La facoltà di “Scienze Repressive” della Hebrew University
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972mag.com/hebrew-university-n…
(Traduzione a cura di Federica Riccardi)
A cura di Orly Noy –
Pagine Esteri, 23 marzo 2024. “Un’università che promuove la diversità e l’inclusione è un’università che favorisce l’uguaglianza”. Queste sono alcune delle parole usate dalla Hebrew University di Gerusalemme, una delle più importanti istituzioni accademiche del Paese, per descrivere i suoi presunti valori e la sua visione. La settimana scorsa, però, l’università ha deciso di sospendere la professoressa Nadera Shalhoub-Kevorkian, un’importante studiosa di diritto e cittadina palestinese di Israele.
La scandalosa decisione, emessa senza una regolare udienza, è arrivata subito dopo la puntata del podcast di Shalhoub-Kevorkian su Makdisi Street, in cui esponeva le sue posizioni critiche nei confronti del sionismo e dell’assalto di Israele a Gaza. Ma la studiosa è stata nel radar dell’università per mesi (e addirittura anni), dopo aver firmato una petizione a fine ottobre che chiedeva un cessate il fuoco a Gaza e descriveva la guerra come un “genocidio”. La Shalhoub-Kevorkian, ha scritto l’università, dovrebbe “trovare un’altra sede accademica che corrisponda alle sue posizioni”.
La sospensione svuota certamente di significato alcuni dei corsi “illuminati” che l’università ha da offrire. Infatti, cosa può insegnare un’università, che sospende un membro anziano della facoltà senza un’udienza, ai suoi studenti in un corso intitolato “La Corte Suprema in uno Stato democratico”? Cosa può insegnare un’istituzione accademica, che si allinea ai sentimenti più estremi e falsi della società, su “Libertà, cittadinanza e genere”? Cosa può insegnarci su “Diritti umani, femminismo e cambiamento sociale” un’istituzione che mette a tacere in modo crudele e prepotente la voce critica di una donna, di una docente e di un membro di una minoranza perseguitata?
In una dichiarazione che presentava la sua visione dell’istituzione accademica diversi anni fa, il presidente dell’università, il professor Asher Cohen – che insieme al rettore, il professor Tamir Sheafer, ha autorizzato la sospensione di Shalhoub-Kevorkian – ha affermato che l’università ha “guidato un processo di inclusione delle popolazioni che compongono la società israeliana. Crediamo in un campus eterogeneo, pluralista ed egualitario, dove il pubblico proveniente da contesti diversi si conosce e viene introdotto al valore della coesistenza”. Sono queste le parole importanti di un uomo che sembra però incapace di ascoltare voci politiche critiche che differiscono dalle sue.
Nella stessa dichiarazione, Cohen si vanta della grande responsabilità dell’università “nei confronti della società israeliana, e in particolare di Gerusalemme”. Questa è la stessa Gerusalemme dove metà della città è sotto occupazione e dove oltre 350.000 palestinesi sono oppressi ogni giorno, le loro case demolite e i loro figli tirati arbitrariamente giù dal letto e arrestati nel cuore della notte – senza che nessuno dei dirigenti della torre d’avorio di Cohen dica una parola su di loro.
C’è molto da dire sui quartieri palestinesi di Silwan e Sheikh Jarrah, entrambi a poche centinaia di metri dal campus di Mount Scopus, che devono affrontare le espropriazioni di terre e proprietà da parte dei coloni sostenuti dallo Stato. Ma è particolarmente grave che la Hebrew University non ha mai ritenuto opportuno protestare contro la violenta oppressione in atto nel villaggio di Issawiya, le cui case sono chiaramente visibili dalle finestre degli edifici del campus, a pochi metri di distanza. Possibile che nelle serate che Cohen trascorre nel suo ufficio non senta il rumore degli spari della polizia israeliana, che da tempo sono la colonna sonora del villaggio, proprio sotto la sua finestra?
Se solo il grande peccato dell’ Hebrew University (ed è davvero un grande peccato) fosse l’oblio. La sospensione di Shalhoub-Kevorkian si aggiunge a una lunga lista di persecuzioni politiche e di indottrinamento militarista promossi dall’istituzione nel corso degli anni.
Dopo tutto, questa è la stessa università che, nel gennaio 2019, ha assecondato una brutta campagna di incitamento condotta da un gruppo studentesco di destra contro la dottoressa Carola Hilfrich, sostenendo falsamente che aveva rimproverato uno studente per essersi presentato al campus in uniforme militare. Invece di difenderla dalle false accuse, l’università ha emesso una vergognosa lettera di scuse per l'”incidente”. Questa è la stessa università che, pochi mesi dopo, ha scelto di trasformare il campus in un piccolo campo militare, ospitando corsi per l’unità di intelligence dell’esercito israeliano – una di una lunga serie di proficue collaborazioni con l’esercito – nonostante le proteste di studenti e docenti.
Questa è la stessa università che, più volte, ha molestato e messo a tacere le associazioni studentesche palestinesi, concedendo al contempo crediti accademici agli studenti che fanno volontariato con il gruppo di estrema destra Im Tirtzu. E questa è la stessa università che, negli ultimi cinque mesi, non ha detto nulla su come Israele distrugge sistematicamente le scuole e gli istituti di istruzione superiore di Gaza, tradendo vergognosamente non solo i loro colleghi assediati, bombardati e affamati a Gaza, ma i principi stessi del mondo accademico.
In una lettera al deputato Sharren Haskel per spiegare la loro decisione, il presidente Cohen e il rettore Sheafer hanno accusato la Shalhoub-Kevorkian di essersi espressa in modo “vergognoso, antisionista e incitante” dall’inizio della guerra, schernendola per aver definito la politica di Israele a Gaza un genocidio. Ma non è la sola a farlo. Non solo il popolo palestinese e centinaia di milioni di persone in tutto il mondo considerano la calamità di Gaza un genocidio, ma la stessa Corte Internazionale di Giustizia, il più alto tribunale del mondo, ha preso sul serio questa pesante accusa e ha stabilito che non può essere respinta a priori.
È come se Cohen e Sheafer non solo fossero sorpresi di apprendere che Shalhoub-Kevorkian è palestinese, ma che è anche – il cielo non voglia! – antisionista. Se il sionismo fosse un prerequisito per l’ammissione all’università, i suoi dirigenti avrebbero dovuto essere obbligati a informare ogni docente e studente prima di varcare i cancelli. È lecito affermare che uno dei motivi principali per cui non lo fanno, a parte le restrizioni legali, è che la Hebrew University beneficia della presenza di palestinesi per presentarsi al mondo accademico internazionale come un modello di pluralismo, liberalismo e inclusione. Nel frattempo, può continuare a perseguitare i palestinesi in patria, lontano dagli occhi del mondo.
Questo atto vergognoso si sta già ripercuotendo con forza nel mondo accademico e nei media di tutto il mondo, marchiando la Hebrew University con la vergogna che merita. Fino ad allora, l’unico corso che posso trovare nei moduli dell’università che sembra appropriato da insegnare agli studenti è quello offerto dal Dipartimento di Scienze Politiche – Machiavelli, il filosofo del governo tirannico.
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*Orly Noy
Orly Noy è redattrice di Local Call, attivista politica e traduttrice di poesia e prosa in farsi. È presidente del comitato esecutivo di B’Tselem e attivista del partito politico Balad. I suoi scritti affrontano le linee che si intersecano e definiscono la sua identità di Mizrahi, di donna di sinistra, di migrante temporanea che vive all’interno di un’immigrata perpetua, e il costante dialogo tra di esse.
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LIBRI. Si può “ignorare l’assenza” ma le rose rosse ricresceranno sempre
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di Pietro Basso –
Pagine Esteri, 29 marzo 2024. “Non sono le pallottole ad uccidere, è il silenzio”, ha scritto Muhammad Taha. Se ciò è vero, è benvenuta quest’opera prima di Valeria Roma (“Ignorare l’assenza. La letteratura palestinese nell’immaginario italiano” Meltemi editore), che non rispetta l’imperativo di coprire di silenzio la vita quotidiana, la lotta, la cultura, la causa dei palestinesi. E ci fornisce una guida critica essenziale, ordinata senza pedanteria, dalla scrittura asciutta ed elegante, che finora mancava, della letteratura palestinese in lingua italiana, e del suo contributo al rinnovamento di una letteratura italiana da tempo raggrinzita nel provincialismo.
