory (Nrao) – ha osservato la sorgente a una frequenza di circa 24 GHz, alla ricerca di un tracciante in particolare: l’ammoniaca interstellare (NH3). Questa molecola, così comune e utilizzata sulla Terra, è anche la prima molecola poliatomica (ovvero con tre o più atomi) rilevata al di fuori del Sistema solare e tra le più abbondanti specie presenti nelle comete.
Nel caso di Hw2 è stato dunque osservato un denso anello di ammoniaca calda che si estende per raggi che vanno da 200 a 700 unità astronomiche intorno alla stella e che mostra anche densità differenti da zona a zona. Per avere un facile riscontro, basti pensare che Nettuno, l’ultimo dei grandi pianeti gassosi, dista dal Sole circa 30 unità astronomiche, ovvero 30 volte la distanza Terra-Sole. Tuttavia queste distanze che oggi appaiono troppo piccole e impossibili da osservare su Hw2 con il Vla, potranno verosimilmente – come sottolinea Todd Hunter di Nrao – essere raggiunte nel giro di dieci anni con lo sviluppo del next generation Vla. Il comportamento dell’ammoniaca è stato poi direttamente confrontato con simulazioni di laboratorio effettuate da André Oliva, professore dell’Università e Space Research Center della Costa Rica, che hanno permesso di riprodurre le osservazioni spiegando allo stesso tempo la dinamica del gas attorno alla protostella.
I risultati confermano quindi che i dischi protostellari possono sostenere tassi di accrescimento di massa molto alti, anche quando la stella centrale ha già raggiunto una massa decine di volte superiore a quella del nostro Sole. «Le nostre osservazioni», dice Alberto Sanna, primo ricercatore dell’Inaf di Cagliari e primo autore dell’articolo scientifico, «forniscono una prova diretta che anche stelle massicce possono formarsi attraverso un disco di accrescimento fino a decine di masse solari. Hw2 è la seconda stella giovane e massiccia più vicina alla Terra e, da decine d’anni, costituisce un laboratorio privilegiato per mettere alla prova le attuali teorie sulla formazione stellare. In particolare, il nostro studio risolve un dibattito di lunga data sull’esistenza o meno di un disco di accrescimento attorno ad Hw2».
Questo studio ha consentito inoltre una misura diretta della quantità di gas e polveri che fluisce attorno alla stella, arrivando alla conclusione che la materia in “caduta libera” verso Hw2 ammonta a circa due masse del pianeta Giove all’anno, uno dei tassi più alti mai osservati, che corrisponde a una crescita ipotetica della stella pari a ben due masse solari ogni mille anni. Tuttavia, molte domande rimangono ancora aperte. «Se da una parte», puntualizza infatti Sanna, «i nostri risultati dimostrano che dischi circumstellari attorno a giovani stelle massicce sono in grado di sostenere gli alti tassi di accrescimento previsti dalla teoria, allo stesso tempo ci chiediamo: quanto di quell’enorme flusso di materia osservato diventerà effettivamente parte della massa finale della stella?».
Questo lavoro non solo migliora la nostra comprensione delle dinamiche che portano alla formazione delle stelle più massicce, ma ha anche implicazioni più ampie sull’evoluzione galattica e l’arricchimento chimico nell’universo. Sono proprio queste stelle extra large che, durante tutto il loro ciclo evolutivo ma in particolare nella turbolenta e catastrofica fase finale, disseminano le galassie di elementi pesanti e specie molecolari più complesse, creati proprio dalle immense temperature e pressioni che solo questi oggetti sono in grado di generare.
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “Gas infall via accretion disk feeding Cepheus A HW2”, di A. Sanna, A. Oliva, L. Moscadelli, C. Carrasco-González, A. Giannetti, G. Sabatini, M. Beltrán, C. Brogan, T. Hunter, J.M. Torrelles, A. Rodríguez-Kamenetzky, A. Caratti o Garatti e R. Kuiper
La settimana dedicata ai buchi neri
I buchi neri rappresentano gli oggetti cosmici più affascinanti e misteriosi. Molto studiati, addirittura “fotografati”, ma non ancora completamente capiti. D’altra parte, sono fisicamente inavvicinabili, nel senso che le leggi conosciute della fisica non riescono a spingersi oltre il confine definito dall’orizzonte degli eventi.
Per rendere loro omaggio, nel 2019 la Nasa ha istituito la Black Hole Week che cade la prima settimana di maggio, cioè questa. Nel corso di questa settimana, divulgatori scientifici di tutto il mondo condivideranno notizie, video e contenuti sui social media dedicati ai buchi neri. L’intento è quello di far sì che, ovunque le persone si trovino a rivolgere la loro attenzione ai social in questi giorni, incontrino – si fa per dire — un buco nero.
Anche Media Inaf si è impegnata a preparare qualcosa per i suoi lettori: cinque video, che usciranno uno al giorno durante tutta la settimana. Sono video che la Nasa ha pubblicato, in inglese, qualche anno fa. Quindi, se qualche record nel frattempo è stato battuto, non fateci troppo caso. Sembrerebbero video per bambini, un po’ giocosi, ma in realtà sono altamente informativi: molto brevemente e in modo efficace, presentano le peculiarità principali di questi curiosi oggetti cosmici.
Quando li ho visti per la prima volta, era un giovedì sera. Fanno parte di quella che la Nasa ha chiamato Guida sul campo ai buchi neri. Mi sono piaciuti molto: per i soggetti animati, per gli effetti sonori e per la narrazione. Ho notato il copyright e quindi ho scritto subito alla Nasa, lo stesso giovedì sera, per chiedere loro il permesso di tradurli in italiano, così come i file originali dove poter separare le tracce audio per mantenere i divertentissimi effetti sonori. Dopo nemmeno 24 ore è arrivata la loro risposta e, poco dopo, il materiale per procedere al confezionamento della versione italiana. In un periodo storico così complesso, questa dimostrazione di professionalità mi ha profondamente colpito e ha rafforzato in me la convinzione che scienza ed educazione debbano occupare un posto centrale e imprescindibile nella nostra società.
Guarda il primo video su Media Inaf Tv:
Inesorabile fine d’un pianeta con la coda
Un team di astronomi del Massachusetts Institute of Technology (Mit) ha recentemente scoperto un pianeta che è in fase di disintegrazione. Situato a circa 140 anni luce dalla Terra, in direzione della costellazione di Pegaso, BD+05 4868 Ab – questo il nome del piccolo corpo roccioso – ha una massa molto ridotta, compresa fra quella di Mercurio e quella della Luna, e orbita vicinissimo alla sua stella – BD+05 4868 A – completando una rivoluzione in appena 30.5 ore. Probabilmente il pianeta è ricoperto di magma e, nel corso dei suoi moti di rivoluzione, perde grandi quantità di minerali superficiali, che vanno via via a disperdersi nello spazio. I risultati delle ricerche verranno pubblicati su The Astrophysical Journal Letters.
La scoperta è avvenuta analizzando i dati raccolti dal telescopio spaziale Transiting Exoplanet Survey Satellite (Tess) della Nasa nell’ambito di una missione che studia stelle vicine alla ricerca di transiti, caratterizzati da decrementi periodici nella luminosità stellare originati dal passaggio di esopianeti in orbita. A catturare l’attenzione dei ricercatori è stato il fatto che, a ogni transito, il decremento della luminosità variava, sia in durata che in profondità: un comportamento assai peculiare.
Curve di luce acquisite da Tess dei transiti del pianeta BD+05 4868 Ab attorno alla sua stella. La lunga durata e la grande variabilità nella profondità del decremento di luminosità evidenziato dalle curve – segno della presenza di una coda di detriti – è il segnale che ha catturato l’attenzione dei ricercatori. Crediti: Marc Hon et al., ApJL, 2025
Mentre di solito si notano brevi e periodiche flessioni nella curva di luce di una stella quando si verifica un transito, in questo caso la luminosità di BD+05 4868 A impiega molto tempo per tornare alla normalità, indizio che suggerisce la presenza di una struttura a coda rilasciata dal pianeta. L’ipotesi più plausibile è che il corpo roccioso, mentre ruota attorno alla stella, si lasci alle spalle una lunga scia di detriti, simile alla coda in una cometa. «L’estensione della scia è davvero enorme: si estende fino a nove milioni di chilometri, ossia la metà dell’orbita del pianeta», dice il primo autore dello studio, Marc Hon, ricercatore del Mit.
Un altro aspetto significativo riguarda la variazione, a ogni orbita, dell’intensità della depressione nella curva di luce. Ciò indica che l’esopianeta non ha sempre la stessa forma e, dunque, perde materiale. In particolare, gli studiosi ritengono che il corpo celeste si stia disintegrando a ritmi spediti, rilasciando a ogni orbita una quantità di materiale pari alla massa del monte Everest. «È improbabile che la scia di detriti contenga gas volatili e ghiaccio: questi non sopravviverebbero a lungo a una distanza così ravvicinata dalla stella madre. Invece, i granuli minerali evaporati dalla superficie planetaria possono resistere a sufficienza da originare una coda simile», sottolinea Hon. Le stime effettuate dagli scienziati indicano che il pianeta stia bruciando a circa 1600 gradi Celsius: a tale temperatura, i minerali presenti evaporano e si raffreddano lentamente nello spazio, dando così vita alla lunga coda.
Il pianeta potrebbe andare incontro a una totale disintegrazione nell’arco di uno o due milioni di anni. I fattori alla base della previsione sulla sua fine sono due: la piccola massa e la tenue attrazione gravitazionale. «L’oggetto al centro degli studi è molto piccolo, con una debole gravità, quindi perde massa facilmente. Si tratta di un processo incontrollato e per il pianeta la situazione sta peggiorando sempre di più», spiega uno dei coautori dello studio, Avi Shporer, dell’Ufficio scientifico di Tess.
Rappresentazione artistica di un pianeta in disintegrazione in orbita attorno alla sua stella. Crediti: José-Luís Olivares, Mit
Con la scoperta di BD+05 4868 Ab, i pianeti in fase di disintegrazione noti agli studiosi salgono a quattro. I primi tre sono stati individuati più di un decennio fa tramite il telescopio spaziale Kepler della Nasa e anch’essi presentano code simili a quella di una cometa. Tra i quattro corpi celesti, è proprio BD+05 4868 Ab ad avere la scia di detriti più lunga e transiti decisamente più profondi. «Questi fattori implicano che la sua evaporazione sarà catastrofica e che svanirà più velocemente degli altri», conclude Hon.
La stella attorno a cui ruota il nuovo pianeta scoperto è piuttosto vicina a noi e abbastanza luminosa da poter essere osservata mediante il telescopio spaziale James Webb. È ciò che faranno la prossima estate Marc Hon e Nicholas Tusay, dottorando alla Penn State University, con l’obiettivo di determinare la composizione minerale della coda di polvere, ottenendo così informazioni sulle caratteristiche fisiche e sulla potenziale abitabilità di pianeti rocciosi situati al di fuori del Sistema solare.
Per saperne di più:
- Leggi il preprint dell’articolo in uscita su The Astrophysical Journal Letters “A Disintegrating Rocky Planet with Prominent Comet-like Tails Around a Bright Star”, di
Marc Hon, Saul Rappaport, Avi Shporer, Andrew Vanderburg, Karen A. Collins, Cristilyn N. Watkins, Richard P. Schwarz, Khalid Barkaoui, Samuel W. Yee, Joshua N. Winn, Alex S. Polanski, Emily A. Gilbert, David R. Ciardi, Jeroen Audenaert, William Fong, Jack Haviland, Katharine Hesse, Daniel Muthukrishna, Glen Petitpas, Ellie Hadjiyska Schmelzer, Norio Narita, Akihiko Fukui, Sara Seager e George R. Ricker
Equità e inclusione nella cultura scientifica
Prende il via lunedì 5 maggio, e fino al 7 maggio, all’Area della ricerca di Bologna, il meeting “Oltre i confini: equità e inclusione nella cultura scientifica”, il primo incontro formativo promosso dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) su temi cruciali come diversità, equità, accessibilità e inclusione. Ideato per avviare un momento di riflessione e confronto collegiale sul ruolo delle istituzioni scientifiche nell’essere luoghi realmente accoglienti e inclusivi, l’appuntamento vedrà la partecipazione di personale – sia esso amministrativo, tecnico, tecnologico o di ricerca – proveniente dalle 16 sedi dell’ente sparse sul territorio italiano.
La locandina del meeting
Le tre giornate offriranno una preziosa occasione di sensibilizzazione ospitando voci di spicco nel settore. Ad aprire l’evento, Francesca Vecchioni, presidente della Fondazione Diversity e ideatrice di progetti come i Diversity Media Awards e il Diversity Brand Summit, una delle principali promotrici della cultura dell’inclusione nei media, nelle aziende e nella società. Scrittrice e attivista, nel 2021 Vecchioni è entrata nelle “100 donne vincenti” di Forbes e lavora per sensibilizzare sui temi del linguaggio inclusivo, dello hate speech e dei diritti civili.
L’incontro non è solo una riflessione teorica, ma un’opportunità pratica per i partecipanti di acquisire strumenti concreti per promuovere l’inclusione e migliorare la cultura scientifica. I workshop interattivi e le attività di role-play saranno occasioni per esplorare situazioni reali e capire come affrontare in modo inclusivo e sensibile temi come la disabilità sensoriale e fisica, le discriminazioni di genere e le sfide legate all’accessibilità digitale. Si parlerà di normativa, progettazione europea e buone pratiche a livello nazionale e internazionale con Elena Mocchio dell’Ente italiano di normazione (Uni) e si entrerà nel vivo della discussione incrociata e del confronto diretto con esperti di alcuni casi particolari di discriminazione e barriere sociali.
Di barriere architettoniche si parlerà con Valentina Tomirotti, giornalista e attivista nel mondo della diversità e dell’inclusione; di accessibilità cognitiva e comunicativa tratterà Marco Pontis, esperto di neuro-divergenze dell’Università di Perugia. Multiculturalità, razzismo e discriminazione sono alcuni degli argomenti che affronterà Marianna Kalonda Okassaka: italiana di seconda generazione, nota anche come “Marianna The Influenza”, è social media manager della piattaforma Colory per la condivisione e lo scambio tra culture. Infine, Roberto Baiocco, professore della Sapienza Università di Roma, interverrà sul tema delle identità di genere, fondamentale per la promozione di politiche antidiscriminatorie nelle istituzioni pubbliche e scientifiche.
L’evento si inserisce in un momento storico particolarmente significativo, in cui la discussione sulla diversità e l’inclusione è tornata centrale nel dibattito politico e sociale globale. Organizzato dal gruppo di lavoro Inaf Univers@ll per l’equità nell’accesso alla cultura scientifica, in sinergia con il gruppo Gep (Gender Equality Plan) e il Cug (Comitato unico di garanzia) dell’ente, il meeting Inaf è concepito espressamente per il personale e si pone come un’iniziativa concreta e un evento strategico per contrastare le recenti tendenze e favorire una cultura scientifica che sappia abbracciare le diversità, creando un ambiente di lavoro che stimoli la parità e l’accessibilità per tutte le persone.
