Gli angeli, messaggeri dello spirito
In diversi Paesi europei secolarizzati, come la Germania, Dio è diventato del tutto estraneo per molti. Sembra lontano, astratto, impersonale, impossibile da comprendere o da toccare, ma anche difficile da sentire o da sperimentare; una vaga fantasia, semplice di per sé eppure complessa, in qualche modo inconsistente; o una pura idea, che appare per di più paradossale, peraltro impossibile da fondare o dimostrare, non più adatta a un mondo funzionale e proprio per questo tormentato dalle crisi. E non si danno nemmeno risposte a domande profonde: se Dio ha fatto buone tutte le cose, da dove viene tutto il male attuale? Perché egli non se ne cura, se è buono e onnipotente? Dove va a finire il mondo se non nel nulla?
Se poi si cerca di accedere al sacro o alla religione passando per gli esseri umani, la cosa non appare più facile: gli esseri umani – per esempio, i santi della storia o le figure luminose della vita religiosa attuale – sono persone concrete, e per questo culturalmente limitate, deboli e peccatrici, a volte malate. Oggi difficilmente si crede che alcuni esseri umani siano plasmati dal divino e che rimandino a Dio. L’uomo contemporaneo, cresciuto nella modernità, è troppo informato, troppo realistico, troppo critico.
Una religione personale?
A questo punto, sarebbe più facile adottare una «spiritualità» impersonale. Nella religione, crea difficoltà soprattutto l’elemento personale, che tuttavia nel cristianesimo è irrinunciabile. Ma in che modo allora rappresentare questo elemento personale di Dio in una società ipercritica? Dio come un pastore? Alcuni diranno che così appare autoritario, rende infantili le pecore o le minimizza. Dio come padre? Ad altri sembrerà che sia patriarcale, con un potere eccessivo, e per questo propenso ad abusarne come tanti padri: un’immagine che risulterebbe provocatoria per le vittime di violenza, e che tra l’altro risulta impossibile per una prospettiva di genere così diffusa. Dio come padre e madre? Questa immagine forse va già un po’ meglio, ma potrà apparire troppo parentale per persone normali, e troppo tradizionale dal punto di vista sociale. Dio come re, dominatore del mondo, come Kyrios (questo era il titolo dell’imperatore romano)? Anche qui non mancheranno coloro ai quali tali qualifiche sembreranno roba da museo, oppure da monarchia, da destra conservatrice.
E che dire poi di Gesù Cristo come uomo venuto da Dio, o come Figlio di Dio, o addirittura come una persona divina? Un Dio sotto forma di una persona umana storica appare ormai poco credibile. Un dialogo interreligioso sembra oggi possibile quasi solo senza Gesù: l’impedimento è rappresentato soprattutto dalla sua incarnazione e poi dalla sua morte in croce, apportatrice di salvezza, e dalla sua risurrezione, che sconfigge la morte. Per noi cristiani è difficile spiegare queste realtà teologiche, e anche comprenderle.
Gli angeli ci possono permettere un accesso più facile alla religione? In qualche modo essi sono concreti, comprensibili, li si può immaginare; ma allo stesso tempo appaiono piacevolmente anonimi – i loro nomi non vengono quasi mai menzionati –, anche androgini, non binari, compatibili con il queer, oppure del tutto incorporei, come un soffio fugace. Compaiono nelle immagini, e allo stesso tempo si sottraggono a tutto ciò che è immagine. Sono puri, divini e buoni, ma allo stesso tempo trova posto in essi anche il male demoniaco. Gli angeli non sono troppo divini, e allo stesso tempo non sono troppo umani. Essi esistono in tutte le principali religioni e spiritualità, anche nella religione secolare. Da anni stanno vivendo un boom, forte nella letteratura popolare, ma anche nell’esoterismo, nella musica pop, nella pubblicità. È stato grazie al benedettino Anselm Grün che il culto degli angeli non si è fatto completamente assorbire dalla scena dell’esoterismo, ma è rimasto anche nel cristianesimo. Se il cristianesimo non è tanto ciò che si continua a intendere per «spiritualità» – ossia l’elevazione a una sfera spirituale presentata in modo impersonale –, ma è soprattutto fede, cioè fiducia e dono di sé a una divinità anche personale, gli angeli possono aiutarci a raggiungere una tale fede[1]?
Gli angeli nella Bibbia
Alcuni riferimenti biblici possono introdurre al significato degli angeli nel contesto cristiano. Essi non compaiono nella creazione del mondo, ma, dopo la cacciata dei primi esseri umani dal paradiso, i cherubini[2] ne sorvegliano la porta e, soprattutto, la via di accesso all’albero della vita (cfr Gen 3,24): su incarico di Dio, proteggono l’ordine del mondo dall’essere umano, spesso disordinato.
Abramo riceve la visita di tre uomini (cfr Gen 18), che in seguito si rivelano più volte come «il Signore» e nella storia sono stati interpretati come angeli; la loro figura oscilla tra il divino e l’umano, e resta a lungo ambigua, sfuggente, incomprensibile. Questi tre uomini sono stati interpretati anche come le persone della Trinità (la famosa icona della Trinità di Andrej Rublëv conserva questa interpretazione nella memoria collettiva). In seguito Abramo viene messo alla prova: Dio lo incarica di offrire suo figlio Isacco in sacrificio (cfr Gen 22). È una storia enigmatica, di difficile interpretazione. Ma poco prima che il figlio venga ucciso, «l’angelo del Signore» trattiene Abramo, gli procura un ariete da offrire al posto del figlio e gli promette la benedizione di Dio. Qui l’angelo appare come un messaggero che, su incarico di Dio, interrompe l’assurda «prova» a cui il Signore aveva sottoposto Abramo, trasformandola in benedizione.
Giacobbe sogna una scala che va dalla terra al cielo; gli angeli vi salgono e vi scendono; Dio benedice Giacobbe, promettendogli grandi cose (cfr Gen 18,10-22). La domanda che da sempre fanno i bambini agli adulti sul perché gli angeli abbiano bisogno di una scala, dal momento che hanno le ali e quindi possono volare, porta al paradosso degli angeli che mediano tra il cielo e la terra e vanno immaginati come esseri spirituali che volano e allo stesso tempo come esseri corporei che salgono su una scala.
Anche l’episodio della lotta di Giacobbe allo Iabbok (cfr Gen 32,23-22) è giocato sull’ambiguità: Giacobbe si è macchiato della colpa di aver sottratto la primogenitura al fratello, ma ora vuole tornare nella terra promessa. Per fare questo, deve attraversare il fiume che segna il confine, simbolo di purificazione. Un uomo lotta con lui di notte, per ore, in modo oscuro, violento, spaventoso. Anche in tale circostanza questo «uomo» è un angelo, o Dio stesso? Giacobbe resiste. Chiede il nome dello sconosciuto, ma non gli viene rivelato. Invece, è lui a ricevere un nome nuovo – «Israele», colui che ha combattuto con Dio – e riceve da quello sconosciuto la benedizione che gli aveva chiesto. Dalla lotta Giacobbe esce ferito, e zoppicherà per il resto della sua vita. Questo angelo è di nuovo un essere ibrido, misterioso, anche corporeo, ma viene dal nulla e con l’alba scompare di nuovo nel nulla. È un angelo vendicatore? Nella punizione c’è la benedizione di Dio? L’angelo ferisce Giacobbe su incarico dell’Altissimo? Giacobbe è segnato, ma allo stesso tempo viene guarito e benedetto.
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Nel libro di Tobia, l’angelo Raffaele è molto diverso. È un compagno di viaggio di Tobia, figlio di Tobi, che si trova in difficoltà, e gli dà una medicina per guarire la cecità del padre. Così l’angelo – il cui nome significa «Dio ha guarito» – è al tempo stesso messaggero e messaggio di guarigione e di guida di Dio.
Avendo ucciso, per incarico di Dio, 450 sacerdoti di Baal, il profeta Elia viene perseguitato. Fugge nel deserto. Stanco della vita e degli ordini di Dio, si sdraia sotto una ginestra, desideroso di morire, e si addormenta. Un angelo lo sveglia e gli dà da mangiare e da bere. Elia si addormenta di nuovo, e di nuovo l’angelo lo sveglia, gli dà da mangiare e lo indirizza a un cammino di 40 giorni attraverso il deserto, per incontrare Dio sull’Oreb (cfr 1 Re 19,1-13). L’angelo agisce contro la stanchezza, sveglia e nutre, ammonisce e invia. Davanti a Elia, egli si rivela un essere del tutto terreno, eppure è indubbiamente un messaggero di Dio, di cui annuncia la sollecitudine e la volontà.
Anche l’angelo Gabriele appare come un messaggero di Dio: annuncia a Maria la nascita miracolosa di un figlio, concepito dallo Spirito Santo (cfr Lc 1,26-38). In quel momento, per Maria le spiegazioni dell’angelo devono essere state difficilmente comprensibili, e tuttavia chiariscono il significato salvifico di quella nascita ai lettori futuri. La generosa disponibilità di Maria ad accogliere l’annuncio ha sempre impressionato in tutte le epoche della storia del cristianesimo. L’angelo qui annuncia in modo, per così dire, performativo, perché allo stesso tempo opera quello che dice: è Dio stesso che opera in lui.
Nove mesi dopo, Gesù nasce a Betlemme, e un angelo annuncia una grande gioia (cfr Lc 2,1-20). La gloria del Signore avvolge di luce i pastori, che allo stesso tempo vengono colti da un grande timore. Gli angeli sono ambivalenti: gloriosi e spaventosi, luminosi e violenti, risplendono di luce divina e spaventano con la loro potenza. A Betlemme, subito una moltitudine dell’esercito celeste loda Dio: questo esercito è una forza militare, ma nello stesso tempo un coro possente.
Nella Bibbia, Giuseppe, il promesso sposo di Maria, è il grande silenzioso – non dice una parola –, ma è anche il grande sognatore: in sogno, un angelo gli ordina di accogliere Maria e il bambino, che non è suo; in sogno, l’angelo lo fa fuggire in Egitto insieme con la sua famiglia, perché il bambino è perseguitato; in sogno, l’angelo li fa tornare tutti (cfr Mt 1,20-24; 2,13-14.19-29). Il fatto che gli angeli appaiano nei sogni mostra quanto siano fugaci, irreali, puramente spirituali, ma anche quanto siano radicati nella psiche umana: è così che Dio parla all’uomo, per proteggerlo e salvarlo.
Quando Gesù prega al monte degli Ulivi, colto da una terribile paura della morte, abbandonato da tutti, gli appare un angelo per dargli forza (cfr Lc 22,43). «Dare forza» indica certo la consolazione divina, ma anche energia, coraggio, fiducia che vengono da Dio. Poco dopo, Gesù viene arrestato. Allora vieta ai discepoli una resistenza violenta, facendo loro notare che, se avesse voluto difendersi, avrebbe pregato il Padre suo, che gli avrebbe messo a disposizione «più di dodici legioni di angeli», cioè diverse decine di migliaia di angeli (cfr Mt 26,47-56). Gli angeli qui sono una forza armata, completamente fisica, che è sempre a disposizione di Dio e del Figlio suo che lo prega. Ma Gesù vi rinuncia, non vuole che Dio intervenga violentemente, prende la via non violenta del dono della propria vita. Nelle mani di Dio, gli angeli potrebbero compiere azioni di potenza, ma Dio non si serve di loro per questo, agisce diversamente.
Il mattino di Pasqua, ad attendere le donne al sepolcro vuoto è, secondo il Vangelo di Marco, un giovane vestito con una veste bianca (cfr Mc 16,5); per Luca, sono due uomini in abito sfolgorante (cfr Lc 24,4), mentre per Matteo è un angelo, il cui aspetto è come folgore, con un vestito bianco come neve, il quale fa rotolare via la pietra che chiudeva la tomba, spaventa le guardie e parla alle donne (cfr Mt 28,1-7); secondo Giovanni, sono due angeli in bianche vesti, seduti dove era stato posto il corpo di Gesù (cfr Gv 20,12-13). Che siano chiamati «uomini» o «angeli», splendenti e vestiti di bianco, questi personaggi incutono timore alle guardie, ma appaiono belli e premurosi – «Non abbiate paura!», dicono – verso le donne, che sono le prime a ricevere la buona notizia. Anche in questo caso gli angeli appaiono a volte umani, a volte spirituali, e trasmettono messaggi che interpretano gli eventi salvifici.
Attraverso un angelo viene comunicato al veggente Giovanni tutto quello che egli descrive nell’«Apocalisse» (cfr Ap 1,1). Il libro pullula di angeli e di esseri celesti simili, che sono messaggeri e sentinelle, araldi e cortigiani celesti, cori di lode e suonatori di tromba, ma anche mietitori con le falci affilate del giudizio. Michele e i suoi angeli combattono contro il drago e i suoi angeli (cfr Ap 12,7-12); e qui compaiono gli angeli decaduti, e quindi cattivi, che nella battaglia cosmica finale vengono sconfitti dagli angeli buoni di Dio. Ovviamente gli angeli diventeranno ancora più importanti alla fine dei tempi, ma anche nella visione di Giovanni rimangono al tempo stesso multiformi ed enigmatici, miti e potenti, terreni e celesti.
La testimonianza biblica sugli angeli – che spesso compaiono nei momenti decisivi della storia della salvezza – contiene tutti i temi essenziali della loro successiva immagine nella cultura e nella spiritualità del cristianesimo: essi sono innanzitutto misteriosi, anche paradossali, concettualmente inafferrabili – pertanto, senza interesse per il pensiero filosofico? –, «esseri di luce e di fuoco, dolcezza e terrore […], doppie icone di Dio e dell’uomo […], icone di mediazione tra il Totalmente Altro e noi»[3]. Annunciano e danno indicazioni; vegliano e consolano; dirigono e dispongono; puniscono e combattono; irradiano e risplendono; guizzano e volano; suonano la tromba e cantano le lodi. Alcuni precipitano nel male, ma alla fine sono gli angeli buoni a prevalere.
Gli angeli nella storia
Già le prime speculazioni ebraiche e gnostiche sviluppano gerarchie di angeli, spesso con venature neoplatoniche. Dionigi l’Areopagita (intorno al 500) classifica i tipi di angeli a tre livelli, ciascuno composto da tre cori. San Tommaso d’Aquino inquadra sistematicamente questa dottrina, dandole una forma che dominerà per molto tempo. I nove cori sono, a partire dai più elevati: serafini, cherubini e troni; poi, scendendo: dominazioni, virtù e potenze; e infine: principati, arcangeli e angeli[4]. La dottrina deriva da testimonianze bibliche e da speculazioni successive. Il termine «gerarchia» (= «ordine sacro») è stato coniato per questo.
Nel Medioevo, le gerarchie terrene della Chiesa e del mondo sono immagine della gerarchia celeste degli angeli e da essa traggono legittimazione: la corte nobiliare del sovrano è come la corte angelica di Dio, il suo organo regolativo e amministrativo, che serve contemporaneamente alla sua glorificazione. I grandiosi affreschi delle chiese medievali e le miniature dei manoscritti raffigurano questo mondo estremamente differenziato degli angeli[5].
Riprendendo l’antichità, a partire dal XV secolo si sviluppa la fede nell’«angelo custode»: ogni persona, in particolare ogni bambino, ha un angelo custode, che lo accompagna e lo protegge, sempre in modo invisibile. Questi angeli «sono i nostri aiutanti e garanti che la nostra speranza e nostaglia del cielo non vada a vuoto, ma che il cielo stia aperto per noi»[6]. Agli angeli custodi è dedicata, a partire dal XIX secolo, una ricca iconografia, anche in forma non religiosa. Si discute se ogni persona abbia anche un angelo cattivo che induce a peccare, e la teologia protestante si è interessata a tale questione[7].
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«L’angelo è quella luce che brilla e non brucia mai. Ma una volta questo fuoco si è infuocato, consumandosi. E nell’angelo decaduto il fuoco ha iniziato a bruciare senza brillare: un fuoco nero, gelido. In questo fuoco, la parola di Dio si è trasformata in pietra ed è morta. […] È il fuoco nero di una libertà che si rivolta contro Dio»[8]. Gli angeli sono creature spirituali di Dio, e quindi liberi. La loro libertà è il loro dono più grande e allo stesso tempo il presupposto per volgersi al male. Si spiega così l’ingresso del male nel mondo? Gli angeli decaduti inducono gli esseri umani – anch’essi creature libere – a ribellarsi contro Dio. Questo giustifica l’uomo cattivo? Niente affatto, perché, essendo persona libera, egli è responsabile delle sue azioni. Insieme agli angeli decaduti, l’uomo verrà giudicato per le sue azioni cattive, e i giudici saranno gli angeli buoni.
Nel XVI secolo sant’Ignazio di Loyola, rifacendosi alle antiche tradizioni, fece un’applicazione psicologica della dottrina degli angeli: nelle «mozioni» dell’anima – pensieri e sentimenti, immaginazioni e inclinazioni interiori – operano gli «spiriti», che sono molteplici e spesso contraddittori e confusi. Occorre discernere quali mozioni vengono da uno spirito buono, o angelo, e quali, invece, da uno spirito cattivo, o demonio, diavolo. Si seguiranno le mozioni dello spirito buono, e «non ci si lascerà determinare» da quelle dello spirito cattivo. L’angelo del male può anche camuffarsi da «angelo della luce» (Lucifero) e, sotto l’apparenza del bene, indurre al male l’anima ingenua. Questo ulteriore sviluppo della dottrina degli angeli trova accoglienza nell’etica come «discernimento degli spiriti», ma anche nell’accompagnamento spirituale di singoli o di gruppi; papa Francesco l’ha resa fruttuosa per i processi sinodali[9].
Nel Rinascimento e nel Barocco, gli angeli si trasformano in putti, ossia bambini piccoli e paffuti che si aggirano nei dipinti, o come statue nelle chiese, sbirciando da ogni angolo e meandro, dispettosi, eppure simpatici, mentre suonano da soli o in concerto. Sono soltanto banalizzati e degradati: «carne nuda, rigogliosa, addomesticati come porcellini»[10]? Certo, i putti incarnano una religione sensuale, formosa, umoristica, forse molto cattolica, ma nel bambino si manifesta il divino, e i putti alludono sempre a Gesù bambino. Essi sono i compagni di viaggio della Sapienza, che giocano davanti a Dio e sono la sua delizia (cfr Pr 8,27-31)[11]. I putti sono estranei alla spiritualità di oggi, ma simboleggiano temi centrali e attuali del cristianesimo. È sorprendente vedere come essi ispirino l’entusiasmo anche secolare, soprattutto nei famosi angioletti ai piedi della «Madonna Sistina» di Raffaello.
A partire dall’Illuminismo, la ragione ha scacciato gli angeli: essi non sono più adatti a un mondo funzionale e organizzato, ma agiscono come oppio per le persone immature, irrazionali e autoritarie. Inoltre, scompaiono in gran parte anche dalla teologia, e l’esegesi scientifica lotta con le storie di angeli che si trovano nella Bibbia. Tuttavia le religioni mantengono sempre un angolo antirazionale, mitico e persino antilluminista, in cui gli angeli faranno sentire la loro natura di bene o di male. Gli angeli dovranno dunque restare ancora negli antichi templi, che si ammirano solo come musei? O dovranno essere confinati nelle correnti antimoderniste della Chiesa, in quell’angolo sporco che viene ridicolizzato come reazionario e meramente emotivo? C’è una separazione tra un mondo ecclesiastico ufficiale e un mondo devozionale? Ossia, tra un mondo frutto di una riflessione razionale e organizzato in maniera efficiente, capace – almeno così si spera – di adattarsi alla modernità, e per questo privo di angeli, e un mondo devozionale, frutto di una speculazione emotiva, popolato in modo selvaggio da angeli e certamente molto «interessante» dal punto di vista storico-artistico e benedetto da Dio?
