Discorso del Santo Padre Leone XIV al Collegio degli scrittori de «La Civiltà Cattolica»
Giovedì 25 settembre 2025 papa Leone XIV ha ricevuto in udienza, nella biblioteca privata del Palazzo Apostolico, p. Arturo Sosa S.I., Preposito generale della Compagnia di Gesù, e p. Nuno da Silva Gonçalves S.I., direttore de «La Civiltà Cattolica». Dopo questo colloquio, presso l’Aula del Concistoro, il Pontefice ha incontrato il Collegio degli scrittori insieme agli altri padri della comunità dei gesuiti, alla comunità delle suore del Cenacolo Cuore Addolorato Immacolato di Maria e ai collaboratori della rivista e della comunità. Per l’occasione, il Collegio degli scrittori ha voluto donare al Santo Padre «una raccolta di scritti su Sant’Agostino» apparsi negli ultimi settant’anni sulla rivista.
Ringraziamo papa Leone XIV per l’opportunità di incontrarlo, di ascoltare i suoi orientamenti e di ricevere la sua benedizione e pubblichiamo di seguito il suo discorso.
Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. La pace sia con voi! Buongiorno e grazie per la pazienza!
A pochi mesi dall’inizio del Pontificato, sono contento di accogliere voi, membri del Collegio degli scrittori e collaboratori della rivista «La Civiltà Cattolica». Saluto il Preposito Generale, che gentilmente ci accompagna in questa udienza.
Questo incontro si svolge nel 175° anniversario della fondazione de «La Civiltà Cattolica». Colgo dunque l’occasione per ringraziare tutti voi per il servizio così fedele e generoso che per tanti anni avete prestato alla Sede Apostolica. Il vostro lavoro ha contribuito – e continua a farlo – a rendere la Chiesa presente nel mondo della cultura, in sintonia con gli insegnamenti del Papa e con gli orientamenti della Santa Sede.
Qualcuno ha definito la vostra rivista «una finestra sul mondo», apprezzandone l’apertura, e davvero una sua caratteristica è quella di sapersi accostare all’attualità senza temere di affrontarne le sfide e le contraddizioni.
Potremmo individuare tre aree significative del vostro operato su cui soffermarci: educare le persone a un impegno intelligente e fattivo nel mondo, farsi voce degli ultimi, essere annunciatori di speranza.
Podcast | IL PREZZO DELLA DISUGUAGLIANZA
Papa Leone XIV ha lanciato un monito sulla crescente disuguaglianza economica globale. Ma quali sono le ragioni di questo fenomeno e quali i rischi? Lo abbiamo chiesto a due economisti che hanno curato la voce “disuguaglianza” nel Dizionario della Dottrina sociale della Chiesa: Andrea Boitani e Lorenzo Cappellari.
Circa il primo aspetto, ciò che scrivete può aiutare i vostri lettori a comprendere meglio la società complessa in cui viviamo, valutandone potenzialità e debolezze, nella ricerca di quei «segni dei tempi» alla cui attenzione ci ha richiamato il Concilio Vaticano II (cfr Cost. past. Gaudium et spes, 4). E ciò li metterà in grado di dare apporti validi, anche a livello politico, su temi fondamentali come l’equità sociale, la famiglia, l’istruzione, le nuove sfide tecnologiche, la pace. Con i vostri articoli, voi potete offrire a chi legge strumenti ermeneutici e criteri d’azione utili perché ognuno possa contribuire alla costruzione di un mondo più giusto e fraterno, nella verità e nella libertà. Come diceva san Giovanni Paolo II, il «ruolo della Chiesa, che voi siete chiamati ad amplificare e diffondere, è quello di proclamare il vangelo della carità e della pace, promuovendo la giustizia, lo spirito di fraternità e la consapevolezza del destino comune degli uomini, premesse indispensabili per la costruzione dell’autentica pace tra i popoli» (Discorso alla comunità della rivista «La Civiltà Cattolica», 22 aprile 1999, 4).