«L’idea è di promuovere l’equità nell’accesso alla cultura scientifica da una parte, e l’accoglienza e accessibilità delle istituzioni dall’altra per migliorare non solo l’ambiente di lavoro, ma anche la qualità della ricerca e della comunicazione scientifica. Crediamo fermamente che la complessità derivante dalla pluralità sia anche la più grande ricchezza, per l’autodeterminazione individuale e per il superamento di stereotipi e barriere, culturali, sociali o strutturali», dice una delle organizzatrici dell’evento, Stefania Varano, coordinatrice del gruppo Univers@ll. «In un contesto scientifico come il nostro, l’astronomia può diventare, oltre che studio e ricerca, anche un invito al dialogo universale che trascende confini ed etichette».
L’inquinamento luminoso a Loiano
L’inquinamento luminoso (in inglese, light pollution) è un problema ambientale crescente causato da un’illuminazione artificiale eccessiva e mal indirizzata, che altera gli ecosistemi, influisce sulla salute umana e ostacola le osservazioni astronomiche. Negli ultimi anni un importante cambiamento nella tecnologia dell’illuminazione pubblica stradale è stata la transizione dalle lampade al sodio a quelle a Led, che hanno una maggiore efficienza nel trasformare l’energia elettrica in luce e una maggiore durata. Nel corso del 2024, nel paese di Loiano (Bologna) – sul crinale appenninico settentrionale, a circa 37 chilometri da Bologna – è arrivata l’illuminazione pubblica basata sui Led, con la sostituzione dei vecchi lampioni al sodio.
Nell’immagine in falsi colori un confronto fra l’inquinamento luminoso prodotto da Loiano il 21 dicembre 2020 con la Luna al primo quarto (in alto) e il 26 dicembre 2024 senza Luna, dopo il recente passaggio all’illuminazione a Led (in basso). Le immagini sono state riprese dalla cupola del telescopio “Cassini” con la stessa reflex, sensibilità, obbiettivo e tempo di posa. L’intensità della luce riflessa dalle strade e dagli edifici è aumentata di un fattore 2. Gli alberi e il paesaggio debolmente illuminati nell’immagine del 2020 sono una conseguenza della luce lunare e non dell’inquinamento luminoso. Il risultato non dipende dal periodo natalizio, identiche immagine sono state ottenute nel mese di marzo 2025. Crediti: A. Carbognani
Uno degli obiettivi della sostituzione era l’abbattimento dell’inquinamento luminoso che, per un comune che ospita il secondo osservatorio astronomico sul territorio italiano, dovrebbe essere una priorità e motivo di orgoglio. Infatti, sul Monte Orzale, a circa 1460 metri in linea d’aria dalla piazza centrale del paese, si trova la Stazione astronomica di Loiano, che ospita il telescopio “G. D. Cassini”, un riflettore da 152 centimetri di diametro, e il recentissimo sistema di telescopi multipli Tandem (Telescope Array eNabling DEbris Monitoring). La stazione astronomica è gestita dall’Osservatorio di astrofisica e scienza dello spazio di Bologna dell’Inaf.
Con il “Cassini” e Tandem vengono svolte ricerche sulle orbite di satelliti e space debris, asteroidi near-Earth, transiti di pianeti extrasolari, nuclei galattici attivi, transienti ottici e un cielo buio è il migliore strumento di cui un osservatorio astronomico possa disporre: in base alla legge regionale contro l’inquinamento luminoso, la stazione astronomica di Loiano gode teoricamente di un’area di protezione con un raggio di 25 chilometri.
Dopo la transizione a Led, è stato fatto un test sull’inquinamento luminoso locale, riprendendo il paese nel dicembre 2024 dalla cupola del “Cassini” e confrontandola con un’analoga ripresa fatta nel dicembre 2020. Il confronto fra le due immagini mostra che Loiano era più buio con l’illuminazione al sodio. Purtroppo, anche se i corpi illuminanti dei lampioni pubblici dirigono il fascio di luce tendenzialmente verso il basso, sono poco schermati lateralmente e hanno un raggio d’azione molto ampio: non illuminano solo la strada, ma tutto quello che hanno attorno. Il risultato è che ora le strade principali e le facciate degli edifici appaiono molto illuminate e si comportano come giganteschi “specchi” che diffondono la luce verso il cielo e l’osservatorio.
Nel complesso, rispetto al 2020, si può stimare in un fattore due l’aumento dell’output luminoso verso l’osservatorio. Per verificare la situazione sono state effettuate misure con un luxmetro dell’illuminamento sulle strade, ossia il rapporto tra la potenza luminosa della sorgente di luce (il lampione) e la superficie che viene illuminata (la strada). L’illuminamento si misura in lux (simbolo lx).
Come riferimento bisogna tenere presente che la luce solare diretta produce un illuminamento di circa 50mila lux, mentre in una giornata nuvolosa si può scendere a 1000 lux, ma l’occhio se ne accorge poco della differenza perché la risposta agli stimoli è logaritmica e la sensazione di luminosità che si percepisce scende da 4,6 a 3. Per avere una stanza ben illuminata bastano 200 lux, per le strade principali 15 lux sono più che sufficienti per garantire la sicurezza, mentre per le strade secondarie bastano 5 lux.
Una mappa dell’illuminamento delle vie principali di Loiano. Le misure sono state fatte con un luxmetro la sera del 30 marzo 2025 fra le 21:15 e le 22:15 locali, in assenza di traffico veicolare e pedoni. I valori sono espressi in lux. Crediti: A. Carbognani
L’illuminamento è stato campionato per le vie principali di Loiano, SS 65 della Futa, Via Roma, centro del paese e Viale Marconi per un totale di 24 punti, sia sotto i lampioni, sia in mezzo alla strada. Dalle misure effettuate risulta che il centro del paese di Loiano è rimasto piuttosto buio, dove in effetti non c’è ancora stato il passaggio ai Led: l’illuminazione pubblica avviene ancora con le lampade al sodio e il contributo degli esercizi commerciali appare trascurabile. Il contributo maggiore all’inquinamento luminoso proviene dalle strade principali che, pur essendo deserte e con scarso flusso veicolare notturno, appaiono sovrailluminate e diffondono luce in tutte le direzioni.
In base alle misure a campione fatte la potenza elettrica usata per alimentare i lampioni a Led delle strade di Loiano appare elevata e andrebbe ridotta di circa un 50 per cento almeno per ritornare allo stato dell’inquinamento luminoso precedente. Per ridurre l’inquinamento luminoso rispetto alla situazione precedente bisognerebbe schermare meglio i lampioni e andare oltre questa soglia, per arrivare al 60-70 per cento, peraltro con un notevole risparmio sulla bolletta energetica. Come possibile soluzione alternativa andrebbe attenuata l’illuminazione del 50 per cento dopo un certo orario, ad esempio dalle 22 ora locale fino alle 4 del mattino, così da concedere una tregua all’osservatorio.
Marte nel Presepe a primavera
In assenza di Luna, ossia nei primi due giorni e dopo la metà del mese, il cielo di maggio permette ancora di godere dell’osservazione delle galassie, principalmente nelle costellazioni del Leone, della Vergine, nella Chioma di Berenice e dell’Orsa Maggiore. Ma questo mese è anche periodo per l’osservazione degli ammassi globulari che circondano la nostra galassia.
Marte e l’ammasso aperto M44 nei primi giorni di maggio 2025. Simulazione con software Stellarium
M13 in Ercole è il più appariscente, visibile con un binocolo, M92 sempre in Ercole, M3, M53 e M5 i primi osservabili. Ci annuciano che la Via Lattea, ossia il disco della nostra galassia, inizia a essere visibile in cielo.
Simulazione con software Stellarium
Chi ha a disposizione un binocolo nei primi giorni del mese potrà seguire il pianeta Marte che si avvicina prospetticamente all’ammasso aperto M44, o ammasso del Presepe, nella costellazione del Cancro. Il 3 e il 4 sarà presente anche la Luna, che da un lato potrà disturbare la vista ma dall’altro potrà essere anche un’aggiunta suggestiva alle osservazioni. Da osservare nella prima parte della notte, verso le 22, quando il cielo è già abbastanza buio da poter scorgere l’ammasso con facilità. Per chi invece è mattiniero, Venere e Saturno daranno spettacolo verso est e bassi sull’orizzonte, prima del sorgere del Sole. In particolare le mattine del 22, 23 e 24 del mese sarà presente anche la Luna, augurandoci la buona giornata. Un’occasione anche questa per scattare immagini del cielo con qualche particolare del paesaggio all’orizzonte.
Il mese di maggio ci delizia anche con lo sciame meteorico delle Eta Aquaridi, sciame originato dai passaggi della nota cometa di Halley. Con il massimo tra la notte tra il 5 e il 6 del mese, si tratta di meteore piuttosto rapide, con una velocità media di 65 km/s, che producono un’alta percentuale di scie persistenti. Pronti a esprimere un desiderio per l’estate!
Guarda su MediaInaf Tv la videoguida al cielo del mese a cura di Fabrizio Villa:
Una nuova veste per Vesta
Per decenni, gli scienziati hanno ipotizzato che l’asteroide Vesta – uno dei corpi celesti più grandi della fascia degli asteroidi – fosse un mondo mancato, cioè un oggetto celeste differenziato che non è mai riuscito a completare del tutto la propria evoluzione fino a diventare un vero e proprio pianeta. Questa ipotesi è emersa da studi precedenti basati sui dati gravitazionali raccolti dalla missione Dawn della Nasa, che ha rivelato la presenza sulla superficie dell’asteroide di rocce basaltiche, tipiche di corpi che hanno subito una differenziazione planetaria. Secondo il paradigma attuale sulla stratigrafia di Vesta, il corpo celeste sarebbe dunque composto da una crosta basaltica, un mantello mafico e un nucleo metallico, caratteristiche generalmente associate ai pianeti, appunto.
Immagine dell’asteroide Vesta acquisita da una distanza di circa 15mila km dalla sonda della Nasa Dawn in orbita attorno al corpo celeste dal 2011 al 2012. Crediti: Nasa / Jpl-Caltech / Ucla / Mps / Dlr / Ida
Un nuovo studio condotto da un team di ricercatori guidato dal Jet Propulsion Laboratory (Jpl) della Nasa mette ora in discussione questa visione della struttura a tre strati, e con essa l’origine stessa dell’asteroide. Secondo quanto riportato nell’articolo che descrive la ricerca, pubblicato la settimana scorsa su Nature Astronomy, Vesta avrebbe una struttura interna più omogenea, costituita da soli due strati, nessuno dei quali è assimilabile a un core. Niente nucleo, dunque, o se esiste, è estremamente piccolo, dicono i ricercatori.
«La mancanza di un nucleo è stata molto sorprendente», dice a questo proposito Seth Jacobson, scienziato della Michigan State University (Msu) e coautore dello studio. «Quello che ipotizziamo è un modo davvero diverso di pensare a Vesta».
Per arrivare a queste conclusioni, i ricercatori hanno rielaborato alcuni dati raccolti dalla missione Dawn, la sonda della Nasa che tra il 2011 e il 2012 ha visitato Vesta. In particolare, gli scienziati si sono concentrati sul momento d’inerzia dell’asteroide, una misura di come la massa di un corpo è distribuita rispetto al suo asse di rotazione. Poiché i corpi con un nucleo denso presentano caratteristiche di rotazione differenti rispetto a quelli privi di nucleo, il momento d’inerzia rappresenta un parametro diagnostico fondamentale per valutare la distribuzione interna della massa di un corpo e, quindi, il grado di differenziazione del corpo stesso.
Utilizzando stime aggiornate del momento di inerzia di Vesta dedotte dall’analisi di vecchi dati della missione Dawn, il team di ricerca ha potuto misurare con precisione la rotazione e il campo gravitazionale di Vesta, scoprendo che l’asteroide non si comportava come un corpo dotato di nucleo, ma piuttosto come un oggetto composto da due soli strati: un strato inferiore ricco di metalli, solfuro e olivina, e uno strato superiore poroso di ortopirosseno ed eucrite.
«Per anni, i dati gravitazionali provenienti dalle osservazioni di Vesta effettuate dalla sonda Dawn hanno creato perplessità», ricorda il ricercatore del Jpl e primo autore dello studio, Ryan Park. «Dopo quasi un decennio di perfezionamento delle nostre tecniche di calibrazione e di elaborazione, abbiamo ottenuto una straordinaria corrispondenza tra i dati radiometrici del Deep Space Network e le immagini acquisite dalla sonda Dawn. I nostri risultati mostrano che la storia dell’asteroide è molto più complessa di quanto si credesse in precedenza, modellata da processi unici come la differenziazione planetaria interrotta e collisioni tardive».
La nuova visione di Vesta con una struttura a due strati, come dicevamo, mette in discussione l’ipotesi precedente circa l’origine dell’asteroide. Alla luce di questi nuovi risultati, quale potrebbe essere dunque la natura dell’asteroide? I ricercatori avanzano due ipotesi, entrambe – sottolineano – da approfondire ulteriormente. La prima è che Vesta sia un corpo celeste non completamente differenziato: un corpo, cioè, che avrebbe avviato il processo di fusione necessario per formare strati distinti – nucleo, mantello e crosta – senza però completarlo. La seconda ipotesi è che sia il frammento di un pianeta in crescita nel Sistema solare primordiale.
Per quanto riguarda la prima ipotesi, sebbene una differenziazione incompleta sia plausibile, questa non è coerente con la struttura dei meteoriti raccolti finora dagli scienziati, osservano i ricercatori «Siamo davvero certi che questi meteoriti provengano da Vesta», sottolinea Jacobson. «E nessuno di essi mostra evidenti prove di differenziazione incompleta».
L’ipotesi più plausibile, ma ancora tutta da dimostrare, sarebbe dunque la seconda. In questo caso, spiegano i ricercatori, quello che potrebbe essere successo è che, durante la formazione dei pianeti rocciosi, si siano verificate colossali collisioni. Questi scontri da un lato hanno favorito la crescita planetaria, dall’altro hanno prodotto detriti d’impatto. Tra questi detriti espulsi avrebbero potuto esserci frammenti di crosta e mantello fusi privi di nucleo. Vesta potrebbe essere uno di essi.