Su angeli e uomini
A proposito degli angeli, il Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC) cita sant’Agostino: «La parola “angelo” designa l’ufficio, non la natura. Se si chiede il nome di questa natura, si risponde che è spirito; se si chiede l’ufficio, si risponde che è angelo: è spirito per quello che è, mentre per quello che compie è angelo»[12]. Gli angeli – prosegue il Catechismo –, in quanto creature puramente spirituali, sono servitori e messaggeri di Dio. Sono completamente legati a Cristo: presenti quando Dio ha creato il mondo in Cristo, presenti nella vita del Dio incarnato e al servizio di Cristo nel suo ritorno e nel suo Giudizio[13].
Giorgio Agamben definisce gli angeli «funzionari del cielo»[14]. Essi hanno due compiti. Da un lato, nella loro funzione di governo, dotati del vocabolario tipico del potere, come «troni», «virtù», «potestà» ecc., essi formano un corpo di funzionari e una burocazia celeste, amministrando così il «regno» di Dio e facendo conoscere i suoi decreti storici sulla terra (servono e governano: in latino, virtus administrandi). Dall’altro lato, stanno davanti a Dio, come previsto dal cerimoniale di una corte (vedono Dio e lo lodano: in latino, virtus assistendi Deo). Agamben fa riferimento a Dante, che distingue due beatitudini nella natura degli angeli: quella contemplativa, con cui essi vedono il volto di Dio e lo glorificano; e quella del governo, che corrisponde nel mondo umano alla «vita attiva, ossia a quella civile»[15]. Sospesi, per così dire, nel mezzo, governando verso il basso e lodando verso l’alto, gli angeli collegano la terra e il cielo, l’umano e il divino, in un modo misterioso, che non potrà mai essere pienamente compreso. Ma oggi il loro posto non è forse stato preso, con le stesse funzioni e caratteristiche, dalla Chiesa, che spesso si presenta in modo piuttosto terreno?
La gerarchia angelica è stata interpretata in modi diversi nel corso della storia. Prendiamo come esempio Bernardo da Chiaravalle. Secondo lui, Dio si manifesta nelle schiere angeliche nella sua attenzione all’uomo, che si esprime in forme molteplici: «Nei serafini, Dio ama come carità, nei cherubini conosce come verità, nei troni governa come giustizia, nelle dominazioni regna come maestà, nei principati governa come legge, nelle virtù custodisce come salvezza, nelle potenze agisce come forza, negli arcangeli si manifesta come luce, negli angeli consola come bontà»[16]. Gli angeli mostrano le azioni di Dio nella loro complessità, anche nelle sue decisioni spesso paradossali e apparentemente insondabili, ma sempre nella sua benevolenza e nella sua bontà, proprio come una benedizione.
Gli angeli cantano in coro, per cui nel canto corale antico e in quello del cristianesimo primitivo parola e musica si fondevano, esprimendosi insieme nel movimento, nella danza: «Sillaba pronunciata, suono di musica e passo di danza erano manifestazioni della stessa forza»[17]. Gli angeli appaiono quindi «in una naturale unità dei sensi». Nella danza in circolo «si perdeva la capacità di articolare le parole, perché non c’era più niente da esprimere: gli stessi danzatori erano l’espressione che camminava e girava»[18].
Gli angeli cantano alter ad alterum, l’uno rivolto all’altro, a cori alterni, in dialogo. Già i Salmi in ebraico erano disposti in parallelo, e ancora oggi nei monasteri vengono cantati a cori alterni. L’alter ad alterum rimanda anche all’angelo custode che, per così dire, è un doppio dell’essere umano e lo accompagna in un dialogo amichevole.
Naturalmente gli angeli cantano una voce, all’unisono: un coro è un essere brulicante, in cui chi canta ascolta sé stesso e allo stesso tempo il suono prodotto dal coro; questo lo trasforma e risuona molto al di là di lui; chi canta è, per così dire, assorbito da questo suono.
Gli angeli cantano sine fine, all’infinito: poiché la musica si svolge nel tempo, avviene solo adesso, questa espressione è paradossale. «Il canto angelico sine fine è quindi qualcosa di diverso dalla musica come la sentiamo noi. È una sorta di espressione artistica illimitata […], disinteressata, spontanea, senza forma, e come uno spazio che si espande all’infinito alla velocità del suono»[19]. Gli angeli che cantano puntano verso l’alto, verso il cielo; nell’arte gotica, si librano sulle absidi delle chiese dalle volte sempre più alte. Gli angeli che cantano sono già il cielo: l’io, il tu e il noi si fondono in un’unità senza tempo e senza spazio[20].
Gli angeli dissolvono immagini e concetti rigidi di Dio: «Gli angeli […] sfuggono alla teoria degli insiemi, passano attraverso i muri della rigidità come attraverso quelli delle prigioni […]. Di fronte al Dio unico, testimoniano il politeismo; di fronte il paganesimo, annunciano il monoteismo; e diffondono ovunque il panteismo quando cantano nei campi»[21]. Dio è uno, ma multiforme; percettibile, ma fugace; non è in nessun luogo, ma ovunque; è in tutte le cose, ma non in quelle di questo mondo; gli angeli tengono a freno ogni pensiero ristretto o razionalistico, che esclude o che vuole definire in concetti.
Christian Lehner scopre negli angeli la sola fide: «Con la sola fede. Si potrebbe quasi dire: ciò che Agostino e Lutero intendevano per fede, ossia l’appropriazione interiore di una promessa, di una trasformazione e di una salvezza che sono già avvenute da molto tempo, ma che per me possono diventare reali solo con la mia accettazione personale, ossia la realizzazioneinteriore di Dio mediante la fiducia in lui, una forma di movimento che è allo stesso tempo accoglienza che dà pace, al di là della chiusura dell’uomo in sé stesso, tutto questo è un altro modo di esprimere la realtà degli angeli»[22]. Se gli angeli stessi sono, per così dire, la fede, allora credere negli angeli non è la forma peggiore di fede, perché gli angeli vengono da Dio e conducono a Dio. I cattolici, che da sempre hanno apprezzato i sensi e le forme, e per questo anche gli angeli, concorderanno volentieri con questa idea di origine evangelica.
Gli angeli non esistono, nel senso di una realtà verificabile con i sensi, accessibile alle scienze naturali, nel senso di un’ontologia che opera sui concetti, nel senso di una comprensione moderna del mondo. Ma gli angeli esistono, comprensibili solo con la poesia, come realtà spirituali fantastiche, come ombre di un’altra realtà più elevata, come immagini mentali nell’ambivalenza tra energie buone e cattive, come «cortocircuiti che si creano in un lampo tra poli inconciliabili, come miracoli, cose imprevedibili, come energie di trasformazione»[23].
Per tornare all’esempio della Germania citato prima, si presume che il 40% dei tedeschi creda negli angeli, con una tendenza al rialzo, e il 55% creda in Dio, con una tendenza al ribasso; nell’est della Germania sono già più le persone che credono negli angeli che quelle che credono in Dio[24]. Gli angeli sembrano essersene andati via dalla Chiesa, intercettati dall’industria dell’esoterico e del kitsch. Ma la Chiesa dà forse l’impressione di aver rinunciato agli angeli? Essi sono utili, almeno a Dio, che li usa come funzionari, ambasciatori e coristi. Ma essi non sono forse utili anche al cristianesimo, come accesso a una realtà religiosa sensuale-sovrasensibile che si colloca al di là del razionale e che aiuta all’incontro con la persona di Dio?
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[1] Ci sarebbero molte cose da dire sul tema degli angeli nel giudaismo, nell’islam e altrove, ma qui ci limitiamo al cristianesimo.
[2] Più volte menzionato nell’Antico Testamento, il termine «cherubino» indica innanzitutto un servitore o assistente di Dio; in seguito esso viene visto anche come angelo, e nel Medioevo è inserito nelle gerarchie angeliche. Su questo argomento, cfr Y. Cattin – Ph. Faure, Les anges et leur image au Moyen Age, Abbaye de la Pierre-qui-vire, Zodiaque, 1999.
[3] Ivi, 20.
[4] Cfr Ch. Lehnert, Ins Innere hinaus. Von Engeln und Mächten, Berlin, Suhrkamp, 2020, 114.
[5] Cfr i volumi illustrati di Y. Cattin – Ph. Faure, Les anges et leur image au Moyen Age, cit., e di M.-Ch. Boerner, Angelus et Diabolus. Engel, Teufel und Dämonen in der christlichen Kunst, Potsdam, Ullmann, 2016.
[6] Katholischer Erwachsenenkatechismus, vol. 1, 1985, 111. Cfr R. Guardini, L’Angelo. Cinque meditazioni, Brescia, Morcelliana, 2024.
[7] Cfr E. Weinberger, Engel und Heilige, Berlin, Berenberg, 2023, 32 s.
[8] Y. Cattin – Ph. Faure, Les anges et leur image au Moyen Age, cit., 25.
[9] Esistono approcci psicologici moderni agli angeli: cfr, ad esempio, R. Perrone, Le syndrome de l’ange. Considérations à propos de l’agressivité, Paris, ESF, 2013. L’autore parla di «sindrome dell’angelo», nel caso in cui le persone che subiscono le aggressioni da parte di altri si rifugiano in un atteggiamento simile a quello di un angelo, quindi non attaccabile e autosufficiente, ma che al tempo stesso consente loro di svalutare e disprezzare gli aggressori.
[10] Ch. Lehnert, Ins Innere hinaus…, cit., 63.
[11] Cfr S. Kiechle, Spielend leben, Würzburg, Echter, 2008, 31 s.
[12] Catechismo della Chiesa Cattolica, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1992, n. 329.
[13] Cfr ivi, nn. 329-333.
[14] Cfr G. Agamben, Die Beamten des Himmels. Über Engel, Frankfurt – Leipzig, Verlag der Weltreligionen, 2007.
[15] Ivi, 38.
[16] Citato da E. Weinberger, Engel und Heilige, cit., 52.
[17] Ch. Lehnert, Ins Innere hinaus…, cit., 90. Le idee che verranno presentate in seguito sono ispirate da questo libro.
[18] Ivi, 91.
[19] Ivi, 95.
[20] Cfr, sugli angeli concertanti, W. W. Müller, Musik der Engel. Eine Kultur–geschichte, Basel, Schwabe, 2024.
[21] Ch. Lehnert, Ins Innere hinaus…, cit., 230.
[22] Ivi, 36.
[23] Ivi, 14.
[24] Tuttavia i risultati dei sondaggi sono assai diversi. Nel caso di questi argomenti molto sensibili, dipendono in misura notevole dai metodi di indagine e dall’intenzione di chi fa il sondaggio.
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Chi sono gli agostiniani?
L’elezione del cardinale Robert Francis Prevost a Romano Pontefice, con il nome di Leone XIV, rappresenta una novità nella storia della Chiesa: è il primo papa dell’Ordine di sant’Agostino. Dopo Francesco, il primo pontefice gesuita, sale al soglio di Pietro per la prima volta un agostiniano. Nel discorso pronunciato la sera dell’elezione si è presentato così: «Sono un figlio di sant’Agostino, agostiniano».
Ci sono altre sorprese. Leone XIV è il primo pontefice nato negli Stati Uniti e anche il primo papa laureato in matematica; ha svolto gran parte del suo ministero apostolico in Perù, e quindi è anche un papa dell’America Latina; nel 2002 è stato eletto Priore generale dell’Ordine, un incarico che lo ha portato a visitare i numerosi agostiniani, sparsi un po’ dovunque nei cinque continenti. Papa Francesco, nel 2014, lo ha nominato Amministratore apostolico di Chiclayo, in Perù, e successivamente vescovo della stessa diocesi; nel 2023 lo ha chiamato a Roma come Prefetto del Dicastero per i vescovi.
La formazione religiosa di Leone XIV è dunque segnata da una profonda familiarità con la spiritualità agostiniana, abbracciata fin dagli anni della gioventù. La sua pastorale, ispirata alla Regola di sant’Agostino[1], pone l’accento sull’unità nella carità e sulla ricerca della verità, valori che ne hanno plasmato l’animo verso una missione universale nella Chiesa.
L’elezione ha richiamato l’attenzione sull’Ordine di sant’Agostino. Esso fa parte degli Ordini mendicanti, sorti tra il XII e il XIII secolo, che hanno adottato la Regola agostiniana. Questa comporta la «rinuncia a formarsi una famiglia per un’operosità in monastero, che fosse insieme modello e servizio di vita cristiana nella Chiesa. Con la salvezza della propria anima, attraverso una vita comune vissuta in povertà ed amicizia spirituale, ci si preoccupava anche dell’evangelizzazione in modo concreto ed organico, offrendo ai vescovi locali il servizio dell’officium praedicationis»[2]. Sono queste le caratteristiche dei domenicani (Ordo Praedicatorum), della scuola francescana di san Bonaventura, dei Servi di Maria, di altri ancora, e principalmente degli agostiniani.
L’Ordine di sant’Agostino
Gli agostiniani, giuridicamente, sono sorti dalla «Piccola unione» del 1244, quando Innocenzo IV fuse alcuni gruppi di eremiti della Tuscia che si ispiravano alla Regola agostiniana in un nuovo Ordine mendicante. L’Unione fu ratificata da Alessandro IV nel 1256 – la «Grande unione» – e i membri presero il nome di Eremitani di sant’Agostino[3]. L’Ordine, fin dall’inizio, riconosce sant’Agostino come padre e maestro, perché ne ha assunto la Regola, il nome e la spiritualità, e da quasi otto secoli è al servizio della Chiesa. Ma il modo in cui gli agostiniani si sono richiamati al loro padre, il loro «fondatore», e l’amore con cui ne hanno assimilato la spiritualità hanno creato un vincolo particolare, che li ha distinti dagli altri Ordini mendicanti: «Il richiamo a s. Agostino, divenuto sempre più vivo e profondo, fece di quest’Ordine […] l’unico e vero erede dell’ideale religioso del vescovo d’Ippona. La dottrina agostiniana sulla vita religiosa, unitamente alle caratteristiche proprie del movimento dei Mendicanti, form[ò] la spiritualità dell’Ordine su quattro punti basilari: comunità, interiorità, povertà ed ecclesialità, facendo una sintesi di nuovo e di antico. Il “nuovo” gli viene dall’essere stato fondato in un tempo così importante per la vita della Chiesa, quale fu il ricco e suggestivo secolo XIII; l’“antico” gli viene per la sua forma di vita, dall’essere chiaro riflesso di s. Agostino, uomo religioso della Chiesa, il quale, a buon diritto, può e deve essere chiamato Padre dell’Ordine agostiniano»[4]. Nel 1401 Bonifacio IX concesse agli Eremitani di fondare comunità femminili di agostiniane con la loro stessa Regola[5].
Verso la metà del XIV secolo, all’Ordine fu affidato l’incarico di Sacrista del Palazzo apostolico, con il compito di custodire e conservare i paramenti, i vasi sacri e le reliquie del Sacrario. Più tardi, alla fine del Cinquecento, Clemente VIII conferì al Sacrista la dignità episcopale. Nel secolo scorso, dal 1968 al 1991, gli fu data anche la funzione di Vicario generale del Papa per la Città del Vaticano. Ancora oggi gli agostiniani hanno la cura della Sagrestia Pontificia e della chiesa di Sant’Anna in Vaticano.
L’Ordine ha annoverato fin dalle origini diversi santi: il primo è stato san Nicola da Tolentino (1245-1305), canonizzato nel 1446; seguono santa Rita da Cascia (1381-1447), la santa del perdono e dei casi impossibili; san Giovanni Stone, martire inglese (†1539); san Tommaso da Villanova (1486-1555), consigliere dell’imperatore Carlo V e arcivescovo di Valencia; sant’Alonso de Orozco (1500-1591), scrittore e mistico; e altri ancora, fino al beato Stefano Bellesini (1774-1840), il primo parroco elevato, nel 1904, agli onori degli altari da san Pio X. Nella sua storia si contano anche numerosi martiri.
La storia degli agostiniani
Quattro sono i periodi principali in cui si può dividere la storia degli agostiniani: il primo, dalla fondazione alle Costituzioni di Ratisbona del 1290, fino al 1356; il secondo, fino alle Costituzioni di Seripando del 1551; il terzo, dal Concilio di Trento alla fine del Settecento; infine, gli ultimi secoli.
Il primo periodo si qualifica per l’ideale che le Costituzioni di Ratisbona pongono a fondamento della vita religiosa: lo studio della Sacra Scrittura e l’insegnamento spirituale di sant’Agostino. Essi sono «visti come quel bene (la cultura) che impedisce a chiunque abbia responsabilità di convertirlo in tirannia»[6]. Così Egidio Romano, alunno di san Tommaso a Parigi, presentava il valore dell’impegno culturale per chi volesse seguirne la Regola. E lo sviluppò con tanto vigore da avere una posizione di tutto rispetto all’Università, tanto che seppe trasformare la casa in cui studiavano i giovani agostiniani a Parigi in Studium generale dell’Ordine, che fu associato alla Sorbona e sopravvisse fino alla Rivoluzione francese.
Egidio Romano ebbe il grande merito di raccogliere l’eredità dell’Aquinate, che fu il protagonista del passaggio culturale dal platonismo all’aristotelismo, e in quel momento di cambiamento epocale ebbe l’onore di succedergli nella cattedra alla Sorbona. Fu anche nominato vescovo di Bruges da Bonifacio VIII e seppe testimoniare nella vita l’ideale del vescovo agostiniano voluto dal dottore di Ippona[7].
Le Costituzioni di Ratisbona prevedono, tra gli obblighi del Priore generale, una particolare attenzione agli studi: «Provveda attentamente agli studi, nei quali risiede il fondamento dell’Ordine, perché essi abbiano nell’intero Ordine la loro sollecita continuità»[8]. Occorre qui ricordare l’antico convento di Santo Spirito a Firenze, dove il teologo Luigi Marsili (1348-1394), amico di Petrarca, Salutati e Boccaccio, porta la fondazione all’avanguardia dell’Ordine e l’innesta nell’intreccio politico e culturale dell’Umanesimo fiorentino[9]. Più tardi è ospite del convento il giovane Michelangelo, il quale, per gratitudine, lascia in dono ai frati un pregevole Crocifisso ligneo che vi si può tuttora ammirare.
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Tra gli scritti degli agostiniani del tempo va ricordata un’opera pionieristica, il Milleloquium veritatis Augustini, avviato da Agostino da Ancona, completato da Bartolomeo da Urbino (†1350) e offerto al papa Clemente VI nel 1343-44: una monumentale concordanza di 15.000 passi dalle opere di Agostino, sintetizzati in circa 1.000 voci in ordine alfabetico (per esempio: abstinentia, ecclesia, fides, haeresis, lex ecc.), che illustrano il pensiero dell’Ipponese[10].
Alla fine del Quattrocento gli agostiniani contavano 27 province e 10 Congregazioni di Osservanti[11]: i conventi si estendevano dall’Ungheria e dalla Polonia fino al Portogallo, e da Cipro, Rodi, Corfù fino all’Irlanda. Nell’Ordine ebbero grande sviluppo lo Studium generale provinciae, gli Studia generalia Ordinis interprovinciali, come quelli di Bologna e Padova, e lo Studium curiae,che dipendeva dalla casa generalizia. Seguirono quelli di Firenze, Cambridge e Oxford, ma anche una serie di Studia nazionali in vari Paesi[12].
Il secondo periodo: la Riforma protestante e le «Costituzioni» di Seripando
All’inizio del Cinquecento, un Capitolo generale denuncia un certo rilassamento nell’Ordine, soprattutto a causa della peste nera che aveva falcidiato nel secolo precedente circa 5.000 frati, con conseguenze anche negli studi e nella vita monastica; perciò si insiste nell’esigere dai candidati al sacerdozio i buoni costumi, la competenza nel latino e le basi per comprendere il greco in modo da interpretare il Nuovo Testamento nel testo originale. La disposizione risale quasi certamente a Egidio da Viterbo, sensibile al nuovo tempo dell’Umanesimo e del Rinascimento.