Questo ci porta al secondo punto: farsi voce dei più poveri e degli esclusi. Papa Francesco ha scritto che, nell’annuncio del Vangelo, «c’è un segno che non deve mai mancare: l’opzione per gli ultimi, per quelli che la società scarta e getta via» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, 195). Farsi voce dei piccoli è dunque un aspetto fondamentale della vita e della missione di ogni cristiano. Esso richiede prima di tutto una grande e umile capacità di ascoltare, di stare vicino a chi soffre, per riconoscere nel suo grido silenzioso quello del Crocifisso che dice: «Ho sete» (Gv 19,28). Solo così è possibile farsi eco fedele e profetica della voce di chi è nel bisogno, spezzando ogni cerchio di isolamento, di solitudine e di sordità.
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E veniamo al terzo punto: essere messaggeri di speranza. Si tratta di opporsi all’indifferentismo di chi rimane insensibile agli altri e al loro legittimo bisogno di futuro, come pure di vincere la delusione di chi non crede più nella possibilità di intraprendere nuove vie, ma soprattutto di ricordare e annunciare che per noi la speranza ultima è Cristo, nostra via (cfr Gv 14,6). In Lui e con Lui, sul nostro cammino non ci sono più vicoli ciechi, né realtà che, per quanto dure e complicate, possano fermarci e impedirci di amare con fiducia Dio e i fratelli. Come ha scritto Benedetto XVI, al di là di successi e fallimenti, io so che «la mia vita personale e la storia nel suo insieme sono custodite nel potere indistruttibile dell’Amore» (Lett. enc. Spe salvi, 35), e perciò trovo ancora e sempre il coraggio di operare e di proseguire (cfr ivi). È un messaggio importante questo, specialmente in un mondo sempre più ripiegato su sé stesso.
Carissimi, concludendo vorrei ancora ricordare le parole che papa Francesco vi ha indirizzato, poco prima di lasciarci, in occasione dell’inizio ufficiale del vostro «giubileo di fondazione»: «Vi incoraggio – scriveva – a proseguire nel vostro lavoro con gioia, mediante il buon giornalismo, che non aderisce ad altro schieramento se non a quello del Vangelo, ascoltando tutte le voci e incarnando quella docile mitezza che fa bene al cuore» (Messaggio al direttore de «La Civiltà Cattolica» nel 175° di pubblicazione, 17 marzo 2025: L’Osservatore Romano, 2 aprile 2025, p. 5).
E in un’altra occasione disse, riferendosi al nome del vostro periodico: «Una rivista è davvero “cattolica” solo se possiede lo sguardo di Cristo sul mondo, e se lo trasmette e lo testimonia» (Discorso alla comunità de «La Civiltà Cattolica», 9 febbraio 2017). Ecco la vostra missione: cogliere lo sguardo di Cristo sul mondo, coltivarlo, comunicarlo, testimoniarlo.
Condividendo appieno le parole del mio compianto Predecessore, di nuovo vi ringrazio, vi assicuro il mio ricordo nella preghiera e vi benedico di cuore. Grazie!
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L’impegno di promuovere la pace e la giustizia
Dall’inizio del suo pontificato, papa Leone XIV ha manifestato grande attenzione alla drammatica situazione internazionale e all’inasprirsi dei conflitti, e non si è risparmiato in costanti e accorati appelli alla pace. Quasi volendo approfondire tali appelli, nell’agosto scorso ha incoraggiato i laici cattolici a santificare il mondo della politica e a lavorare per la pace, sottolineando che essa richiede una conversione basata sulla giustizia e sulla verità. Lo ha fatto in due discorsi: il primo, pronunciato il 23 agosto, ricevendo l’International Catholic Legislators Network, e il secondo, il 28 agosto, rivolgendosi ai fedeli impegnati in politica della diocesi di Créteil, in Francia.