Il toro – la pretesa del sionismo di cancellare il passato e il presente della Palestina e dei palestinesi per escludere che possano mai avere un futuro – è subito preso per le corna. Una postura necessaria specie in tempi come questi in cui impazza, dentro e fuori Israele, un sionismo a tal punto intriso di fanatismo religioso da mettere in discussione perfino la possibilità di una coesistenza pacifica tra le stesse “quattro tribù” ebraiche (di cui ha parlato Rivlin). Un sionismo a tal punto preda della sua auto-esaltazione da pretendere di avere chiuso una volta per tutte la “questione palestinese” con il proclamare Israele “lo stato degli ebrei”, legittimando a posteriori e, nel contempo, a priori la pulizia etnica compiuta, e da ultimare, ai danni del popolo palestinese.
Sennonché questa pretesa, che la hasbarà rilancia pure in Italia con illimitato fanatismo e altrettanto illimitata libertà d’azione, urta contro la coriacea realtà di un’esistenza sociale piena di ferite e di mutilazioni, ammanettata, umiliata, dispersa, e tuttavia irriducibile a semplice ammasso di polvere del deserto. Certo: un secolo di colonizzazione ha mutato in modo radicale ambiente, demografia, rapporti sociali della Palestina. Qualunque esule torni alla ricerca del mondo di ieri, o almeno delle sue tracce, finisce per restare, immancabilmente, deluso. Ma questa esistenza sociale rinasce di continuo dalle sue ceneri come l’araba fenice. Si rinnova, ringiovanisce, urla periodicamente la sua rabbia e il suo desiderio di libertà e di riscatto con le sue sollevazioni di massa (sono già quattro da quel fatidico 8 dicembre 1987). Parla di sé, a sé e al mondo intero, con la letteratura.
Il prezioso lavoro di Isabella Camera d’Afflitto e di altre studiose e studiosi capaci di un’attitudine exotopa scevra da sentimentalismi ha presentato anche ad un pubblico che non ha conoscenza della lingua araba la grande ricchezza e varietà di generi della letteratura araba contemporanea. “Svegliatevi Arabi! In piedi! / Su dal fango che fino al ginocchio vi serra. / Perché vi appoggiate a speranze che son tradimento, / se già vi attanaglia la morte? / Dio è il più grande, cos’è questo sonno? / Orsù, fuori dal vostro giaciglio, nel turbine entrate”, aveva intimato (nel 1913) il poeta libanese Ibrahim al-Yazigi. Non ha gridato invano. Si può constatarlo pure da questa rassegna che si muove nel solco appena indicato. E lo fa con mano sicura, senza risparmiare meritate stoccate a mostri sacri quali Pier Paolo Pasolini, e distinguendo in maniera opportuna gli scrittori o le scrittrici di maggior successo da quelli/e di maggior valore.
L’autrice ha scelto di presentare le singole opere letterarie come altrettante tessere di un mosaico che via via si completa con “gli oggetti, le tradizioni, i giochi, ma anche le macerie della Palestina dimenticata”. La quotidianità che ne emerge è inevitabilmente punteggiata di caserme, demolizioni, assassinii, pogrom, sofferenze, discriminazioni, pervasa da un’ansia permanente che sconfina nell’angoscia, se non nella disperazione, quando il servilismo degli sconfitti divenuti obbedienti diventa norma di comportamento fino alla delazione, e tutto, proprio tutto, appare perduto. Come se l’avverso destino avesse riservato alla Palestina e ai palestinesi nient’altro che una catena di nakbah e di naksah.
Sull’intero quadro grandeggia la guerra. Una guerra infinita, in cui si è trattati da “infiltrati”, e ci si sente profughi, nella propria terra di nascita. Una guerra, a cui non ci si può sottrarre neppure con l’esilio. Una guerra a cui non si vogliono sottrarre i coraggiosi, le coraggiose, nei quali/nelle quali la collera periodicamente esplode sprigionando con una forza ogni volta nuova il desiderio, il sogno collettivo di liberazione. Ma se la stessa continuità dell’esistenza è un modo di resistere, allora anche le “armi passive”, le abbondanti riserve della memoria, la malinconia, la nostalgia (gurbah), l’auto-ironia, il sarcasmo, possono arginare il senso di straniamento che incombe, e arrivare a fendere, piccoli raggi di luce, il buio fitto che impedisce di intravvedere l’uscita, quando e come che sia, dall’enorme carcere a cielo aperto che è ormai diventata l’intera Palestina storica, e non soltanto la striscia di Gaza.
Nelle sue differenti articolazioni di letteratura dei territori occupati, racconti dell’esilio, del ritorno e del carcere, letteratura impegnata (i grandi nomi di Kanafani e Habibi), letteratura fantascientifica, per l’infanzia e perfino noir, la letteratura palestinese è presentata qui come una forma di resistenza alla macchina dell’oppressione israeliana. Se l’occupazione e l’espropriazione della Palestina è stata ed è insieme fisica e metaforica, allora la scrittura esprime la reazione di un corpo sociale, di tanti corpi-menti individuali, vivi e capaci di creatività, liberi anche nella più snervante prigionia. Così, attraverso le parole, una lingua che sfida di continuo i padroni del carcere e i loro volonterosi complici, la Palestina e la causa dei palestinesi rinascono, rispuntano di continuo, a sorpresa, da sotto le macerie dei bulldozer incaricati di spianarla. Nella sua pungente polemica con l’“ipotesto sionista” che declassifica i palestinesi ad altrettanti calchi immodificabili e omogenei di un’atavica arretratezza “di razza”, Valeria Roma ha inteso mostrare come nell’esperienza sociale palestinese ci sia spazio, invece, per le aspirazioni e le differenze individuali, per una modernità che si colloca oltre lo spirito gregario del clan senza per questo dissolvere i legami comunitari.
Il valore di tale polemica fuoriesce da questa specifica materia, dacché la “grande narrazione sionista” su Israele, sulla Palestina, sul popolo palestinese, rappresenta il tipo più estremo ed intransigente di revisionismo storico in chiave etnocratica in circolazione. Come ha osservato E. Said occupandosi della questione palestinese, “in Occidente pressoché l’unico gruppo etnico verso il quale è tollerata, se non incoraggiata la denigrazione a sfondo razziale, è quella araba”. E non v’è dubbio che quando la grancassa della propaganda anti-palestinese insiste sul “terrorismo” dei palestinesi, è degli arabi in generale che si parla. Ma io sono convinto che non si tratti solo degli arabi, né di tutti gli arabi presi in blocco al di là delle profondissime differenze di classe che segnano le società arabe. Nell’incredibile fortuna e diffusione che l’ideologia anti-palestinese ha nel mondo occidentale odierno, e non solo, la Palestina e i ribelli palestinesi sono un simbolo di un “qualcosa”, di un pericolo, ancora più ampio.
“Cerco la vera Palestina, la Palestina che vale più dei ricordi, più di una penna di pavone”, fa dire Ghassan Kanafani al suo Said in Ritorno ad Haifa. Ed escludendo che la vera Palestina possa essere quella di un tempo irrimediabilmente passato, formula la domanda bruciante: cos’è, dov’è la vera Palestina oggi? Questa rassegna ci aiuta a capirlo. Non saremo mai abbastanza grati alla sua autrice e ai traduttori delle opere che ha recensito per averlo consentito. La Palestina e i palestinesi, afferma Aysar al-Saifi, sono “un seme, un viaggio, un campo e una lettera”, facendo eco al poeta algerino Malek Haddad: “Je suis chez moi en Palestine”. La Palestina come luogo del cuore. La Palestina, allarga lo sguardo Mahmoud Suboh, è un “universale fantastico”, “racchiude nella sua storia tutte le particolari resistenze nel mondo, come Omero voce della collettività del popolo greco”. Ma se, ad onta del falso antagonismo tra democrazie e autocrazie, davvero “il male del nostro tempo è la perdita della libertà” ovunque (Walid Daqqa), la Palestina e i palestinesi – lungi dall’essere stati cancellati dalla storia – esprimono, nella loro semplice esistenza, e tanto più nella loro ribellione, la voce, il grido di dolore, la speranza delle masse oppresse del mondo intero.
Con i versi di un poeta napoletano: “c’è una musica di fanfare, del grande esercito coloniale” (ci spacca i timpani ogni giorno), e “c’è una musica della terra, del Sud che si ribella”… Qui terra non è solo agricoltura: ulivi, cotone, sesamo, fichi, agrumi, mandorle, nespole, orzo, rose, gelsomino, che pure tanta parte hanno nella letteratura palestinese. È terra come fonte della vita e della strenua difesa della vita della natura e della specie umana dalla brutale pretesa totalitaria dell’industria del controllo carcerario, della dazione di morte, del distruttivo colonialismo “ecologista”, in cui per sua stessa sventura si è specializzato lo stato “ebraico”, avanguardia tecnico-politica, educatore e fornitore di tutti gli apparati statali capitalistici del Nord e del Sud, dell’Est e dell’Ovest. Ai nostri giorni, infatti, la guerra, l’economia di guerra, la disciplina di guerra grandeggiano non più soltanto sulla Palestina storica, incombono sull’intero globo con le loro apocalittiche minacce. Palestina, allora, è il mondo. E la sua letteratura è entrata da tempo, non a caso, nella letteratura del mondo. Ma di quale mondo si parla? E quale futuro per questo mondo?