«I risultati di questo studio hanno implicazioni sulla formazione di Vesta, sia su quando questo asteroide si sia formato sia sul processo di formazione», dice a Media Inaf la responsabile scientifica dello spettrometro a immagine Vir (Visual and Infrared Spectrometer) a bordo di Dawn, Maria Cristina De Sanctis, ricercatrice all’Inaf di Roma non coinvolta nello studio, che abbiamo raggiunto per un commento. «Vesta è considerato il più antico oggetto del Sistema solare, poiché possiamo datare con certezza le meteoriti provenienti da Vesta e quindi sappiamo quando queste si sono formate. Le precedenti ricerche hanno teorizzato un corpo differenziato, con una crosta, un mantello ed un nucleo. La nuova analisi indica un corpo debolmente differenziato, che può suggerire sia che Vesta si sia formata più tardi di quanto precedentemente ipotizzato, sia che sia formata dalla collisione catastrofica di un altro oggetto completamente differenziato. Le due ipotesi sono piuttosto diverse e non abbiamo ancora elementi per propendere per una delle due. L’analisi di dati acquisti oltre dieci anni fa», continua la ricercatrice, «indica come anche dati non “nuovissimi” possano rivelare grosse sorprese. In questo senso, l’analisi dei dati di Dawn, e in particolare dello strumento italiano Vir, che è stato a leadership Inaf Iaps Roma, continua nel tempo e potrebbe dare delle nuove indicazioni sulla storia evolutiva di Vesta».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “A small core in Vesta inferred from Dawn’s observations” di R. S. Park, A. I. Ermakov, A. S. Konopliv, A. T. Vaughan, N. Rambaux, B. G. Bills, J. C. Castillo-Rogez, R. R. Fu, S. A. Jacobson, S. T. Stewart e M. J. Toplis
Foto di gruppo con galassie
Un po’ come gli umani sulla Terra, anche le galassie nell’universo tendono ad aggregarsi in gruppi formati da decine di unità e, su scala più grande, in ammassi ancora più vasti. Oltre alle galassie stesse, questi grossi agglomerati cosmici raccolgono enormi quantità di gas diffuso, con temperature di decine o centinaia di milioni di gradi, e ancor più grandi quantità di invisibile materia oscura. La maggior parte delle galassie risiede in gruppi galattici con massa inferiore a centomila miliardi di masse solari.
Il gruppo di galassie più massiccio all’interno del campo Cosmos-Web, osservato nell’infrarosso con i telescopi spaziali Webb e Hubble. Crediti: Esa/Webb, Nasa & Csa, G. Gozaliasl, A. Koekemoer, M. Franco, and the Cosmos-Web team
Ne è un esempio il gruppo di galassie selezionato dall’Agenzia spaziale europea (Esa) per l’immagine del mese di aprile del telescopio spaziale James Webb (Jwst). Si tratta del gruppo più massiccio all’interno del campo Cosmos-Web, un pezzetto di cielo un po’ più grande della luna piena, in direzione della costellazione del Sestante, oggetto di una survey dettagliata con Jwst che continua il lavoro portato avanti sul più ampio campo Cosmos dai telescopi spaziali Hubble, Xmm-Newton e altri osservatori.
Questo gruppo di galassie – che vediamo com’era sei miliardi e mezzo di anni fa, quando l’universo aveva circa la metà della sua età attuale – è alquanto prominente nel campo Cosmos-Web, dove è stato catalogato con il numero 1. La concentrazione maggiore di galassie si trova subito sotto il centro dell’immagine. Qui si riconoscono alcune galassie di forma rotondeggiante, dai colori giallo e oro.
L’immagine, che combina osservazioni realizzate nel vicino infrarosso con Jwst con dati d’archivio raccolti nel visibile con Hubble, mostra una ricca gamma di colori e racchiude una vasta varietà di scale cosmiche: dalle stelle della nostra galassia, la Via Lattea, caratterizzate dalla tipica forma a sei punte, fino a galassie vicine e lontane, che si trovano a distanze anche maggiori rispetto allo stesso gruppo di galassie. Si possono distinguere galassie a spirale, dischi galattici dall’aspetto un po’ distorto, galassie ellittiche dalla forma più regolare e segni di interazioni galattiche. Le galassie che appaiono con colori più blu sono popolate da stelle giovani, mentre quelle più rosse tendono a essere popolate da stelle più vecchie. Il colore rosso è anche un indicatore della distanza, in quanto l’espansione dell’universo “arrossa” la luce proveniente da sorgenti più lontane.
In una seconda immagine, le osservazioni nell’infrarosso sono state combinate con i dati raccolti nei raggi X dagli osservatori spaziali Xmm-Newton e Chandra (mostrati in viola). Qui si può ammirare la distribuzione del gas caldo diffuso che pervade lo spazio tra le galassie del gruppo, concentrato anch’esso nella parte inferiore dell’immagine.
Il gruppo di galassie più massiccio all’interno del campo Cosmos-Web, osservato con i telescopi spaziali Webb e Hubble nell’infrarosso e con Xmm-Newton e Chandra nei raggi X (questi ultimi in viola). Crediti: Esa/Webb, Nasa & Csa, G. Gozaliasl, A. Koekemoer, M. Franco, and the Cosmos-Web team
Il gruppo ritratto in queste immagini è uno dei 1678 identificati nel campo Cosmos-Web in uno studio guidato da Greta Toni, dottoranda in astrofisica presso l’Università di Bologna, nell’ambito del team dedicato ai gruppi galattici coordinato da Ghassem Gozaliasl delle università di Aalto e Helsinki, in Finlandia. Si tratta del catalogo di gruppi di galassie più grande ottenuto finora dai dati di Jwst utilizzando il software Amico (Adaptive Matched Identifier of Clustered Objects), che è stato sviluppato da Matteo Maturi dell’Università di Heidelberg, in Germania.
La survey Cosmos-Web, con 255 ore di osservazioni usando lo strumento NirCam a bordo di Jwst, è un treasury programme del telescopio spaziale, un programma ambizioso che cerca di rispondere a diverse domande fondamentali sull’universo. Spingendo la ricerca di gruppi galattici fino a quasi dodici miliardi di anni fa, il progetto ha tre obiettivi principali: identificare le galassie durante l’epoca della reionizzazione; indagare la formazione delle galassie più massicce del cosmo; e comprendere come la relazione tra la massa delle stelle di una galassia e la massa del suo alone galattico esteso si evolve nel corso della storia cosmica.
Guarda il servizio con l’intervista a Greta Toni su MediaInaf Tv:
youtube.com/embed/J4N8fKAMkc4?…
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “The Cosmos-Web deep galaxy group catalog up to z=3.7” di Greta Toni, Ghassem Gozaliasl, Matteo Maturi, Lauro Moscardini, Alexis Finoguenov, Gianluca Castignani, Fabrizio Gentile, Kaija Virolainen, et al.
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “Cosmos-Web: An Overview of the Jwst Cosmic Origins Survey” di C. Casey et al.
- Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “Amico galaxy clusters in Kids-Dr3: sample properties and selection function” di M. Maturi et al.
- Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “Chandra centres for Cosmos X-ray galaxy groups: differences in stellar properties between central dominant and offset brightest group galaxies” di G. Gozaliasl, A. Finoguenov, et al.
Game-over per la cometa Swan
In una precedente news vi avevamo parlato della cometa C/2025 F2 (Swan) dicendo che avrebbe raggiunto il perielio il 1° maggio con una magnitudine di +5 e un discreto periodo di osservabilità. La cometa avrebbe dovuto essere visibile di sera, alle 21 locali, a circa 11° gradi di altezza sull’orizzonte ovest, nella costellazione del Toro. Sappiamo che il nucleo di una cometa è un blocco di roccia e ghiaccio e che durante l’avvicinamento al Sole la sublimazione della componente volatile aumenta drasticamente per effetto del calore solare. La Swan non aveva fatto eccezione a questa regola, anzi il 5 aprile era stato osservato un outburst ossia un aumento temporaneo di luminosità della chioma, indice di un aumento dell’emissione di gas e polveri nello spazio. All’epoca la chioma della cometa si presentava con il caratteristico colore verde dovuto all’emissione delle bande di Swan della molecola biatomica del carbonio, segno che la chioma era più ricca di gas rispetto alle polveri.
La cometa Swan, ripresa il 28 aprile alle 20:03 UTC da Andrea Aletti e Federico Bellini della Società Astronomica “G. V. Schiaparelli” di Varese, usando un telescopio Schmid-Cassegrain da 35 cm di diametro. Come si vede la condensazione centrale è del tutto assente, è rimasta solo la chioma con un accenno di coda che si sta dissolvendo
L’outburst del 5 aprile però deve essere stato troppo intenso per l’integrità strutturale del nucleo, e a partire dal 16 aprile la cometa ha iniziato a indebolirsi perdendo la condensazione centrale, ossia la parte più interna e luminosa della chioma, indice di una frammentazione del nucleo. Al momento la cometa Swan brilla attorno alla magnitudine +8, con la luminosità che tende a diminuire invece di salire per l’avvicinarsi del perielio come accade nelle comete “sane”. Quello che resta della cometa si disperderà definitivamente nello spazio.
La disintegrazione di un nucleo cometario durante il passaggio al perielio è un evento abbastanza comune, specialmente fra le comete di piccole dimensioni e quelle che fanno il passaggio per la prima volta. Le cause della disintegrazione possono essere diverse. Si va dallo stress termico, alla forza di marea esercitata dal Sole, all’instabilità rotazionale oppure alla debolezza strutturale. Lo stress termico si verifica a causa del riscaldamento solare che genera una rapida sublimazione dei ghiacci: se la pressione interna del nucleo aumenta troppo rapidamente, può causarne la rottura. La forza di marea è una conseguenza della diversa forza di gravità avvertita da zone opposte del nucleo mentre passa radente il Sole, ma la Swan si è disintegrata quando era a circa 200 milioni di km dalla nostra stella e la forza di marea in questo caso era nulla. L’instabilità rotazionale invece è dovuta a un degassamento asimmetrico del nucleo che può ruotare sempre più velocemente fino a superare il valore della spin-barrier che per un nucleo cometario a bassa densità media vale circa 3,5-4 ore. Se il periodo diminuisce sotto questa soglia si verifica la rottura. Infine, la frammentazione può essere una conseguenza della semplice debolezza strutturale: il nucleo cometario può avere una forza di coesione talmente debole che basta l’aumento dell’attività di sublimazione per disperderne nello spazio i blocchi che lo compongono. Probabilmente questo è stato il fato della Swan.
AtLast, una parabola da 50 metri sulle Ande cilene
Grazie agli oltre cinquemila metri sul livello del mare, alla lontananza di altre fonti luminose e al bassissimo tasso di umidità dell’aria, il cielo del deserto di Atacama, nelle Ande cilene, è universalmente riconosciuto come il migliore per le osservazioni astronomiche. È in questo scenario unico, già sede di numerosi strumenti astronomici, che un consorzio internazionale coordinato dall’astrofisica italiana Claudia Cicone, oggi all’Università di Oslo, ha in mente di costruire AtLast (Atacama Large Submillimeter Telescope), un radiotelescopio rivoluzionario sotto molteplici aspetti. Dopo aver beneficiato di fondi Horizon 2020, il progetto – presentato in uno studio pubblicato a febbraio 2025 – inaugura la “fase due” con fondi della nuova programmazione europea.
A sinistra il Sardinia Radio Telescope (64 metri di diametro) nel territorio di San Basilio, in Sardegna. A destra un rendering del telescopio AtLast (50 metri di diametro) nel sito in cui ne è prevista l’effettiva costruzione, il plateau del Chajnantor nel deserto di Atacama, in Cile. Crediti: Mroczkowski et al. (2025)., C. Cicone (UiO/AtLast), P. Soletta (Inaf)
Partendo dall’aspetto ambientale, AtLast si pone l’ambizioso obiettivo di diventare la prima grande facility astronomica energeticamente autosufficiente (o quasi) grazie all’utilizzo di fonti rinnovabili come l’energia solare e l’idrogeno per far fronte all’importante consumo di elettricità. Il tutto senza danneggiare il vicino villaggio di San Pedro de Atacama e, anzi, studiando modi di fornire il surplus di energia anche ai suoi abitanti. Quando si pensa a un telescopio, infatti, occorre considerare che il dispendio energetico non è soltanto quello relativo ai movimenti meccanici, alla presenza dei ricercatori o ai potenti computer che lavorano sui dati: un aspetto fondamentale è anche quello del raffreddamento dei ricevitori criogenici, che devono lavorare a temperature bassissime per poter ricevere un segnale il più possibile pulito.
La coordinatrice del progetto AtLast, Claudia Cicone dell’Università di Oslo, presenta i risultati dello studio preliminare sul telescopio con parabola da 50 metri che si vorrebbe realizzare in Cile. Crediti: Martina D’Angelo (UiO/AtLast)
Poi c’è l’aspetto fondante, quello scientifico, che nasce da un’esigenza che la comunità astronomica manifesta già da molto tempo: la possibilità di osservare onde elettromagnetiche sub millimetriche con una grande parabola singola. «Stiamo lavorando», spiega Claudia Cicone a Media Inaf, «affinché AtLast sia la migliore infrastruttura astronomica da terra del futuro: un osservatorio sub-millimetrico tecnologicamente raffinato che permetterà all’intera comunità astrofisica di realizzare scoperte ad alto impatto scientifico per il prossimi 50 anni, e allo stesso tempo la prima infrastruttura astronomica che pone la sostenibilità ambientale e sociale come priorità al pari del potenziale scientifico».
L’idea alla base di AtLast è dunque poter costruire un grande radiotelescopio dotato di parabola in grado di muoversi sia di lato che in altezza (movimento altazimutale) per poter inseguire oggetti sulla volta celeste e osservarli a frequenze molto alte, oltre le onde radio alle quali osservano di solito i radiotelescopi. L’obbiettivo è arrivare all’intervallo tra microonde e raggi infrarossi, caratterizzato da lunghezze che vanno da un centimetro a 0,3 millimetri. Tradotto in frequenza: da 35 a 950 GHz.
Allo stato attuale, i radiotelescopi più grandi (fino a cento metri di diametro della parabola) in grado di muoversi possono osservare onde elettromagnetiche la cui lunghezza non può scendere sotto i 2 o 3 millimetri – ovvero circa 100 GHz (o poco oltre) in frequenza. Il limite è dato dalle deformazioni dovute al peso stesso di queste grandi parabole, che ne fa collassare la superficie, sebbene alcuni (pochi) siano dotati di sistemi di correzione. Osservare onde di lunghezza inferiore non è impossibile, ma per farlo, a oggi, occorre utilizzare reti più o meno estese composte da molti radiotelescopi più piccoli la cui superficie, pur raccogliendo singolarmente meno segnale, è più difficilmente deformabile e quindi mette meglio a fuoco gli oggetti lontani. Un esempio virtuoso, non a caso anch’esso costruito in Cile, è l’array di telescopi Alma (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array) dell’Eso, che tuttavia ha alcune limitazioni che una parabola singola potrebbe superare.