In questi interventi, per riferirsi alle sfide dell’impegno politico, il Papa ha fatto ricorso ai concetti presenti nell’opera La Città di Dio, di sant’Agostino d’Ippona. Così ha posto il cuore umano al centro della vita sociale e pubblica e ha invitato i cristiani e tutti gli uomini di buona volontà a farsi promotori di pace e di giustizia, alla luce del pensiero agostiniano. Inoltre, ha offerto una lezione magistrale sulla Dottrina sociale della Chiesa, in feconda continuità con il suo omonimo e predecessore, Leone XIII.
«Il futuro della prosperità umana – ha affermato Leone XIV nel discorso del 23 agosto – dipende da quale “amore” scegliamo per organizzarvi intorno la nostra società: un amore egoistico, l’amore di sé, o l’amore di Dio e del prossimo». Infatti, il Papa aveva iniziato questo discorso riguardante la politica e l’arte del governo con un tema inaspettato: i desideri del cuore umano. Un punto di partenza senz’altro necessario per sondare le realtà spirituali che sostengono il mondo, perché le più ampie dimensioni politiche sono fondate sui moti più intimi della persona. Questo insegnamento è tra le intuizioni guida di sant’Agostino, ossia la distinzione di «due orientamenti del cuore umano» verso due amori differenti: l’amore di sé fino al disprezzo di Dio e l’amore di Dio (e del prossimo) fino al disprezzo di sé. I due amori si ripercuotono sulla società, perché corrispondono a due «città» o realtà spirituali che trascendono ogni singolo individuo. Vi è dunque un nesso intrinseco tra individuo e comunità, tra l’etico e il politico, tra lo spirituale e il sociale.
Di conseguenza, la fede ha anche una dimensione pubblica. Come ha affermato il Papa rivolgendosi ai pellegrini francesi il 28 agosto, «il cristianesimo non si può ridurre a una semplice devozione privata, perché comporta un modo di vivere in società improntato all’amore di Dio e del prossimo che, in Cristo, non è più un nemico ma un fratello». La questione della «prosperità umana» non può quindi mai essere accantonata: non solo il Vangelo ha necessariamente conseguenze pubbliche, ma il semplice tentativo di metterlo da parte implica una svolta spirituale verso la città terrena, che oscura, se non occulta, le verità più profonde sulla persona umana. Questa, in breve, è l’intuizione delle «due città» di sant’Agostino. E in tale prospettiva, osserva il Pontefice, il compito della Chiesa torna a delinearsi con chiarezza: fungere da «ponte». I cristiani, riconoscendo le due realtà presenti nel mondo, hanno un ruolo speciale nel dar voce ai desideri più profondi della persona umana: guarigione, riconciliazione e, in definitiva, pace; in sostanza, un desiderio che è amore e non si appaga in nulla di meno.
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I cristiani, tuttavia, possono rendere possibile questo servizio – ha precisato Leone XIV ai pellegrini francesi – solo a condizione di unirsi sempre più a Gesù e di testimoniarlo. Di conseguenza, «in un personaggio pubblico, non c’è da una parte l’uomo politico e dall’altra il cristiano. Ma c’è l’uomo politico che, sotto lo sguardo di Dio e della sua coscienza, vive cristianamente i propri impegni e le proprie responsabilità!». Come i grandi conflitti geopolitici trovano in ultima analisi la loro origine nei desideri del cuore, così la conversione che prepara i cristiani a contribuire alla pace e alla giustizia dentro quell’ordine di amori deve toccare anche la loro interiorità spirituale più profonda.
Nel presentare questo invito a partecipare alla missione di Cristo, Leone XIV apre vasti orizzonti sulla Dottrina sociale della Chiesa e sul pensiero di sant’Agostino. Soprattutto, egli collega strettamente la nozione di sviluppo umano integrale con la tradizione della Dottrina sociale cattolica. Radicando questo tema, così caro a san Paolo VI, nell’ordine dei due amori e delle due città e in riferimento alla felicità eterna ottenibile solo in Cristo, il Papa ricorda alla Chiesa che lo sviluppo umano integrale rimanda in definitiva al Vangelo. Egli riecheggia così papa Benedetto XVI, che nell’enciclica Caritas in veritate scriveva: «Non ci sono due tipologie di dottrina sociale, una preconciliare e una postconciliare, diverse tra loro, ma un unico insegnamento, coerente e nello stesso tempo sempre nuovo» (n. 12).