Al momento per la “questione palestinese” non è in vista alcuna soluzione. All’oggi l’intera storia della lotta secolare dei palestinesi per la propria liberazione può apparire come un seguito di occasioni mancate, di insuccessi, di sconfitte, di tradimenti. Nonostante ciò, è questo che inquieta le élite globali, la questione palestinese resta aperta. La resistenza palestinese, in sempre nuove e articolate forme, di cui la letteratura non è certo l’ultima, è viva. E continua a riscuotere simpatia e solidarietà nel mondo intero da parte di tutti/e coloro che odiano l’oppressione delle nazioni, il colonialismo vecchio e nuovo, l’apartheid, il razzismo, il militarismo – tratti essenziali dell’odierno stato di Israele. Non lo dico io: lo sostengono gli intellettuali ebrei e israeliani più illuminati, quali N. Chomsky e I. Pappe. Lo dicono anche quei giovani cittadini di Israele – per pochi che essi siano – che condannano i pogrom e si rifiutano di servire nell’esercito.
Non è solo per una ragione di ordine demografico che la questione palestinese resta aperta. Resta aperta come questione nazionale e, sempre più, come questione sociale. Nazionale perché la resistenza palestinese rende evidente l’ingiustizia di un popolo senza stato; sociale, di date classi sociali, perché si è creato in questi decenni uno strato di borghesi e burocrati palestinesi benestanti, privilegiati collusi con Israele, mentre la grande massa proletaria e semi-proletaria dei palestinesi di Gaza, della Cisgiordania, della diaspora dei campi profughi, dei palestinesi cittadini di Israele, vive in condizioni di atroce povertà e deprivazione (è l’80%!), e deve affrontare soprusi e tormenti di ogni tipo.
Il richiamo all’unità che negli ultimi anni è salito dalle piazze palestinesi non è tanto, secondo me, un richiamo all’unità delle rappresentanze politiche storiche, sempre più indebolite e prigioniere dei propri vincoli con Israele, i governi occidentali e/o le petrolmonarchie, quanto un richiamo all’unità degli strati più oppressi, diseredati, impoveriti. Quelli che, insieme ad una parte della gioventù istruita senza lavoro, hanno riempito le piazze in tanti paesi del mondo arabo nelle due ondate di sollevazioni del 2011-2012 e del 2018-2020.
A questo riguardo Maher Charif ha parlato di “gruppi sociali popolari che hanno fatto irruzione, per la prima volta in questa forma, sulla scena dell’azione politica” gridando “pane, dignità e giustizia sociale”, e fissando un obiettivo ancor più alto e radicale: “il popolo vuole abbattere il regime”. Nonostante il loro provvisorio scacco, questi avvenimenti hanno messo in luce che non esiste solo un mondo arabo, ne esistono due sempre più distanti ed estranei: il campo delle classi dominanti, in vario modo legate all’ordine mondiale capitalistico, e il campo delle classi sfruttate. Per la Palestina e i palestinesi le cose si stanno muovendo in questa stessa direzione, da decenni. E poiché la spaccatura in profondità di tutte le società – anche di quelle più ricche, come gli Stati Uniti e l’Europa – è un dato universale, ecco che si sono create le condizioni affinché il messaggio di lotta delle masse oppresse e sfruttate della Palestina e del mondo arabo arrivi molto lontano.
Questo studio dimostra che, anche attraverso la letteratura, il messaggio è arrivato perfino nella torpida Italia, presentandoci una “identità palestinese” in continua trasformazione, che si sottrae alle “etichette semplificatorie e discriminanti della nazionalità, della cittadinanza, dell’appartenenza religiosa” per assurgere a significati di maggior respiro e profondità, una Palestina agente in Italia. Per paradosso, lo sforzo sistemico messo in atto per desertificare la “questione palestinese”, per “spogliarla della sua sacralità” riducendola a semplice affare di procedure amministrative (Murid al-Barghuthi), si sta rovesciando nel suo contrario, e la investe di una forza simbolica eccezionale. La Palestina è ovunque. Ovunque sia assente la libertà per la presenza dei meccanismi di sfruttamento e di dominio che stanno togliendo il respiro alla classe lavoratrice di tutte le razze, le nazionalità, le religioni o le non-religioni, e alla stessa natura. Ovunque si lotti senza paura per liberarsi da questi meccanismi universali. Senza cessare di essere la Palestina storica nella drammatica concretezza del suo presente, Palestina è il luogo in cui le rose rosse rinasceranno sempre.
Buona lettura.
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In Cina e Asia – Forum Boao, il numero 3 del Pcc: "No al confronto tra blocchi”
Forum Boao, il numero 3 del Pcc chiede ai paesi asiatici di opporsi al "confronto tra blocchi"
Fidato di Xi a capo della Commissione per il cyberspazio cinese
Cina, scienziati progettano missile terra-aria con un raggio d'azione di 2.000 km
Cina, continua a crescere il settore dei video brevi e del live streaming
Nazioni Unite, veto della Russia sul rinnovo del monitoraggio sulle sanzioni alla Corea del Nord
Indonesia, Giacarta resterà il centro economico del paese anche quando la capitale verrà trasferita a Nusantara
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Tibetani protestano contro la costruzione di una nuova diga
Tutto è cominciato il 14 febbraio, quando almeno 300 tibetani hanno protestato pacificamente davanti agli edifici governativi della contea di Dege chiedendo di sospendere la costruzione della diga Pianti di sottofondo e monaci prostrati mentre la polizia si fa largo tra la folla. Sono alcune delle immagini delle proteste andate in scena lo scorso mese nella provincia cinese del Sichuan, ...
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Weekly Chronicles #69
Questo è il numero #69 di Privacy Chronicles, la newsletter che ti spiega l’Era Digitale: sorveglianza di massa e privacy, sicurezza dei dati, nuove tecnologie e molto altro.
Cronache della settimana
- La Cina dice no al software e hardware statunitense
- Samourai Wallet decentralizza il Coinjoin
- L’Unione Europea ha vietato i wallet cripto privati e anonimi, è vero?
Lettere Libertarie
- Ross ‘Dread Pirate’ Ulbricht compie 40 anni, in carcere
Rubrica OpSec
- Proteggi le tue seed words con l’acciaio
La Cina dice no al software e hardware statunitense
La Cina ha recentemente annunciato nuove regole che prevedono il divieto d’utilizzo di processori Intel e AMD su PC e server governativi. Il divieto si estende anche a software come Windows e in generale prodotti da Microsoft, nonché tutti i software per database sviluppati al di fuori della Cina.
Questa è però in realtà una mezza notizia, poiché la Cina già da tempo aveva politiche protezioniste in materia di ICT. Le aziende cinesi già oggi molto spesso usano numerosi strumenti open source per evitare software statunitense. In futuro il fenomeno sarà probabilmente più accentuato.
Da un lato l’interesse cinese è certamente aumentare il controllo sulla propria infrastruttura nazionale e sui dati, considerati dal governo una risorsa strategica, ma anche evitare rischi di spionaggio e accessi abusivi a sistemi governativi da parte dell’intelligence statunitense.
Lo stesso problema, per così dire, lo abbiamo noi europei. Da tempo discutiamo proprio della sorveglianza di massa perpetrata attraverso i software e hardware americani a danno di governi, aziende e cittadini europei, senza però alcun effetto reale. In quanto colonia politica, possiamo lamentarci e battere i piedi, ma non certo evitare l’uso degli strumenti di spionaggio di Madre Patria.
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Samourai Wallet decentralizza il Coinjoin
Continuiamo la rassegna con una notizia più tecnica, ma estremamente interessante anche dal punto di vista politico. Il team di sviluppo di Samourai Wallet ha dichiarato di essere finalmente riusciti a decentralizzare il loro strumento di “coinjoin” di Bitcoin, chiamato Whirpool.
‘NDRANGHETA IN AUSTRALIA. UNA GUERRA PER LA LEADERSHIP?
Nel nostro blog abbiamo già parlato della infiltrazione (storica) della #‘ndrangheta in #Australia (vedi nota a fine pagina).