L’eredità di Agostino ha determinato un imponente interesse per le opere del Padre e Maestro, documentato nel 1506 dalla pubblicazione a Basilea di tutte le sue opere, a cura dello stampatore Johann Amerbach[13]. Non esiste ancora il nome appropriato – Opera omnia – per quella edizione in 11 tomi in folio, segno di quanto fossero ricercati e apprezzati gli scritti del Santo. Se la prima opera a stampa di grande respiro è stata la Bibbia di Gutenberg, la seconda opera monumentale è quella che raccoglie tutti gli scritti del Dottore di Ippona in ordine cronologico e permette uno studio sistematico sul suo pensiero[14]. Nel 1516 è apparso il Novum Testamentum di Erasmo da Rotterdam, un volume di oltre un migliaio di pagine, che in quel secolo ha avuto cinque edizioni con 205 ristampe: è il manuale di base necessario per l’esegesi della parola di Dio e per la teologia[15]. L’interesse e l’attenzione per lo studio, quale fondamento dell’Ordine, era il servizio qualificato reso dagli agostiniani alla Chiesa, al passo con i tempi e con la cultura.
Dal 1517 va ricordata la Riforma protestante, che ha preso l’avvio a Wittenberg con Martin Lutero, un frate agostiniano degli Osservanti, docente di Sacra Scrittura all’Università. Egli era preoccupato per il modo ciarlatanesco con cui venivano predicate le indulgenze nei dintorni dell’elettorato di Sassonia e per la foga con cui le persone vi si recavano per acquistare le lettere indulgenziali. Perciò scrisse una lettera al responsabile delle indulgenze, Alberto di Brandeburgo, arcivescovo di Magonza. In essa denunciava una predicazione irresponsabile, ingannevole per la coscienza dei fedeli, che prometteva la liberazione delle anime dal purgatorio e una falsa sicurezza per la propria salvezza: nessuno è sicuro di potersi salvare. Con discrezione e rispetto, Lutero ricordava all’arcivescovo che al popolo si devono predicare il Vangelo, le opere di carità e la preghiera, piuttosto che le indulgenze. Gli chiedeva perciò di revocare le istruzioni date ai predicatori.
Alla lettera vengono allegate le 95 Tesi, per mostrare come sia cosa insicura la concessione delle indulgenze, e un trattato De indulgentiis,per chiarirne i problemi[16]. Inoltre si chiede un incontro con l’arcivescovo per una sincera riflessione di fede. Da qui ha origine la leggenda dell’affissione delle Tesi nella chiesa del castello di Wittenberg, presentate come se fossero una sfida alla Chiesa, quando invece esse erano una richiesta di chiarificazione[17]. Purtroppo l’arcivescovo non prestò attenzione alla lettera e non ne colse la sincerità; anzi, ne fu indignatissimo, tanto che denunciò Lutero a Roma per diffusione di nuove dottrine. Il papa Leone X non prese sul serio la situazione e seguì il consiglio di scomunicare Lutero per aver criticato le indulgenze approvate da Roma: fu l’inizio della Riforma protestante.
Ci furono conseguenze nel Concilio di Trento, nel 1546. Anche se Lutero morì due mesi dopo la convocazione dell’assemblea, furono presi di mira gli agostiniani, tra i quali Girolamo Seripando, Priore generale dal 1539. Questi conosceva i grandi scritti programmatici di Lutero e aveva redatto un progetto di giustificazione per fede, per correggere l’impostazione luterana. Per i suoi interventi, fu accusato dal vescovo greco Dionigi Zanetti di essere dalla parte dell’eretico. La denuncia non ebbe seguito, tanto che Seripando fu incaricato di scrivere il testo finale del Decreto sulla giustificazione. Tuttavia, quell’accusa puntava in alto: secondo Zanetti, non solo il Priore generale, ma tutto l’Ordine agostiniano era contagiato dalla dottrina di Lutero[18]. In ogni caso, anche a causa delle opere del riformatore del 1521 contro i voti monastici, furono numerosi i frati che abbandonarono la vita religiosa: dei 160 conventi dell’inizio del Cinquecento ne rimasero 91[19].
Si può così comprendere la decisione di Seripando di riformare l’Ordine. Nel 1551, rinnovando le Costituzioni, tracciò un moderno programma di studi, giunto fino ai nostri giorni, mettendone da parte la precedente impostazione medievale e ristrutturandola su base umanistica, filosofica e teologica. Adeguò le biblioteche delle case di formazione alle nuove esigenze e ne formulò la motivazione secondo le direttive di sant’Agostino. Perciò raccomandò anche la vita comune, la buona preparazione spirituale e scientifica dei giovani, la severità nel promuovere i candidati al sacerdozio e la distribuzione degli incarichi solo a persone degne.
Ci furono conseguenze anche nei Capitoli generali dell’Ordine. Dalla fine del Quattrocento in poi essi «si sono tenuti tutti in Italia, con pregiudizio del carattere internazionale dell’Ordine. […] Tale carattere si è manifestato molto meglio nei primi tre secoli della […] storia che negli ultimi cinque»[20].
Quando nel 1551 Seripando lasciò il generalato, gli agostiniani, grazie alla sua opera riformatrice, si trovarono in condizioni decisamente migliori, tanto che egli poteva affermare: «Per essere veramente osservanti è necessario dedicarsi con diligenza al servizio di Dio e allo studio ordinato al bene delle anime»[21]. Dopo aver faticato 13 anni per rinnovare la vita religiosa, concludeva che «la riforma è una cosa che si fa sempre e che non è mai fatta»[22].
Negli anni successivi al Tridentino sono riconoscibili i frutti dell’impegno di Seripando e dei suoi successori. L’Ordine vive un rinnovamento, e se ne vedono i risultati, non solo nell’aumento numerico dei membri, ma anche nelle molte richieste pastorali che essi ebbero dai vescovi. Diversi agostiniani furono chiamati per la predicazione e per l’insegnamento della teologia. San Carlo Borromeo li volle a Milano per partecipare ai lavori del Concilio provinciale del 1565, affidando loro la parte relativa all’amministrazione dei sacramenti e alla liturgia della Messa[23]. Nel 1602, il Priore generale Ippolito Fabriani, in visita ai conventi della Campania, ringraziò l’arcivescovo di Capua, san Roberto Bellarmino, per la stima che aveva mostrato nei confronti del suo Ordine[24].
Va segnalato anche il successo che ebbero le missioni nelle Americhe e in Oriente: tra il 1533 e il 1610, gli agostiniani spagnoli fondarono missioni in Messico, Perù, Ecuador, Colombia, Venezuela, Cile e nelle Filippine, nel 1602 in Giappone, e nel 1680 in Cina; quelli portoghesi in India e nell’Africa orientale e Madagascar[25].
Il movimento di riforma carmelitano di santa Teresa d’Ávila, nel 1612, favorì in Spagna il sorgere di un nuovo istituto, i Recolletti di sant’Agostino, fino a diventare una Congregazione autonoma all’interno dell’Ordine. A Napoli, nel 1592, sorse la Congregazione degli Agostiniani scalzi, che dall’Italia si estesero in Francia, in Boemia, in Moravia, in Austria e Germania ed ebbero anche diverse missioni. Più tardi sorse il Terz’Ordine agostiniano per i laici che si ispiravano alla spiritualità del Santo fondatore.
Il terzo periodo
I secoli XVII e XVIII segnano l’affermazione della scuola degli agostiniani in campo antropologico. L’uomo è ancorato nella storia e ne è il protagonista; è soggetto al divenire, in cui scopre l’umana fragilità e i suoi limiti. Ma è anche bisognoso di Dio e della salvezza, e senza Dio rimane privo del proprio bene e della propria vera identità. Scriveva in proposito Maurice Blondel nel 1930: «Il rapporto che Agostino ha concepito tra il pensiero e la vita, tra la speculazione e l’esperienza, tra la scienza e la fede, tra la libertà e la grazia, tra l’umiltà e la carità fa della sua dottrina un dramma spirituale che si perpetua in ogni coscienza attraverso tutta la storia sino all’eternità. Esso tende a fare di noi degli attori piuttosto che degli spettatori»[26]. E Henri-Irénée Marrou affermava nel 1960: «In questo sant’Agostino eccelle, in questo è veramente ammirevole: nessuno ha fatto progredire quanto lui la conoscenza dei problemi essenziali nella vita interiore dell’uomo»[27].
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Per questa impostazione antropologica l’Ordine ebbe diverse contestazioni da parte di cattolici e di religiosi, i quali avanzarono perfino la proposta di censurare alcune formulazioni di sant’Agostino, quando nel 1679 prese l’avvio la pubblicazione delle sue opere nella Patrologia latina dei Maurini.
Bisogna segnalare anche la grande espansione dell’Ordine fino alla metà del XVIII secolo: nel 1545 gli agostiniani erano circa 8.000, mentre, un secolo dopo, contavano più di 12.000 membri[28]. L’aumento era dovuto alla restaurazione di alcune province d’Europa – quelle di Colonia, Baviera e Austria – e alla formazione di nuove province nell’America spagnola e nelle Filippine.
Gli ultimi secoli
Le difficoltà che la Chiesa incontrò dopo l’Illuminismo e la Rivoluzione francese colpirono anche gli agostiniani. Nel XIX secolo non fu più possibile celebrare i Capitoli generali. Dal 1806, durante la dominazione napoleonica, la soppressione degli Ordini religiosi e l’incameramento dei beni ecclesiastici segnarono drammaticamente la vita dei religiosi.
Gli agostiniani subirono la perdita di molti conventi con il loro patrimonio librario, soprattutto in centro Europa e in Inghilterra, ma si dedicarono con passione alla conservazione e all’arricchimento delle biblioteche rimaste. Queste ebbero una nuova destinazione: furono aperte a tutti coloro che volevano usufruirne, religiosi e laici. Già nelle Costituzioni del 1581, aggiornate sul Concilio di Trento dal Priore generale Taddeo Guidelli, veniva detto che le biblioteche costituiscono il tesoro più prezioso dei conventi: sono necessarie per lo studio, e quindi occorre avere per esse una cura particolare.
Se non sono rari i rimproveri dei superiori per i bibliotecari poco diligenti, per chi trascura l’ordine e la pulizia delle sale, per chi vende codici antichi di grande valore per comprare libri stampati, sono frequenti anche gli elogi e il sostegno per i frati che hanno a cuore il lavoro di bibliotecario, che è, sì, utile per l’Ordine, ma anche per i cultori del sapere. C’era stato l’esempio di Seripando, il quale fece costruire nel suo convento di San Giovanni da Carbonara, al centro di Napoli, una sala spaziosa dove i confratelli, ma anche «tutti gli studiosi della città»[29], potessero consultare i preziosi manoscritti e i volumi. A Roma, il vescovo agostiniano Angelo Rocca, d’accordo con il Priore generale e con Paolo III, fondò nel 1605, accanto alla chiesa di Sant’Agostino, la prima biblioteca pubblica a servizio dei cittadini, chierici e laici. Se all’inizio del Cinquecento essa contava 1.500 volumi, nel 1626 – quando ebbe il nome di «Biblioteca Angelica» –, ne custodiva più di 22.000, grazie alla cura diligente e al lascito del vescovo[30]. Ma vi furono altri casi, quali la biblioteca del convento di Santo Spirito a Firenze e quelle dei conventi di Padova, Saragozza, Siviglia e Coimbra. Era la realizzazione concreta di un antico desiderio espresso da sant’Agostino quando era vescovo d’Ippona.
Nonostante i tempi difficili, non sono mancati agostiniani che hanno dato il loro contributo alla cultura europea: Giulio Accetta († 1752), matematico e astronomo, titolare della cattedra di matematica all’Università di Torino; Gian Michele Cavalieri († 1757), grande storico della liturgia con l’Opera omnia liturgica del 1778; Enrico Flórez (†1773), che pubblicò 27 volumi di España Sagrada; Gregor Mendel († 1884), biologo, matematico e botanico, che è stato il padre della scienza genetica moderna[31].
Anche coloro che per le persecuzioni dovettero fuggire al di là dell’Atlantico portarono frutti insperati. Gli agostiniani irlandesi giunsero a Filadelfia alla fine del XVIII secolo e fondarono nel Nord America le quattro province tuttora esistenti. Nel 1838 un altro confratello irlandese approdò in Australia, creandovi il primo convento dell’attuale provincia.
Con la soppressione degli Ordini religiosi e la conseguente secolarizzazione, in Germania vennero meno tre fiorenti province. Si salvò il convento di Münnerstadt, un piccolo paese della Baviera, con la chiesa agostiniana del XIII secolo. Con la guerra dei contadini, al tempo di Lutero, i frati dovettero fuggire a Würzburg, dove fondarono un ospizio; alla fine dell’Ottocento ritornarono a Münnerstadt, che, da allora, è il punto di riferimento per la provincia tedesca. In Portogallo scomparvero tutti i conventi, e in Spagna è sopravvissuto solo quello di Valladolid: vi si formavano i sacerdoti per il Nuovo Mondo. In Polonia, dal 1864 era rimasto solo il convento di Kraków; in Italia, molti conventi furono chiusi e incamerati dallo Stato[32].
Con l’inizio del XX secolo si ha la rinascita degli agostiniani. In Germania riprende vita la provincia di Baviera, e quasi contemporaneamente quelle olandese e belga. Anche in Spagna c’è una rinascita dei conventi. Intanto la provincia tedesca rifonda le missioni nel Nord America e in Canada che, verso la metà del secolo, divengono province indipendenti.
Gli agostiniani oggi
L’Ordine di sant’Agostino è presente in tutto il mondo con circa 2.340 membri in 47 Paesi, con 400 case tra conventi, parrocchie, studentati e sedi di formazione[33]. Gli agostiniani si dedicano non solo all’insegnamento e alla predicazione, ma anche alla vita parrocchiale, ai santuari, alle opere sociali per i poveri, i migranti e gli anziani. Il loro motto, Charitas et Scientia,indica l’armonia tra vita comunitaria, studio e dedizione ai fratelli.
Anche in Italia si segnala la ripresa degli agostiniani, e vanno ricordati alcuni eminenti studiosi. Innanzitutto, p. Agostino Trapè (1915-1987), uno straordinario cultore di scienze patristiche, docente all’Università Lateranense, che ha ideato e diretto la Nuova Biblioteca Agostiniana: ha pubblicato l’Opera Omnia di sant’Agostino in edizione bilingue latino-italiano[34]. È stato Priore generale dell’Ordine, e a lui si deve la fondazione dell’Istituto Patristico Augustinianum di Roma nel 1969, alla cui inaugurazione volle intervenire di persona papa Paolo VI[35]. Poi va ricordato p. Prosper Grech (1925-2019), creato cardinale da Benedetto XVI, studioso del Nuovo Testamento, docente all’Università Gregoriana e all’Istituto Biblico di Roma, preside dell’Augustinianum e consultore del Dicastero per la dottrina della fede.
Va rilevata infine l’attualità di sant’Agostino nel Concilio Vaticano II. Il vescovo di Ippona ha avuto un influsso sulla spiritualità conciliare, che ha dato all’antropologia del Santo un posto di rilievo. «Nella [Costituzione] Lumen Gentium, il Concilio ha sottolineato come un finalismo soprannaturale muova la Chiesa, l’umanità e il mondo, intimamente congiunto con l’uomo verso il raggiungimento di un fine comune (7,48). Nella Gaudium et Spes poi vengono approfonditi gli elementi comuni ad ogni uomo. Questi, immagine di Dio, ha in essa la spiegazione della sua grandezza, delle sue responsabilità, del suo dinamismo verso Dio e del suo bisogno di redenzione in Cristo (1-2, cc. 1-4)»[36].
Sull’origine di questi temi, un agostiniano studioso del grande Padre ha affermato: «Difficilmente si troverà un’esposizione più sintetica dell’antropologia agostiniana di quella offerta dal Concilio nella Costituzione apostolica Gaudium et spes. Basti dire soltanto delle aspirazioni universali di tutti gli uomini […] alla giustizia e all’amore, a una più matura coscienza e responsabilità, così come alla felicità, alla cultura e a tutti i valori trascendenti. […] Quando il Concilio, dopo i cambiamenti del mondo, comincia a considerare l’uomo in sé stesso, nella comunità e nella sua attività, si manifesta agostiniano»[37].
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[1] Cfr Agostino d’Ippona, Regula ad servos Dei. La Regola, in Opere di sant’Agostino, VII/2,Roma, Città Nuova, 2001, 29-49. La Regola risale intorno all’anno 400.
[2] V. Grossi, «L’influsso – Il futuro – Le prospettive», in V. Grossi – L. Marín – G. Ciolini, Gli Agostiniani. Radici, storia, prospettive, Palermo, Augustinus, 1993, 192.
[3] Ordo Eremitarum Sancti Augustini. Cfr L. Marín, «La storia. Dalla morte di S. Agostino al 1244-1256», in V. Grossi – L. Marín – G. Ciolini, Gli Agostiniani…, cit., 117-140. L’unione ha riguardato gli eremiti della Tuscia, quelli di Monte Favale, di Brettino e dei Giamboniti. I Guglielmiti, invece, dopo una prima adesione, decisero di tornare alla Regola di san Benedetto.
[4] Ivi, 187 s.
[5] Cfr M. Rodriguez, «Monache Agostiniane», in Enciclopedia Cattolica, vol. I, Città del Vaticano – Firenze, Ente per l’Enciclopedia Cattolica, 1949, 501 s.
[6] Costituzioni di Ratisbona, 40. Cfr Egidio Romano, De regimine principum III, 2, 8, in Il «Livro del governamento dei re e dei principi» secondo il codice BNCF II.IV.129, vol. I, Bologna, ETS, 2016, 537.
[7] Cfr G. Pani, «“Il Vangelo mi spaventa”. Il buon vescovo secondo sant’Agostino», in Civ. Catt. 2015 II 117-130.
[8] G. Ciolini – V. Grossi, «Gli Agostiniani e le mediazioni culturali», in V. Grossi – L. Marín – G. Ciolini, Gli Agostiniani…, cit., 250.
[9] Cfr ivi, 217 s.
[10] Cfr D. Aurelii Augustini Milleloquium veritatis, à F. Bartholomaeo de Urbino digestum, Lugduni, M. Bonhomme, 1555.
[11] Le Congregazioni di Osservanti si proponevano di vivere rigorosamente le prescrizioni della Regola e delle Costituzioni, senza gli abusi che si erano introdotti nelle province. Delle 10 Congregazioni di Osservanti, una si trovava in Germania (a Erfurt), le altre in Italia. Cfr D. Gutiérrez, Storia dell’Ordine di Sant’Agostino. II. Gli Agostiniani dal protestantesimo alla riforma cattolica (1518-1648), Roma, Institutum Historicum Ordinis Fratrum S. Augustini, 1972, 87 s.
[12] Questi si trovavano a Roma, Napoli, Siena, Milano, Vienna, Magonza, Colonia, Bruges, Metz, Strasburgo, Lione, Montpellier e Tolosa. In Italia, i più antichi e migliori Studi generali rimasero quelli di Padova, Bologna, Roma e Napoli.
[13] Ogni tomo ha il suo titolo proprio. Nel frontespizio del primo tomo si legge: Prima pars librorum divi Aurelii Augustini quos edidit cathecuminus. Furono stampati 2.200 esemplari in 11 tomi, ma i primi tre costituiscono un volume, per cui si ha un insieme di 9 volumi. Cfr Chronicon Conradi Pellicani Rubeaquensis (del 1544), Bâle, B. Riggenbach, 1877, 27.
[14] Cfr G. Pani, Paolo, Agostino, Lutero: alle origini del mondo moderno, Soveria Mannelli (Cz), Rubbettino, 2005, 77-81.
[15] Ivi, 37-44. La prima edizione era intitolata Novum Instrumentum, che traduceva alla lettera il titolo greco kainē diathēkē. Ma nella seconda edizione, in seguito alle critiche che gli furono rivolte, Erasmo riportò il titolo tradizionale.