In effetti, con l’aiuto di sant’Agostino, papa Leone XIV collega i desideri del mondo con la missione più profonda della Chiesa. Quella dello sviluppo umano integrale è tutt’altro che una battaglia di retroguardia che la Chiesa combatte per opporsi alle metriche economiche e sociali contemporanee o correggerle, ma esprime e dà risposta alla profonda «fame del Pane del cielo» che muove i cristiani a offrire al mondo «sia il pane materiale sia il pane della Parola», come attestato nel Messaggio pontificio del 4 agosto ai partecipanti alla Settimana sociale in Perù.
Nei suoi interventi, Leone XIV propone il pensiero di sant’Agostino come un tesoro di grande valore per la Chiesa. La dottrina delle «due città» è una delle sue intuizioni più profonde, ma rischia di andare perduta tra i molti altri modelli politici odierni. Il Papa ci aiuta pertanto a rieducare la nostra immaginazione a una politica della speranza – una formazione di cui abbiamo grande bisogno – e ci sollecita a continuare a coltivare il desiderio di quella speranza in una vita abbondante.
Si può aggiungere che egli propone un sant’Agostino accessibile a tutti e che lo fa in modo comprensibile, non solo per la chiarezza e vivacità del suo stile, ma soprattutto per la sua limpida consapevolezza della saggezza che il vescovo di Ippona offre al mondo di oggi e di ogni tempo. Leone XIV percepisce che la «risposta» della Chiesa al mondo deve essere nuovamente collegata al cuore stesso della domanda a cui intende rispondere. E pochi santi, al momento di riformulare tale domanda, possiedono una sapienza migliore di colui che la Chiesa ha definito «il Dottore della Grazia».
Podcast | IL PREZZO DELLA DISUGUAGLIANZA
Papa Leone XIV ha lanciato un monito sulla crescente disuguaglianza economica globale. Ma quali sono le ragioni di questo fenomeno e quali i rischi? Lo abbiamo chiesto a due economisti che hanno curato la voce “disuguaglianza” nel Dizionario della Dottrina sociale della Chiesa: Andrea Boitani e Lorenzo Cappellari.
Nei discorsi del Papa che abbiamo voluto ricordare si colgono anche le profonde risonanze del presente pontificato con quello di Leone XIII. In particolare, è la ricerca della natura dell’ordine sociale a caratterizzare la sapienza sulle questioni sociali. Come Leone XIII si impegnò a collocare le «tre società necessarie» – famiglia, comunità politica e Chiesa – all’interno della provvidenza divina, anche di fronte al crollo definitivo della cristianità, così l’attuale Pontefice contestualizza la persona e la famiglia, la famiglia delle nazioni e la Chiesa entro le realtà spirituali delle «due città», che costituiscono un riferimento fondamentale per tutte le altre questioni sociali.
Per entrambi i Leone, la dottrina sociale presuppone l’armonia tra fede e ragione: un’armonia che però va proposta nuovamente a ogni generazione. Nel discorso del 28 agosto, Leone XIV ha esortato i cristiani a rafforzarsi nella fede, «ad approfondire la dottrina – in particolare la dottrina sociale – che Gesù ha insegnato al mondo», la quale, ha precisato, è «sostanzialmente in sintonia con la natura umana, la legge naturale che tutti possono riconoscere, anche i non cristiani, persino i non credenti». Questa sintonia significa che i cristiani non devono «temere di proporla e di difenderla con convinzione: è una dottrina di salvezza che mira al bene di ogni essere umano, all’edificazione di società pacifiche, armoniose, prospere e riconciliate», come ha spiegato il Papa alla delegazione francese. Il dialogo tra fede e ragione fonda infatti il dialogo tra cristiani e tutti gli uomini di buona volontà.