[Il luogo dell’omicidio]
Torniamo a farlo poiché è recente il rinnovato interesse degli australiani dopo che un fruttivendolo di Melbourne, John Latorre, è stato ucciso il mese scorso a colpi di arma da fuoco nel suo vialetto mentre usciva nelle prime ore del mattino per andare al lavoro. Egli era indicato come una figura di primo piano del mondo criminale di #Melbourne, legato alla mafia calabrese. È stato ucciso in un'aggressione a colpi di arma da fuoco mentre si trovava nel vialetto di casa sua a Buchanan Place, Greenvale, nella zona nord della città. Gli assassini hanno utilizzato una motocicletta per eseguire l'omicidio in stile esecuzione e per fuggire dalla scena del crimine. Alcuni membri della famiglia di John Latorre sono coinvolti nel settore delle produzioni ortofrutticole, che è considerato sinonimo delle famiglie calabresi-australiane.
Il funerale di Latorre si è tenuto presso la Chiesa cattolica di St Monica a Moonee Ponds a Melbourne. La chiesa non poteva accogliere le centinaia di partecipanti e molti hanno guardato il live streaming della funzione all'esterno.
Secondo la professoressa italiana Anna #Sergi, esperta di fama mondiale della 'Ndrangheta, le voci che l'omicidio sia stato eseguito su ordine di altre figure della criminalità organizzata potrebbero essere una falsa pista per proteggere la leadership. "Non mi fiderei molto del cambio di leadership", ha detto ai media australiani, affermando che la 'Ndrangheta, che si ritiene minacci di morte i membri se rivelassero pubblicamente informazioni sul gruppo, potrebbe cercare di creare deliberatamente confusione su chi agisce come suo padrino.
La direzione del gruppo potrebbe attualmente essere composta da un comitato formato da vari membri senior, il che potrebbe causare tensioni all'interno del trust.
"Se è così, siamo nella posizione di presumere che nuovi gruppi possano sollevarsi e rivendicare un posto al tavolo di comando della 'Ndrangheta", ha detto.
"La 'Ndrangheta non uccide alla leggera. Uccide per tre motivi. Uno è preventivo, per evitare che le cose vengano fuori. Il secondo è vendetta, quindi è punitivo. E il terzo è dimostrativo, quindi è una performance; quindi, devi uccidere qualcuno per mostrare il tuo potere".
[ John Latorre]
Colin McLaren, che ha lavorato come agente di polizia sotto copertura cercando di smantellare la 'Ndrangheta nella città di Griffith nel Nuovo Galles del Sud, nonché a Melbourne e Adelaide, ha detto che la polizia spesso rileva che gli uomini all'interno della società sono padri di famiglia devoti ma altamente paranoici.
"Sono così potenti e così pericolosi, e tutti si guardano alle spalle", ha detto.
L'ex detective ha riferito che le forze dell'ordine probabilmente non risolveranno mai l'omicidio di Latorre: "Il codice del silenzio e la paura di essere uccisi in un modo così orribile, tengono le persone in silenzio. Ma le forze dell'ordine devono continuare a impegnarsi."
Nel 2021, la polizia federale ha affermato che l'attività della 'Ndrangheta era diffusa in Australia, sostenendo che il gruppo controllava circa il 70% del mercato mondiale della cocaina.
L'AFP (Australian Police Force) ha affermato che le informazioni sono state raccolte da un'app di messaggistica chiamata ANOM, che i criminali credevano fosse sicura ma che era segretamente monitorata da agenti in Australia e negli Stati Uniti.
McLaren ha affermato che l'operazione della #AFP ha messo in luce la straordinaria scala globale della 'Ndrangheta, che consente all’organizzazione di spostare la droga in tutto il mondo.
noblogo.org/cooperazione-inter…
imolaoggi.it/2024/03/28/tajani…
FPF Statement on Vice President Harris’ announcement on the OMB Policy to Advance Governance, Innovation, and Risk Management in Federal Agencies’ Use of Artificial Intelligence
Following the groundbreaking White House Executive Order on AI last fall, which outlined ambitious goals to promote the safe, secure, and trustworthy use and development of AI systems, Vice President Harris has today announced the publication by the Office of Management and Budget of a binding memorandum on “Advancing Governance, Innovation, and Risk Management for Agency Use of Artificial Intelligence,” which indicates the diligent efforts of agencies toward achieving this objective. This commitment is further highlighted by the National Telecommunications and Information Administration (NTIA) publication earlier this week of the“Artificial Intelligence Accountability Policy Report,” which details mechanisms to support the creation and adoption of trustworthy AI.
Although the OMB memorandum primarily focuses on the government’s use of AI, its influence on the private sector will be significant. This is due to not only the requirements for U.S. government vendors and procurement, but also how this framework will create broadly applicable norms and standards for conducting impact assessments, mitigating bias, providing rights to individuals affected by AI systems that impact their rights and safety, and assessing data quality and data privacy in these systems.
“This is a pivotal moment for the development of AI standards when the public sector has a crucial role to play in setting norms for the assessment and procurement of AI systems. We are particularly enthused by the renewed commitment to bring clarity to the development of AI in the public sector and its national utilization. At FPF, we eagerly anticipate contributing to this crucial work through our evidence-based research on Artificial Intelligence.”
– Anne J. Flanagan, FPF Vice President for Artificial Intelligence
GAZA. Sotto assedio altri due ospedali. Israele vieta all’Unrwa la distribuzione degli aiuti al Nord
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di Michele Giorgio
Pagine Esteri, 25 marzo 2024 – Mentre continua la pesante incursione dell’esercito israeliano nell’ospedale Shifa di Gaza city – dove Tel Aviv afferma di aver ucciso circa 200 combattenti e dirigenti di Hamas e Jihad islami e di averne catturato altre centinaia, invece i palestinesi denunciano l’uccisione e il ferimento di numerosi civili all’interno del complesso ospedaliero -, altri due ospedali della Striscia, il Nasser e l’Amal di Khan Yunis, sono finiti di nuovo sotto assedio. La Mezzaluna Rossa inoltre denuncia che le forze israeliane bloccano i movimenti delle sue squadre mediche con colpi di arma da fuoco e che uno dei suoi dipendenti è stato ucciso da raffiche di carri armati. “Tutte le nostre squadre sono in estremo pericolo in questo momento e completamente paralizzate”, si legge in un comunicato della Mezzaluna Rossa.
Come per lo Shifa, l’esercito israeliano sostiene che combattenti palestinesi si sarebbero rifugiati all’interno di questi due ospedali. Reparti corazzati hanno circondato l’ospedale di Al-Amal ed effettuato estese operazioni di demolizione nelle sue vicinanze. Le forze israeliane intimano la completa evacuazione del personale, dei pazienti e degli sfollati dai locali dell’Amal e hanno lanciato fumogeni per costringere le persone ad uscire.
Abitanti di Khan Younis hanno aggiunto che le truppe israeliane sono avanzate e hanno circondato l’ospedale Nasser, nella parte occidentale della città, sotto la copertura di un pesante fuoco aereo e terrestre. A Rafah al confine con l’Egitto, l’ultimo rifugio per oltre la metà della popolazione di Gaza, un attacco aereo israeliano su una casa ha ucciso sette persone. Almeno 32.226 palestinesi sono stati uccisi, di cui 84 nelle ultime 24 ore, e 74.518 feriti nell’offensiva aerea e terrestre israeliana dal 7 ottobre.
Intanto la mediazione del Qatar e dell’Egitto, appoggiata dagli Stati Uniti, non è riuscita finora a raggiungere il cessate il fuoco tra Hamas e Israele, lo scambio tra ostaggi israeliani e prigionieri politici palestinesi e un aiuto umanitario senza limiti agli oltre due milioni di civili di Gaza che affrontano la carestia. Hamas vuole che qualsiasi accordo di tregua includa l’impegno israeliano a porre fine alla sua offensiva e a ritirare le forze da Gaza. Israele lo ha escluso e afferma che continuerà a combattere finché “Hamas non sarà sradicato come forza politica e militare”.