Sergio Poppi, responsabile delle operazioni (RdO) del Sardinia Radio Telescope dell’Inaf, spiega le caratteristiche del radiotelescopio ai colleghi presenti al primo meeting di AtLast2 a Cagliari. Crediti: Martina D’Angelo (UiO/AtLast)
L’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) è partner del consorzio di AtLast grazie all’expertise maturata nella gestione e nell’utilizzo del Sardinia Radio Telescope (Srt) di San Basilio, in Sardegna e, ancora prima, con le antenne Grueff e Croce del Nord di Medicina (Bologna) e Noto (Siracusa). Il radiotelescopio sardo – che vede la diretta partecipazione ad AtLast con il responsabile delle operazioni, Sergio Poppi – si caratterizza per essere uno tra i più performanti, principalmente per due motivi. Anzitutto, Srt è dotato di una parabola di 64 metri di diametro (grande ma non estrema) dotata di superficie attiva, cioè composta da circa mille pannelli gestiti da un sistema di pistoni idraulici (attuatori) che li possono far muovere correggendo così le deformazioni dovute a gravità e temperatura. Inoltre ospita un invidiabile set osservativo composto di una dozzina di ricevitori interscambiabili tra loro per poter osservare lo stesso oggetto a frequenze molto diverse (da 0,3 a 110 GHz, ovvero onde da un metro a tre millimetri) e con cambi automatizzati (in inglese frequency agility).
Il potenziale dei ricevitori si Srt è stato raggiunto alla fine del 2023 con la conclusione di un progetto Pon da quasi venti milioni di euro coordinato dall’astrofisica Federica Govoni, attuale direttrice dell’Inaf di Cagliari. Questo importante upgrade ha fornito proprio i ricevitori alle frequenze più alte, fino a 100 GHz, con alcuni dei quali è stata appena realizzata la “prima luce”, le cui osservazioni verranno divulgate a breve e che serviranno con tutta probabilità anche come banco di prova iniziale per testare la collaborazione con AtLast. Le frequenze osservative più basse previste per quest’ultimo, infatti, sono quelle più alte a cui è in grado di osservare Srt: per questo sarà interessante vederli lavorare insieme. Non è un caso, dunque, che il primo meeting della fase due del progetto AtLast sia in corso in questi giorni, dal 28 al 30 aprile, proprio a Cagliari, dove si sono riuniti molti degli oltre 140 scienziati del consorzio.
Una nuova origine per l’oro e altri elementi pesanti
L’universo primordiale era formato da idrogeno, elio e una scarsa quantità di litio: questi elementi, i più leggeri della tavola periodica, risalgono ai primi, fatidici minuti della storia cosmica. In seguito, molti altri elementi più pesanti, tra cui il ferro, sono stati forgiati all’interno delle stelle. E quelli ancora più pesanti, come l’oro? Questo è uno dei più grandi misteri dell’astrofisica.
Illustrazione di un brillamento gigante di magnetar. Le linee di campo magnetico sono indicate in verde. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech
«È una domanda piuttosto fondamentale per quanto riguarda l’origine della materia complessa nell’universo», afferma Anirudh Patel, dottorando alla Columbia University di New York. «È un enigma interessante che in realtà non è stato risolto». Patel ha condotto uno studio utilizzando dati d’archivio di venti anni fa provenienti dai telescopi della Nasa e dell’Agenzia spaziale europea (Esa), che ha trovato prove di una fonte sorprendente di questi elementi pesanti, per giunta in grande quantità: i brillamenti delle magnetar, le stelle di neutroni altamente magnetizzate. Lo studio è stato pubblicato oggi su The Astrophysical Journal Letters.
Gli autori dello studio stimano che le gigantesche esplosioni delle magnetar potrebbero contribuire fino al dieci per cento dell’abbondanza totale di elementi più pesanti del ferro nella nostra galassia, la Via Lattea. Poiché le magnetar sono apparse relativamente presto nella storia di evoluzione stellare dell’universo, i primi nuclei di oro potrebbero esser stati prodotti proprio in questo modo. «Si tratta della risposta a una delle domande del secolo, la soluzione di un mistero utilizzando dati d’archivio che erano stati dimenticati», aggiunge Eric Burns, astrofisico presso la Louisiana State University di Baton Rouge e coautore dello studio.
Come si produrrebbe l’oro in una magnetar?
Le stelle di neutroni sono i nuclei collassati di stelle esplose. Sono così dense che un cucchiaino di materiale di una stella di neutroni, sulla Terra, peserebbe fino a un miliardo di tonnellate. Una magnetar è una stella di neutroni con un campo magnetico estremamente potente. In rare occasioni, le magnetar rilasciano un’enorme quantità di radiazioni ad alta energia quando subiscono un terremoto stellare (in inglese: starquake, letteralmente: stellamoto), che frattura la crosta della stella di neutroni proprio come un terremoto terrestre. I terremoti stellari potrebbero anche essere associati ai brillamenti giganti di magnetar, espulsioni di radiazione così potenti da avere un impatto persino sull’atmosfera terrestre. Solo tre brillamenti giganti di magnetar sono stati osservati nella Via Lattea e nella vicina Grande Nube di Magellano, e sette all’esterno.
Patel e colleghi, tra cui il suo relatore Brian Metzger, professore alla Columbia University e ricercatore senior presso il Flatiron Institute di New York, hanno riflettuto su una possibile corrispondenza tra la radiazione proveniente dai brillamenti giganti e la formazione di elementi pesanti in quel luogo. Ciò avverrebbe attraverso il cosiddetto “processo r” (dove la ‘r’ sta per rapido), che mediante la cattura di neutroni trasforma i nuclei atomici più leggeri in nuclei più pesanti.
Infografica che illustra come i brillamenti giganti di magnetar producono elementi pesanti.
Credit: Lucy Reading-Ikkanda/Simons Foundation
I protoni definiscono l’identità di un elemento nella tavola periodica: l’idrogeno ha un protone, l’elio ne ha due, il litio tre, e così via. I nuclei atomici contengono anche neutroni, che non influenzano l’identità dell’elemento, ma contribuiscono alla sua massa. A volte, quando un nucleo cattura un neutrone in più, può diventare instabile e si verifica un processo di decadimento nucleare che converte un neutrone in un protone: in questo modo, cambia l’identità dell’elemento in questione, avanzando di una casella nella tavola periodica. Per esempio, un nucleo d’oro (caratterizzato da 79 protoni) potrebbe assorbire un neutrone in più e poi trasformarsi in mercurio (che di protoni ne ha 80).
L’ambiente di una stella di neutroni perturbata è straordinario. Qui, la densità dei neutroni è così elevata che accade qualcosa di ancora più strano: singoli nuclei atomici possono catturare rapidamente così tanti neutroni da subire decadimenti multipli, portando alla creazione di un elemento molto più pesante, come l’uranio.
Quando gli astronomi hanno osservato la kilonova derivante dalla collisione di due stelle di neutroni nel 2017 combinando i dati dell’osservatorio di onde gravitazionali Ligo-Virgo con quelli dei telescopi spaziali Nasa Fermi ed Esa Integral, hanno confermato che questo evento avrebbe potuto creare oro, platino e altri elementi pesanti. Ma le fusioni tra stelle di neutroni avvengono troppo tardi nella cronologia cosmica per spiegare la formazione dell’oro e di altri elementi pesanti nelle ere più antiche dell’universo. Una recente ricerca condotta dai coautori del nuovo studio – Jakub Cehula della Charles University di Praga, Todd Thompson della Ohio State University e Metzger – ha scoperto che i brillamenti delle magnetar possono riscaldare ed espellere materiale dalla crosta delle stelle di neutroni ad alta velocità, rendendole una potenziale sorgente di questi elementi.
Alla scoperta di segreti in vecchi dati
Inizialmente, Metzger e colleghi pensavano che la firma derivante dalla creazione e distribuzione di elementi pesanti in una magnetar sarebbe apparsa nella luce visibile e ultravioletta, e avevano pubblicato le loro previsioni. Poi Burns, in Louisiana, si chiese se potesse esistere anche un segnale nei raggi gamma sufficientemente intenso da essere rilevato. Chiese a Metzger e Patel di verificare la cosa, e loro scoprirono che poteva effettivamente esistere una firma del genere. «A un certo punto, ci siamo detti: ‘ok, dovremmo chiedere agli astronomi osservativi se ne hanno vista qualcuna’», ricorda Metzger.
Così Burns ha consultato i dati sui raggi gamma del più recente brillamento gigante osservato, nel dicembre 2004. Si è reso conto che, sebbene la fase iniziale dell’esplosione fosse stata ben spiegata, un team di ricercatori guidati da Sandro Mereghetti dell’Istituto nazionale di astrofisica a Milano aveva identificato anche un segnale più piccolo proveniente dalla magnetar, nei dati di Integral, una missione Esa recentemente terminata. «Fu notato all’epoca, ma nessuno aveva idea di cosa potesse trattarsi», nota Burns.
Il satellite Integral. Crediti: Esa
Burns pensava che lui e Patel lo stessero prendendo in giro, racconta Metzger, perché la previsione del modello sviluppato dal loro team somigliava molto al segnale misterioso visto nei dati del 2004. In altre parole, il segnale di raggi gamma rilevato oltre venti anni fa corrispondeva a quello che dovrebbe apparire quando gli elementi pesanti vengono creati e poi distribuiti in un brillamento gigante di una magnetar. Patel era così emozionato da non riuscire a pensare ad altro per le due settimane successive. «Era l’unica cosa che avevo in mente», commenta. I ricercatori hanno corroborato le loro conclusioni utilizzando i dati di altre due missioni della Nasa, dedicate allo studio della fisica solare: la missione Rhessi (Reuven Ramaty High Energy Solar Spectroscopic Imager), ormai in pensione, e il satellite Wind, ancora operativo, che avevano anch’essi osservato il brillamento gigante di magnetar all’epoca.
Prossimi passi nella corsa all’oro delle magnetar
La futura missione Cosi (Compton Spectrometer and Imager) della Nasa, un telescopio a raggi gamma con un grande campo di vista, potrà dare seguito a questi risultati. La missione, il cui lancio è previsto per il 2027, studierà fenomeni energetici nel cosmo, tra cui i brillamenti giganti delle magnetar, e potrà identificare i singoli elementi creati in questi eventi, fornendo un ulteriore passo avanti nella comprensione dell’origine dei nuclei atomici più pesanti. I ricercatori analizzeranno anche altri dati d’archivio per cercare possibili segreti nascosti nelle osservazioni di altri brillamenti giganti di magnetar. «È molto interessante pensare a come alcuni materiali presenti nel mio telefono o nel mio computer portatile siano stati forgiati in queste esplosioni estreme nel corso della storia della nostra galassia», conclude Patel.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “Direct evidence for r-process nucleosynthesis in delayed MeV emission from the SGR 1806-20 magnetar giant flare” di Anirudh Patel, Brian D. Metzger, Jakub Cehula, Eric Burns, Jared A. Goldberg e Todd A. Thompson
- Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “Dynamics of baryon ejection in magnetar giant flares: implications for radio afterglows, r-process nucleosynthesis, and fast radio bursts” di Jakub Cehula, Todd A Thompson, Brian D Metzger
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “The First Giant Flare from SGR 1806–20: Observations Using the Anticoincidence Shield of the Spectrometer on Integral” di S. Mereghetti, D. Götz, A. von Kienlin, A. Rau, G. Lichti, G. Weidenspointner, e P. Jean
- Leggi su Media Inaf l’articolo “A volte ritornano: il brillamento gigante del 2004”, di Claudia Mignone
E se anche l’universo ruotasse?
Tutti gli oggetti dell’universo osservabile ruotano: pianeti, stelle, sistemi stellari, buchi neri e galassie. E se questa “regola cosmica” si applicasse allo stesso universo nella sua interezza? Secondo quanto riportato in uno studio pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, questa ipotesi potrebbe finalmente risolvere uno dei grandi misteri della cosmologia: la tensione di Hubble, un disaccordo di lunga data tra i risultati dei due principali metodi per misurare quanto velocemente l’universo si stia espandendo. Un metodo consiste nell’osservare le candele standard — stelle e supernove di cui si conosce la luminosità intrinseca — per confrontarne la luminosità apparente e ricavare così le distanze delle galassie in cui si trovano, determinando il tasso di espansione dell’universo negli ultimi miliardi di anni. L’altro metodo si basa sull’analisi della radiazione cosmica di fondo (Cmb) e consente di stimare il tasso di espansione nei primi istanti di vita dell’universo. Ognuno fornisce un valore diverso per il tasso di espansione.
La Galassia Vortice, M51, è una galassia a spirale a 31 milioni di ani luce da noi. Mostra come nella natura si ritrovino spesso oggetti in rotazione. Crediti: Nasa
I modelli attuali affermano che l’universo si espande ugualmente in tutte le direzioni senza segni di rotazione. Ciò riflette le osservazioni della maggior parte degli astronomi, ma non risolve la discrepanza tra i tassi d’espansione dell’universo trovati con i due metodi. La tensione di Hubble si presenta quindi come l’unica crepa nell’altrimenti splendente armatura del modello Lambda-Cdm, il modello cosmologico in uso.
Lo studio appena pubblicato, guidato da Balázs Endre Szigeti del Centro di ricerca Wigner in Ungheria e da István Szapudi dell’Università delle Hawaii, propone un modello matematico per l’universo che presuppone che valgano le regole standard per l’espansione con l’aggiunta di una piccola rotazione. «Per parafrasare il filosofo greco Eraclito con il suo Panta rei, ovvero tutto scorre, noi abbiamo pensato che forse Panta kykloutai ovvero tutto ruota», afferma Szapudi.
L’idea di un universo rotante è da attribuirsi a Gödel nel 1947, che venne poi appoggiato anche da Stephen Hawking. Lo studio di Szigeti e Szapudi propone un’approssimazione newtoniana del modello di Gödel. Il loro modello suggerisce che l’universo potrebbe ruotare una volta ogni 500 miliardi di anni – troppo lentamente per essere rilevato facilmente, ma abbastanza da influenzare l’espansione dello spazio nel tempo. «Con nostra grande sorpresa, abbiamo scoperto che il nostro modello con rotazione risolve il paradosso senza contraddire le attuali misurazioni astronomiche. Ancora meglio, è compatibile con altri modelli che prevedono una rotazione. Forse, dunque, tutto davvero ruota. Oppure, Panta Kykloutai!», conclude Szapudi.
L’idea che l’universo possa ruotare naturalmente trova un supporto indiretto anche nelle recenti osservazioni che suggeriscono una possibile anisotropia nell’espansione di Hubble, dedotta da studi nei raggi X. Inoltre, gli effetti tipici di una rotazione cosmica presentano una forma funzionale simile a quella prevista da modelli che coinvolgono fotoni oscuri, considerati tra i candidati più promettenti per spiegare la tensione di Hubble.
In conclusione, l’ipotesi degli autori non sembra violare nessuna delle leggi fisiche conosciute e potrebbe spiegare perché le misurazioni dell’espansione dell’universo non sono del tutto concordi. Il prossimo passo sarà trasformare la teoria in un modello al computer completo e trovare modi per individuare i segni di questa lenta rotazione cosmica.