In entrambi i discorsi dell’agosto scorso emerge inoltre la fiducia che Dio abbia affidato in custodia alla Chiesa un prezioso tesoro di sapienza da condividere con il mondo. Leone XIII era animato dalla stessa convinzione: inaugurando quella che appare come una novità – la Dottrina sociale cattolica –, egli in realtà riportava alla luce qualcosa di molto antico.
Infine, nella presentazione della Dottrina o pensiero sociale della Chiesa da parte del Pontefice si avvertono un meraviglioso equilibrio e una pienezza che completano la sintesi tomista di Leone XIII: felicità terrena e celeste; ragione (la legge naturale) e Vangelo; Chiesa che ascolta e Chiesa che insegna; unità dei cristiani in Cristo e testimonianza di pace nei legami fraterni tra le religioni; peccato e grazia, anche nel pensiero di sant’Agostino; azione e contemplazione; pace come dono di Dio e attività umana; desiderio umano e suo compimento ultimo, che corrisponde alla complementarità, nell’insegnamento di Leone XIII, tra l’esperienza «soggettiva» e la natura «oggettiva» della persona umana, e tra la persona e la comunità. Così la ricerca moderna di integrità del cuore, dell’anima e dello spirito trova il suo completamento nella pienezza dei molti doni che la Chiesa desidera condividere con il mondo, in qualità di amministratrice e non di proprietaria.
La Civiltà Cattolica
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Israele, Gaza e il piano di pace
Con l’accettazione, da parte di Israele e di Hamas, del piano di pace proposto dal presidente Trump e con l’entrata in vigore di un cessate il fuoco, la liberazione degli ostaggi e la scarcerazione di quasi 2.000 carcerati palestinesi, nonché il parziale arretramento dell’esercito israeliano, la guerra a Gaza sperimenta una tregua, nonostante le questioni da affrontare siano ancora tante e gli steps da superare molteplici.
Prima della tregua, però, è stata condotta una dura campagna militare: una città con quasi un milione di abitanti, Gaza City, è stata rasa al suolo dall’esercito israeliano e i suoi abitanti sono stati costretti ad abbandonarla. In questo articolo tratteremo della lenta agonia di Gaza, del piano di pace e delle molte questioni ancora da affrontare.
Operazione a passo lento
L’invasione di Gaza City da parte di Israele era iniziata la notte del 15 settembre. Sotto la copertura di attacchi aerei e fuoco di artiglieria – 20 raid aerei in meno di 40 minuti[1] –, due divisioni erano entrate nella parte interna della città: la 98a, detta «Divisione di fuoco», formata da paracadutisti e incursori, specialisti degli scontri urbani, e la 162a, detta «Divisione di acciaio», munita di tank e mezzi blindati[2].
L’obiettivo principale dell’attacco – spiegava il ministro della Difesa israeliano Katz – era eliminare l’unica brigata superstite di Hamas, con la convinzione di azzerarla definitivamente e ottenere la liberazione degli ostaggi: «Vogliamo prendere il controllo di Gaza City perché oggi è il simbolo principale della capacità di governare di Hamas. Se cadrà, anche loro cadranno»[3]. Si pensava che i miliziani asserragliati nella città fossero al massimo 2.500. Essi contavano sulla conoscenza del territorio e su una rete di cunicoli ancora intatti.
Si parlava di un’operazione «a passo lento», e ciò per due motivi principali[4]. Il primo era che la priorità, come ha detto il generale Eran Ortal, erano gli ostaggi; quindi muoversi lentamente dava maggiore possibilità di evitare errori. Il secondo motivo era la messa in sicurezza delle forze militari. In altre fasi della guerra di Gaza l’esercito aveva voluto procedere velocemente, ma questa volta la «lentezza» era necessaria, perché non si voleva soltanto occupare la città, ma anche sgomberarla completamente della presenza di Hamas. Ciò non era semplice e necessitava di strategie di attacco organizzate sul terreno.