La quantità e la distribuzione degli aiuti alimentari a Gaza restano tra i principali problemi. Israele peraltro ha comunicato che non permetterà più all’Unrwa, l’agenzia per i profughi palestinesi, di consegnare il cibo e altri generi di prima necessità nel nord della Striscia. Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha descritto la mancata consegna degli aiuti destinati a Gaza come un “oltraggio morale” durante una visita sabato al lato egiziano del valico di frontiera di Rafah. Parlando ieri al Cairo, Guterres ha affermato che l’unico modo efficace ed efficiente per consegnare merci e soddisfare i bisogni umanitari di Gaza è la strada, ossia il trasporto con i camion. Gli Stati Uniti e altri paesi utilizzano lanci aerei e navi per fornire aiuti, ma i funzionari delle Nazioni Unite ripetono che le consegne possono essere aumentate solo via terra e accusano Israele di ostacolare le operazioni umanitarie. Pagine esteri
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Ecco il “nostro” buco nero in luce polarizzata l MEDIA INAF
"Questa nuova immagine ha svelato la presenza di campi magnetici forti e organizzati che si sviluppano a spirale dal margine del buco nero al cuore della Via Lattea. Inoltre, ha rivelato che la loro struttura è sorprendentemente simile a quella dei campi magnetici del buco nero al centro della galassia M87, suggerendo che questi forti campi magnetici possano essere comuni ai buchi neri."
rag. Gustavino Bevilacqua reshared this.
Ecuador: forti tensioni nella regione del Cotopaxi tra i militari e comunità indigene
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di Davide Matrone
Pagine Esteri, 28 marzo 2024 – Nelle comunità di Palo Quemado e Las Pampas, situate nella regione del Cotopaxi in piena cordigliera delle Ande dell’Ecuador, da circa dieci giorni si registrano forti tensioni tra l’esercito e la popolazione indigena e contadina.
Il punto di conflitto è la concessione governativa alla multinazionale canadese Atico Mining di avviare l’estrazione di minerali nel territorio in base al progetto denominato La Plata. Lo scorso 5 marzo tra il governo dell’Ecuador, rappresentato dal Ministero di Produzione e dal Ministero di Energia e Miniere dell’Ecuador, ed esponenti della controparte canadese si è siglato l’accordo per procedere all’attuazione del progetto minero nella zona cantonale di Sigchos dove si trovano le comunità di Palo Quemado e Las Pampas. L’impresa canadese ha investito 100 milioni di dollari statunitensi per iniziare e completare l’opera.
Dalla settimana del 18 marzo, però si sono intensificati gli scontri tra l’esercito e la popolazione locale che si rifiuta in modo categorico l’esecuzione del progetto all’interno dei propri terreni, sebbene lo stesso progetto garantisca l’occupazione a centinania di persone del territorio. Tra le organizzazioni ad opporsi, inoltre, c’è la CONAIE ed il Fronte Nazionale Antimineria che molbitano da giorni le popolazioni della zona.
Nella stessa settimana si sono susseguite una serie di giornate di dure proteste durante le quali ci sono stati anche 70 arresti tra gli abitanti delle comunità indigene che difendono i loro territori, le loro case e le loro risorse. I 70 arrestati oggi rischiano pene severe nella congiuntura politica e ideologica del paese nel quale si torna ad applicare la dottrina di sicurezza nazionale 2.0 dove la lotta al terrorismo è il leit motiv per reprimere duramente qualsiasi forma di protesta che critichi l’applicazione delle politiche economiche neoliberiste. Non è casuale appunto che i 70 arrestati sono accusati di delitto di terrorismo.
Nelle giornata del 26 e 27 marzo, si sono tenute delle mobilitazioni nella capitale Quito con la partecipazione di una rappresentanza delle comunità in conflitto, di cittadini, di attivisiti e militanti di alcuni collettivi ambientalisti del paese. Il sit – in si è realizzato all’esterno dell’ambasciata canadese con la presenza, inoltre, di Leonidas Iza, presidente della Conaie (Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador) e all’esterno del Ministero dell’Ambiente.
Nel frattempo non si fermano gli scontri tra i reparti dell’esercito e la popolazione locale. Nella giornata di ieri veniva ferito gravemente Mesias Robayo Mesapanta che oggi si trova in coma ricoverato in un ospedale di Quito.
Nella nottata di ieri c’è stato un pronunciamento pubblico e ufficiale della Conaie che attraverso il suo lider ha dichiatato che il Presidente Noboa deve fermare le aggressioni contro la popolazione. L’Ecuador non è un’impresa. Bisogna, inoltre, far rispettare i diritti costituzionali e la Consulta sull’ambiente che sono principi democratici basici adottati dalla popolazione ecuadoriana. Intanto con rispetto alla Consulta ambientale locale, che doveva svolgersi nella giornata di ieri mercoledí 27 per chiedere il parere della popolazione locale, un giudice del comune di Sigchos, ha ordinato la sospensione della stessa consulta nella comunità di Palo Quemado. Inoltre, nella medesima risoluzione ha disposto il ripiegamento del personale miltare e della polizia nella zona per diminuire le tensioni.
Tuttavia queste ultime sembrano non placarsi dopo le dichiarazioni del Presidente della Repubblica che ha dichiarato: “Non permetteremo che un gruppo di persone arretrate fermi lo sviluppo del paese”. Pagine Esteri
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Mistero a Washington. La posizione di Trump sulla guerra Israele-Gaza
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di James Carden e Kelley Beaucar Vlahos – RESPONSIBLE STATECRAFT
Riguardo alla guerra israeliana a Gaza, l’ex presidente Donald J. Trump torna a fare notizia, dicendo a Fox News che “bisogna finirla e farlo velocemente e tornare a un mondo di pace. Abbiamo bisogno di pace nel mondo… abbiamo bisogno di pace in Medio Oriente”. Trump continua inoltre a esporre le sue lamentele di vecchia data nei confronti del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, dicendo: “È stato ferito molto gravemente da quello che è successo. Non era preparato. Lui non era preparato e Israele non era preparato”.
Questa non è la prima volta che Trump esprime una critica aperta nei confronti di Netanyahu. All’indomani della sua sconfitta contro Joe Biden nel 2020, Trump raccontò della chiamata di congratulazioni di Netanyahu a Biden, lamentandosi di “non aver parlato” con il primo ministro israeliano da quando aveva lasciato l’incarico, quindi “vaffanculo”.
Questa settimana, in un’intervista al quotidiano israeliano Israel Hayom , tuttavia, Trump è sembrato andare oltre sul motivo per cui secondo lui la guerra dovrebbe finire.
“Dobbiamo raggiungere la pace, non possiamo permettere che succeda tutto questo. E dirò che Israele deve stare molto attento, perché sta perdendo gran parte del mondo, stai perdendo molto sostegno”, ha detto.
Alla domanda sui timori che l’antisemitismo sia in aumento in tutto il mondo, ha fatto riferimento alla morte e distruzione dei civili. “Beh, è perché ha reagito”, ha detto. “E penso che Israele abbia commesso un grosso errore. Volevo chiamare [Israele] e dire di non farlo. Queste immagini e gli scatti. Voglio dire, riprese in movimento di bombe sganciate sugli edifici di Gaza. E io ho detto: Oh, è un ritratto terribile. È una brutta immagine per il mondo. Il mondo lo sta vedendo…ogni notte, guardo gli edifici riversarsi sulle persone”. Anche quando gli è stato chiesto della presenza di Hamas negli edifici civili, Trump ha detto: “Vai e fai quello che devi fare. Ma tu non lo fare”.
Vuol dire che Israele dovrebbe smettere di bombardare i civili o invece deve lasciare girare immagini che mostrino al mondo che lo sta facendo? L’ambiguità sta portando gli osservatori a leggervi ciò che vogliono. Forse è questo il punto.
In effetti, Trump ha rivelato poco sulle sue opinioni sulla guerra di Gaza, dalla possibilità di un cessate il fuoco a ciò che potrebbe accadere quando i combattimenti finiranno. È difficile scoprire di più, poiché ha offerto pochi dettagli sul percorso della campagna.
Definisce i democratici progressisti che chiedono un cessate il fuoco “pazzi” che “odiano Israele”. Recentemente ha affermato che gli ebrei che votano democratici odiano Israele e “odiano la loro religione”.
Sulla stessa amministrazione Biden: “francamente, si sono ammorbiditi”, ha detto a Fox News all’inizio di marzo, aggiungendo che gli attacchi di Hamas del 7 ottobre non sarebbero mai avvenuti se fosse stato ancora presidente e nemmeno l’invasione russa dell’Ucraina. Non spiega perché, ma insiste sul fatto che la sua campagna di massima pressione ha mantenuto l’Iran “al verde” in modo che non avesse le risorse da dare ad Hamas.
Quindi, considerati questi commenti sparsi nelle ultime settimane, possiamo effettivamente discernere quale potrebbe essere la politica degli Stati Uniti nei confronti di Israele e dei palestinesi se Trump vincesse le elezioni di novembre e fosse insediato come 47° presidente nel gennaio 2025? Forse è meglio andare oltre le sue esortazioni e dare invece un’occhiata alla cronaca.