Per saperne di più:
- Leggi su Monthly notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “Can rotation solve the Hubble Puzzle?” di Balázs Endre Szigeti , István Szapudi , Imre Ferenc Barna , Gergely Gábor Barnaföldi.
A volte ritornano: il brillamento gigante del 2004
Ogni tanto, nell’universo, un terremoto stellare squarcia la superficie di una magnetar, una stella di neutroni dal campo magnetico molto intenso, sputando fuori una gigantesca quantità di energia. Migliaia di anni più tardi, sulla Terra, arriva notizia della colossale esplosione cosmica, sotto forma di raggi gamma. E se gli astrofisici, oltre a essersi preventivamente attrezzati con un satellite sensibile a questa radiazione e opportunamente piazzato in orbita, hanno anche un pizzico di fortuna, possono catturare un segnale mai visto prima.
Sandro Mereghetti, ricercatore Inaf presso l’Istituto di astrofisica spaziale e fisica cosmica a Milano
È quello che è successo poco più di vent’anni fa, alle 21:30 tempo universale – 22:30 ora italiana – del 27 dicembre 2004, quando la missione Integral dell’Agenzia spaziale europea ha rivelato un brillamento gigante senza precedenti. «In realtà è un fenomeno molto raro: di queste esplosioni, chiamate in inglese giant flare, se ne sono viste solamente tre in cinquant’anni di osservazioni. L’ultima è proprio questa del dicembre 2004, che delle tre osservate finora è stata decisamente la più brillante, la più potente di tutte», spiega a Media Inaf Sandro Mereghetti, ricercatore dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf).
La sorgente di questo segnale, la magnetar Sgr 1806-20, si trova nella nostra galassia, la Via Lattea, a circa trentamila anni luce dalla Terra. Aveva già mostrato segni di attività da un paio di mesi e diversi gruppi di ricerca, Mereghetti compreso, la stavano studiando con vari telescopi spaziali. Poi una coincidenza cosmica ha fatto sì che il segnale più interessante raggiungesse il nostro pianeta tra il pranzo di Natale e la vigilia di capodanno. «È un periodo un po’ sfortunato perché si tende a essere in vacanza in quei giorni, quindi ci ha colti un po’ di sorpresa», scherza l’astrofisico. «Certo eravamo pronti a lavorarci, però se il segnale non fosse arrivato proprio durante le ferie di Natale, magari saremmo stati più svelti». In realtà Mereghetti, allora in forza all’Istituto di astrofisica spaziale e fisica cosmica del Cnr di Milano (che sarebbe di lì a poco confluito nel neo-nato Inaf), fu il primo, insieme ai suoi collaboratori, ad annunciare l’osservazione di questo portentoso brillamento con una circolare sulla piattaforma Gcn (General Coordinates Network) della Nasa, il 29 dicembre.
Non era solo l’intensità formidabile di questo giant flare a stuzzicare la curiosità degli studiosi. Gli altri due brillamenti di questo tipo, osservati rispettivamente nel 1979 e nel 1998, erano caratterizzati da due fasi: un burst iniziale, molto breve e molto brillante, dalla durata inferiore a un secondo, seguito da un’emissione che dura qualche minuto e che si vede pulsare, perché la stella di neutroni gira. «Nel giant flare del 2004, grazie alla grande sensibilità di Integral, abbiamo visto una terza fase: un’emissione gamma durata per più di un’ora, che non era mai stata vista», chiarisce Mereghetti.
Rappresentazione artistica del telescopio spaziale Integral. Crediti: Esa
All’epoca, i ricercatori interpretarono la terza fase del brillamento gigante in maniera non dissimile dal fenomeno dell’afterglow che si osserva nei lampi di raggi gamma (in inglese Gamma-ray burst, o Grb). Durante queste esplosioni, infatti, viene emessa una grande quantità di materia a velocità relativistiche che, una volta espulsa, si riversa violentemente sul mezzo circostante, generando onde d’urto e l’emissione di radiazione ad alta energia che può durare diverse ore o anche di più. Qualcosa di analogo sembrava celarsi anche dietro l’inedito comportamento di questa magnetar.
Una spiegazione qualitativa ma assolutamente soddisfacente, che fu pubblicata sull’Astrophysical Journal nell’aprile del 2005. «Avevamo concluso che non poteva essere un’emissione proveniente dalle immediate vicinanze della stella, come la componente pulsata, perché altrimenti avremmo visto ancora le pulsazioni», sottolinea il ricercatore. «Doveva trattarsi di qualcosa che avveniva lontano dalla stella, probabilmente nel materiale scagliato fuori durante il flare. Non poteva trattarsi di un processo che avveniva nella magnetosfera perché abbiamo cercato le pulsazioni e non si vedevano più, si vedono soltanto nella nella parte precedente, nella cosiddetta coda pulsata».
Negli anni a seguire, il cielo ai raggi gamma si è rivelato meno generoso, se non altro in fatto di brillamenti giganti: non ne sono stati osservati altri da allora. Ma due decenni più tardi, questa preziosa osservazione è risalita agli onori della cronaca. Del resto, non sarebbe corretto dare del taccagno al cielo delle alte energie, che regala giornalmente lampi di raggi gamma ai telescopi spaziali e che ha permesso, nel 2017, di identificare la prima kilonova generata dalla coalescenza di due stelle di neutroni, mediante la rilevazione congiunta di un Grb e di un’onda gravitazionale. È proprio quest’ultima scoperta a rimettere in moto la storia iniziata con il giant flare del 2004.
La coalescenza di due stelle di neutroni si era rivelata essere una fucina di elementi pesanti: parliamo di quegli elementi davvero pesanti, più pesanti del ferro, che non si formano attraverso i consueti processi di nucleosintesi all’interno delle stelle. Metalli pregiati come l’oro e il platino, per capirci. La kilonova aveva finalmente svelato un sito cosmico dove questi rari elementi prendono forma. Ma le collisioni tra stelle di neutroni, anch’esse piuttosto rare, non sarebbero in grado, da sole, di spiegare l’abbondanza di questi elementi osservata oggi nell’universo. Per questo, dall’altro lato dell’oceano Atlantico, un gruppo di astrofisici teorici inizia a indagare possibili meccanismi alternativi. Le magnetar, per esempio.
Una rottura nella crosta di una stella di neutroni altamente magnetizzata, mostrata qui in un rendering artistico, può innescare eruzioni ad alta energia. Crediti: Nasa’s Goddard Space Flight Center/S. Wiessinger
Sulla base dei calcoli sviluppati nel 2024 da Brian Metzger, professore alla Columbia University e ricercatore senior presso il Flatiron Institute di New York, insieme ai suoi collaboratori, l’esplosione che genera i brillamenti giganti può espellere materiale dalla superficie di una magnetar nello spazio circostante, dando origine a quello che gli astrofisici chiamano il “processo r” (o rapido). Proprio come in una kilonova, questo processo crea nuclei atomici radioattivi pesanti e instabili, che decadono rapidamente, formando elementi stabili, come appunto l’oro. Durante il decadimento, questi elementi radioattivi emettono un bagliore luminoso, che dovrebbe essere possibile osservare proprio nei raggi gamma.
Dopo una serie di scambi via email con la comunità degli astronomi osservativi, Metzger e collaboratori scoprono che un segnale di questo tipo era stato effettivamente visto vent’anni prima: il potente giant flare scoperto da Integral e osservato poi con altri satelliti nel 2004. L’accordo tra il loro modello e i dati d’archivio è eccellente, ma poiché chi studia le magnetar generalmente non si occupa della nucleosintesi di elementi pesanti, nessuno ci aveva pensato prima. Per Anirudh Patel, dottorando alla Columbia University di New York e primo autore dell’articolo pubblicato oggi su The Astrophysical Journal Letters, «è stata un’emozione incredibile vedere la nostra previsione confermata dai dati esistenti e comprendere le implicazioni che questa scoperta ha per la storia di una parte della materia che compone il nostro pianeta».
Il nuovo modello teorico spiega l’emissione a tre fasi in una maniera leggermente diversa da come era stata interpretata subito dopo le osservazioni. Mereghetti nota che «il loro modello è anche molto più dettagliato per cui riescono a riprodurre sia lo spettro che l’evoluzione temporale osservata nei raggi gamma». Durante le fasi iniziali del flare, quando avviene questa emissione potentissima, parte della radiazione riscalda un pezzo della superficie della magnetar. «L’enorme irraggiamento sulla superficie della stella di neutroni», aggiunge l’astrofisico, «provoca un’espulsione di materia a velocità relativistiche, come del resto avevamo detto anche noi vent’anni fa. Quello che loro hanno calcolato però è che, in questi getti di materia, si possono formare degli elementi radioattivi grazie al processo di nucleosintesi “rapido”, poiché la materia espulsa è un pezzo di stella di neutroni, non un pezzo di una stella qualsiasi, quindi un materiale molto ricco di neutroni. Gli elementi radioattivi poi decadono e, con l’energia del decadimento, alimentano l’emissione che abbiamo osservato nei raggi gamma».
Illustrazione schematica della sequenza di eventi in un brillamento gigante di magnetar: a sinistra, l’esplosione espelle materia e radiazione dalla superficie, dando origine al breve e intenso burst iniziale; al centro, l’emissione è modulata dalla rotazione della magnetar; a destra, infine, il materiale espulso, ricco di neutroni, mette in moto il processo rapido di nucleosintesi, generando elementi pesanti come l’oro e il platino. Crediti: Anirudh Patel et al. 2025
Questi eventi esplosivi sulla superficie delle magnetar potrebbero produrre una quantità di elementi pesanti pari alla massa di un pianeta come Marte o la Terra. Una quantità rispettabile, pur se circa cento volte inferiore rispetto a quella prodotta da una kilonova, ma molto importante nell’alchimia generale dell’universo. Infatti i giant flare sono un fenomeno molto più frequente rispetto alla collisione tra due stelle di neutroni, e soprattutto si manifestano prima nella storia del cosmo. Mereghetti ricorda come la coalescenza di due stelle di neutroni sia un processo che ha luogo miliardi di anni dopo che le stelle si sono formate: «prima bisogna formare due stelle di neutroni in un sistema binario, poi bisogna aspettare che l’orbita in cui si trovano decada, il che prende centinaia di milioni di anni se non miliardi di anni. La coalescenza di due stelle di neutroni avviene molto tempo dopo che la stella di neutroni si è formata, mentre le magnetar sono stelle di neutroni giovani, quindi queste esplosioni sulle magnetar avvengono molto prima in termini di evoluzione stellare». Il nuovo canale di produzione, descritto da Patel e collaboratori e dimostrato dalle osservazioni del 2004, è dunque un modo per arricchire di metalli pesanti generazioni di stelle più antiche, e potrebbe aver contribuito fino al dieci percento delle abbondanze osservate oggi nel cosmo. Secondo Metzger «questa singola, gigantesca esplosione è stata così prodigiosa nel creare questi elementi pesanti che l’accumulo di eventi simili nel corso della storia della nostra galassia potrebbe aver contribuito a una frazione significativa di tutti questi elementi sulla Terra».
Mereghetti si dice soddisfatto del corso degli eventi. «L’articolo era stato ben accetto e aveva suscitato interesse già ai tempi», racconta, «perché era la scoperta di una cosa nuova. Il fatto che poi a distanza di molti anni venga trovata una possibile spiegazione ancora più dettagliata, più precisa, è senz’altro interessante anche perché riporta l’attenzione sulle magnetar». Il merito della scoperta, oltre ai ricercatori coinvolti e alla disponibilità di Integral, lanciato appena due anni prima, si deve anche a una buona dose di fortuna, ammette. Perché oltre a essere rari, i giant flare sono assolutamente imprevedibili. «Quando Integral ha rivelato questo brillamento, era puntato in tutt’altra direzione. L’ha visto comunque perché era talmente brillante che era impossibile non vederlo. Ma sarebbe anche potuto arrivare in un momento in cui il satellite era spento oppure in condizioni più sfavorevoli».
Ironia della sorte, dopo ventidue anni di servizio, Integral è stato recentemente spento, o meglio, continua a raccogliere dati, ma non li trasmette più a terra. «Proprio adesso che abbiamo avuto una serie di risultati interessanti, per esempio la magnetar scoperta nella galassia M82 alla fine del 2023 e questo nuovo modello che spiega dei vecchi dati», rammenta il ricercatore. «Speriamo che ci siano altre occasioni in futuro di riutilizzare ancora i dati in archivio, perché sicuramente in tutti questi anni è stata raccolta una quantità di dati enorme che ancora racchiude potenzialmente delle cose interessanti».
Per saperne di più:
- Leggi sul General Coordinates Network la circolare “Giant flare from SGR 1806-20 detected by Integral” di J. Borkowski, D. Gotz, S. Mereghetti, N. Mowlavi, S. Shaw e M. Turler
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “The First Giant Flare from SGR 1806–20: Observations Using the Anticoincidence Shield of the Spectrometer on Integral” di S. Mereghetti, D. Götz, A. von Kienlin, A. Rau, G. Lichti, G. Weidenspointner e P. Jean
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “Direct evidence for r-process nucleosynthesis in delayed MeV emission from the SGR 1806-20 magnetar giant flare” di Anirudh Patel, Brian D. Metzger, Jakub Cehula, Eric Burns, Jared A. Goldberg e Todd A. Thompson
- Leggi su Media Inaf l’articolo “Una nuova origine per l’oro e altri elementi pesanti”, a cura della redazione
Biomass è in orbita per monitorare le foreste
Alle 11:15 ora italiana di oggi, martedì 29 aprile, dallo spazioporto europeo di Kourou, in Guiana Francese, un razzo Vega-C dell’Agenzia spaziale europea (Esa) ha portato in orbita attorno al nostro pianeta Biomass, il satellite incaricato di determinare la distribuzione globale della biomassa delle foreste, il suo cambiamento, e stimare quindi la quantità di anidride carbonica immagazzinata nella biosfera terrestre. Poco meno di un’ora dopo, alle 12:13, il satellite si è separato dal suo vettore di lancio per potersi inserire nella sua orbita di lavoro a 666 chilometri d’altezza, ha seguito tutte le procedure di accensione previste e si è messo in contatto con il centro di controllo dell’Esa a Darmstadt (Esoc) inviando il primo segnale alle 12:27. Lavorerà per i prossimi cinque anni.
Rappresentazione di Biomass, il satellite del programma Earth Explorers dell’Esa lanciato questa mattina dallo spazioporto europeo di Kourou, in Guiana Francese, a bordo di un razzo Vega-C. Crediti: Esa/Atg Medialab
La deforestazione è spesso una delle prime pratiche citate quando si parla di deturpazione dell’ambiente per opera dell’uomo, soprattutto in relazione alla crisi climatica. Si deforesta per cementare e costruire, per piantare monocolture che impoveriscono il terreno e minano alla biodiversità, e si deforesta per commerciare legname (in alcuni casi anche in maniera incontrollata e illegale). Fra le conseguenze meno citate e più incerte di questa pratica, però, ce n’è una che dovrebbe preoccupare al pari, se non di più, delle altre: il rilascio in atmosfera di anidride carbonica immagazzinata nelle foreste, e in particolare nei tronchi e nei rami degli alberi.