Anche il generale Eyal Zamir, capo dell’operazione, nel gabinetto di sicurezza israeliano ha parlato di un’«invasione graduale». Si pensava che la maggior parte dei civili avrebbe deciso di lasciare la città solo all’ultimo momento, il che ha obbligato l’esercito a pianificare attentamente il dispiegamento delle truppe sul territorio. Questo piano è stato criticato dall’ala più dura degli strateghi militari[5]. Nei giorni precedenti, una parte dei civili – tra i 200.000 e i 350.000 –, seguendo le indicazioni fornite dall’esercito, avevano abbandonato la città e si erano spostati con i loro beni a Deir al-Balah, a 15 km di distanza da Gaza City, o nella zona umanitaria di al-Mawasi, sperando di trovare in quei luoghi maggiore sicurezza. La maggioranza però era rimasta, anche perché non aveva la disponibilità economica per noleggiare un minivan e trasportarvi i beni o comprare una tenda, il cui valore negli ultimi tempi era salito di 20 volte.
Nelle settimane successive, sotto la spinta delle autorità militari israeliane, che nel frattempo avevano circondato la città, ridotta a un cumulo di macerie, la popolazione aveva abbandonato Gaza City e si era rifugiata nelle zone umanitarie del sud della Striscia. Sembra che soltanto alcune decine di migliaia di vecchi e malati fossero rimasti in città.
L’attacco di Israele a Doha
Quando l’esercito, 22 mesi fa, attaccò Gaza City, gli israeliani erano unanimi nel sostenere l’azione. Hamas era appena uscito da Gaza massacrando oltre 1.200 persone e prendendo 250 ostaggi. L’opinione pubblica era concorde nel ritenere che il gruppo dovesse essere annientato. Dopo, però, questo sostegno è andato calando. I capi di Hamas sono stati eliminati e l’organizzazione è stata fortemente ridotta. I sondaggi indicavano che il 70% degli israeliani era favorevole a un cessate il fuoco che consentisse di porre fine alla guerra e di rilasciare gli ostaggi. Soluzione che Netanyahu non prendeva in considerazione, sia per motivi politici – ingraziarsi la destra religiosa –, sia per interessi personali, al punto da far bombardare sui negoziati per un cessate il fuoco che si tenevano a Doha, in Qatar, attirandosi le critiche dell’intera comunità internazionale.
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L’episodio è avvenuto il 9 settembre 2025, quando l’aviazione israeliana ha bombardato, con 10 jet da combattimento, una palazzina di tre piani nel quartiere Katara, a Doha, zona di ambasciate e di expat[6]. Era la prima volta che Israele colpiva una capitale del Golfo e attaccava un Paese non nemico, nel quale si trovava una base militare statunitense. Sebbene il piccolo emirato del Golfo avesse a lungo ospitato i leader di Hamas, era uno stretto alleato americano, ed era stato anche la sede principale dei colloqui per un cessate il fuoco tra Israele e Hamas. Attaccarlo era quindi un passo eccessivamente azzardato e poco diplomatico[7]. Eppure è stato fatto. Le bombe hanno ucciso sei persone, ma non hanno colpito i leader di Hamas (tra cui Khalil al-Hayya, capo del team negoziale, e Khaled Meshal, ex capo del gruppo) radunati in quel luogo, ma che in quel momento si trovavano in un altro ambiente.