Indizi, passato e presente
In primo luogo, per quanto riguarda i recenti commenti di Trump, vorremmo avvertire che qualsiasi insofferenza nei confronti di Netanyahu è bipartisan, ampiamente condivisa e in crescita, con le recenti osservazioni del leader della maggioranza al Senato Chuck Schumer che servono da un buon indicatore dei sentimenti dell’establishment di centrosinistra nei confronti del leader israeliano.
Finora i commenti di Trump, tuttavia, riflettono maggiormente i sentimenti dell’establishment di destra nei confronti di Netanyahu: frustrazione per il fatto che il suo governo non sia riuscito ad anticipare gli attacchi del 7 ottobre. Ma Trump e la destra filo israeliana riservano gran parte del loro fuoco a Biden che accusano di non dare abbastanza a Netanyahu ora che la lotta contro Hamas è in corso.
Inoltre, l’idea che Trump possa mostrare moderazione nella guerra Israele-Gaza quando fa commenti sulla “pace” sembra essere smentita dalle persone di cui si è circondato nel corso degli anni.
Suo genero, Jared Kushner, ad esempio, che ha servito come stretto consigliere di politica estera in Medio Oriente durante la presidenza Trump, ha lunghi legami personali con la famiglia Netanyahu. Proprio di recente ha rilasciato un’intervista all’Università di Harvard in cui ha suggerito che i rifugiati palestinesi potrebbero essere rifugiati nel deserto israeliano fuori Gaza e non tornare mai più. Ha anche detto che i palestinesi non dovrebbero avere un proprio Stato perché questo li “ricompenserebbe” per il terrorismo di Hamas.
E l’attuale gruppo di consiglieri di politica estera di Trump, tra cui l’ex segretario di Stato Mike Pompeo, il generale in pensione Keith Kellogg, il consigliere per la campagna elettorale Jason Miller, l’ex ambasciatore delle Nazioni Unite Richard Grenell e Fred Fleitz, non sono noti per essere colombe su nessuna questione di politica estera, men che meno su Israele-Palestina. Quelli attualmente indicati come potenziali candidati alla corsa per il 2024 – tra cui Tulsi Gabbard, Tim Scott, Sarah Huckabee, Elise Stefanik e Ron DeSantis – sono tutti ugualmente filoisraeliani.
E poi c’è il passato del 45esimo presidente durante il suo mandato. Le sue azioni nei confronti di Israele-Palestina non possono in nessun senso essere interpretate come equilibrate e ancor meno moderate.
La nomina da parte di Trump di David Friedman, esponente della lobby israeliana, ad ambasciatore americano in Israele, la decisione di spostare (in violazione del diritto internazionale) l’ambasciata americana a Gerusalemme e il suo riconoscimento formale delle rivendicazioni territoriali di Israele sulle alture del Golan hanno segnalato uno stretto allineamento con la politica obiettivi della destra intransigente israeliana e, per molti versi, dei suoi principali donatori.
Friedman, tra l’altro, in risposta ai commenti del vicepresidente Kamala Harris secondo cui gli abitanti di Gaza non avrebbero nessun posto dove andare in caso di invasione di Rafah, ha postato su X che “l’Egitto e altri paesi arabi” sono un’opzione. Anche Friedman si oppone alla soluzione dei due Stati e sta invece spingendo per un piano per il futuro della Giudea e della Samaria che afferma il diritto di Israele di annettersi il territorio della Cisgiordania. Trump ha detto al già citato quotidiano Israel Hayom di aver intenzione di incontrare Friedman per ascoltare il suo piano.
I maggiori donatori passati e presenti di Trump sostengono una linea dura pro-Israele e anti-Iran, tra cui Tim Dunn, Bernie Marcus e, naturalmente, la famiglia Adelson, che ha donato oltre 424 milioni di dollari alle cause di Trump e del Partito Repubblicano dal 2016 al 2020 con le primarie. intento di modellare la relazione USA-Israele a favore della destra politica intransigente. Gli Adelson – Sheldon, morto nel 2021, e sua moglie Miriam – erano particolarmente infuriati contro il Piano d’azione globale congiunto (JCPOA), noto anche come accordo sul nucleare iraniano, firmato dal presidente Obama nel 2015.
Netanyahu, tra l’altro, odiava così tanto quell’accordo che si impegnò in una campagna di pubbliche relazioni individuale contro di esso, inclusa la dichiarazione in una sessione congiunta del Congresso nel 2015 che si trattava di un “errore storico” e che avrebbe “garantito” che l’Iran avesse armi nucleari. Quando Trump è entrato in carica, ha stracciato il JCPOA e ha lanciato una campagna di massima pressione durata un anno contro la Repubblica islamica. Da allora il programma nucleare iraniano non ha fatto altro che espandersi.
Nel frattempo, Miriam Adelson ha recentemente incontrato Trump nel suo resort di Mar-a-Lago in Florida questo mese, e a Las Vegas il mese scorso.
Ancor di più, la base di sostegno di Trump alle elezioni potrebbe benissimo dipendere dall’adesione entusiasta dei cristiani evangelici, oltre la metà dei quali cita il sostegno a Israele come una questione critica.
Che tipo di posto al tavolo politico otterranno i donatori e queste altre parti interessate in una seconda Amministrazione Trump è una domanda giusta.
I conservatori non si preoccupano del “terzo binario”
Niente di tutto ciò prova che oggi Trump sia necessariamente in piena sintonia con gli estremisti della destra. Le principali voci conservatrici a cui Trump apparentemente dà ascolto si sono espresse pubblicamente a favore di una politica più contenuta a Gaza. Tucker Carlson ha affermato che gli Stati Uniti hanno perso la loro “autorità morale” perché si sono rifiutati di chiedere un cessate il fuoco tra Israele e Hamas. Il miliardario tecnologico David Sacks ha affermato che non è nell’interesse di Israele sostenerlo incondizionatamente. “Storicamente il ruolo americano è stato quello di incoraggiare gli israeliani, fondamentalmente, a non arrivare al limite, ma a tirarli indietro prima che facessero qualcosa che francamente non era nel loro interesse, per non parlare del nostro”, ha detto a Breaking Points, ospite di Saagar Enjeti, “e Biden ha perso l’opportunità di farlo, di stabilire dei limiti su ciò che l’America è disposta a sostenere… È abbastanza ovvio che bombardare indiscriminatamente una popolazione si ritorcerà contro.”
E la lanciatrice di bombe conservatrice Candace Owens, che è stata licenziata dal Daily Wire la settimana scorsa, ha respinto le accuse di antisemitismo perché ha messo in dubbio la politica di Israele a Gaza e perché non crede “che i contribuenti americani dovrebbero pagare per le guerre di Israele o per le guerre di qualsiasi altro paese”.
Senza menzionare Israele per nome, Owens ha postato su X: “Nessun governo da nessuna parte ha il diritto di commettere un genocidio, mai. Non esiste alcuna giustificazione per un genocidio. Non posso credere che questo debba essere detto o sia considerato il meno importante.” un po’ controverso da affermare.”
Quindi, anche se la questione israeliana rimane un “terzo binario” nei principali circoli conservatori, potrebbe non essere ancora una conclusione del tutto scontata, nel mondo di Trump.
Alla fine, Trump potrebbe semplicemente aspettare di vedere come la guerra a Gaza influenzerà il suo avversario, che, per molti aspetti, soffre ogni giorno che va avanti, con la sua stessa base. Cercare di indovinare se la situazione sarebbe “migliore” o “peggiore” sotto Biden o Trump è un gioco da salotto popolare a Washington in questo momento, anche se la realtà è un inferno per il popolo di Israele e di Gaza, non importa quali siano i nostri politici. Pagine Esteri
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In Cina e Asia – Xi chiede ai Paesi Bassi di non frenare il progresso nel settore dei chip
I titoli di oggi: Xi chiede ai Paesi Bassi di non frenare il progresso nel settore dei chip Pechino rimuove le tariffe sul vino australiano La Cina non ha usato 50 miliardi di dollari in finanziamenti infrastrutturali della Bri Cina e Russia contestano le pretese degli Usa sulle profondità oceaniche Mumbai ha più miliardari di Pechino Il progresso tecnologico della ...