[16] Cfr G. Pani, Lutero tra eresia e profezia, Bologna, EDB, 2017, 84-97.
[17] Cfr Id., «L’affissione delle 95 Tesi di Lutero: storia o leggenda?», in Civ. Catt. 2016 IV 213-226. Dell’affissione delle 95 Tesi non si ha una documentazione storica coeva, ma se ne parla per la prima volta un secolo dopo.
[18] Cfr H. Jedin, Storia del Concilio di Trento. II. Il primo periodo 1545-1547, Brescia, Morcelliana, 1974, 209 s.; Concilium Tridentinum Diariorum, Actorum, Epistolarum Tractatuum nova collectio,X, Freiburg i. Br., Herder, 1916, 539: lettera di Zanetti al cardinale A. Farnese, 25 giugno 1546.
[19] Cfr W. Eckermann, «Augustiner-Eremiten», in Lexikon für Theologie und Kirche, vol. I, Freiburg – Basel – Roma ecc., Herder, 1993, col. 1234.
[20] D. Gutiérrez, Storia dell’Ordine di Sant’Agostino, II, cit., 81.
[21] Ivi, 59.
[22] Ivi, 90.
[23] Cfr ivi.
[24] Cfr ivi.
[25] Cfr W. Eckermann, «Augustiner-Eremiten», cit., 1234; D. Gutiérrez, Storia dell’Ordine di Sant’Agostino, II, cit., 245-282.
[26] M. Blondel, «L’unité originale et la validité permanente de sa doctrine philosophique», in Revue de Métaphysique et de Morale 37 (1930) 466; cfr V. Grossi, «L’influsso – Il futuro – Le prospettive», cit., 199.
[27] H.-I. Marrou, Sant’Agostino, Milano, Mondadori, 1960, 81.
[28] Cfr D. Gutiérrez, Storia dell’Ordine di Sant’Agostino, II, cit., 115; 120 s.; 88.
[29] Ivi, 207.
[30] Cfr ivi, 206.
[31] Cfr G. Ciolini – V. Grossi, «Gli Agostiniani e le mediazioni culturali», cit., 252 s.
[32] Cfr W. Eckermann, «Augustiner-Eremiten», cit., 1235.
[33] Cfr Annuario Pontificio per l’anno 2025, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2025, 1624.
[34] Cfr Agostino d’Ippona, s., Nuova biblioteca agostiniana. Tutte le Opere, Roma, Città Nuova, 1965-2005. L’opera si compone di 70 volumi, in carta india, rilegati in tela.
[35] Cfr G. Ciolini – V. Grossi, «Gli Agostiniani e le mediazioni culturali», cit., 256.
[36] V. Grossi, «L’influsso – Il futuro – Le prospettive», cit., 197.
[37] Ivi, 197. Cfr J. Morán, «Presenza di S. Agostino nel Concilio Vaticano II», in Augustinianum 6 (1966) 484 s. Si può anche ricordare che Joseph Ratzinger-Benedetto XVI è stato un grande studioso e cultore di sant’Agostino; i riferimenti al Santo nelle sue opere teologiche e nelle sue omelie sono nettamente più numerosi di quelli ad altri Padri della Chiesa.
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L’assistenza pastorale agli studenti internazionali
Introduzione
A partire dagli anni Novanta, l’internazionalizzazione e la globalizzazione dell’istruzione superiore hanno fatto registrare una tendenza significativa. Il numero totale degli studenti internazionali presso gli istituti di istruzione superiore degli Stati Uniti, per esempio, ha raggiunto un livello record nell’anno accademico 2023-24, superando 1,1 milioni, e ora costituisce il 6% della popolazione totale dell’istruzione superiore degli Usa[1]. Nell’anno accademico 2022-23, le università del Regno Unito hanno ospitato un totale di 758.855 studenti internazionali, di cui 663.355 provenienti da regioni extra-Ue[2]. Nel 2023 il Canada ha calcolato un totale di 1.040.985 studenti stranieri nei vari livelli di istruzione[3]. A settembre 2024, il numero di studenti esteri iscritti in Australia ha toccato quota 1.018.799, con un aumento del 16% rispetto al 2019[4]. Oltre alle nazioni menzionate, anche altre, come la Corea del Sud, la Germania, la Francia e i Paesi Bassi, hanno attratto un numero considerevole di studenti provenienti da altri Paesi[5].
Lo sviluppo continuo dell’economia globale ha profondamente influenzato i modelli di sviluppo educativo in tutto il mondo, e al tempo stesso ha presentato nuove criticità alla società e alla cultura internazionale. La civiltà e l’istruzione globalizzate costituiscono un elemento cruciale nel percorso della storia mondiale: rappresentano sia una missione storica sia l’obbligo di connettersi al mondo e comprenderlo, nonché una forza trainante per promuovere il dialogo e il progresso in diversi campi.
L’ondata di studenti che oggi studiano all’estero, così come i gruppi universitari che compiono viaggi in altre sedi per studi specialistici e visite accademiche, ha raggiunto le istituzioni cattoliche in tutto il mondo ed è arrivata alle nostre porte. Non è forse il caso che le università cattoliche ripensino e rivalutino la loro missione e vocazione in questo particolare momento e in risposta a tali sviluppi? E quali efficaci metodologie educative possono adottare le istituzioni cattoliche per fornire assistenza pastorale agli studenti internazionali?
Questo articolo esamina anzitutto le sfide affrontate da questi studenti e il crescente numero delle loro iscrizioni in istituzioni cattoliche. Quindi analizza come le università cattoliche possano sostenere e promuovere efficacemente la missione della Chiesa, fornendo una migliore assistenza pastorale e di supporto a questi studenti. Traendo ispirazione dagli insegnamenti della Chiesa, come l’enciclica Fratelli tutti, invita le università cattoliche a rafforzare sotto svariati aspetti il loro impegno nei confronti degli studenti internazionali. Infine, presenta un case study che mette in luce pratiche esemplari di assistenza pastorale per questa specifica popolazione studentesca.
Principali sfide affrontate dagli studenti internazionali
I giovani che studiano e vivono all’estero affrontano ostacoli considerevoli nel loro adattamento culturale, che spesso entra in conflitto con la preservazione della loro identità culturale. Essi si trovano a fronteggiare barriere linguistiche, sociali e culturali che non comportano solo difficoltà accademiche, ma li fanno sentire anche socialmente isolati, e questo fatto mette in crisi la loro integrazione nella società. Costretti ad adattarsi a nuove norme sociali e culturali, essi tuttavia sono riluttanti ad abbandonare completamente la loro identità culturale. Questo conflitto tra l’adattamento e il mantenimento della loro cultura tradizionale diventa un fardello psicologico notevole. Talvolta essi preferiscono associarsi con coetanei del loro Paese di origine per mantenere la prossimità e trovarsi a loro agio, ma questo comportamento crea una divisione tra loro e gli studenti locali o altri studenti di diversa nazionalità e condiziona ulteriormente la loro capacità di integrarsi nella società.
Inoltre, talvolta gli studenti internazionali si trovano ad affrontare ostacoli quali razzismo, xenofobia e stereotipi culturali, come pure trattamenti disuguali in materia di alloggio, occupazione e interazioni sociali, ai quali possono aggiungersi anche difficoltà a sostenere i propri diritti e a garantirsi un trattamento equo. L’impresa di impostare il percorso della propria carriera in una società straniera può rivelarsi ardua, accrescendo negli studenti sentimenti come l’incertezza e l’ansia. Essi devono confrontarsi non solo con potenziali pregiudizi da parte dei datori di lavoro riguardo all’assunzione di candidati stranieri, ma anche con le notevoli pressioni che avvertono da parte dei loro genitori, i quali considerano lo studio all’estero un trampolino di lancio per lo sviluppo della carriera dei propri figli.
Queste dinamiche interpersonali vengono ulteriormente complicate dalle relazioni geopolitiche: in particolare, i cambiamenti nella diplomazia internazionale spesso si ripercuotono direttamente sulle politiche riguardanti i visti e sull’ambiente di studio. In sostanza, si tratta di sfide multiformi, che illuminano la necessità, da parte delle istituzioni educative cattoliche e di altre entità accademiche, di fornire solidi sistemi di supporto, che promuovano l’inclusività, la comprensione, la solidarietà e la sicurezza per gli studenti internazionali, in un panorama politico e sociale globale sempre più complesso.
Gli studenti internazionali nelle istituzioni cattoliche
Dal punto di vista delle istituzioni cattoliche, gli studenti internazionali possono essere generalmente suddivisi in due categorie principali. La prima comprende i giovani cattolici che studiano all’estero presso università cattoliche e desiderano assistenza e supporto pastorale, o comunque ne hanno bisogno. La seconda categoria, sulla quale si concentra questo articolo, è composta da studenti che non sono cattolici. Questo gruppo rappresenta la maggioranza dei fuorisede all’estero, compresi quelli provenienti da Paesi come Cina, India, Giappone e Corea.
Questi studenti, che inizialmente per lo più non condividono la fede cattolica, costituiscono un’importante opportunità di coinvolgimento. Le loro interazioni con gli educatori cattolici, i coetanei e la comunità ecclesiale possono portarli ad apprezzare i valori, la missione e le prospettive cattoliche. Alcuni di loro possono persino desiderare di conoscere la religione più profondamente, dando luogo a potenziali conversioni. In altri l’esperienza presso istituzioni cattoliche può infondere una comprensione duratura e il rispetto per gli insegnamenti e i valori cattolici, che essi manterranno nella loro vita personale e professionale, divenendo ambasciatori informali o collaboratori della missione cattolica.
Iscrizione degli studenti internazionali nelle università cattoliche
Al momento della domanda d’iscrizione o anche in seguito, la maggior parte degli studenti internazionali e dei loro genitori non è a conoscenza della caratterizzazione cattolica di tali istituzioni. La loro scelta, infatti, si basa spesso sulla reputazione della scuola e sui risultati educativi. Ho intervistato centinaia di studenti internazionali dalla Cina, India, Sud Corea, Vietnam, Filippine e Canada e i loro familiari sulle ragioni per cui hanno scelto istituzioni cattoliche: molti genitori sono attratti dalla centralità accordata alle arti liberali e all’istruzione olistica, che dà priorità non solo all’eccellenza accademica, ma anche alla formazione del carattere e all’apprendimento basato sui valori. Essi ritengono che tali istituzioni favoriscano insieme la crescita intellettuale e lo sviluppo morale, in linea con le aspirazioni che essi nutrono per i loro figli. Inoltre, molti genitori sottolineano la cultura accogliente e inclusiva che si respira nei campus delle università cattoliche, dove gli studenti sperimentano un forte senso di valorizzazione personale e di comunità. Questo ambiente di sostegno svolge un ruolo cruciale nell’aiutare gli studenti internazionali alle prime armi ad adattarsi a un nuovo Paese e ad affrontare le problematiche incontrate da chi studia all’estero.
A questi studenti le istituzioni cattoliche offrono più che semplici opportunità accademiche: fungono da vie di accesso verso una comprensione più profonda della fede e dei valori spirituali. Attraverso la partecipazione alle attività religiose del campus e l’immergersi nella tradizione delle arti liberali delle università affiliate alla Chiesa, gli studenti incontrano a poco a poco i valori del Vangelo e lo spirito di servizio promosso dall’istruzione cattolica. Non è detto che i loro percorsi di fede personali portino a una conversione ufficiale, e tuttavia le esperienze vissute nelle istituzioni cattoliche ampliano le loro prospettive culturali e promuovono un dialogo significativo con la tradizione cattolica, alimentando comprensione e rispetto reciproci.
Per promuovere una maggiore comprensione è essenziale sviluppare strategie personalizzate di cura pastorale e di coinvolgimento, che affrontino le diverse esigenze degli studenti internazionali cattolici e non. Quando favoriscono l’inclusione, la crescita spirituale, il dialogo e l’arricchimento reciproco, le istituzioni cattoliche creano un ambiente accogliente in cui gli studenti non solo ricevono una formazione accademica, ma sperimentano anche i valori ecclesiali di servizio, compassione e ricerca intellettuale.
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Guida dagli insegnamenti della Chiesa
Due documenti fondamentali della Chiesa forniscono una guida e ispirazioni preziose a chi intende riesaminare la missione e il significato della cura pastorale per gli studenti internazionali: l’enciclica Fratelli tutti[6] e l’istruzione L’identità della scuola cattolica per una cultura del dialogo[7].
Ponendosi davanti a un contesto globale in continua evoluzione, papa Francesco ha dedicato l’enciclica Fratelli tutti, pubblicata nel 2020, ai temi della fraternità globale, della giustizia sociale, della responsabilità condivisa e del dialogo culturale, nell’intento di promuovere un mondo più unito, equo e compassionevole. L’enciclica evidenzia le problematiche sociali che il mondo deve affrontare oggi, tra cui spiccano il divario crescente tra ricchi e poveri, il degrado ambientale, il razzismo, l’esclusione e la divisione sociale. Francesco afferma esplicitamente che, sebbene in tutto il mondo siano presenti diverse culture, fedi e stili di vita, queste differenze non dovrebbero costituire delle barriere, ma piuttosto delle opportunità per promuovere la comprensione reciproca e la cooperazione. Al fine di perseguire la pace e la giustizia, egli sottolinea il ruolo essenziale del dialogo e della cooperazione, dichiarando che nazioni, popoli e culture devono superare differenze e conflitti attraverso una maggiore comprensione e rispetto. Esorta in particolare la Chiesa e i suoi fedeli a svolgere un ruolo attivo in questo sforzo, incarnando lo spirito cristiano di carità e contribuendo alla realizzazione della giustizia sociale e della pace globale. Inoltre, Francesco esorta a porre una maggiore attenzione alle questioni globali della migrazione e dei rifugiati, che considera urgenti e bisognose di una soluzione immediata. Esorta i governi e le società a mostrare maggiore empatia e accettazione verso i migranti, a evitare di escluderli e discriminarli, a offrire loro maggiore protezione e sostegno.
Le scuole cattoliche sono chiamate a favorire
il dialogo a livello religioso, culturale e sociale,
diffondendo la pace.
Nel 2022 l’allora Congregazione per l’educazione cattolica della Santa Sede ha pubblicato un documento sull’educazione cattolica intitolato L’identità della scuola cattolica per una cultura del dialogo. In esso viene ricordato che, se è vero che le scuole cattoliche devono rimanere fedeli alla loro identità religiosa, è altrettanto vero che esse sono tenute a rispettare i bagagli culturali e religiosi di tutti i loro studenti, promuovendo la comprensione della diversità e della cittadinanza globale. Le scuole cattoliche sono chiamate a favorire il dialogo a livello religioso, culturale e sociale, diffondendo la pace, la giustizia e l’inclusività attraverso la comprensione e il rispetto. Esse dovrebbero incoraggiare i loro studenti ad apprezzare e a rispettare il multiculturalismo attraverso programmi di studio, attività artistiche e servizi alla comunità. Il documento ricorda inoltre che le scuole cattoliche non sono meri luoghi di trasmissione della conoscenza, ma anche preziose piattaforme vitali da cui diffondere amore, pace, dialogo e comprensione reciproca, e dove far crescere leader sociali e cittadini globali.
La continuazione della missione della Chiesa
Fin dal XVI secolo, quando san Francesco Saverio iniziò il suo viaggio verso l’Oriente, la Chiesa cattolica è stata profondamente impegnata nella propagazione della fede e nella promozione dello scambio culturale in Asia. Quello storico viaggio ha aperto la strada a un’istruzione concepita non soltanto come un mezzo per la trasmissione della fede, ma anche come un ponte per l’integrazione delle culture orientale e occidentale. Tuttavia, negli ultimi decenni è diventato evidente come, malgrado decine di milioni di studiosi e studenti internazionali abbiano attraversato il mondo creando ponti per lo scambio educativo e culturale tra Oriente e Occidente, per la maggior parte le istituzioni ospitanti non abbiano sviluppato un’assistenza pastorale o servizi a loro dedicati.
Questa carenza costituisce un’occasione mancata per l’evangelizzazione da parte delle università cattoliche e delle diocesi locali. Esse infatti, non prestando sufficiente attenzione alle esigenze pastorali degli studenti internazionali, perdono l’opportunità di dare vita al dialogo sociale, alla collaborazione e a una cultura dell’incontro. Insomma, il messaggio e le raccomandazioni dell’enciclica Fratelli tutti non sono stati pienamente accolti al momento di affrontare tali sfide.
Sfide nella cura pastorale per gli studenti internazionali
Interviste fatte a oltre 100 operatori diocesani della gestione pastorale e a più di 400 amministratori scolastici e personale delle cappellanie universitarie mostrano che in pochi hanno risposto in modo proattivo alle peculiari esigenze pastorali degli studenti internazionali; non sono stati molti quelli che hanno riconosciuto l’importanza di costruire ponti di dialogo e incontro culturale per questi studenti.
Le ragioni di ciò sono diverse. Gli intervistati hanno spesso affermato che i loro servizi pastorali si rivolgono principalmente a studenti con un retroterra cristiano, e che si dà per scontato che la maggior parte degli studenti provenienti da altri Paesi non siano religiosi, e quindi non siano interessati a un’assistenza spirituale personalizzata. Inoltre, le limitate risorse di cui dispongono molte università e istituzioni cattoliche impediscono loro di creare apposite équipe pastorali per soddisfare le esigenze degli studenti internazionali. Le comunità protestanti, al contrario, hanno fatto passi enormi nella comprensione interculturale, nell’evangelizzazione e nell’assistenza pastorale, dimostrando un grande entusiasmo e traducendolo in azioni concrete per aiutare gli studenti internazionali, in particolare quelli provenienti dall’Asia.
All’interno delle diocesi e delle università cattoliche, in seguito a queste difficoltà, permane una seria lacuna nei servizi pastorali rivolti agli studenti internazionali. Gli sforzi pastorali della Chiesa in questo ambito non sono stati considerati abbastanza prioritari, cosicché di rado sono stati presi in considerazione i bisogni spirituali, sociali ed emotivi di tali studenti.
Ottimizzazione dei programmi per un’assistenza pastorale efficace
Poiché il numero degli studenti internazionali presenti nelle istituzioni cattoliche continua a crescere, è fondamentale che le diocesi e le università locali attuino strategie di assistenza pastorale inclusive ed efficaci. Ne elenchiamo qui di seguito alcune.
1) Istituzione di un ufficio centralizzato per il coordinamento della cura pastorale rivolta agli studenti internazionali nelle università e diocesi cattoliche. Questo ufficio, fornendo programmi appositamente progettati e facilitando l’integrazione sia nelle comunità accademiche sia in quelle religiose, rafforzerà il legame tra le università cattoliche e la Chiesa locale e assicurerà che gli studenti ricevano un sostegno completo nel loro percorso educativo e spirituale.
2) Programmi specializzati, ossia iniziative pastorali mirate svolgono un ruolo cruciale nel promuovere l’integrazione religiosa e l’inclusività. Possono riguardare, fra l’altro, visite a chiese locali e siti religiosi, così come seminari e workshop sulla giustizia sociale, la pace nel mondo e i valori che si riferiscono alla fede.
3) Supporto culturale. I ministri che operano nel campus devono adattare e innovare continuamente i propri servizi per abbracciare i diversi retroterra culturali dei loro studenti. La promozione del dialogo tra gli studenti locali e quelli internazionali può avvenire tramite iniziative come ritiri, serate culturali ed esperienze condivise, che promuovono la comprensione interculturale.
4) Accompagnamento flessibile. Le università cattoliche dovrebbero introdurre programmi di accompagnamento versatili – tra cui iniziative di servizio sociale –, per introdurre gli studenti internazionali ai valori e ai princìpi fondamentali del cattolicesimo e promuovere al contempo tolleranza e rispetto per altre tradizioni religiose. Tali programmi dovrebbero incoraggiare un dialogo aperto e lo scambio di prospettive diverse.