I negoziatori si erano riuniti per discutere una nuova proposta di cessate il fuoco avanzata dall’amministrazione statunitense qualche giorno prima. L’accordo sarebbe stato favorevole per Israele. Richiedeva ad Hamas il rilascio immediato dei 48 ostaggi israeliani, vivi e morti. Il cessate il fuoco, di carattere temporaneo, non avrebbe posto fine alla guerra; quindi si richiedeva a Israele di sottoscrivere un cessate il fuoco non definitivo[8]. Ma queste condizioni non soddisfacevano Netanyahu, il quale dopo l’attentato terroristico a Gerusalemme di qualche giorno prima ha mandato in aria le trattative sul cessate il fuoco e ha sferrato un attacco missilistico al tavolo negoziale di Doha. Un atto che è stato duramente condannato da tutte le capitali arabe, e non soltanto. Il sovrano del Qatar ha denunciato l’aperta violazione del diritto internazionale e della sovranità del suo Paese e ha dichiarato la cessazione dei colloqui negoziali. Secondo Trump, l’operazione era stata compiuta a sua insaputa e gli era stata comunicata mentre era già in atto. Molti dubitano di ciò; alcune fonti segnalano che il Presidente era stato avvertito circa un’ora prima e che avrebbe potuto bloccare l’operazione: cosa che non ha fatto, nella speranza che essa potesse avere un esito positivo.
Nell’amministrazione israeliana, non tutti condividevano la decisione di Netanyahu. Questi avrebbe preferito che l’operazione venisse svolta dal Mossad, il cui capo, David Barnea, si era però opposto a tale soluzione, lasciando che l’operazione venisse portata avanti dall’esercito, o meglio dall’aeronautica. Il discorso di Barnea a proposito di tale missione suonava così: «Grazie al Qatar siamo riusciti a negoziare due cessate-il-fuoco e la liberazione di 148 ostaggi, quasi tutti vivi, in cambio del rilascio di migliaia di prigionieri palestinesi; dove ci siamo mossi per vie militari, invece, abbiamo recuperato solo otto ostaggi vivi e 51 morti. Perché, allora, usare la forza e non continuare con i negoziati? Perché far saltare in aria il tavolo negoziale di Doha?»[9]. Ma Netanyahu pensava diversamente e ha prestato ascolto agli alleati della destra religiosa che spingevano per la guerra totale e per ricostituire le colonie di Gaza.
I vertici delle Forze di difesa israeliane (Idf) sembravano condividere l’opinione della popolazione israeliana, di cui si è detto, in merito al cessate il fuoco. Il generale Eyal Zamir aveva ripetutamente avvisato il governo che sferrare un colpo decisivo contro Hamas avrebbe potuto richiedere anni, se mai fosse stato possibile. Per questo egli era favorevole a un cessate il fuoco che liberasse gli ostaggi[10].
Hamas, che non aveva rispetto per la vita del suo popolo e che lo utilizzava come scudo umano contro i carri armati e l’artiglieria nemica, faceva pressione sulla popolazione perché non abbandonasse la città, mentre i suoi combattenti si erano dileguati: soltanto 3.000, secondo l’intelligence, erano rimasti in città a tenere imboscate; gli altri 20.000 erano fuggiti verso sud, vanificando in buona parte lo scopo dell’operazione israeliana.
L’unica grande potenza schierata dalla parte di Israele erano gli Stati Uniti, mentre la comunità internazionale, anche in sede Onu, aveva preso le distanze da Israele, in particolare per la sua politica in materia di distribuzione del cibo. Intanto, di fronte all’accusa di crimini di guerra compiuti da Israele, diversi Paesi avevano formalmente riconosciuto lo Stato di Palestina: innanzitutto, la Gran Bretagna il 21 settembre, come pure il Canada, l’Australia, il Portogallo. Il giorno dopo era toccato alla Francia, che presiedeva, insieme all’Arabia Saudita, la Conferenza Onu sul riconoscimento dei due Stati. «È arrivato il momento – aveva detto Macron – di fermare la guerra, il massacro. È arrivato il tempo della pace. Niente giustifica il conflitto in corso a Gaza. Niente»[11]. In totale, i Paesi che hanno riconosciuto la Palestina come Stato ora sono già 148, e nel tempo se ne aggiungeranno altri. Questa decisione aveva un carattere meramente formale e non cambiava nulla nei rapporti di forza tra i due Paesi, sebbene avesse un alto valore simbolico. Tanto che Netanyahu si era affrettato a replicare: «Non ci sarà alcuno Stato palestinese»; e aveva aggiunto, alla vigilia del suo intervento all’Onu: «Così si premiano i terroristi di Hamas»[12].