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CRIMINALITÀ ORGANIZZATA E CORRUZIONE. I RISCHI E LA NECESSITÀ DI COOPERAZIONE INTERNAZIONALE
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Torniamo a parlare (vedi richiamo a fondo pagina) delle connessioni tra gruppi di criminalità organizzata in ambito globale, la loro capacità corruttiva ed i pericoli e rischi posti dalla corruzione associata ai gruppi di criminalità organizzata, che vanno dalla minaccia alla stabilità e sicurezza delle società, derivante dal disprezzo per le istituzioni democratiche, i valori etici e della giustizia, alla compromissione dello sviluppo sostenibile e dello stato di diritto. Inoltre, vi sono implicazioni economiche e sociali negative legate alle attività criminali organizzate, poiché i collegamenti tra corruzione, criminalità organizzata ed altri reati come il riciclaggio di denaro consentono l’infiltrazione dei gruppi criminali organizzati nei settori pubblico e privato facilitano i reati transnazionali e flussi finanziari illeciti.
Da ciò deriva la necessità di contrastare la corruzione attraverso la cooperazione internazionale, adottando misure che comportino lo sviluppo di approcci comuni per affrontare la corruzione coinvolgente gruppi criminali organizzati e la condivisione delle “migliori pratiche; il rafforzamento della cooperazione investigativa tra Stati, attraverso accordi bilaterali o multilaterali per condurre indagini congiunte e rimuovendo le barriere alla cooperazione legale reciproca e promuovere lo scambio di informazioni tra agenzie di contrasto e unità di intelligence finanziaria; coinvolgere reti internazionali e regionali per lo scambio di informazioni tecniche; promuovere iniziative bilaterali, regionali e multilaterali per prevenire e combattere la corruzione attraverso la cooperazione internazionale fornendo assistenza tecnica e capacità ai paesi in via di sviluppo per contrastare la corruzione coinvolgente gruppi criminali organizzati. Tutto ciò senza dimenticare che la cooperazione internazionale dovrebbe puntare al recupero dei beni derivanti da attività criminali.
Ad un livello più ampio, le prospettive riguardano la promozione della trasparenza, l'integrità e la responsabilità nel settore pubblico e privato, il coinvolgimento della società civile, i media e il settore privato nella lotta alla corruzione e – non ultimo – la protezione dei whistleblower (coloro che segnalano casi di corruzione nel proprio ambito lavorativo).
A livello internazionale la Sezione Corruzione e Crimine Economico (CEB) dell'UNODC nella sede centrale dell’UNODC (l’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e crimine, agenzia delle Nazioni Unite fondata nel 1997) e sul campo, supporta nella realtà quotidiana l’implementazione della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (UNCAC, unodc.org/corruption/en/uncac/…), adottata il 31 ottobre 2003 dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ed entrata in vigore il 14 dicembre 2005 con l’adozione da parte di 190 paesi (al 10 ottobre 2023).
noblogo.org/cooperazione-inter…
Ministero dell'Istruzione
#NoiSiamoLeScuole questa settimana è dedicato al Liceo scientifico, linguistico e di scienze applicate “Pitagora” di Rende (CS), che con i fondi del #PNRR “Scuola 4.Telegram
L’UE aumenta le spese militari, ma non basta: “spendere di più e meglio”
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di Redazione
Pagine Esteri, 27 marzo 2024 – Non solo l’Unione Europea aumenta a dismisura le spese militari, ma i suoi dirigenti non perdono occasione per rivendicare decisioni che accelerano lo scontro bellico e sottraggono risorse alla spesa sociale. Negli ultimi mesi alcuni governi – ad esempio quelli della Spagna, della Danimarca, della Poloniae della Germania – hanno imposto incrementi record delle spese militari sfruttando il timore generato nelle opinioni pubbliche dall’invasione russa dell’Ucraina
Come se non bastasse, dopo la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, anche l’Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, il catalano Josep Borrell, chiede un ulteriore espansione del budget comunitario della difesa.
«Gli Stati membri dell’Ue stanno già spendendo molto di più per la difesa, con un aumento del 40% del bilancio della difesa negli ultimi dieci anni e un balzo di 50 miliardi di euro tra il 2022 e il 2023. Tuttavia, i 290 miliardi di euro di bilancio per la difesa dell’Ue nel 2023 rappresentano solo l’1,7% del nostro Pil secondo il parametro del 2% della Nato» ha scritto Borrell sul suo blog. E poi ha aggiunto: «Dobbiamo spendere di più ma anche meglio, e meglio significa insieme».
«Nel 2022, gli eserciti europei hanno investito 58 miliardi in nuove attrezzature. Per il quarto anno consecutivo, si è superato il parametro del 20% delle spese per la difesa. Tuttavia, solo il 18% di questi investimenti sono attualmente effettuati in modo collaborativo, molto al di sotto del parametro del 35% fissato dagli stessi Stati membri dell’Ue nel 2007. Dall’inizio della guerra di aggressione russa, il 78% delle attrezzature acquistate dagli eserciti dell’Ue proveniva da Paesi terzi. Siamo in ritardo anche negli investimenti in Ricerca e Sviluppo» ha evidenziato il capo della diplomazia europea, bacchettando implicitamente quei paesi che oppongono ancora resistenze a centralizzare la gestione dell’acquisto di armi.
Borrell ha ribadito quanto già spiegato nei giorni scorsi dalla vicepresidente della Commissione Europea, Margrethe Vestager: «La nostra spesa per la difesa è destinata a troppi sistemi d’arma, acquistati principalmente al di fuori dell’Unione europea. Ora che i bilanci della difesa di tutti gli Stati membri sono in forte aumento, dobbiamo iniziare a investire meglio, il che significa soprattutto investire insieme e investire in Europa».
Proprio per “spendere meglio” e cercare di ridurre le importazioni extra-europee, lo scorso 5 marzo la Commissione Europea ha presentato un nuovo progetto militare-industriale continentale. L’obiettivo è quello di promuovere la cooperazione tra le aziende del “settore difesa”, facilitando gli acquisti in comune di sistemi d’arma e tecnologie belliche.
I Ventisette paesi membri dell’Ue producono attualmente ben 17 modelli diversi di carri armati, 29 modelli di fregate, 20 modelli di caccia ecc. Inoltre negli ultimi anni è aumentata la dipendenza europea dalle armi prodotte dagli Stati Uniti: se nel 2021 l’Ue comprava da Washington sistemi bellici per 15,5 miliardi di dollari l’anno seguente la cifra è cresciuta fino a 28 miliardi, e nel 2023 la spesa è ulteriormente cresciuta.
Josep Borrell e Ursula von der Leyen
Il progetto della Commissione Europea si basa sostanzialmente su due programmi varati nel 2023, noti con gli acronimi EDIRPA e ASAP. Il primo promuove gli acquisti in comune; il secondo invece mira a incrementare la produzione di munizioni.
Per coordinare i progetti, è prevista la creazione di un organismo incaricato di gestire la collaborazione tra i paesi membri, denominato “Defense Industrial Readiness Board”.
La Commissione Europea si propone di incrementare il commercio intraeuropeo di armi fino a portarlo, entro il 2030, al 35% del valore complessivo del mercato continentale. Inoltre, sempre per quella data, si punta a far crescere gli appalti europei fino al 50% del totale.
Per ora i fondi messi a disposizione per sostenere l’apparato militare industriale europeo non sono ingentissimi: per ora sono stati messi a disposizione 1,5 miliardi di euro tra il 2025 e il 2027. Ma ulteriori finanziamenti potranno essere ottenuti sfruttando l’articolo 212 dei Trattati Europei, gli stanziamenti decisi dai singoli stati – che possono far ricorso a sussidi e sconti fiscali – e quelli del Fondo Europeo di Difesa. Per racimolare nuovi fondi, alcuni ambienti hanno proposto la creazione di Eurobond ad hoc, ma la proposta ha generato alcune perplessità.
Le spese militari stanno crescendo in tutto il mondo in maniera sfrenata. Nel 2022 le spese militari mondiali hanno raggiunto i 2240 miliardi di dollari, un livello mai raggiunto neppure ai tempi della Guerra Fredda. A guidare la classifica sono gli Stati Uniti, seguiti dalla Cina, dalla Russia, dall’India e dall’Arabia Saudita. Washington spende il 39% del totale mondiale, la NATOil 55%, l’UE il 12%, la Cina il 13%, la Russia il 4%.
Nel 2023 l’Italia ha speso circa 28 miliardi euro, con un aumento rispetto all’anno precedente in linea con la tendenza inaugurata a partire dal 2016. Pagine Esteri
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Israele attacca centro medico in Libano e uccide 7 persone. La risposta di Hezbollah causa una vittima
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di Eliana Riva –
Pagine Esteri, 27 marzo 2024. Il confronto armato tra Israele e Hezbollah, in Libano, subisce una nuova, pericolosa accelerazione. Martedì Israele ha colpito la zona più settentrionale del Libano dall’inizio della guerra. A 100 chilometri dal confine, nella città di Zaboud, nella zona orientale della Valle della Beqaa. L’esercito israeliano afferma di aver colpito un complesso militare contenente diverse piattaforme per il lancio dei droni.