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5) Attenzione rivolta al benessere emotivo. Il benessere psicologico ed emotivo degli studenti internazionali è un aspetto di cui è necessario tener conto. Le università dovrebbero fornire un sostegno personalizzato tramite gruppi di supporto tra pari, workshop di consapevolezza e servizi di counseling. Inoltre, la cura pastorale e la guida spirituale possono aiutare gli studenti ad affrontare le sfide personali e quelle legate alla fede.
6) Connessioni rafforzate. Le università cattoliche possono accrescere il senso di appartenenza degli studenti, istituendo programmi di tutoraggio per collegare studenti internazionali con docenti, personale o tutor locali che condividono analoghi interessi accademici o di fede. Incontri regolari, come gruppi di condivisione della fede, workshops accademici e cene di scambio culturale, possono ulteriormente rafforzare i legami e fornire un buon sostegno alla crescita spirituale e personale degli studenti.
Il ruolo della missione e della cappellania universitaria
La globalizzazione dell’istruzione superiore presenta un’opportunità unica per spargere i semi dell’amore e del Vangelo e consentire così allo Spirito Santo di coltivarli con risultati fruttuosi. Il notevole aumento degli studenti internazionali negli ultimi trent’anni ha offerto alla Chiesa un’opportunità senza precedenti per l’evangelizzazione e la cura pastorale su scala globale. Quando affronta le esigenze spirituali, culturali e sociali di questi studenti, la Chiesa non soltanto estende la sua missione in tutto il mondo, ma fornisce anche un senso di appartenenza e conforto spirituale agli studenti lontani da casa. Questa sensibilizzazione spesso influenza positivamente le famiglie e le comunità di tali studenti.
Un compito primario di una missione universitaria e di una cappellania, o dei loro equivalenti, è quello di preservare e rafforzare l’identità cattolica dell’università, promuovendo questa missione fra tutti i membri della comunità universitaria. Attraverso le proprie attività di ministero nel campus, la cappellania universitaria potrebbe diventare un punto di contatto centrale per fornire assistenza pastorale agli studenti internazionali, organizzando per loro regolari attività e collaborando con il personale universitario, le facoltà e altre componenti interessate. Tale attività può comprendere l’avvio di programmi di assistenza pastorale in collaborazione con uffici di sensibilizzazione diocesani locali, parrocchie e altri gruppi impegnati a sostenere questi studenti. Facilitando tali iniziative, la cappellania universitaria aiuta a creare un ambiente inclusivo, in cui gli studenti internazionali siano in grado di progredire sotto i profili accademico, spirituale e sociale.
Con il supporto della cappellania universitaria, gli amministratori e i docenti universitari possono collaborare nella promozione della diversità culturale tramite lezioni e programmi rivolti agli studenti internazionali e a quelli locali affinché sviluppino una comprensione più profonda delle varie provenienze culturali. La collaborazione può anche tradursi in iniziative di sostegno agli studenti per garantire adeguati servizi accademici, culturali e spirituali. Gli studenti internazionali possono essere invitati a partecipare alla Messa di inaugurazione dell’anno accademico e alle attività di gruppo, creando un’atmosfera familiare. Si possono promuovere le amicizie tra studenti locali e internazionali, permettendo così a questi ultimi di sperimentare nella loro vita quotidiana il calore interpersonale, mentre attraverso tali interazioni essi vengono gradualmente introdotti alla fede e ai valori.
Inoltre, la cappellania universitaria può assumere un ruolo guida nel coordinamento dei programmi di volontariato, incoraggiando gli studenti internazionali a impegnarsi nel servizio alla comunità o a partecipare ad attività svolte dalla Chiesa locale. Questa può fornire sostegno sociale attraverso iniziative come programmi di famiglie ospitanti e incontri nei periodi di vacanza. Inoltre, chiese e università possono mettere in comune le risorse per collaborare a iniziative di beneficenza, invitando gli studenti internazionali ad assistere i senzatetto o a partecipare ad altri impegni di sensibilizzazione della comunità. Queste partnership consentono a tutte le parti interessate di incrementare i propri punti di forza, promuovendo un ambiente più inclusivo, di supporto e arricchente per tutti.
Tali iniziative progrediranno se sapranno andare oltre i modelli tradizionali della cura pastorale, che spesso vengono intesi soltanto in termini di evangelizzazione e conversione. Infatti, la cura pastorale moderna non si pone soltanto al servizio degli studenti internazionali (cattolici), ma li spinge a divenire ponti culturali, per stabilire reti internazionali con altre comunità, società e culture. Questi studenti internazionali cattolici facilitano la condivisione delle risorse e la cooperazione durante l’organizzazione di eventi interculturali, migliorando così l’universalità e l’influenza internazionale delle chiese e delle comunità locali. I loro contributi vitali alle chiese locali si manifestano in vari modi.
Un «case study» sulla cura pastorale
Gli studenti internazionali si muovono in un ambiente culturale, sociale e linguistico non familiare, e ciò, come si è già detto, pone loro sfide che vanno oltre la pressione accademica, come i conflitti culturali e l’isolamento emotivo. Per affrontare tali difficoltà, con l’aiuto dell’Office of University Mission and Ministry del Boston College e in collaborazione con organizzazioni caritative esterne, nel 2015 i miei colleghi – sia gesuiti sia laici – e io abbiamo lanciato il progetto Meals with Priests on Weekends («Pasti con i sacerdoti nei fine settimana»). L’iniziativa mirava a promuovere la compagnia, lo scambio culturale e un dialogo fruttuoso, ritrovandosi assieme a tavola. Negli ultimi 10 anni, circa 70 studenti e studiosi internazionali provenienti da diversi Paesi, con svariati percorsi accademici e discipline, si sono riuniti quasi ogni venerdì sera per una cena in cui si proponevano piatti di diverse culture. L’iniziativa Meals with Priests on Weekends, unica nel suo genere tra le università americane, è diventata una «seconda casa» per molti studenti internazionali e le loro famiglie.
Attraverso il loro coinvolgimento con docenti, personale e relatori ospiti, gli studenti internazionali vengono introdotti a valori universali come il rispetto, l’inclusione e il servizio. Mostrano apprezzamento per culture e tradizioni diverse, e ciò favorisce una comprensione più profonda dell’interconnessione globale. Questo scambio di esperienze, alimentando il rispetto reciproco e l’empatia, rafforza la bellezza delle culture internazionali e l’importanza dell’integrazione globale. Attraverso questi pasti condivisi, alcuni studenti provenienti da regioni storicamente in conflitto hanno acquisito nuove prospettive sulla storia e sull’umanità, con il risultato di superare pregiudizi e di formare amicizie durature e collaborazioni professionali. Queste esperienze trasformative li spingono a contribuire attivamente al dialogo e alla riconciliazione nei rispettivi Paesi e comunità.
L’iniziativa di Meals with Priests on Weekends incarna valori universali in azione, come il prendersi cura degli altri attraverso l’offerta di compagnia, il condividere storie personali per ispirare la riflessione e il creare fiducia tramite l’assistenza pratica. Allo stesso tempo, gli studenti e gli studiosi internazionali, come pure le loro famiglie, acquisiscono una comprensione più approfondita dei valori dell’istruzione cattolica, dei princìpi del Vangelo e della missione della Chiesa. Molti genitori, inizialmente scettici o non familiari con la Chiesa e l’istruzione cattolica, sono giunti a riconoscere la sua attenzione al bene degli studenti. Apprezzano che questa iniziativa non sia orientata né al profitto né al proselitismo, ma costituisca piuttosto un’espressione sincera di amore e accompagnamento, che promuove il dialogo interculturale e la comprensione reciproca.
Oltre alle cene settimanali, manteniamo una comunicazione scritta regolare con gli studenti, inviando loro almeno due messaggi al mese tramite WeChat. In essi si affrontano non solo questioni accademiche, ma anche quelle del loro benessere psicologico, della loro maturazione spirituale e della loro vita quotidiana. Inoltre, inviamo una lettera pastorale trimestrale ai genitori degli alunni stranieri, offrendo spunti sulla crescita accademica, sociale e personale dei loro figli.
Oltre alle cene allargate del venerdì, organizziamo incontri settimanali più ristretti, di 12-15 studenti, che favoriscono discussioni e scambi più intensi con i relatori invitati come ospiti. Organizziamo anche attività di volontariato e di servizio caritativo mensili, ritiri nei fine settimana, visite alle chiese locali e conversazioni sui contributi della Chiesa all’istruzione, alla giustizia sociale e all’equità. Queste esperienze non solo ampliano le prospettive degli studenti, ma approfondiscono anche la loro comprensione della responsabilità sociale e del ruolo del servizio ispirato dalla fede nell’affrontare le sfide globali.
In questo contesto, la cura pastorale diventa una piattaforma vitale per lo scambio culturale e per il dialogo: va oltre la dimensione formalmente religiosa, fino a comprendere il supporto psicologico, l’accompagnamento emotivo e la direzione spirituale. Meals with Priests on Weekends è più che un semplice incontro: è un ponte che collega individui e comunità, promuovendo la comprensione reciproca e l’umanità condivisa. Non è scontato che questo programma si adatti a ogni individuo o istituzione, perché la sua efficacia dipende da specifici requisiti e condizioni, ma potrebbe costituire un modello degno di considerazione per chi desideri aiutare più studenti internazionali a ricevere un’assistenza pastorale e un supporto più ampi.
Conclusione
Quando questi studenti internazionali, dopo aver completato i loro studi, torneranno nei rispettivi Paesi, porteranno con sé la fede e la cultura cristiana che hanno incontrato all’estero, condividendola con le loro comunità. L’esempio e l’atteggiamento di benevolenza insegnati nelle istituzioni cattoliche li spingeranno a infondere un’impronta morale e spirituale nel loro futuro lavoro e servizio, indipendentemente dal contesto o dall’ambiente in cui s’impegneranno. Le loro esistenze e le loro azioni offriranno nuove prospettive sui valori necessari nel mondo contemporaneo, invitando la società a riflettere sul significato e sullo scopo ultimo della vita. La giovane generazione che ha fatto esperienza di studi all’estero diventerà una forza capace di guidare un ulteriore sviluppo sociale. Questo fenomeno non solo ha un profondo impatto sull’istruzione e sull’economia globali, ma offre alla Chiesa cattolica e alle istituzioni cattoliche un’opportunità senza precedenti per l’evangelizzazione e la cura pastorale.
La missione dell’educazione cattolica, tramandata attraverso i secoli, continua ancora oggi. Ma le istituzioni educative cattoliche sono davvero pronte a rispondervi e, in particolare, ad affrontare le esigenze di cura pastorale degli studenti internazionali? Più in generale, sono pronte ad accogliere questa sfida promuovendo il dialogo, la comunicazione e la comprensione tra culture, fedi e storie globali?
In risposta alle criticità indotte dalla globalizzazione e dalla diversificazione, le istituzioni cattoliche dell’istruzione superiore hanno il compito importante di restare fedeli alla loro missione originaria e al loro scopo essenziale. La cura pastorale che esse possono fornire agli studenti internazionali richiede, più che un investimento ingente di risorse, un cambiamento di mentalità e di atteggiamento. Se ripenseranno la missione delle università cattoliche e scarteranno approcci burocratici e utilitaristici, abbracciando invece «amore, dialogo e servizio» come nucleo della loro sostanza e del loro operato, non solo risponderanno meglio alle sfide dell’era globalizzata, ma offriranno anche un supporto e una testimonianza più validi agli studenti internazionali, in particolare a quelli provenienti da tradizioni non religiose.
Papa Francesco, nella Spes non confundit, ci ha ricordato che la missione della Chiesa è di andare avanti, di essere un segno di amore e di speranza. Ciò implica non solo una chiamata rivolta alla comunità ecclesiale, ma anche un’aspettativa che investe le università cattoliche. Gli studenti internazionali, come una nuova tipologia di popolazione migrante, affrontano sfide simili nei Paesi in cui si impegnano per l’istruzione e la ricerca. Le istituzioni cattoliche, nella loro particolare condizione, hanno la responsabilità e l’obbligo di fornire loro migliore assistenza e sostegno. In una società diversificata, esse devono fungere da ponti per il dialogo culturale, promuovendo l’integrazione sociale e contribuendo al benessere dell’intera umanità attraverso l’amore cristiano e la pace.
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Riproduzione riservata
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[1] Cfr Open Doors Report, 2024 (iie.org/news/us-hosts-more-tha…).
[2] Cfr UK Parliament. House of Commons Library, 2024 (commonslibrary.parliament.uk/research-briefings/cbp-7976).
[3] Cfr Canadian Bureau for International Education, 2024 (cbie.ca/infographic/2024).
[4] Cfr Australian Department of Education, 2024 (education.gov.au/international…).
[5] Per quanto riguarda l’Italia, gli studenti stranieri nel settore universitario sono circa il 3%: cfr adeccogroup.it/studenti-stranieri-universita-italiane
[6] Cfr Francesco, Enciclica Fratelli tutti, 3 ottobre 2020.
[7] Cfr Congregazione per l’educazione cattolica, Istruzione L’identità della scuola cattolica per una cultura del dialogo, 25 gennaio 2022.
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Il cuore nel pensiero cinese
L’enciclica di papa Francesco Dilexit nos (DN) presenta la devozione al cuore di Gesù, inserendola in una bella meditazione preliminare sulla ricchezza del termine «cuore» in diverse lingue e culture. Predominano naturalmente i riferimenti al greco e alla Bibbia. Francesco insiste sul fatto che la parola vi designa il centro, le profondità dell’essere e anche il luogo ove pensieri e sentimenti si congiungono in modo che la persona – anima e corpo – venga a essere unificata (cfr DN 3). Oggi parlare di cuore, usare senza timore la parola «cuore» significa attirare l’attenzione di tutti e di ciascuno verso una profondità nascosta, verso il nostro intimo, al di là di quelle pretese «idee chiare e distinte», che sono, ad esempio, la volontà, la libertà, la ragione (cfr DN 9-10).
Ci proponiamo qui di arricchire le premesse fondamentali sulle quali si struttura l’enciclica di Francesco, presentando un’altra tradizione nella quale gli studiosi hanno molto riflettuto sul cuore e ne hanno molto parlato: gli scritti cinesi anteriori alla fine della dinastia degli Han occidentali, che coincide più o meno con l’inizio dell’era cristiana[1]. Dal V al I secolo a.C., il tema del cuore attraversa tutti gli ambiti del pensiero cinese: concezione della persona umana e delle sue relazioni con il Cielo, etica, politica, medicina ecc. Del resto, da un autore all’altro si registrano sottolineature differenti: il tema del cuore è così ricco da prendere colorazioni anche molto diverse a seconda dei sistemi nei quali è inserito.
Una realtà sia psichica sia fisiologica
Il carattere xin è uno di quelli sui quali i sinologi amano disquisire. Secondo alcuni, non si dovrebbe tradurre semplicemente con «cuore», perché in tal modo si proietterebbero sul termine le raffigurazioni che essi pensano di trovarvi in contesto occidentale: l’emotività, i sentimenti ecc., mentre l’organo «cuore» nella Cina antica è visto come il luogo della deliberazione, dato che si tratta del «sovrano del corpo». «Lo xin occupa nella conformazione fisica la posizione di signore supremo», dice il Primo trattato dell’arte del cuore, inserito nel Guanzi (un’opera enciclopedica la cui compilazione è del tempo degli Han occidentali, anche se le fonti che lo compongono sono anteriori a quel tempo). Dovrebbe quindi imporsi la traduzione di xin con «spirito» (mind).
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Questo potrebbe essere riconosciuto per i testi buddisti (posteriori al periodo di cui parliamo qui), che assegnano ai caratteri cinesi un senso tecnico adattato alle nozioni indiane che essi traducono. Eppure – bisogna insistervi –, nella Cina antica xin designa in primo luogo l’organo fisico del cuore. Il suo pittogramma rappresenta l’organo cardiaco in modo sommario, con il pericardio e l’aorta in evidenza. Si tratta di uno dei cinque organi principali, insieme al fegato, alla milza, ai polmoni e ai reni. Certamente esso è anche il luogo dell’attività mentale. Ma la traduzione con «spirito» ha l’inconveniente di occultare la sua base fisiologica. Si nasconde così anche il ruolo sia psicologico sia «mentale» dell’organo-cuore nella totalità del corpo: un ruolo sul quale insiste tutta la medicina cinese. La traduzione con «cuore-spirito» (heart-mind), molto frequente nelle versioni anglosassoni, è appropriata. Si possono ugualmente privilegiare le traduzioni che danno valore alle connotazioni di «coscienza». In realtà, una volta apportate le necessarie chiarificazioni, conservare il termine semplice «cuore» non presenta veri inconvenienti. Tanto più che un buon numero di testi occidentali, come mostra bene la Dilexit nos, fanno anch’essi del cuore il luogo sia del pensiero sia delle emozioni, il luogo ove l’uno e le altre vengono considerati nella loro radice, prima di ogni loro separazione.
Nel testo che segue, la traduzione con «cuore-spirito» farebbe perdere il carattere sorprendentemente diretto ricoperto dal termine xin: «Mencio ha detto: “L’empatia è il cuore [xin]dell’uomo; la rettitudine è la sua via. Abbandonare tale via senza più perseverarvi, aver perduto il proprio cuore e non sapere ove cercarlo, quale calamità! Se qualcuno ha perduto il suo cane o le sue galline, almeno sa dove cercarli. Se qualcuno ha perduto il suo cuore, non sa nemmeno dove cercare. Non rimane altro che il modo di apprenderlo: cercare il cuore che si è perduto, ecco tutto» (Mencio, 6 A 11).
Il cuore, per Mencio, è la bussola, l’organo decisivo del discernimento. È inscritto in un sé incarnato, «lo shen, cioè il corpo, l’ego»? Alcuni autori cinesi distinguono anche un’altra entità, lo spirito/gli spiriti (shen, un carattere omonimo al precedente, ma da cui differisce per la grafia)[2]. È possibile ritrovare nel termine cinese «spirito/spiriti» un’idea molto simile a quella di cui Ignazio di Loyola fa uso negli Esercizi spirituali: la maggior parte delle civiltà (forse tutte) mirano a una realtà difficile da cogliere, sia esterna sia interna all’uomo: una realtà plurale e insieme unica – un buono e un cattivo spirito, e anche dei buoni e dei cattivi spiriti –, qualcosa che ci attraversa e che noi non padroneggiamo[3]. La grafia del carattere «spirito» (shen) in cinese evoca il moto di estensione continua, che va sia verso il basso sia verso l’alto. Nell’uomo, gli spiriti devono essere a poco a poco purificati, affinati; dobbiamo farli progredire verso la loro essenzialità, come ci dice il Huainanzi nel suo settimo capitolo[4].
Il cuore, il respiro, il Cielo
A differenza del termine «spiriti», piuttosto ambiguo e non utilizzato da tutti gli autori, in tutti i testi cinesi antichi il cuore (xin) è ciò che è proprio della persona umana. Del resto, chi avvia la ricerca verso il fondo del cuore si rende conto di appartenere a una specie, di vivere in solidarietà con esseri che condividono le stesse forze e gli stessi limiti, perché l’essere umano gode di una «natura» (xing) che è comune a tutti. Ora, riconoscere tale solidarietà di natura ci permetterà di conoscere e servire il Cielo. Mencio lo ha affermato con grande forza in un testo canonico: «Chi va fino al fondo del proprio cuore, ne conosce la natura. Chi ne conosce la natura, conosce il Cielo. Custodendo il proprio cuore e nutrendone la natura si serve il Cielo» (Mencio, 7 A 1).