Per dare una stima di quanta anidride carbonica sia conservata nelle foreste, e di come queste riserve stiano cambiando in relazione al cambiamento climatico, all’aumento delle temperature e della CO2 in atmosfera, o ancora a causa della deforestazione, l’Esa ha progettato Biomass. Sviluppata in collaborazione a circa 50 aziende sotto la guida di Airbus Uk, si tratta del primo satellite dotato di un radar ad apertura sintetica in banda P in grado di penetrare la copertura nuvolosa e le chiome delle foreste per misurare la biomassa legnosa – tronchi, rami e steli – dove viene immagazzinata la maggior parte del carbonio forestale. Una misura, questa, che funge da indicatore della quantità di carbonio immagazzinato, l’obiettivo ultimo della missione.
️ Our groundbreaking Biomass satellite lifted off on Vega-C #VV26 from Europe’s Spaceport in French Guiana at 10:15 BST/11:15 CEST on 29 April. The satellite is designed to provide unprecedented insights into the world’s forests and their crucial role in Earth’s carbon cycle.… pic.twitter.com/rCUyDPri6W— European Space Agency (@esa) April 29, 2025
Il lancio, dicevamo, è avvenuto con successo, così come l’inserimento in orbita. Nei prossimi giorni, durante la cosiddetta Leop (launch and early orbit phase), il team di controllo della missione a Esoc verificherà che tutti i sistemi si accendano e funzionino in maniera corretta. Verrà effettuata anche una serie di manovre piuttosto delicate per dispiegare il riflettore a maglie largo 12 metri e supportato da un braccio di 7,5 metri (mostrato nell’immagine di apertura). Biomass fa parte del programma di missioni “Earth Explorers”, una famiglia di satelliti che condividono l’obiettivo comune di far progredire la conoscenza della Terra e del suo stato di salute attraverso l’osservazione di alcuni suoi sistemi chiave come la criosfera, l’idrosfera, l’atmosfera e la ionosfera, e anche il suo l’interno.
«Vorrei estendere le mie congratulazioni a tutti coloro che sono stati coinvolti nello sviluppo e nel lancio di questa straordinaria missione. Biomass si unisce ora alla nostra stimata famiglia di esploratori della Terra – missioni che hanno costantemente portato scoperte rivoluzionarie e una comprensione scientifica avanzata del nostro pianeta», ha detto Simonetta Cheli, direttrice Esa dei programmi di osservazione della Terra. «Con Biomass, siamo pronti ad acquisire nuovi dati vitali su quanto carbonio viene immagazzinato nelle foreste del mondo, contribuendo a colmare le lacune chiave nella nostra conoscenza del ciclo del carbonio e, in definitiva, del sistema climatico terrestre».
Pianeta di acqua svelato dai cieli delle Canarie
Un team internazionale guidato da ricercatori dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) ha determinato la massa e la densità del pianeta Kepler-10c con precisione e accuratezza senza precedenti. Grazie a circa 300 misure di velocità radiale raccolte con lo spettrografo High Accuracy Radial velocity Planet Searcher for the Northern hemisphere (Harps-N) installato al Telescopio nazionale Galileo (Tng), che scruta il cielo dalle Isole Canarie, è stato possibile stimarne la sua composizione – in gran parte di acqua allo stato solido ma forse anche liquido – e capire come si possa essere formato. Lo studio è stato pubblicato oggi sulla rivista Astronomy & Astrophysics.
Rappresentazione artistica dell’esopianeta ghiacciato Kepler-10c, osservato dallo spettrografo Harps-N installato al Telescopio nazionale Galileo (Tng). Crediti: Inaf
Kepler-10 è un sistema esoplanetario storico: ospita Kepler-10b, la prima super-Terra rocciosa scoperta dalla missione spaziale Kepler della Nasa con un periodo orbitale inferiore al giorno terrestre, e Kepler-10c, un pianeta con un periodo orbitale di 45 giorni, classificato come sub-Nettuno, ovvero un pianeta con raggio e massa inferiori a quelli di Nettuno. Per anni, la massa di Kepler-10c è stata oggetto di grande incertezza: stime discordanti avevano reso difficile capire di cosa fosse fatto.
I dati acquisiti con Harps-N sono stati elaborati con un nuovo metodo che corregge per effetti strumentali e variazioni dell’attività magnetica della stella madre, anche se di bassa intensità, e sono stati analizzati indipendentemente da tre gruppi dentro il team, raggiungendo gli stessi risultati. Questo lavoro ha permesso di capire che probabilmente Kepler-10c è un water world, ovvero un pianeta con gran parte della sua massa in acqua allo stato solido (ghiaccio) e forse, in piccola percentuale, anche liquido. I ricercatori ritengono che il pianeta si sia formato oltre la cosiddetta linea di condensazione dell’acqua a circa due o tre unità astronomiche dalla sua stella, e che poi si sia progressivamente avvicinato fino alla sua attuale orbita.
Ma non è tutto: il team ha anche confermato l’esistenza di un terzo pianeta, non visibile nei transiti ma rivelato per una piccola anomalia che esso induce sull’orbita di Kepler-10c, riscontrabile nelle variazioni dei tempi di transito proprio del pianeta Kepler-10c, in modo analogo alla scoperta di Nettuno grazie alle anomalie osservate nell’orbita di Urano. Questo pianeta “fantasma” era stato ipotizzato in precedenza, ma solo ora è stato possibile determinarne in modo accurato il periodo orbitale di 151 giorni e la massa minima, grazie all’eccezionale qualità delle misure di velocità radiale Harps-N.
«L’analisi delle velocità radiali e delle variazioni dei tempi di transito, dapprima singolarmente e poi in combinazione tra loro, ha dato dei risultati in ottimo accordo sui parametri del terzo pianeta; abbiamo così corretto precedenti stime inaccurate delle sue proprietà», dice Luca Borsato dell’Inaf di Padova, secondo autore dell’articolo.
«L’esistenza dei water world è stata prevista teoricamente dai modelli di formazione e migrazione planetarie», aggiunge Aldo Bonomo dell’Inaf di Torino, primo autore dell’articolo,«ma non ne abbiamo ancora una conferma certa. Tuttavia, una quindicina di pianeti attorno a stelle di tipo solare come Kepler-10c sembrano avere proprio la composizione prevista da questi modelli. La prova del nove dell’esistenza dei water world dovrebbe venire dallo studio delle loro atmosfere con il telescopio spaziale James Webb, perché ci aspettiamo che essi abbiano delle atmosfere particolarmente ricche di vapore acqueo».
Lo studio del sistema Kepler-10 ci aiuta a capire come si formano i pianeti attorno alle loro stelle. Super-terre come Kepler-10b e sub-Nettuni come Kepler-10c, così comuni nella nostra galassia ma assenti nel Sistema solare, rappresentano un tassello cruciale per comprendere la varietà dei mondi che orbitano attorno ad altre stelle. In particolare, studiare la composizione dei pianeti cosiddetti sub-nettuniani e capire se sono ricchi o poveri di ghiaccio, può fornire indicazioni non solo sulla loro origine, ma anche sulle prime fasi di formazione dei sistemi planetari e quindi del nostro stesso Sistema solare. Conoscere come e dove si formano questi pianeti e i loro moti di migrazione verso la loro stella, significa guardare indietro nel tempo per scoprire qualcosa in più sulle origini della Terra e forse anche della vita.
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “In-depth characterization of the Kepler-10 three-planet system with HARPS-N radial velocities and Kepler transit timing variations”, di A. S. Bonomo, L. Borsato, V.M. Rajpaul, L. Zeng, M. Damasso, N.C. Hara, M. Cretignier, A. Leleu, N. Unger, X. Dumusque, F. Lienhard, A. Mortier, L. Naponiello, L. Malavolta, A. Sozzetti, D.W. Latham, K. Rice, R. Bongiolatti, L. Buchhave, A.C. Cameron, A.F. Fiorenzano, A. Ghedina, R.D. Haywood, G. Lacedelli, A. Massa, F. Pepe, E. Poretti e S. Udry
Nero shocking: onde d’urto da buchi neri stellari
L’impatto di un buco nero si estende ben oltre i suoi dintorni immediati: è quanto emerge da una nuova ricerca, un risultato che rimette in discussione la nostra comprensione degli effetti sullo spazio di questi oggetti enigmatici. I buchi neri comprimono la materia in un punto infinitamente denso e deformano il tessuto stesso dello spazio-tempo, ma i loro effetti potrebbero spingersi molto più lontano di quanto immaginato finora. Un team di astronome e astronomi ha infatti raccolto prove inedite di come anche i buchi neri più piccoli – non solo quelli supermassicci, dunque, bensì anche i buchi neri di massa stellare, molto comuni nella nostra e in altre galassie – possano modellare le galassie: prove che consistono nell’osservazione di potenti onde d’urto generate da getti oscuri e altamente energetici. Getti che, una volta emessi, possono viaggiare nello spazio per decine di anni luce. Il team è riuscito, grazie ai dati raccolti con il radiotelescopio MeerKat, a tracciare enormi strutture, dette onde d’urto ad arco (bow shock, in inglese), prodotte dai getti di due buchi neri: GRS 1915+105 e Cygnus X-1. Un risultato che consente di comprendere meglio gli effetti a lungo termine dell’attività di questi sistemi sullo spazio circostante.
Rappresentazione artistica dell’emissione d’un getto da un buco nero di massa stellare e della relativa onda d’urto. Crediti: Danielle Futserlaar/Sron
«Queste scoperte mostrano che i buchi neri stellari possono scolpire in modo attivo l’ambiente che li circonda, lasciando dietro di sé onde d’urto colossali», dice la prima autrice di uno dei due articoli che riportano oggi i risultati su Astronomy & Astrophysics, Sara Elisa Motta, astronoma dell’Istituto nazionale di astrofisica, «onde d’urto che raccontano una storia lunga migliaia di anni».
Cygnus X-1, il primo buco nero di massa stellare mai scoperto, è noto per emettere potenti getti di particelle ad alta energia che formano una gigantesca struttura bow shock: un’onda d’urto prodotta dai getti a una distanza pari a quasi tre volte l’estensione del sistema binario formato dal buco nero stesso e da una stella compagna. La novità è che MeerKat ha ora registrato, per la prima volta, queste strutture a due diverse frequenze radio, consentendo agli scienziati di mapparle con un dettaglio senza precedenti. Ciò ha consentito di rivelare particolari mai osservati prima nell’onda d’urto, suggerendo l’esistenza di più periodi di attività dei getti, periodi che si sono susseguiti negli ultimi millenni e durante i quali i getti hanno interagito con l’ambiente in regioni diverse dello spazio.
«È una prova inconfutabile del fatto che i buchi neri influenzano lo spazio che li circonda», sottolinea la prima autrice dell’altro articolo pubblicato oggi su Astronomy & Astrophysics, Pikki Atri, astronoma dell’istituto di radioastronomia olandese Astron e della Radboud University. «È come uno scavo archeologico cosmico: ogni strato delle onde d’urto racconta la storia delle emissioni dei getti avvenute in passato».
Altrettanto rivoluzionaria è la scoperta di un’onda d’urto – anch’essa una struttura di tipo bow shock – prodotta dai getti nei dintorni del buco nero GRS 1915+105. La struttura, che si estende per trenta anni luce, è la prova dell’azione di un getto non direttamente osservabile perché non luminoso, ma molto potente, un getto che è stato capace di scavare un’enorme cavità nello spazio. La scoperta conferma che i getti del sistema, anch’esso binario, GRS 1915+105 sono in grado di influenzare significativamente l’ambiente circostante, colmando così il divario tra le teorie dei primi anni Duemila – che già ipotizzavano l’esistenza del bow shock – e la sua effettiva rilevazione, avvenuta solo oggi, quasi vent’anni dopo.
«Avendo visto qualcosa di simile intorno a Cygnus X-1», ricorda Motta, «abbiamo sempre pensato che dovesse esistere un’onda d’urto anche intorno a GRS 1915+105. Tuttavia, non riuscivamo a rilevarla, e ciò è stato fonte di una notevole confusione: fino a quando MeerKat non ha scoperto il bow shock attorno a GRS 1915+105, c’era il sospetto che queste strutture potessero formarsi soltanto attorno ad alcuni sistemi di buchi neri ed a condizioni che non avevamo ben compreso».
È noto da tempo che i buchi neri supermassicci al centro delle galassie causano cambiamenti su larga scala. Questi due nuovi risultati dimostrano che anche i buchi neri di massa stellare, milioni di volte meno massicci, possono rimodellare profondamente l’ambiente che li circonda. Nonostante la loro massa relativamente contenuta, lasciano dietro di sé strutture imponenti a sufficienza da essere rilevate – un impatto, sottolineano le due scienziate, che finora era stato sottovalutato.
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “MeerKAT discovers a jet-driven bow shock near GRS 1915+105 How an invisible large-scale jet sculpts a microquasar’s environment”, di S.E. Motta, P. Atri, James H. Matthews, Jakob van den Eijnden, Rob P. Fender, James C.A. Miller-Jones, Ian Heywood e Patrick Woudt
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “Quantifying jet-ISM interactions in Cyg X-1: Insights from dual-frequency bow shock detection with MeerKAT”, di P. Atri, S. E. Motta, Jakob van den Eijnden, James H. Matthews, James C.A. Miller-Jones, Rob Fender, David Williams-Baldwin, Ian Heywood e Patrick Woudt
- Leggi la press release in inglese sul sito di Sron
Tête-à-tête di Lucy con Donaldjohanson
Ve lo avevamo annunciato. È accaduto. Ed è andato tutto come previsto: la sera di Pasqua, quando in Italia erano all’incirca le 19:51, la sonda Lucy della Nasa ha sorvolato con successo l’asteroide della fascia principale 52246 Donaldjohanson, il più piccolo degli undici corpi celesti che il veicolo incontrerà nel corso della sua missione. E a testimonianza dell’incontro ravvicinato – una “prova generale” per i futuri flyby con gli altri asteroidi bersaglio – Lucy ci ha già inviato le sue prime, affascinanti, immagini.