Lo stesso giorno Hezbollah aveva attaccato la base aerea sul monte Meron, poco all’interno del confine israeliano. Si tratta di un presidio utilizzato dall’esercito per monitorare lo spazio aereo che, sempre secondo le forze armate, non ha subito danni significativi.
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Cristo è resurrezione
Non tutti però credono. Anzi. Gesù Cristo sarà posto a morte proprio per questo suo segno di signoria sulla morte.
Perché? Ci possono essere varie risposte, ma fermiamoci a pensare che chi decide di metterlo a morte lo faccia proprio per evitare che agisca come Signore della vita. Non vogliono abbandonare tutti i privilegi e le aspettative mondane. Forse non tutti vogliono la vita eterna come ci viene da pensare. Sarebbe come essere rinnovati, ma chi vuole realmente essere nuovo? Se poi c’è potere e ricchezza…
A volte invece facciamo questo salto di fede e Gesù Cristo ci ricorda che la gioia e la beatitudine è alla nostra portata credendo nel nostro Signore: il Signore della vita.
pastore D'Archino - Cristo è resurrezione
La resurrezione di Lazzaro è un brano di solito ben conosciuto. Più che di resurrezione però dovremmo parlare di ritorno in vita, e questo è uno degli aspetti su cui pensare. Non leggeremo tutto il…pastore D'Archino
Da oggi #27marzo fino al #31maggio è possibile richiedere le agevolazioni dedicate a viaggi di istruzione e visite didattiche attraverso la piattaforma #Unica.
L'iniziativa è destinata a studentesse e studenti delle scuole statali di secondo grado.
Ministero dell'Istruzione
Da oggi #27marzo fino al #31maggio è possibile richiedere le agevolazioni dedicate a viaggi di istruzione e visite didattiche attraverso la piattaforma #Unica. L'iniziativa è destinata a studentesse e studenti delle scuole statali di secondo grado.Telegram
Ministero dell'Istruzione
Da oggi #27marzo le lavoratrici madri della #scuola possono presentare la domanda online per l’esonero contributivo sino a 3.000 euro annui.Telegram
In Cina e Asia – Xi accoglie gli imprenditori americani
I titoli di oggi: Xi accoglie gli imprenditori americani La Cina denuncia gli Usa all’OMC: “Sussidi discriminatori” Cina, condannati dirigenti sportivi accusati di corruzione Pakistan, ancora attacchi intorno ad asset cinesi Thailandia verso l’approvazione del matrimonio gay Malaysia, i figli di Mahatir confermano giro di indagini sul padre Il presidente cinese, Xi Jinping, ha ricevuto oggi dirigenti e accademici dagli ...
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Brasile. Arrestati i presunti mandanti dell’omicidio di Marielle Franco
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di Redazione
Pagine Esteri, 26 marzo 2024 – Il 24 marzo il Tribunale Supremo Federale del Brasileha ordinato l’arresto dei tre presunti mandanti dell’omicidio di Marielle Franco, la consigliera comunale del PSOL (Partito Socialismo e Libertà) e attivista del movimento femminista assassinata il 14 marzo del 2018 a Rio de Janeiro.
A finire in manette sono stati l’ex capo della polizia di Rio de Janeiro Rivaldo Barbosa, l’ex consigliere della corte dei conti locale Domingos Brazão e il fratello di quest’ultimo, il deputato di União Brasil (il principale partito di centrodestra del paese) Chiquinho Brazão.
Secondo Alexandre de Moraes, il giudice del tribunale supremo federale incaricato del caso, sarebbero stati i due fratelli, legati alla criminalità organizzata, ad incaricare dei sicari di uccidere Marielle Franco e il suo autista Anderson Gomes. I due furono uccisi mentre la capofila del movimento contro il razzismo e per i diritti dei membri del collettivo lgbt tornava a casa dopo una manifestazione di sostegno ai diritti delle donne nere.
L’ex capo della polizia di Rio, invece, è accusato di aver intralciato e depistato le indagini che erano sotto la sua supervisione.
A svelare i nomi dei mandanti dell’omicidio politico è stato Ronnie Lessa, ex agente della polizia militare di Rio de Janeiro, in carcere dal 2019 perché ritenuto l’autore materiale del crimine insieme al commilitone Élcio Queiroz.
Il testimone di giustizia ha testimoniato che i fratelli Brazão avevano deciso di far eliminare Marielle Franco già nel settembre del 2017 perché la consigliera comunale anticapitalista rappresentava un ostacolo agli interessi economici della criminalità organizzata.
Secondo il Ministro della Giustizia brasiliano, Ricardo Lewandowski, gli arresti chiudono l’inchiesta, «anche se potrebbero ancora emergere nuovi elementi». In realtà alcuni elementi sono già emersi sul coinvolgimento, per ora non ancora provato, di alcuni esponenti della famiglia dell’ex presidente di estrema destra Jair Bolsonaro.
Comunque soddisfazione per gli arresti è stata espressa da Anielle Franco, sorella dell’esponente politica assassinata. «Oggi è stato fatto un grande passo avanti verso la verità» ha affermato l’attuale ministra per l’uguaglianza razziale del governo federale brasiliano. Pagine Esteri
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A sette anni dal loro sbarco in Europa, Oro HeartGold e Argento SoulSilver sono ancora per molti fan i migliori giochi Pokémon di sempre. Vediamo perché.Lorenzo De Vizzi Arati (Johto World)
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SEACOP, il progetto di cooperazione dei porti marittimi in collaborazione con le agenzie dell'UE
Il traffico di beni illeciti, inclusa la droga, è un fenomeno internazionale con un impatto devastante sullo sviluppo sociale ed economico, nonché sulla salute pubblica. L’asse transatlantico, che si estende dall’America Latina attraverso i Caraibi e l’Africa occidentale fino all’Europa, è una delle rotte principali per questi flussi illeciti. Orchestrato da gruppi criminali transnazionali che operano in diversi continenti e spesso coinvolti in altre attività criminali, il traffico illecito di beni è fonte di instabilità. La maggior parte delle merci illecite viene trasportata via mare, per lo più nascosta tra i carichi legittimi all’interno di container o su navi mercantili, nonché su pescherecci e yacht.
Controlli portuali inadeguati e debolezza istituzionale generale facilitano l’attività criminale e consentono l’intersezione di flussi illeciti che collegano i porti del Sud America ai porti dell’Africa e dell’Europa che promuovono le reti criminali.
Questa flessibilità nel traffico marittimo transatlantico è una ragione fondamentale per cui è necessario prendere di mira le rotte del traffico transregionale tra l’America Latina, i Caraibi, l’Africa occidentale e l’Europa in modo coerente, coerente e simultaneo. Nell'ambito del Programma globale sui flussi illeciti (#GIFP) dell' #UE, il progetto di cooperazione dei porti marittimi collabora con le autorità competenti in queste regioni, in stretta collaborazione con le agenzie dell'UE che combattono la criminalità transnazionale e garantiscono la sicurezza delle frontiere. Il #SEACOP mira a contribuire alla lotta contro il commercio illecito marittimo e le reti criminali associate nei paesi e nelle regioni target dell’America Latina, dei Caraibi e dell’Africa occidentale, nel rispetto dei diritti umani, al fine di attenuarne l’impatto negativo sulla sicurezza, sulla salute pubblica e sul piano socio-economico.
Lo fa rafforzando geograficamente e tecnicamente l’efficacia dell’intelligence marittima SEACOP e della rete di controllo marittimo/fluviale Integrando in modo sostenibile conoscenze e know-how sulle minacce e le interdizioni marittime provenienti dalle rotte transatlantiche del traffico illecito nei programmi di studio nazionali e regionali. Migliorando la cooperazione e la condivisione delle informazioni a livello nazionale, a livello regionale e transregionale, anche con #EUROPOL e #FRONTEX.
Il progetto è implementato da un consorzio di Stati membri dell'UE guidato da Expertise France (l'agenzia pubblica francese per la progettazione e l'attuazione di progetti di cooperazione tecnica internazionale).
KSGamingLife🕹️ 🐈 🍸
in reply to Maurizio Carnago • • •non siamo esperti di pokemon ma... hai mai provato Unbound?
pokeharbor.com/2022/08/pokemon…
Pokemon Unbound (v2.1.1.1) GBA Download - PokéHarbor
Admin (PokéHarbor)Maurizio Carnago
in reply to KSGamingLife🕹️ 🐈 🍸 • •