Si va dunque dall’individuo alla specie, dalla specie al principio da cui tutte le specie derivano. Il cuore è al principio sia della conoscenza sia dell’azione. Chi custodisce il suo cuore, chi non dissipa il suo cuore con accecamenti e impulsività, con questo agire obbedisce come naturalmente al volere del Cielo. Un cuore unificato, rivolto al Cielo, raccoglie tutto, unifica tutte le cose: «Ciò che va fino in fondo diffondendosi senza limiti, percorre le otto direzioni, raccoglie tutto in un solo vettore, questo è il cuore» (Huainanzi, 18,1).
Ma andare «fino al fondo del proprio cuore», come Mencio ci invita a fare, è anche svuotarlo… D’altra parte, in cinese, «andare fino al fondo» (jin) è un’idea espressa da un carattere che mostra il sangue dell’animale sacrificato versato fino all’ultima goccia nel recipiente predisposto per questo. Nel terzo capitolo del Daodejing – come fa notare anche Laozi – c’è una frase interessante: «I Saggi, per governarsi, svuotavano i loro cuori per colmare il ventre». Nella sua ambiguità, il testo offre in primo luogo una lettura politica, di cui svilupperemo in seguito le implicazioni: si tratta indubbiamente di riempire il ventre del popolo, ma «ammorbidendo la propria volontà e temprando le proprie ossa», continua questo capitolo. Allo stesso tempo l’espressione va applicata agli stessi Saggi – del resto, la sintassi sembra indicare il loro cuore e le loro viscere –, nel qual caso il testo designa l’atto mediante il quale il respiro riempie l’addome e, con esercizi di respirazione ripetuti, sgombra il cuore da ogni desiderio.
Podcast | SUD SUDAN. «UN CONFLITTO CHE NON È MAI FINITO»
Quattro milioni di sfollati, oltre 350mila morti, fame e povertà. Il Sud Sudan è il paese più giovane del mondo, con una storia già segnata dalle violenze. Oggi lo spettro della guerra torna a far paura, come racconta mons. Christian Carlassare, vescovo della diocesi di Bentiu. Ascolta il podcast
Zhuangzi insiste più in particolare su ciò che egli chiama «il digiuno del cuore»: «Come animato da un solo volere, non è che ascolta tramite l’orecchio, ma ascolta tramite il cuore. Non ascolta tramite il cuore, ma tramite il respiro. L’ascolto si ferma all’orecchio, il cuore fa attenzione ai segni. Ecco cosa è il respiro: il vuoto grazie al quale si producono le manifestazioni vitali. La Via ordina ogni realtà servendosi di questo vuoto. Il vuoto è il digiuno del cuore» (Zhuangzi, 4.2).
Ascoltare con il proprio respiro è svuotarsi, e poi concentrarsi, per svuotarsi nuovamente: tutti i fenomeni che concernono il corpo devono essere pienamente accolti e integrati, per essere poi, dopo questa trasformazione, totalmente ridonati. Ciò che è penetrato in me non ritorna al mondo «così com’è», ma viene trasformato come io stesso lo sono stato nel riceverlo, come sono trasformato in continuazione. Il «digiuno del cuore» consiste nel non rimanere ristretto su griglie interpretative, ossia sui segni e sulle emozioni con i quali mi approprio di ciò che intendo e vedo. Il cuore può essere ingombro per l’abbondanza di ciò che riceve, oppure può accettare di svuotarsi completamente per ricevere di nuovo tutto. Solo un cuore vuoto e limpido è capace di conoscere veramente sia il mondo sia sé stesso: «L’uomo perfetto utilizza il suo cuore come uno specchio» (Zhuangzi, 7.6).
Il cuore politico
«Bisogna che tutte le azioni siano poste sotto il “controllo politico” del cuore», afferma DN 13. Per un lettore dei testi dell’antica Cina questa frase evoca proprio l’inizio del Primo trattato dell’arte del cuore, incluso nel Guanzi già menzionato: «Nel corpo, il cuore occupa il posto del principe. Le funzioni delle nove porte del corpo somigliano alle diverse responsabilità dei funzionari. Se il cuore è a riposo e rimane nella Via, le nove porte funzioneranno correttamente. Se la cupidigia e il desiderio lo occupano completamente, gli occhi non vedranno i colori, e gli orecchi non intenderanno i suoni».
Il cuore a riposo permette il corretto funzionamento del corpo. Se è agitato, non esercita la sua funzione, e ne seguiranno disturbi sia fisici sia psichici. In Cina, il cuore non è fatto innanzitutto per commuoversi, ma per rimanere stabile: si parla dell’«immutabilità di un cuore stabile». Questa costanza è proprio la bontà. Un adagio afferma che «l’amore del padre è come la montagna», e niente è più costante, fermo e stabile della montagna. La medicina cinese ne è convinta: chi gode di un cuore stabile ha meno probabilità di essere attaccato dalla malattia, che viene sempre causata dall’eccesso di un’emozione, anche se si tratta di un’emozione positiva.
L’affermazione del Guanzi è reversibile: se il cuore è come il sovrano del corpo, allora il sovrano è come il cuore del regno. «Il sovrano è il cuore dello Stato. […] L’Imperatore Giallo[5] ha detto: “Con ampiezza, senza limiti, io accompagno la Via del Cielo e distendo il mio respiro, unito all’Origine”. Così, quando [il Sovrano] è al vertice della Virtù, le sue parole sono simili ai suoi progetti, le sue azioni alle sue intenzioni. Superiore, inferiore, tutti un solo cuore!» (Huainanzi, 10.2-3).
La riflessione sul cuore diventerà ancora più politica con Xunzi (III secolo a.C.), un autore che si mostra pessimista riguardo alla natura umana e alla stabilità delle istituzioni sociali. Secondo lui, il cuore è arbitro tra le diverse passioni (qing), che manifestano le tendenze in lotta all’interno della natura umana (xing). «Che al risveglio di un’emozione il cuore compia una scelta, questo si chiama deliberazione» (Xunzi, 22,2).
Xunzi dunque considera il cuore in primo luogo come la capacità di rendersi arbitro tra le buone e le cattive inclinazioni, e gli organi dei sensi mettono continuamente in azione le inclinazioni cattive. Il cuore è dunque il padrone della persona, quello che dà gli ordini, il punto di passaggio obbligato tra l’interno e l’esterno del nostro essere. E la pratica dello studio sotto un maestro mira innanzitutto a controllare il modo in cui il cuore conosce il mondo esterno, a imparare a reagire in modo appropriato agli impulsi che provengono da questo mondo. Lo studio, l’equilibrio del cuore, o anche il necessario controllo sociale, tutte queste dimensioni sono contrassegnate da artificiosità, ma l’artificio costituisce l’unico modo di organizzare un mondo vivibile, dal momento che la nostra natura è soggetta alle passioni.
L’artificiosità di Xunzi è un’eccezione. Nella Cina antica, il cuore è il luogo della libertà; ma per entrare nella libertà, deve disfarsi di tutto ciò che gli fa ostacolo. Nessuno lo ha espresso meglio di Confucio: «Il maestro ha detto: “A quindici anni mi sono applicato allo studio, a trenta anni ero indipendente, a quaranta avevo superato le esitazioni, a cinquanta sapevo ciò che il Cielo voleva da me, a sessanta le mie orecchie discernevano con naturalezza ogni cosa, e ora, a settanta, seguire il desiderio del mio cuore non mi fa mai eccedere nella misura”» (Analecta, 2.4).
Per il vecchio Confucio si tratta proprio di «seguire il desiderio del suo cuore». Ma questo desiderio ora lo spinge verso la vita, verso la realizzazione del proprio essere e di tutti gli esseri, e soltanto verso questo. Nessuna tensione mortale viene più a turbare il suo slancio vitale. Questa è la gioia di colui che, a poco a poco, ha imparato a immergersi nelle profondità più segrete del suo cuore.
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[1] La dinastia degli Han occidentali va dal 212 fino al 9 a.C. Dopo un intervallo, gli Han orientali governano la Cina dal 25 al 220 d.C.
[2] Cfr L. Raphais, A Tripartite Self, Mind, Body, and Spirit in Early China, Oxford, Oxford University Press, 2023. Naturalmente l’antropologia cinese è molto più ricca di quanto le distinzioni qui segnalate lascino pensare. Per esempio, bisognerebbe introdurre anche la distinzione tra anime spirituali (hun) e anime sensitive (po).
[3] Una buona presentazione dell’evoluzione di questo concetto nel corso della storia è in D. Salin, Le Discernement des esprits selon Ignace de Loyola. Les aléas d’une transmission (XVIe-XXIe siècle),Paris – Bruxelles, Lessius, 2021, 33-53.
[4] Lo Huainanzi è un’opera enciclopedica presentata alla Corte imperiale nel 139 a.C., e che quindi era stata composta un po’ prima.
[5] È il primo sovrano mitico.
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Il cinquantenario della morte di Hannah Arendt
Cade quest’anno il 50° anniversario della morte di Hannah Arendt (1906-1975), esponente di rilievo della filosofia (anche se lei non si riconobbe mai in tale veste) di area tedesca e inglese, ma anche nota per il suo impegno civile e politico e la sua profonda analisi delle terribili vicende del XX secolo, che visse in prima persona e che confluirono in scritti memorabili. Su molti di questi aspetti la sua produzione può essere senz’altro considerata pionieristica.
La vita
Hannah Arendt nasce ad Hannover il 14 ottobre 1906. La sua famiglia, di estrazione borghese, aveva preso da tempo le distanze dalle tradizioni ebraiche. Hannah perde a sette anni il padre e viene educata dalla madre, che è di tendenze socialdemocratiche, ispirandosi a Rosa Luxemburg. Durante gli anni dell’università ha modo di ascoltare le lezioni di alcuni tra i più importanti esponenti del pensiero filosofico e teologico del tempo (Romano Guardini, Rudolf Bultmann, Edmund Husserl, Karl Jaspers e Martin Heidegger, con il quale ha avuto anche una relazione sentimentale). Si laurea con una tesi sull’amore in sant’Agostino, sotto la guida di Karl Jaspers. In seguito all’avvento al potere di Hitler, è costretta a fuggire a Parigi, e poi negli Stati Uniti, insegnando filosofia politica a Princeton, Berkeley e Chicago, ma anche impegnandosi attivamente sul tema dell’ebraismo, sebbene le sue posizioni – molto critiche sulla politica nazionalista e ostile alla presenza degli arabi residenti in Palestina – non trovino consenso, condannandola all’isolamento. Una situazione che si accentuerà ulteriormente con la pubblicazione del libro sul processo ad Adolf Eichmann. Hannah muore improvvisamente a New York, per un attacco di cuore, il 4 dicembre 1975, mentre sta lavorando alle Gifford Lectures (una serie di lezioni da tenersi in una delle antiche università scozzesi, a cui ogni anno è invitato un esponente considerato di grande rilievo nel mondo culturale), poi raccolte nel libro La vita della mente.
Il suo percorso intellettuale, estremamente ricco e articolato, può essere compreso ripercorrendone le opere principali.
Il totalitarismo
Le origini del totalitarismo,pubblicato nel 1951,è l’opera che ha reso celebre Arendt e rimane una delle più importanti del XX secolo sotto il profilo storico-politico. L’ipotesi di fondo è che il totalitarismo è un fenomeno radicalmente differente dalle forme politiche della storia passata e presente, come l’assolutismo e la dittatura. Ciò che ha caratterizzato la peculiarità del nazismo e dello stalinismo (il fascismo non viene preso in considerazione) è la stretta conseguenza della visione «atomistica» degli esseri umani, privati di uno spazio pubblico di discussione sul bene comune e considerati un mero ingranaggio del sistema, senza alcun valore in sé, in quanto facilmente intercambiabili[1].
L’opera è divisa in tre parti. Viene anzitutto esaminato il fenomeno dell’antisemitismo, considerato una premessa indispensabile del totalitarismo (una sezione particolare è dedicata all’affare Dreyfus). Segue la trattazione dell’imperialismo e dell’affermazione della borghesia che hanno monopolizzato la storia europea dalla seconda metà del secolo XIX alla Prima guerra mondiale. La crisi dell’imperialismo, unita all’antisemitismo – che considera «la congiura ebraica internazionale» il motivo della disfatta – portano al totalitarismo, un esercizio del potere che giustifica con l’ideologia la necessità del terrore, attuato nelle forme più diverse (direttive del capo supremo, partito unico, propaganda, polizia segreta, negazione della vita privata, campi di concentramento e di sterminio). Il risultato finale è «l’inferno», l’annientamento psicologico e fisico di chiunque possa pensare diversamente, compiuto nell’indifferenza generale[2].
La parte finale del libro sottolinea l’influsso dell’ideologia, perché lo Stato totalitario ha uno stretto legame con questa inedita visione della storia, della vita e dell’uomo, dove nulla ha più valore, eccetto gli assunti di una dottrina capace di giustificare ogni possibile azione: «La società dei morenti, in cui la punizione viene inflitta senza alcuna relazione con un reato, lo sfruttamento praticato senza un profitto, e il lavoro compiuto senza un prodotto, è un luogo dove quotidianamente si crea l’insensatezza. Eppure, nel contesto dell’ideologia totalitaria, nulla potrebbe essere più sensato e logico: se gli internati sono dei parassiti, è logico che vengano uccisi col gas; se sono dei degenerati, non si deve permettere che contaminino la popolazione; se hanno un’“anima da schiavi” (Himmler), non è il caso di sprecare il proprio tempo per cercare di rieducarli»[3].
Le origini del totalitarismo è l’opera che ha reso celebre Arendt e rimane una delle più importanti
del XX secolo.
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Se il nazismo e lo stalinismo sembrano appartenere al passato, le cose stanno diversamente per quanto riguarda l’ideologia: essa infatti non è stata confutata sul piano culturale. Per questo il totalitarismo rimane un pericolo costante, che «ci resterà alle costole per l’avvenire» e si riaffaccia puntualmente a ogni crisi delle democrazie, presentandosi come la soluzione forte, capace di dare stabilità e sicurezza, sopprimendo la protesta e il confronto, e soprattutto la libertà, che rimane la condizione della vita umana e la garanzia di ogni nuovo inizio. Libertà che Arendt, a chiusura del libro, sintetizza con una frase di sant’Agostino: Initium ut esset, creatus est homo («Affinché ci fosse un inizio, è stato creato l’uomo»).
«Vita activa»
Se il totalitarismo ha le sue radici nella cancellazione della dimensione pubblica e politica, è in questa sede che si deve operare perché quello spettro non torni ad affacciarsi. E alla politica come attività suprema dell’uomo è dedicata l’opera Vita activa, pubblicata nel 1958. L’ipotesi di fondo del libro è che la scomparsa della polis greca ha visto la parallela scomparsa dell’agire politico, del discorso e del dibattito pubblico, rimpiazzato da attività tese alla mera sopravvivenza, come il fare e il lavorare. Il sottotitolo – La condizione umana, che è il titolo dell’edizione inglese – è emblematico e segna la presa di distanza rispetto alla tradizione classica: «La Arendt parla di “condizione” e non di “natura” umana. La differenza non è di poco conto: la sola affermazione che possiamo fare circa la cosiddetta “natura” degli uomini, osserva la Arendt, è che essi sono esseri condizionati»[4]. Si tratta tuttavia di un condizionamento che non pregiudica la libertà; esso non è mai, in ultima analisi, determinante. Lo si può notare anche dalla presentazione delle tre modalità fondamentali della condizione umana: il lavoro, il fare, l’agire.
A differenza del lavoro, volto a garantire la sopravvivenza di chi non ha mezzi di sostentamento (per questo nell’antichità era l’attività propria degli schiavi), il fare qualifica l’uomo come faber, la caratteristica preponderante dell’età moderna, che segna la differenza rispetto alle epoche precedenti: «L’opera delle nostre mani distinta dal lavoro del nostro corpo – l’homo faber, che fa e letteralmente “opera”, distinto dall’animal laborans che lavora e “si mescola con” – fabbrica l’infinita varietà delle cose la cui somma totale costituisce il mondo artificiale dell’uomo»[5].
La terza modalità – l’agire – è propria della sfera politica. È il gradino supremo, perché prescinde dalle cose e implica la relazione, il linguaggio, la pluralità, «la condizione – non solo la conditio sine qua non, ma la conditio per quam – di ogni vita politica»[6]. La politica conferisce all’uomo una seconda vita – la vita pubblica –, che si aggiunge alla dimensione privata e rende il discorso una sorta di azione. Questo è ciò che differenzia l’agire politico dall’azione violenta, che degrada la condizione umana allo stato servile, privandola della capacità di persuasione e di progresso. La vita privata rimane la condizione previa per la politica, perché provvede alle necessità basilari dell’esistenza, è l’ambito del prepolitico. Ma è solo nell’attività politica che l’uomo si riconosce libero, pienamente vivo, affrancato dalle attività volte a soddisfare le necessità naturali.
La polis greca ha conosciuto tuttavia al suo interno una progressiva decadenza, anzitutto a livello speculativo, con Platone e Aristotele, che hanno contrapposto vita attiva a vita contemplativa, privilegiando quest’ultima. Un altro motivo di crisi dell’agire politico, fino alla sua scomparsa, proviene dalla moderna rivoluzione scientifica, che vede il predominio dell’homo faber e il conseguente materialismo proprio dell’animal laborans.
Anche Vita activa si conclude con una citazione latina, questa volta di Catone: Numquam se plus agere quam nihil cum ageret, numquam minus solus esse quam solus esset («Mai un uomo è più attivo di quando non fa nulla, mai è meno solo di quando è solo con sé stesso»). Nel riportarla, la filosofa auspica la rivalutazione della facoltà di pensare, presente in ogni uomo, che non può mai spegnersi del tutto.
L’analisi di Vita activa, da una parte, coglie le radici della crisi del pensare politico ma, dall’altra, risulta per più versi parziale sul piano storico. Secondo Aristotele, proprio la politica costituisce il vertice delle facoltà umane (al punto da definire l’uomo «per natura un animale politico», Politica 1253a): è una delle espressioni più appropriate della vita contemplativa e non si pone affatto in contrapposizione a essa[7].
La banalità del male
Arendt è nota soprattutto al grande pubblico per il resoconto puntuale del processo ad Eichmann (considerato il principale ideatore ed esecutore della «soluzione finale», che portò allo sterminio di sei milioni di ebrei), svoltosi a Gerusalemme dall’11 aprile al 15 dicembre 1961. Come inviata del settimanale New Yorker, scrisse una serie di articoli che confluirono nel libro, pubblicato nel 1963, Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil. Nella traduzione italiana, del 1964, il titolo venne invertito – La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme –, rendendo maggiormente ragione della tesi del libro.
Per la filosofa ebrea, Eichmann non è affatto un mostro, uno squilibrato mentale e nemmeno un genio del male: è un uomo comune, ottuso, un esempio perfetto di cosa accade quando all’atrofia del pensiero si unisce l’ideologia massificante (i due temi non a caso indagati nelle sue opere precedenti), portando a quella struttura di male propria del totalitarismo, costituito da persone normali che compiono in tutta ordinarietà cose orribili: «Il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. Dal punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e dei nostri canoni etici, questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, perché implica, come già fu detto a Norimberga, che questo nuovo tipo di criminale, realmente hostis generis humani, commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male»[8].
Questo ottundimento della coscienza, insieme allo stravolgimento lessicale con cui l’ideologia nasconde il vero significato delle azioni (lo sterminio diventa «soluzione finale», le iniezioni mortali «vaccinazioni», le camere a gas «disinfestazione», i forni crematori «salita verso il cielo»), era stato riconosciuto con chiarezza da Arendt nella sua analisi del totalitarismo: «All’interno della struttura organizzativa, finché resta compatta, i membri fanatizzati non possono esser raggiunti né dall’esperienza né dal ragionamento; l’identificazione col movimento e il conformismo assoluto sembrano aver distrutto la stessa capacità di esperienza, anche se estrema come la tortura o la paura della morte»[9].