L’asteroide Donaldjohanson ripreso dallo strumento Long-Range Reconnaissance Imager (L’Lorri) a bordo della sonda Lucy della Nasa durante il suo sorvolo. Il time-lapse mostra le immagini catturate circa ogni 2 secondi a partire dalle 19:50 ora italiana del 20 aprile 2025. La rotazione apparente visibile nelle immagini è dovuta al movimento della sonda durante il flyby, effettuato a una distanza compresa tra 1.600 e 1.100 km. Il massimo avvicinamento è avvenuto a 960 km. Crediti: Nasa/Goddard/SwRI/Johns Hopkins Apl
Scattate ogni due secondi a partire dalle 19:50 ora italiana, quando la sonda si trovava a circa 1.600 chilometri di distanza dall’asteroide, le istantanee – catturate con la fotocamera ad alta risoluzione L’lorri e presentate sopra come una clip – mostrano un oggetto dalla forma simile a quella di un’arachide: due lobi irregolari uniti lungo i loro assi principali a livello di un “collo”. È una caratteristica condivisa con altri asteroidi. Ce l’ha l’asteroide 486958 Arrokoth. Ce l’ha 25143 Itokawa e anche la cometa 67P/Churyumov–Gerasimenko. Asteroidi binari a contatto, è così che gli addetti ai lavori chiamano gli oggetti celesti con una tale morfologia.
Dalle prime analisi delle immagini, 52246 Donaldjohanson sembra essere più grande di quanto inizialmente stimato: circa 8 chilometri di lunghezza e 3,5 chilometri di larghezza nel punto più ampio. Per avere un quadro più completo della forma e delle dimensioni, bisognerà tuttavia attendere ancora qualche settimana: il tempo necessario affinché il team scarichi e analizzi i dati raccolti dagli altri strumenti a bordo della sonda, l’imager a colori e spettrometro a infrarossi L’Ralph e lo spettrometro a emissione termica L’tes.
Una delle immagini dell’asteroide Donaldjohanson restituite dalla sonda Lucy durante il sorvolo. Lo scatto è stato effettuato il 20 aprile 2025 alle 19:51 ora italiana, poco prima del punto di massimo avvicinamento, da una distanza di circa 1.100 chilometri. L’immagine è stata rielaborata per migliorarne il contrasto. Crediti: Nasa/Goddard/SwRI/Johns Hopkins Apl/NOIRLab
Nel frattempo, però, un’idea sull’asteroide il ricercatore del Southwest Research Institute di Boulder, in Colorado, e principal investigator della missione, Hal Levison, se l’è fatta: «L’asteroide Donaldjohanson ha una geologia sorprendentemente complessa», dice il ricercatore. «Studiando in dettaglio la sua struttura, otterremo informazioni importanti sui mattoni fondamentali e sui processi collisionali che hanno formato i pianeti del nostro sistema solare».
Dopo il sorvolo di Dinkinesh e della sua piccola luna Selam, questo è il secondo incontro ravvicinato di Lucy con un asteroide. Ora la sonda proseguirà il suo viaggio attraverso la fascia principale degli asteroidi per tutto il 2025, in attesa di raggiungere il primo obiettivo principale della missione: l’asteroide troiano di Giove Eurybates e il suo satellite Queta. A questo tête-à-tête, previsto il 12 agosto del 2027, seguirà il flyby di 15094 Polymele, schedulato per il 15 settembre del 2027, il sorvolo di Leucus e Orus, programmati rispettivamente per il 18 aprile e l’11 novembre del 2028, e infine l’incontro con Patroclus e la sua luna Menoetius, previsto per il 3 marzo del 2033.
Come abbiamo più volte scritto qui su Media Inaf, il nome della missione è un omaggio alla nostra antichissima antenata scoperta in Etiopia nel 1974. E proprio come il fossile Lucy ha fornito informazioni preziose sull’evoluzione dell’essere umano, così la sonda della Nasa promette di ampliare la conoscenza delle nostre origini planetarie.
«Queste prime immagini dell’asteroide Donaldjohanson dimostrano ancora una volta le straordinarie capacità della sonda Lucy come strumento di scoperta», sottolinea lo scienziato della Nasa e program scientist della missione, Tom Statler. «Il potenziale di aprire una nuova finestra sulla storia del Sistema solare, una volta raggiunti gli asteroidi troiani, è immenso».
Nuove rivelazioni sull’abitabilità di Marte
Immagine del sito di perforazione di Ubajara, nel cratere Gale, scattata dal rover Curiosity il 30 aprile 2023. In primo piano, sono visibili le tracce del rover. Crediti: Nasa Jet Propulsion Laboratory-Caltech/Malin Space Science Systems
L’antico Marte era caratterizzato da un’atmosfera densa e ricca di anidride carbonica, capace di sostenere un vero e proprio ciclo del carbonio. Il pianeta, inoltre, avrebbe avuto un sistema di vulcani attivi, in grado di generare condizioni ambientali favorevoli alla vita. È quanto emerge da due studi indipendenti, pubblicati di recente su Science e Science Advances, basati sull’analisi di campioni di roccia marziana raccolti rispettivamente dai rover Curiosity e Perseverance. I risultati delle ricerche rappresentano un significativo passo avanti nella comprensione dell’abitabilità passata e dell’evoluzione geologica di Marte.
A suggerire che l’atmosfera di Marte contenesse un tempo abbondanti quantità di anidride carbonica è la scoperta di vasti depositi di siderite, un minerale composto da carbonato di ferro, all’interno del cratere Gale. A individuarli è stato Curiosity, il rover della Nasa atterrato su Marte nel 2012. Tra il 2022 e il 2023, il veicolo spaziale ha esplorato un’area ricca di solfati, già mappata in precedenza dall’orbita. All’interno di questa unità geologica, Curiosity ha effettuato perforazioni in quattro distinti punti, prelevando altrettanti campioni che i ricercatori hanno denominato Canaima, Tapo caparo, Ubajara e Sequoia.
Utilizzando i dati dello strumento Chemistry and Mineralogy (CheMin) del rover, che sfrutta la diffrazione dei raggi X per determinare la composizione mineralogica, gli scienziati hanno analizzato le carote di roccia, scoprendo che tre dei quattro campioni – Tapo caparo, Ubajara e Sequoia – contenevano cristalli di siderite in concentrazioni elevate: dal 5 a oltre il 10 per cento in peso. Il Sample Analysis at Mars (Sam), una suite di strumenti che analizza i gas prodotti dalla combustione dei campioni, ha confermato la purezza del composto e la mineralogia associata.
Ma che c’entra la siderite nel suolo di Marte con la presenza di anidride carbonica atmosferica, vi starete chiedendo? Secondo gli scienziati, la presenza del minerale testimonierebbe il verificarsi di interazioni tra atmosfera, acqua e roccia, seguite da processi di evaporazione che avrebbero alimentato un ciclo attivo del carbonio, rendendo Marte potenzialmente abitabile.
«La scoperta di grandi depositi di carbonio nel Cratere Gale rappresenta una svolta nella nostra comprensione dell’evoluzione geologica e atmosferica di Marte», spiega Benjamin Tutolo, geochimico alla Università di Calgary, in Canada, e autore principale dello studio. «L’abbondanza di sali altamente solubili in queste rocce e in depositi simili mappati su gran parte di Marte è stata utilizzata come prova della sua ‘grande essicazione’, la fase durante la quale il pianeta è passato dall’essere un corpo celeste caldo e umido al mondo freddo e secco che vediamo oggi».
L’ipotesi degli autori per spiegare la presenza dei carbonati è che l’antica atmosfera marziana contenesse abbondanti quantità di CO2, tali da permettere la presenza di acqua liquida in superficie. Con il passare del tempo, questa CO2 sarebbe stata via via sequestrata chimicamente nelle rocce, attraverso processi come la dissoluzione e altri meccanismi che hanno portato alla nucleazione e alla crescita dei minerali. Successivamente, processi di diagenesi ne avrebbero causato la scissione in idrossidi di ferro e CO2, rilasciando quest’ultima nell’atmosfera e contribuendo così alla genesi di un ciclo del carbonio capace di mantenere il pianeta caldo e in grado di sostenere la presenza di acqua liquida.
Illustrazione schematica dell’ipotetico ciclo del carbonio nell’antico Marte. Crediti: Benjamin M. Tutolo et al., Science, 2025
Tuttavia, spiegano i ricercatori, in una fase successiva della storia geologica del pianeta, è possibile che sia stato sequestrato più carbonio di quanto ne sia stato rilasciato nell’atmosfera, provocando uno squilibrio che avrebbe portato Marte a trasformarsi in un mondo secco e arido. A differenza del ciclo del carbonio terrestre, che è rimasto in equilibrio nel tempo, quello di Marte si sarebbe dunque alterato, segnando un punto di svolta irreversibile per l’evoluzione del pianeta.
La rilevazione di depositi di carbonato sul pianeta ha importanti implicazioni circa la possibilità che il pianeta sia stato in grado di ospitare la vita. La scoperta di questo minerale, osserva Tutolo, «ci dice che il pianeta era abitabile e che i modelli di abitabilità sono corretti». Questo, però, finché c’era abbastanza CO2 nell’atmosfera. «Quando l’anidride carbonica che riscaldava il pianeta ha iniziato a precipitare sotto forma di siderite, ciò ha probabilmente compromesso la capacità di Marte di rimanere caldo», aggiunge il ricercatore.
Un mosaico di due immagini mostra il braccio del rover Perseverance dopo aver scansionato e campionato una delle rocce oggetto dello studio. La roccia in questione, soprannominata informalmente “Rochette”, si trova in basso a destra, e mostra chiaramente il foro da cui è stato prelevato il campione. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Asu
Come dicevamo in apertura, Marte è protagonista anche di un altro recente studio in cui un team di ricercatori guidati dalla Texas A&M University ha ottenuto ulteriori informazioni sulla storia geologica del pianeta. Pubblicato su Science Advances, l’articolo riporta la scoperta, fatta grazie ai dati raccolti dal rover Perseverance, di due distinti tipi di rocce vulcaniche all’interno del cratere Jezero.
Il primo tipo di roccia, scura e ricca di ferro e magnesio, conterrebbe inclusioni di pirosseno e feldspato plagioclasio, con tracce di olivina alterata. Trachibasalto, è così che gli addetti ai lavori chiamano queste rocce ignee. Il secondo tipo di roccia, più chiara rispetto alla prima, è stata classificata come trachiandesite e include cristalli di plagioclasio inglobati in una matrice ricca di potassio. Secondo gli autori dello studio, queste rocce indicherebbero una complessa storia vulcanica di Marte, caratterizzata dalla presenza di fenomeni eruttivi e flussi di lava a composizione variabile.
Per capire come si siano formate queste rocce, i ricercatori hanno simulato le condizioni in cui i minerali si sono solidificati. I risultati delle modellizzazioni suggeriscono che le composizioni uniche delle rocce derivino essenzialmente da due tipi di processi: la cristallizzazione frazionata, in cui i minerali si separano dal magma mentre si raffredda, e l’assimilazione crostale, che si verifica quando la roccia fusa interagisce con materiali ricchi di ferro della crosta, sciogliendoli parzialmente o incorporandoli, modificando ulteriormente la composizione delle rocce.
«I processi che osserviamo qui – cristallizzazione frazionata e assimilazione crostale – sulla Terra sono tipici dei sistemi vulcanici attivi», sottolinea il geologo della Texas A&M University e primo autore della pubblicazione, Michael Tice. «Ciò suggerisce che questa parte di Marte potrebbe essere stata interessata da una prolungata attività vulcanica , il che a sua volta potrebbe aver fornito una fonte continua di composti utilizzabili dalla vita».
«Abbiamo selezionato con cura queste rocce perché contengono indizi sugli ambienti passati di Marte», aggiunge il ricercatore. «Quando, una volta riportate a Terra, potremo analizzare queste rocce con strumenti di laboratorio, saremo in grado di porre domande molto più dettagliate sulla loro storia e sull’eventuale presenza di firme biologiche».
Le scoperte fatte in questi studi sono cruciali per comprendere la potenziale abitabilità passata di Marte. La presenza di una densa atmosfera di CO2 in grado di alimentare un ciclo del carbonio, insieme a un sistema di vulcani attivi, potrebbero aver contribuito a mantenere condizioni favorevoli alla vita sul pianeta per un lungo periodo della sua storia geologica.
Per saperne di più:
- Leggi su Science l’articolo “Carbonates identified by the Curiosity rover indicate a carbon cycle operated on ancient Mars” di Benjamin M. Tutolo, Elisabeth M. Hausrath, Edwin S.Kite, Elizabeth B. Rampe,Thomas F.Bristow, Robert T. Downs, AllanTreiman, Tanya S.Peretyazhko, Michael T. Thorpe, John P. Grotzinger, Amelie L. Roberts, P. Douglas Archer, David J. Des Marais, David F. Blake, David T.Vaniman, Shaunna M. Morrison, Steve Chipera, .Hazen, Richard V. Morris, Valerie M. Tu, Sarah L. Simpson, Aditi Pandey, Albert Yen, Stephen R. Larter, Patricia Craig, Nicholas Castle, Douglas W. Ming4, Johannes M. Meusburger5, Abigail A. Fraeman, David G. Burtt, Heather B. Franz, Brad Sutter,JoannaV.Clark, William Rapin, JohnC.Bridges, Matteo Loche, PatrickGasda, Jens Frydenvang e Ashwin R.Vasavada
- Leggi su Science Advances l’articolo “Diverse and highly differentiated lava suite in Jezero crater, Mars: Constraints on intracrustal magmatism revealed by Mars 2020 PIXL” di Mariek E. Schmidt, Tanya V. Kizovski, Yang Liu, Juan D. Hernandez-Montenegro, Michael M. Tice , Allan H. Treiman, Joel A. Hurowitz, David A. Klevang, Abigail L. Knight, Joshua Labrie, Nicholas J. Tosca, Scott J. VanBommel, Sophie Benaroya, Larry S. Crumpler, Briony H. N. Horgan, Richard V. Morris, Justin I. Simon, Arya Udry, Anastasia Yanchilina, Abigail C. Allwood, Morgan L. Cable, John R. Christian, Benton C. Clark, David T. Flannery, Christopher M. Heirwegh , Thomas L. J. Henley , Jesper Henneke , Michael W. M. Jones, Brendan J. Orenstein, Christopher D. K. Herd, Nicholas Randazzo, David Shuster e Meenakshi Wadhwa
Buon compleanno Hubble!
Un’immagine del telescopio spaziale Hubble durante il suo dispiegamento iniziale dallo Space Shuttle Discovery il 25 aprile 1990. Crediti: Nasa
Dai pianeti del Sistema solare alle galassie distanti miliardi di anni luce, le immagini iconiche del telescopio spaziale Hubble (Hst) sono un patrimonio scientifico e culturale per tutto il mondo. La posizione ottimale di Hubble al di sopra dell’atmosfera terrestre, in orbita terrestre bassa, gli consente di catturare immagini nitide al riparo dalle distorsioni atmosferiche che affliggono i telescopi terrestri.
Realizzato dalla Nasa con il contributo dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa), Hubble non è solo un telescopio: è una vera e propria macchina del tempo, in grado di osservare galassie fino a 13,4 miliardi di anni luce di distanza, consentendoci di guardare indietro nel tempo, quando l’universo aveva soltanto qualche centinaio di milioni di anni.