Nello Stato totalitario le persone, se vogliono vivere, devono sopprimere la propria coscienza: l’unico valore riconosciuto è l’obbedienza agli ordini del capo, che stabilisce ciò che si deve fare, semplicemente perché «si deve». È un’applicazione sinistra dell’imperativo categorico kantiano, al quale Eichmann si era esplicitamente ispirato: «Agisci in maniera che il Führer, se fosse a conoscenza delle tue azioni, approverebbe»[10]. In tale contesto, chiunque può compiere azioni orribili senza avvertirne la gravità, ed essere in seguito capace di integrarsi perfettamente nella società, come appunto è accaduto alla maggior parte dei gerarchi nazisti nel dopoguerra. Philip Zimbardo, autore di un accurato studio in proposito, riassume in questi termini la questione: «Se metti delle persone buone in un luogo cattivo, hanno la meglio, oppure il luogo le corrompe? La violenza che è endemica nella maggior parte delle carceri reali sarebbe stata assente in un carcere pieno di bravi ragazzi borghesi?»[11].
Podcast | SUD SUDAN. «UN CONFLITTO CHE NON È MAI FINITO»
Quattro milioni di sfollati, oltre 350mila morti, fame e povertà. Il Sud Sudan è il paese più giovane del mondo, con una storia già segnata dalle violenze. Oggi lo spettro della guerra torna a far paura, come racconta mons. Christian Carlassare, vescovo della diocesi di Bentiu. Ascolta il podcast
Questo approccio strutturale alle derive distruttive (che smentisce la classica spiegazione della «mela marcia») era stato colto con lucidità da Arendt, che rilevò, oltre alla «banalità di Eichmann», la passività e la complicità non solo di un’intera nazione, ma anche della stessa comunità ebraica. Per questi motivi il libro suscitò reazioni indignate nel mondo ebraico e negli intellettuali europei e statunitensi, e la stessa Arendt fu oggetto di gravi minacce sul piano personale.
Ma l’inviata del New Yorker non fu l’unica a cogliere questi aspetti inquietanti della vicenda. Simon Wiesenthal, che gestì l’operazione che portò alla cattura di Eichmann, non nascose la sua sorpresa e delusione nel momento in cui se lo trovò finalmente di fronte. Davanti a lui stava un ometto piccolo, calvo, timido, pieno di tic, senza tracce apparenti di cattiveria, o anche semplicemente di aggressività: «Non c’era nulla di diabolico in lui; sembrava piuttosto un contabile che abbia paura di chiedere un aumento di stipendio». Wiesenthal rimase invece colpito dal suo modo di parlare, freddo, metallico, che non lasciava trasparire emozioni o sentimenti di alcun tipo[12].
È possibile contrastare il totalitarismo?
L’impatto con le vicende dell’olocausto e del caso Eichmann confermarono in Arendt la necessità di promuovere il confronto pubblico e le istituzioni democratiche, considerati garanzie irrinunciabili della dignità umana. Essi furono l’argomento del suo ultimo libro La vita della mente. Il progetto dell’opera prevedeva tre parti: pensare, volere, giudicare (quest’ultima rimasta incompiuta).
La mente non è percepibile dai sensi: è il luogo dell’invisibile, del pensiero, ma può essere colta nelle sue manifestazioni esteriori, come il linguaggio, la parola e la metafora. Quest’ultima, in particolare, in forza della compresenza di parola e immagine, permette al pensiero di rendersi visibile ed entrare in relazione con il mondo della sensibilità, «proprio perché consente di “portare oltre” – metaphorein – le nostre esperienze sensibili»[13]. L’impegno politico è il frutto più rilevante dell’attività della mente, che è in grado di proteggere la società dalle derive distruttive; il pensiero sorge infatti dagli «incidenti delle esperienze di vita»[14].
Il tema dell’attività politica, pur invocato più volte nel corso dei suoi scritti (come nell’ultima parte di Vita activa), resta tuttavia il grande incompiuto nell’opera di Arendt: esso doveva rientrare nellafacoltà del giudizio, dove la voce della coscienza diventa realizzazione progettuale. Ma si tratta proprio della parte della Vita della mente che rimase interrotta.
Il silenzio su tale questione decisiva fa porre comunque delle domande sul significato complessivo della sua proposta, pur certamente ammirevole. Arendt rileva la necessità di «oasi etiche», che nel deserto delle odierne società aiutino a vivere, valorizzando la riflessione del passato, ma ne parla solo di passaggio, in alcune righe di un’opera anch’essa incompiuta. L’immagine stessa dell’oasi non viene precisata; sembra più una metafora poetica descritta in termini evanescenti: «fuggire dal deserto, dalla politica, verso… non importa dove». Oltretutto, l’immagine del deserto che avanza, in linea con il tono fortemente pessimista che caratterizza Vita activa, trasmette un messaggio nichilista: era l’immagine con la quale lo Zarathustra di Nietzsche mostrava le conseguenze della morte di Dio[15].
Considerando la profondità delle analisi compiute da Arendt in sede storica, sociologica e culturale, non si può nascondere una certa delusione di fronte a questa sorta di resa speculativa ogniqualvolta lei entra in merito alla tematica che più di tutte dovrebbe giustificare la fatica del pensare; manca completamente l’elaborazione di una proposta politica capace di dare risposta alle questioni emerse e proteggere l’uomo dalle derive distruttive che lei ha così a lungo esplorato nelle sue opere principali. Come è stato notato, «Hannah Arendt non offre modelli per l’azione, né codici a cui attenersi […]. Essa ci indica piuttosto un’apertura alla libertà sottile come una lama di coltello, una breccia nel tempo. È in questa apertura che il giudizio opera, pluralmente, illuminando ciò che altrimenti sarebbe dimenticato»[16]. Il tema della «resistenza», della ribellione rimane di fatto l’unica proposta attuabile per fronteggiare le deviazioni devastatrici che si agitano dentro e fuori di noi.
Tutto questo evidenzia la necessità di un approccio più propriamente filosofico, soprattutto in sede etica e metafisica, capace non solo di giustificare la plausibilità della protesta, ma soprattutto di rendere ragione della dignità dell’essere umano. Un approccio di cui però non si trova traccia negli scritti della filosofa e che rende problematica la trattazione di tematiche fondamentali, come, ad esempio, idirittiumani. Arendt afferma il «diritto ad avere diritti»: questi «dovrebbero rimanere validi e reali anche se un solo uomo esistesse sulla terra; sono indipendenti dalla pluralità umana e dovrebbero quindi conservare il loro valore anche se un individuo fosse espulso dalla società»[17].
Ma su quale base tale dichiarazione può risultare plausibile, dal momento che poche righe prima era stato escluso il suo legame con Dio e la natura umana? La posizione di Arendt è molto chiara nei confronti di chi viola tali diritti, come nella Germania nazista: «Colpa e innocenza dinanzi alla legge sono due entità oggettive, e quand’anche ottanta milioni di tedeschi avessero fatto come te, non per questo tu potresti essere scusato»[18]. Ma a quale «legge» si fa riferimento? E con quale criterio giudicare «iniqua» una legge e prediligerne un’altra?
In queste affermazioni si cela un problema enorme e irrisolto della modernità: il rapporto tra legge positiva e giustizia. Senza il riferimento alla legge naturale, notava san Tommaso, la legge di uno Stato diventa «corruzione della legge», anche se ratificata da un’autorità (cfr Summa Theologiae,I-II, q. 95, a. 2). Ed è proprio ciò che accadde con le leggi razziali.
Joseph Pieper, scrivendo il suo commento al trattato tomista, aveva ben presenti le derive della dittatura nazista, che aveva posto il fondamento della legge nella mera decisione della volontà: una volontà che, a differenza di san Tommaso, non è informata dalla ragione, ma si pone come irrazionale volontà di potenza, fine a sé stessa.
La predilezione di Arendt per il filosofo di Könisberg sulla questione decisiva del giudizio rischia di prestare il fianco a queste aporie, ed è significativo il recente dibattito sugli aspetti razzisti presenti nel pensiero di Kant[19]. L’appello di Eichmann a Kant, sottolineato esplicitamente da Arendt, per quanto discutibile, è inquietante: esso mostra come un approccio meramente formale, come appunto quello di Kant, quando diventa criterio di azione, possa portare ad atrocità enormi nel pieno rispetto delle regole[20]. È il motivo per cui Michel Onfray, nel libro, certamente provocatorio, Le songe d’Eichmann, associa kantismo a nazismo. Il filosofo francese nota come Eichmann abbia rispettato i canoni formali della moralità kantiana: in particolare, l’esclusione dei sentimenti in sede di decisione. Kant affermava certamente che l’uomo dev’essere considerato un fine e mai un mezzo; questo però riguarda appunto gli esseri umani; invece, per il nazismo gli ebrei non sono considerati tali; quindi per loro non vale il secondo postulato dell’imperativo categorico.
Senza un approccio spirituale, diventa difficile giustificare la dignità e l’uguaglianza degli esseri umani: questo è l’insegnamento, rimasto purtroppo inascoltato, alla luce delle terribili ideologie razziste del XX secolo. In tale prospettiva, anche la protesta rischia di rimanere un puro flatus voci, o di dare adito a derive violente e irrazionali, come il populismo, avvicinandosi pericolosamente alla maniera di argomentare totalitaria.
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[1] Cfr H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Milano, Edizioni di Comunità, 1967, 630.
[2] Cfr ivi, 609.
[3] Ivi, 626.
[4] G. Fornero – S. Tassinari, Le filosofie del Novecento, Milano, Mondadori, 2002, 1009.
[5] H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Milano, Bompiani, 2001, 97.
[6] Ivi, 7.
[7] Cfr G. Cucci, L’arte di vivere. Educare alla felicità, Milano, Àncora, 2019, 24-33.
[8] H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Milano, Feltrinelli, 2023, 282.
[9] Id., Le origini del totalitarismo, cit., 427.
[10] Id., La banalità del male…, cit., 159; cfr 143.
[11] Ph. Zimbardo, L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, Milano, Raffaello Cortina, 2008, 27. Cfr G. Cucci – A. Monda, L’arazzo rovesciato. L’enigma del male, Assisi (Pg), Cittadella, 2010.
[12] Cfr S. Wiesenthal, Gli assassini sono tra noi, Milano, Garzanti, 1967, 98. Significativa è anche l’intervista al comandante del lager di Treblinka, Franz Strangl, il quale confessa di aver potuto compiere quell’incarico «dividendo la coscienza in compartimenti stagni» (G. Sereny, In quelle tenebre, Milano, Adelphi, 1975, 214).
[13] H. Arendt, La vita della mente, Bologna, il Mulino, 1989, 197.
[14] Id., Tra passato e futuro, Milano, Garzanti, 1991, 36.
[15] Cfr Id., Che cos’è la politica?, Torino, Einaudi, 2006, 144-146; F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, Milano, Adelphi, 1984, 371.
[16] A. Del Lago, «Introduzione», in H. Arendt, La vita della mente,cit., 58 s. Cfr anche Miguel Abensour: «La pensatrice [Arendt] cercava davvero di elaborare, di edificare una nuova filosofia politica sotto il segno della verità e dell’autenticità? Si può dubitarne. Si può trovare la vera essenza di qualcosa di “fondamentalmente falso”? E, d’altra parte, come spiegare che – lei che non conosceva problemi di scrittura – non abbia mai potuto terminare l’opera che intendeva dedicare alla politica e i cui differenti manoscritti sono stati pubblicati, dopo la sua morte, con il titolo Che cos’è la politica?» (M. Abensour, Hannah Arendt contro la filosofia politica?,Milano, Jaca Book, 2010, 160 s.).
[17] H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., 412.
[18] Id., La banalità del male, cit., 84.
[19] Cfr Id., Teoria del giudizio politico. Lezioni sulla filosofia politica di Kant, Genova, Il Nuovo Melangolo, 2005; G. Basile, «Kant e il razzismo», in Civ. Catt. 2025 I 310-322.
[20] Nota in proposito Simona Forti: «Kant è colui che per primo rovescia l’immagine classica della legge, per cui non è più il bene a fondare la legge, ma la legge come tale a erigersi a bene. Se seguiamo il ragionamento fino al paradosso, possiamo allora affermare che Eichmann ha una qualche buona ragione per definirsi kantiano. Eichmann è colui che compie il male, ma come effetto collaterale di un agire che ha di mira la conformità al bene, vale a dire la conformità alla legge in quanto legge. È su tali premesse che è stato possibile stabilire la corriva equazione tra kantismo e nazismo […]: un codice di norme, di usi e di costumi che possono essere sostituiti con la stessa facilità con cui si cambiano le usanze conviviali» (istitutodegasperi-emilia-romag… [ultimo accesso 20 maggio 2019]).
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noyb WIN: La DPA francese multa Google per 325 milioni di euro per le "email di spam" in Gmail La CNIL ha multato Google per 325 milioni di euro per aver creato email di spam in Gmail mickey04 September 2025
EDRi warns against GDPR ‘simplification’ at EU Commission dialogue
On 16 July 2025, EDRi participated in the European Commission’s GDPR Implementation Dialogue. We defended the GDPR as a cornerstone of the EU’s digital rulebook and opposed further attempts to weaken it under the banner of ‘simplification’. The discussion was more divided than the official summary suggests.
The post EDRi warns against GDPR ‘simplification’ at EU Commission dialogue appeared first on European Digital Rights (EDRi).
Hessisches Psychisch-Kranken-Hilfegesetz: „Aus einem Genesungsschritt wird ein Sicherheitsrisiko gemacht“
Reviewing the “Convention against Corruption” in Vienna
The following is a comment from PPI’s main representative at UNOV, Kay Schroeder, who recently tried to attend the United Nations “Convention against Corruption” (UNCAC) in Vienna.
“This week, the “Conference of the States Parties to the United Nations Convention against Corruption” has begun in Vienna. Unfortunately, I cannot attend, as civil society is barred from participating. Nevertheless, I would like to share my thoughts on the topic of anti-corruption, the obvious impossibility of addressing this issue by the very suspects themselves, and the accompanying shadowboxing.
UNCAC is the highest decision-making body of the United Nations in the fight against corruption. Its tasks include implementing adopted measures, coordinating new initiatives, and deciding on future anti-corruption efforts. A commendable agenda, yet one that falters due to the nature of the states themselves—being the very subjects of corruption through their own representatives in the UN bodies tasked with oversight and enforcement.
It is evident that an institution composed exclusively of state actors can hardly contribute meaningfully to combating corruption, as its representatives are part of the problem. The exclusion of civil society from participation reinforces this impression, especially since we as Pirates have always stood for transparency and decentralization—two essential pillars of anti-corruption that rarely find their way into these forums.
There is, however, some good news from the perspective of anti-corruption. Quite unironically, Austria has today abolished official secrecy. After 100 years, the Freedom of Information Act is making its debut. That’s longer than the UN has existed.”
We thank Mr. Schroeder and all of our PPI UN representatives for their hard work attempting to represent us at the UN and reporting back to us.
If you or any other Pirates you know would like to participate in UN events, please let us know by filling out the volunteer form: lime.ppi.rocks/index.php?r=sur…
If you would like to help PPI continue to send representatives to these meetings, please consider making a small donation to our organization or becoming a member. If you would like to be involved personally in the movement, by writing about these issues or attending events, please let us know.
pp-international.net/donations…
Ah però... avevano finito i francobolli per le lettere di licenziamento e hanno avuto questa idea brillante?
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Il prezzo della sorveglianza: perché la polizia irlandese ha pagato una società israeliana di spyware?
@Informatica (Italy e non Italy 😁)
Nelle pieghe opache della sicurezza nazionale, la linea tra difesa dello Stato e abuso di potere è sottile. L’ultima vicenda che riporta questo conflitto al centro del dibattito arriva dall’Irlanda, dove i
L’aggressività di Trump spinge l’India tra le braccia di Pechino?
@Notizie dall'Italia e dal mondo
Assediata dai dazi statunitensi, l'India rafforza le relazioni con Mosca e avvia il disgelo con la Cina, potenza da sempre considerata con sospetto da New Delhi
L'articolo pagineesteri.it/2025/09/04/asi…
Restoring a Vintage Intel Prompt 80 8080 Microcomputer Trainer
Over on his blog our hacker [Scott Baker] restores a Prompt 80, which was a development system for the 8-bit Intel 8080 CPU.
[Scott] acquired this broken trainer on eBay and then set about restoring it. The trainer provides I/O for programming, probing, and debugging an attached CPU. The first problem discovered when opening the case is that the CPU board is missing. The original board was an 80/10 but [Scott] ended up installing a newer 80/10A board he scored for fifty bucks. Later he upgraded to an 80/10B which increased the RAM and added a multimodule slot.
[Scott] has some luck fixing the failed power supply by recapping some of the smaller electrolytic capacitors which were showing high ESR. Once he had the board installed and the power supply functional he was able to input his first assembly program: a Cylon LED program! Making artistic use of the LEDs attached to the parallel port. You can see the results in the video embedded below.
[Scott] then went all in and pared down a version of Forth which was “rommable” and got it down to 5KB of fig-forth plus 3KB of monitor leads to 8KB total, which fit in four 2716 chips on the 80/10B board.
To take the multimodule socket on the 80/10B for a spin [Scott] attached his SP0256A-AL2 speech multimodule and wrote two assembly language programs to say “Scott Was Here” and “This is an Intel Prompt 80 Computer”. You can hear the results in the embedded video.
youtube.com/embed/C9CFD0suW_0?…
Thanks to [BrendaEM] for writing in to let us know about [Scott]’s YouTube channel.
Trump incontra tutti i leader tecnologici delle AI alla Casa Bianca. Grande Assente Elon Musk!
Oggi, Giovedì 4 Settembre 2025, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ospiterà oltre due dozzine di leader del mondo della tecnologia e dell’imprenditoria per una cena nel Roseto della Casa Bianca, recentemente ristrutturato. A riferirlo è stato un funzionario dell’amministrazione, che ha confermato la presenza di figure di spicco come Mark Zuckerberg di Meta, Tim Cook di Apple, Bill Gates di Microsoft e Sam Altman di OpenAI.
L’incontro rappresenta un momento significativo nel rapporto tra Trump e la Silicon Valley, caratterizzato in passato da scontri su temi come la moderazione dei contenuti e le normative antitrust. Dopo la vittoria elettorale di Trump nel 2024, il settore tecnologico ha intrapreso un percorso di avvicinamento, ridefinendo le proprie posizioni nei confronti della nuova amministrazione.
Secondo fonti interne, diversi dirigenti hanno cercato di allinearsi alle priorità della Casa Bianca, in particolare sostenendo la riduzione delle iniziative legate a diversità ed equità. Allo stesso tempo, le aziende tecnologiche stanno mostrando grande interesse nel rafforzare il dialogo con Trump sulle potenzialità dell’intelligenza artificiale e sulle tecnologie emergenti.
Il portavoce della Casa Bianca, Davis Ingle, ha dichiarato che il presidente è impaziente di accogliere i principali leader del business e della tecnologia per questa occasione e per altre cene future che si svolgeranno nel nuovo patio del Rose Garden. L’evento è stato riportato in anteprima dal notiziario The Hill.
La ristrutturazione del Roseto, completata ad agosto, ha trasformato l’iconico prato in un patio in pietra con tavoli e ombrelloni, richiamando lo stile del resort Mar-a-Lago di Trump in Florida. La cena segue di pochi giorni un incontro dedicato all’intelligenza artificiale organizzato alla Casa Bianca dalla first lady Melania Trump, al quale hanno preso parte diversi CEO e leader del settore.
Tra gli invitati figurano Sundar Pichai di Google, Safra Catz di Oracle, David Limp di Blue Origin, Sanjay Mehrotra di Micron Technology e Greg Brockman di OpenAI. Saranno presenti anche Satya Nadella di Microsoft, Vivek Ranadive dei Sacramento Kings, Shyam Sankar di Palantir e Alexandr Wang, Chief AI Officer di Meta.
Nonostante l’ampia partecipazione di volti di primo piano, Elon Musk non figura nella lista. L’imprenditore, fondatore di Tesla e SpaceX, era stato in passato consigliere di Trump, ma un contrasto pubblico all’inizio dell’anno ha segnato una rottura nel loro rapporto, confermata da un funzionario della Casa Bianca.
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Red Hot Cyber Conference 2026: Aperte le Sponsorizzazioni per la Quinta Edizione a Roma
La Red Hot Cyber Conference è ormai un appuntamento fisso per la community di Red Hot Cyber e per tutti coloro che operano o nutrono interesse verso il mondo delle tecnologie digitali e della sicurezza informatica. La quinta edizione si terrà a Roma, lunedì 18 e martedì 19 maggio 2026, presso lo storico Teatro Italia, e vedrà due giornate dense di contenuti, attività pratiche e networking. Lunedì 18 sarà dedicato ai workshop “hands-on” (che verranno realizzati con il nostro storico sponsor Accenture Italia che ci ha accompagnato nelle ultime 3 edizioni) e alla competizione Capture The Flag, mentre martedì 19 andrà in scena la conferenza principale, con interventi di esperti e la premiazione ufficiale della CTF.
Con l’avvicinarsi dell’evento, Red Hot Cyber apre ufficialmente il Program Sponsor per l’edizione 2026. Si tratta di un’iniziativa fondamentale che, come ogni anno, consente alle aziende di affiancare il proprio brand a un evento di riferimento in Italia sul tema della cybersecurity.
Le sponsorizzazioni non rappresentano solo un contributo alla realizzazione dell’evento, ma anche un’opportunità di grande visibilità e posizionamento strategico all’interno di un ecosistema che raccoglie professionisti, istituzioni e giovani talenti. Inoltre consentono di rendere questo evento accessibile a tutti in forma gratuita.
Le modalità di adesione sono diversificate per permettere alle aziende di scegliere il livello di coinvolgimento più adatto. Come di consueto, sono previsti tre pacchetti principali – Platinum, Gold e Silver – che garantiscono vantaggi crescenti in termini di presenza mediatica, spazi espositivi e opportunità di interazione diretta con i partecipanti. Oltre a questi, è possibile diventare “sponsor sostenitori”, le prime realtà che credono nel progetto e che contribuiscono ad avviare concretamente i lavori organizzativi della conferenza.
All’interno della Red Hot Cyber Conference 2026, le aziende che aderiranno come Sponsor Sostenitore o Sponsor Platinum avranno un vantaggio esclusivo: la possibilità di tenere uno speech durante la conferenza, un’occasione unica per presentarsi davanti a un pubblico qualificato, composto da esperti, professionisti, istituzioni e appassionati del mondo digitale e della sicurezza informatica. Questo anno sarà possibile, da parte degli sponsor, acquisire anche degli spazi espositivi che saranno posizionati nel foyer del teatro.
Inoltre, per tutti i livelli di sponsorizzazione – dai sostenitori fino al Silver – sarà incluso nel pacchetto un programma di branding dedicato, che prevede la presenza di un banner in rotazione sul sito ufficiale di Red Hot Cyber, la pubblicazione di articoli sul portale e il conseguente rilancio sui canali social ufficiali della community. Una formula pensata per massimizzare la visibilità degli sponsor, garantendo un ritorno di immagine concreto e continuativo, non limitato ai soli giorni dell’evento ma esteso anche nei mesi precedenti e successivi alla conferenza.
Le adesioni sono già aperte per aderire come sponsor alla Red Hot Cyber Conference 2026. Per ricevere il Media Kit e tutte le informazioni relative ai vantaggi delle diverse formule di sponsorizzazione, è possibile scrivere a sponsor@redhotcyber.com
Questa è l’occasione ideale per prendere parte a un evento unico in Italia, entrare in contatto con i principali protagonisti della cybersecurity e dimostrare concretamente il proprio impegno verso l’innovazione e la consapevolezza digitale.
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Hexstrike-AI scatena il caos! Zero-day sfruttati in tempo record
Il rilascio di Hexstrike-AI segna un punto di svolta nel panorama della sicurezza informatica. Il framework, presentato come uno strumento di nuova generazione per red team e ricercatori, è in grado di orchestrare oltre 150 agenti di intelligenza artificiale specializzati, capaci di condurre in autonomia scansioni, sfruttamento e persistenza sugli obiettivi. A poche ore dalla sua diffusione, però, è stato oggetto di discussioni nel dark web, dove diversi attori hanno tentato di impiegarlo per colpire vulnerabilità zero-day, con l’obiettivo di installare webshell per l’esecuzione di codice remoto non autenticato.
Hexstrike-AI era stato presentato come un “rivoluzionario framework di sicurezza offensiva basato sull’intelligenza artificiale”, pensato per combinare strumenti professionali e agenti autonomi. Tuttavia, il suo rilascio ha rapidamente suscitato interesse tra i malintenzionati, che hanno discusso del suo impiego per sfruttare tre vulnerabilità critiche di Citrix NetScaler ADC e Gateway, rivelate il 26 agosto. In poche ore, uno strumento destinato a rafforzare la difesa è stato trasformato in un motore di sfruttamento reale.
Post sul dark web che parlano di HexStrike AI, subito dopo il suo rilascio. (Fonte CheckPoint)
L’architettura del framework si distingue per il suo livello di astrazione e orchestrazione, che permette a modelli come GPT, Claude e Copilot di gestire strumenti di sicurezza senza supervisione diretta. Il cuore del sistema è rappresentato dai cosiddetti MCP Agents, che collegano i modelli linguistici alle funzioni offensive. Ogni strumento, dalla scansione Nmap ai moduli di persistenza, viene incapsulato in funzioni richiamabili, rendendo fluida l’integrazione e l’automazione. Il framework è inoltre dotato di logiche di resilienza, capaci di garantire la continuità operativa anche in caso di errori.
Particolarmente rilevante, riporta l’articolo di Check Point, è la capacità del sistema di tradurre comandi generici in flussi di lavoro tecnici, riducendo drasticamente la complessità per gli operatori. Questo elimina la necessità di lunghe fasi manuali e permette di trasformare istruzioni come “sfrutta NetScaler” in sequenze precise e adattive di azioni. In tal modo, operazioni complesse vengono rese accessibili e ripetibili, abbattendo la barriera di ingresso per chi intende sfruttare vulnerabilità avanzate.
HexStrike AI MCP Toolkit. (Fonte CheckPoint)
Il tempismo del rilascio amplifica i rischi. Citrix ha infatti reso note tre vulnerabilità zero-day: la CVE-2025-7775, già sfruttata in natura con webshell osservate su sistemi compromessi; la CVE-2025-7776, un difetto di gestione della memoria ad alto rischio; e la CVE-2025-8424, relativa al controllo degli accessi nelle interfacce di gestione. Tradizionalmente, lo sfruttamento di queste falle avrebbe richiesto settimane di sviluppo e conoscenze avanzate. Con Hexstrike-AI, invece, i tempi si riducono a pochi minuti e le azioni possono essere parallelizzate su vasta scala.
Le conseguenze sono già visibili: nelle ore successive alla divulgazione dei CVE, diversi forum sotterranei hanno riportato discussioni su come usare il framework per individuare e sfruttare istanze vulnerabili. Alcuni attori hanno persino messo in vendita i sistemi compromessi, segnalando un salto qualitativo nella rapidità e nella commercializzazione delle intrusioni. Tra i rischi principali vi è la riduzione drastica della finestra temporale tra divulgazione e sfruttamento di massa, che rende urgente un cambio di paradigma nella difesa.
Pannello superiore: Post del dark web che afferma di aver sfruttato con successo gli ultimi Citrix CVE utilizzando l’intelligenza artificiale HexStrike, originariamente in russo; Pannello inferiore: Post del dark web tradotto in inglese utilizzando il componente aggiuntivo Google Translate. (Fonte Checkpoint)
Le mitigazioni suggerite indicano un percorso chiaro. È fondamentale applicare senza indugi le patch rilasciate da Citrix e rafforzare autenticazioni e controlli di accesso. Allo stesso tempo, le organizzazioni sono chiamate a evolvere le proprie difese adottando rilevamento adattivo, intelligenza artificiale difensiva, pipeline di patching più rapide e un monitoraggio costante delle discussioni nel dark web. In aggiunta, viene raccomandata la progettazione di sistemi resilienti, basati su segmentazione, privilegi minimi e capacità di ripristino, così da ridurre l’impatto di eventuali compromissioni.
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freezonemagazine.com/articoli/…
Sono stati quelli estivi, mesi di “esplorazione” della scena alternativa americana che ha fruttato risultati sorprendenti per la sterminata quantità di band presenti, meno per la qualità della musica proposta, essendo questa in diverse occasioni, interessantissima e degna di essere conosciuta. Cresciuti nel calore crepitante della scena DIY di Philadelphia e forgiati dall’azione comunitaria, dalla
Sono stati
Potremmo introdurre corsi per la preparazione del Gorgonzola, al Classico.
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Next Sosyal è una nuova piattaforma social turca basata su Mastodon.
La piattaforma non ha abilitato la federazione e quindi non è accessibile dal fediverso. Next Sosyal è sostenuta dal partito turco al potere AKP e il presidente Erdoğan ha recentemente pubblicato il suo primo post sulla piattaforma.
"Viviamo in un mondo in cui i governanti autoritari sembrano avere una comprensione migliore delle attuali dinamiche dei social media rispetto a molti leader democratici. Sia Trump che Erdogan comprendono il valore di costruire una piattaforma social in cui avere un contatto diretto con i propri sostenitori e poter controllare la distribuzione dei messaggi. È doloroso che entrambi i leader utilizzino Mastodon per questo scopo, mentre la leadership democratica mostra scarso interesse a costruire le proprie piattaforme di distribuzione social sul social web aperto."
Da Fediverse Report
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LIBERI DAI VELENI DI ROMA SI AVVICINA.
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Dare luogo alla pace. A Catania la Piazza delle Tre Culture
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Riparte da Catania la “Global Sumud Flottilla”. Basterà un filo di maestrale per far giungere i pacifisti (non terroristi!) in Palestina. La Sicilia si dimostra ancora crocevia del Mediterraneo e
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Microchip, il governo americano mette un freno a Tsmc in Cina
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Dopo Samsung e Sk Hynix, gli Stati Uniti hanno privato anche Tsmc dell'agevolazione per l'esportazione di macchinari per i microchip in Cina. Washington è sempre più determinata a evitare che Pechino migliori le sue capacità
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Vi racconto la missione di Praexidia, la fondazione a tutela delle imprese. Parla il gen. Goretti
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Difesa, aerospazio, cybersicurezza, biotecnologie e infrastrutture critiche: sono questi i settori al centro della missione della Fondazione Praexidia, nuova realtà nata con l’obiettivo di tutelare e valorizzare le filiere
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C’è un giudice a Berlino anche per Google: lo spezzatino si allontana?
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Trump sceglie “Rocket city” come nuova sede dell’US Space command
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Anche nel mondo della politica sono ancora parecchi a far riferimento alla fede cristiana. O, meglio, alla religiosità di matrice cristiana, quando resta una
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Meno vincoli, più sviluppo. Nasce l’Osservatorio sul Diritto all’Innovazione
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Perché l’Ue sfruculia ancora Meta
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Dopo la multa da 200 milioni che la Commissione Ue ha elevato a Meta lo scorso aprile, la Big Tech americana guidata da Mark Zuckerberg (che s'è più volte lamentato che nel Vecchio continente non si possa fare innovazione a causa dell'impianto normativo) rischia
E Meta ancora non capisce un cazzo! Per l'ennesima volta!
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La US Navy affonda una barca di trafficanti venezuelani. Tensione nel Mar dei Caraibi
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Una nave della US Navy ha intercettato e affondato un’imbarcazione carica di droga, partita dal Venezuela e legata – secondo Washington – a un’organizzazione narco–terrorista vicina al governo di Nicolás Maduro. L’operazione è stata annunciata dal segretario di Stato Marco Rubio e
Immigrazione, bocciata la strategia di Trump: non è un’invasione
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La legge, invocata solo durante la Guerra del 1812 e i due conflitti mondiali, non può essere usata per giustificare rimpatri di massa in tempo di pace.
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Pornhub's parent company Aylo and its affiliates settled a lawsuit with the FTC and Utah that alleged the company "deceived users" about abuse material on the site.
Pornhubx27;s parent company Aylo and its affiliates settled a lawsuit with the FTC and Utah that alleged the company "deceived users" about abuse material on the site.#pornhub #FTC
Computing quantistico, come vanno i finanziamenti (americani) all’europea Iqm
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L'azienda finlandese di computing quantistico Iqm ha ricevuto finanziamenti per 320 milioni di dollari, portando la sua valutazione a 1 miliardo. Dalle startup ai grandi colossi, c'è grande attenzione per una
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Le vie dell’arte, come quelle del Signore, sono infinite e per vie intendo proprio quelle calpestabili, asfaltate, percorribili. Una di queste è in Carnia, regione interna al Friuli Venezia Giulia, dove il centro più grande è Tolmezzo e dal quale, in una manciata di minuti d’auto, si raggiunge il borgo di Illegio. Qui, dove […]
L'articolo La Ricchezza di Illegio proviene da FREE ZONE MAGAZINE.
Le vie
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Il disco che non ti aspetti. Questo è quello che continua a girarmi in testa nel corso degli ascolti, fattisi ripetuti degli ultimi giorni, di questa collaborazione fra la voce bellissima di Bobbie Dobson, canadese dai trascorsi in ambito eminentemente folk/rock, che pur oltrepassata la soglia delle ottantacinque primavere mantiene una capacità di ammaliare con […]
possibile.com/druetti-pos-taja…
Le parole di Tajani sono appunto inopportune. Perché l'iniziativa della Global Sumud Flotilla andrebbe semplicemente sostenuta dal nostro
Elena Brescacin
in reply to Poliverso - notizie dal Fediverso ⁂ • • •proprio così: dittatori ed estremisti vari, hanno l'interesse a portare le persone dalla loro parte. I politici che ci siamo scelti lato progressista invece, spesso sono progressisti solo a parole ma usano retoriche e metodi da conservatori.
Basta guardare anche qua in Europa, in Germania la campagna di AFD. Il biglietto aereo con scritto "paese sicuro" e il qr col loro sito, la foto della coppietta che simula la casetta coi bambini e il saluto romano. Comunicano molto bene:
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Poliverso - notizie dal Fediverso ⁂ e informapirata ⁂ reshared this.
informapirata ⁂
in reply to Elena Brescacin • • •@talksina la farei ancora più semplice: i sedicenti progressisti sono delle pippe. Così scandalosamente pippe che in confronto Fratelli d'Italia e AFD sembrano quasi soggetti normali
@notizie @fediverso
Elena Brescacin
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alexraffa
in reply to Elena Brescacin • • •My2cents
Elena Brescacin
in reply to alexraffa • • •Julian Del Vecchio
in reply to Elena Brescacin • • •El Salvador
in reply to Julian Del Vecchio • • •@redflegias pubblicità inserita con successo!
@talksina @informapirata @notizie @fediverso @ufficiozero @devol
Elena Brescacin
in reply to El Salvador • • •Pubblicità? Ah, parlavi di ufficio zero... pensavo dicessi a me LOL
Seriamente qua i progetti interessanti tipo ufficio zero appunto, vengono diffusi sempre in questa piattaforma ma chi dovrebbe saperli davvero -cioè le PA- non li conoscono.
Julian Del Vecchio
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Poliverso - notizie dal Fediverso ⁂
in reply to Julian Del Vecchio • •@Julian Del Vecchio il problema delle soluzioni basate su Linux come per tutte le soluzioni basate su software libero, ma il discorso si può estendere a tutti i software e i servizi che non sono considerati leader del settore, e la percezione comune che non li vede come software e servizi affidabili punto
Non c'è alcun solo direttore it che non si sia trovato di fronte al dilemma tra acquistare software o servizi dei leader del settore rispetto al non acquistarli: la scelta andrà sempre ai leader del settore perché ti consente di devolvere la responsabilità della scelta. Infatti se le cose andranno male tu potrai sempre dire che ti sei affidato al leader del settore... in questo modo ottieni il frutto, ossia il pagamento dello stipendio da direttore, e rinunci alla scorza, ossia il fatto che non ti prendi praticamente alcuna responsabilità in caso di problemi.
Questo è il motivo per cui nella pubblica amministrazione e nella grande impresa è sempre molto difficile scalzare i cosiddetti e sedicenti leader del settore
@El Salvador @Elena Brescacin
Elena Brescacin
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Elena Brescacin
in reply to Elena Brescacin • • •E iniziare a usarlo nelle pubbliche amministrazioni su larga scala, sarebbe la spinta necessaria a sbloccare anche questo.
Ma secondo me sul software libero grava tutta una serie di stereotipi come "è da hacker", con l'accezione negativa, data per assodata, del termine. (2/2)
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Julian Del Vecchio
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Elena Brescacin
in reply to Julian Del Vecchio • • •Elena Brescacin
in reply to Elena Brescacin • • •Una volta ho contattato quelli di Fair Phone, dicendo loro che un telefono non ottimizzato per l'accessibilità non è un telefono etico. E loro me ne hanno fatto una ragione di costi, sul motivo dell'inaccessibilità. (2/3)
Elena Brescacin
in reply to Elena Brescacin • • •ricci
in reply to Elena Brescacin • • •Elena Brescacin
in reply to ricci • • •Poliverso - notizie dal Fediverso ⁂
in reply to ricci • •@ricci sicuramente il saluto romano non c'entra nulla con i romani di nessun'epoca, ma si chiama proprio saluto romano. Non voglio fare il pignolo, ma anche se puoi liberamente chiamarlo saluto fascista, priapismo brachiale o refrigerazione ascellare, il termine corretto è proprio saluto romano
@Elena Brescacin
Elena Brescacin
in reply to Poliverso - notizie dal Fediverso ⁂ • • •@ricci "saluti romani ---> tiri su la mano" (non è mia, è di 101 anagrammi zen)
Poi oh! Ognuno dica quello che vuole ma è giusto dargli il nome corretto.
Anche se l'attribuzione a Roma non è precisa (sto leggendo fonti su Wikipedia) l'hanno sempre chiamato così. Io per non farmi mancare niente ho sempre detto "il saluto dell'estrema destra"
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Elena Brescacin
in reply to Poliverso - notizie dal Fediverso ⁂ • • •Ma la f di "ferait" (farebbe) è diventata "s" (sarebbe), "envie" -invidia) è stato separato in "en vie" -in vita- e allora ecco "se non fosse morto, sarebbe ancora vivo" Perculato per secoli.
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Poliverso - notizie dal Fediverso ⁂
in reply to Elena Brescacin • •@ricci
Poliverso - notizie dal Fediverso ⁂
in reply to Elena Brescacin • •@Elena Brescacin il fatto è che il presunto richiamo a un passato vero o adulterato non è un dettaglio, ma è un elemento fondante di quello che sarà il fascismo e di quello che saranno tutti i fascismi, che non sono semplice dittatura e autoritarismo, ma aggiungono l'elemento mitico che riesce ad avere una presa unica all'interno del tessuto sociale e garantisce in tal modo quel consenso ideologico che fa la differenza
@ricci
Elena Brescacin
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ricci
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Elena Brescacin
in reply to ricci • • •Su lingua, parole e storie, fa presa maggiormente quello che è più facile trasmettere alla gente poco acculturata. E non uso "trasmettere" a caso, parlando di parole: se tu vai all'estero per esempio U=U è un concetto assodato. Si parla di HIV. Invece qua in Italia ancora "se lo conosci lo eviti" con tanto di alone viola si porta dietro lo stigma, è difficile spiegare cosa voglia dire "undetectable untransmittable", ignorano la differenza tra HIV e AIDS... figurarsi la politica.
Elena Brescacin
in reply to ricci • • •Loro perché hanno successo? Perché illudono di semplificare la complessità con la forza, e la retorica. Se noi iniziamo a usare parole che il pubblico non capisce, creiamo muro a prescindere.