Infatti, quando Hubble cattura la luce proveniente da così lontano, ciò che vediamo è la fotografia di un’epoca in cui le prime galassie stavano appena cominciando a formarsi, meno di un miliardo di anni dopo il Big Bang.
I numeri di Hubble sono impressionanti. Il telescopio, grande quanto uno scuolabus e pesante circa 11 tonnellate, orbita intorno alla Terra a una velocità vertiginosa di circa 27mila chilometri orari, completando un’orbita ogni 95 minuti. Per alimentarsi, sfrutta l’energia solare grazie a due pannelli lunghi 7 metri e mezzo ciascuno e consuma mediamente 2.100 watt, meno di un comune asciugacapelli. Sebbene la potenza consumata sia relativamente contenuta, Hst ha prodotto dati impiegati in oltre 13mila articoli scientifici, diventando uno degli strumenti più prolifici nella storia della scienza.
Tra le scoperte più significative di Hubble c’è la conferma dell’espansione accelerata dell’universo, che ha portato al concetto di energia oscura. Il telescopio spaziale ha anche permesso di misurare con grande precisione l’età dell’universo, stimata oggi intorno ai 13,8 miliardi di anni. Tra i suoi scatti, diventati iconici, ci sono galassie in collisione, nebulose in formazione e pianeti extrasolari in transito davanti alle loro stelle madri. Immagini come i Pilastri della Creazione hanno ispirato milioni di persone e sono diventate simboli dell’esplorazione spaziale.
Per celebrare il 35esimo anniversario del lancio in orbita del telescopio spaziale Hubble, gli astronomi hanno puntato il leggendario telescopio su una selezione di obiettivi spaziali che vanno dal nostro sistema solare alle nebulose dello spazio interstellare, fino alle galassie più lontane. In foto, da sinistra a destra: Marte visto alla fine di dicembre 2024; la nebulosa planetaria Ngc 2899; la nebulosa Rosetta; la galassia a spirale Ngc 5335. Crediti: Nasa, Esa, StScI
Nonostante oggi compia ben 35 anni, per la pensione c’è ancora tempo. Grazie alle cinque missioni di assistenza e manutenzione nello spazio – l’ultima nel 2009, che ha potenziato e aggiornato i suoi strumenti scientifici – e al lavoro dei team di ingegneri a terra, Hubble continua a funzionare in buona salute, decenni dopo il lancio. Con la sua capacità unica di osservare nell’ultravioletto, nel visibile e nel vicino infrarosso, Hubble è un prezioso compagno di squadra, complementare a missioni come il telescopio spaziale James Webb (Jwst) e il prossimo telescopio spaziale Nancy Grace Roman. Proprio con il Jwst c’è una forte sinergia: se Webb osserva l’universo nell’infrarosso, Hubble eccelle nel visibile e nell’ultravioletto, offrendo una visione complementare e più completa del cosmo. Ve lo abbiamo mostrato poco tempo fa, entrando virtualmente proprio nei Pilastri della Creazione.
Grafica del 35esimo anniversario di Hubble. Crediti: Nasa
Nell’ambito delle celebrazioni per il 35esimo anniversario, l’Agenzia Spaziale Europea sta condividendo una nuova serie di immagini che rivisitano splendidi obiettivi Hubble già pubblicati in precedenza, con l’aggiunta degli ultimi dati Hubble e di nuove tecniche di elaborazione delle immagini: tra queste, le “famose” Galassia Sombrero e Nebulosa Aquila. Inoltre, sono state rese disponibili nuove vedute del pianeta Marte, di regioni di formazione stellare e di galassie vicine. E i festeggiamenti non finiscono qui: Nasa ed Esa hanno organizzato una serie di eventi e iniziative speciali per i prossimi giorni, tra cui la Hubble Night Sky Challenge, una sfida di osservazione del cielo notturno con la quale si invitano gli appassionati di astronomia a osservare da terra gli stessi oggetti celesti che Hubble ha immortalato dallo spazio.
Mentre si celebrano i suoi 35 anni in orbita, il destino di Hubble rimane incerto ma ancora promettente. La Nasa sta valutando la possibilità di prolungare la sua vita operativa, compreso un potenziale intervento per innalzare l’orbita e rallentarne il decadimento. L’interesse scientifico e pubblico rimane altissimo, e ogni nuova immagine o scoperta continua a catturare l’immaginazione globale.
Quindi buon compleanno, Hubble! Con l’augurio che il tuo “sguardo” sul cosmo continui a meravigliarci ancora a lungo.
Per saperne di più:
- Ascolta l’episodio di Houston, il podcast di Media Inaf, sulla missione che ha corretto la miopia di Hubble
- Scopri le iniziative dell’Agenzia Spaziale Europea e della Nasa per celebrare i 35 anni di Hubble
- Guarda il video del lancio del telescopio in orbita il 24 aprile 1990
- Guarda il video che celebra i 35 anni di Hst
Un pilastro della Nebulosa Aquila rivisitato
Come una macchia di Rorschach di ampiezza astronomica o curiosa nube che trascorre in un chiaro pomeriggio primaverile, ci si potrebbe sbizzarrire nel troppo umano tentativo di avvicinare a forma nota la fluttuante struttura di gas e polvere immortalata dal telescopio spaziale Hubble nella Nebulosa Aquila. Io ci vedo una sinistra figura, gibbosa e con le braccia a ciondoloni, che lenta muove i suoi passi, quasi a inoltrarsi nella nube polverosa alle sue spalle. E voi?
Particolare del pilastro nella Nebulosa Aquila immortalato da Hubble. Crediti: Esa/Hubble & Nasa, K. Noll
In realtà questa figura strampalata è solo un dettaglio collocato sulla sommità di una struttura ben più estesa, un pilastro di gas e polveri alto quasi dieci anni luce e che si trova a 7mila anni luce dalla Terra, splendidamente catturato da Hubble.
Il fatto degno di notizia non è la scoperta di questa nube un po’ bislacca su un pilastro impolverato, entrambi noti agli astronomi da un paio di decenni. Ma che questa fotografia fa un po’ da trailer alle celebrazioni per il 35esimo anno di attività del telescopio Hubble, lanciato in orbita attorno al nostro pianeta il 24 aprile del 1990. Per l’occasione, l’Agenzia Spaziale Europea (Esa) ha avviato una serie di iniziative per onorare i successi del famoso del telescopio spaziale.
Una fra questa prevede la rivisitazione di una serie di scatti iconici realizzati da Hubble, riprocessati però utilizzando nuove tecniche di elaborazione grafica. Le immagini astronomiche che tanto amiamo sono infatti il frutto di meticolose operazioni, ed esistono figure specifiche che si occupano di processare queste immagini e valorizzarle al massimo prima di presentarle al grande pubblico. Spesso, quella che ci sembra un’immagine singola è in realtà il prodotto della combinazione di più immagini, ciascuna delle quali ottenuta con un filtro specifico. Per non parlare della cascata di difetti che possono affliggere le immagini astronomiche, che andranno dunque scrupolosamente ripulite attraverso una catena di operazioni – pipeline, in gergo tecnico – non sempre agevole. All’elaborazione della immagini del James Webb Space Telescope, che prevede tecniche analoghe a quelle ora implementate per Hubble, Media Inaf ha dedicato uno speciale la scorsa estate.
La struttura di gas e polvere catturata da Hubble nella Nebulosa Aquila. L’immagine è stata ottenuta utilizzando nuove tecniche di elaborazione grafica e fa parte di una serie di immagini celebrative per i 35 anni di attività del famoso telescopio spaziale. Crediti: Esa/Hubble & Nasa, K. Noll
Il pilastro della Nebulosa Aquila – o M16, per gli affezionati del catalogo Messier – è il terzo della serie di scatti di Hubble rivisitati (qui una versione precedente dell’immagine, risalente al 2005). Scatti che hanno visto come protagoniste, nelle scorse settimane, l’ammasso stellare Ngc 346 e la Galassia Sombrero.
Un poderoso pilastro di gas e polvere, si diceva, troneggia in questa fotografia. Struttura che però costituisce solo un piccolo elemento della Nebulosa Aquila, vasta regione di gas e polveri della nostra galassia, all’interno della quale un tripudio di nuove stelle sta venendo alla luce. Molte delle novelle stelle non sono visibili in questa immagine in quanto sono situate poco al di sopra del monumentale pilastro.
In rosso vediamo rilucere l’emissione dell’idrogeno ionizzato, particolarmente abbondante alla base della struttura. L’azzurro che domina lo sfondo lo si deve invece all’ossigeno, sempre ionizzato, mentre le parti scure sono opera della polvere, che blocca la radiazione degli astri situati nei paraggi. L’arancione, che scorgiamo in particolare nella parte alta della fotografia, rappresenta il tentativo della luce stellare di sfondare il muro di polvere: la luce blu viene assorbita, e rimane pertanto celata ai nostri occhi, mentre quella rossiccia riesce a farsi strada tra i grani di polvere e a manifestarsi allo sguardo acuto di Hubble.
Elementi iconici della Nebulosa Aquila sono senza dubbio i Pilastri della Creazione, imponenti strutture di gas e polveri scolpite dalla radiazione ultravioletta delle stelle giovani, sempre immortalati da Hubble – e, successivamente, da Webb – in due famosi scatti rilasciati a distanza di 20 anni – nel 1995 e nel 2015.
È quello che fanno le stelle giovani, si divertono a smangiucchiare con la loro temibile luce ultravioletta – la stessa che temiamo d’estate sulla nostra pelle -, e con venti ad alta velocità, le nubi di gas e polvere, conferendo loro queste fattezze allungate e scavate. In particolare, quelle che stiamo vedendo qui sono le regioni in cui il gas e le polveri sono più densi, caratteristica questa che consente loro di sopravvivere sotto queste sorprendenti parvenze, anziché dissolversi per la feroce radiazione prodotta dai giovani astri.
Venti e radiazione, comprimendo il gas che forma il pilastro, potrebbero indurre la nascita di nuove stelle all’interno della struttura. Comunque vadano le cose, nonostante l’orgogliosa resistenza alle sferzate inflitte dagli astri sfavillanti, con il tempo il pilastro sarà destinato a soccombere, dissolvendosi sotto i colpi impetuosi della miriade di stelle in formazione nella Nebulosa Aquila.
Un’onda di elio-3 investe Solar Orbiter
Il 23 e 24 ottobre 2023, a poco meno di metà strada fra la Terra e il Sole (0.47 unità astronomiche per la precisione), la sonda Esa/Nasa Solar Orbiter è stata investita da un’onda di particelle energetiche solari particolarmente ricca di elio-3, un isotopo raro dell’elio emesso dal Sole. Un evento insolito, probabilmente associato a un buco coronale – una regione in cui le linee del campo magnetico si aprono nello spazio interplanetario – sul quale è stato pubblicato un articolo su The Astrophysical Journal.
Gli scienziati del Southwest Research Institute hanno individuato la fonte della più alta concentrazione di un raro isotopo dell’elio emesso dal Sole. In questa immagine nell’ultravioletto estremo del Solar Dynamics Observatory, la freccia blu indica un piccolo punto luminoso situato sul bordo di un buco coronale (delineato in rosso) che è stata la sorgente del fenomeno. Crediti: Nasa/Sdo/Aia
L’elio, un elemento che nella tavola periodica è il primo fra i cosiddetti gas nobili, ha due isotopi stabili: l’Elio-4 e l’Elio-3. Il primo è il più abbondante in natura, mentre il secondo – che costituisce solo lo 0,02% – è il più interessante. In astrofisica, ad esempio, è un isotopo fondamentale per i sistemi criogenici a diluizione, in grado di raggiungere temperature dell’ordine del millesimo di kelvin, oppure nella costruzione di impianti per la rivelazione di neutroni.
«Questo raro isotopo, più leggero del più comune elio-4 di un solo neutrone, è scarso nel nostro sistema solare – si trova in un rapporto di circa uno ione di elio-3 per 2.500 ioni di elio-4», spiega Radoslav Bucik, primo autore dello studio. «Tuttavia, i getti solari sembrano accelerare preferenzialmente l’elio-3 ad alte velocità o energie, probabilmente a causa del suo particolare rapporto carica/massa».
La misurazione effettuata da Solar Orbiter riguarda l’emissione di particelle energetiche solari (o Sep): particelle accelerate ad alta energia che includono protoni, elettroni e ioni pesanti, in genere associate a eventi solari come brillamenti ed espulsioni di massa coronale. Il meccanismo alla base di questa accelerazione è sconosciuto, ma si è visto che può aumentare l’abbondanza di elio-3 fino a 10mila volte la sua concentrazione abituale nell’atmosfera del Sole – un effetto che non ha analoghi noti in altri ambienti astrofisici. La cosa incredibile dell’evento misurato nell’ottobre 2023 è che l’aumento di elio-3 è di circa 200mila volte e anche la sua accelerazione risulta molto maggiore rispetto agli altri elementi più pesanti.
Complice l’aiuto di un altro osservatorio solare della Nasa, il Solar Dynamics Observatory, gli astronomi hanno trovato un piccolo getto solare sul bordo di un buco coronale da cui sembrerebbe essere partito tutto. Nonostante le dimensioni ridotte del getto (che viene indicato nell’immagine con una freccia blu, sul bordo del buco coronale delineato in rosso), gli autori sono convinti che sia direttamente collegato all’evento Sep.
«Sorprendentemente, l’intensità del campo magnetico in questa regione era debole, più tipica delle aree solari tranquille che delle regioni attive», aggiunge Bucik. «Questa scoperta supporta le teorie precedenti che suggeriscono che l’arricchimento di elio-3 è più probabile nel plasma debolmente magnetizzato, dove la turbolenza è minima».
Inoltre, questo evento si distingue come uno dei rari casi in cui l’arricchimento degli ioni non segue lo schema abituale. In genere, eventi come questi presentano una maggiore abbondanza di ioni pesanti come il ferro. In questo caso, invece, il ferro non è aumentato. Al contrario, carbonio, azoto, silicio e zolfo sono significativamente più abbondanti del previsto.
Per comprendere meglio come si formano e come vengono accelerate queste ondate di particelle energetiche ricche di elio-3, occorre raccogliere molta più statistica e l’unico modo per farlo, scrivono gli scienziati a conclusione del loro articolo, è riuscire ad avere sonde come Solar Orbiter più vicine alle sorgenti solari ricche di elio-3. Con un periodo di rivoluzione attorno al Sole di 168 giorni e un perielio ad appena 42 milioni di chilometri dal Sole (quasi un quarto della distanza che separa la Terra dalla stella), le occasioni potrebbero non mancare.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “Origin of the Unusual Composition of 3He-rich Solar Energetic Particles“, di Radoslav Bučík, Glenn M. Mason, Sargam M. Mulay, George C. Ho, Robert F. Wimmer-Schweingruber, e Javier Rodríguez-Pacheco
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