La distruzione di Gaza City
La distruzione di Gaza City, in realtà, era iniziata poco alla volta da mesi: i quartieri di Tuffah, Sabra, Zeitoun e Shujayea erano stati letteralmente rasi al suolo, come appariva evidente dalle foto scattate dall’alto. Poi era iniziato l’abbattimento delle torri, una dopo l’altra. Come mai erano state prese di mira le torri? Il motivo è semplice: per ragioni di sicurezza militare. Infatti, negli ultimi due anni esse erano state preparate da Hamas allo scontro con le milizie israeliane. Sembra che ciascuno di quegli edifici avesse telecamere per controllare il territorio, strutture per la comunicazione e centri operativi.
Vedendola dall’alto, nelle foto satellitari, Gaza City oggi ricorda le due città sorelle, Rafah e Khan Younis, distrutte in precedenza dall’esercito israeliano. A tale riguardo, alcuni analisti parlano dell’uccisione di un’intera città, come nei decenni passati era accaduto a Sarajevo, Mostar, ma anche ad Aleppo e Homs e a molte altre città. A Gaza «la devastazione è sistematica, studiata e voluta, non certo il prodotto di battaglie o danni collaterali»[13].
Lo Stato d’Israele ha reso la vita impossibile nella Striscia di Gaza, colpendo città dopo città, distruggendo palazzi residenziali, scuole, ospedali e altre infrastrutture e spingendo con la forza le popolazioni delle zone distrutte verso il sud, drammaticamente sovrappopolato e in condizioni umanitarie inaccettabili.
Podcast | IL PREZZO DELLA DISUGUAGLIANZA
Papa Leone XIV ha lanciato un monito sulla crescente disuguaglianza economica globale. Ma quali sono le ragioni di questo fenomeno e quali i rischi? Lo abbiamo chiesto a due economisti che hanno curato la voce “disuguaglianza” nel Dizionario della Dottrina sociale della Chiesa: Andrea Boitani e Lorenzo Cappellari.
Piano di pace per Gaza
La svolta sulla guerra a Gaza si è avuta lunedì 29 settembre, nell’incontro alla Casa Bianca fra Trump e Netanyahu, quando è stato discusso un nuovo piano per il cessate il fuoco in 20 punti, preparato dall’amministrazione statunitense. Inizialmente i punti erano 21, ma in seguito è stato eliminato il punto 18, che impegnava Israele a non attaccare più il Qatar. È stato cancellato anche perché lo stesso Netanyahu ha chiamato Doha per scusarsi, e perché Trump ha firmato un ordine esecutivo che impegnava gli Usa a garantire la sicurezza del Qatar. I princìpi del piano sono chiari, ma non i dettagli delle fasi successive al cessate il fuoco. «Questa proposta – è stato scritto – è una pietra miliare, perché stabilisce i parametri per una via di uscita dall’incubo e segna un cambiamento nelle posizioni di America e Israele e, forse, anche di Hamas»[14].
I punti fondamentali sono i seguenti[15]. Innanzitutto, il rilascio degli ostaggi (i 20 vivi e i resti dei 48 morti) entro 72 ore. Per contro, il rilascio, da parte di Israele, di 250 ergastolani e oltre 1.700 cittadini di Gaza arrestati dopo il 7 ottobre. Gli aiuti umanitari questa volta saranno gestiti da un’agenzia dell’Onu e dalla Mezzaluna Rossa. Gaza sarà governata da un comitato palestinese tecnico e apolitico, composto da personale qualificato, con la supervisione di un organismo internazionale, il Consiglio per la pace, presieduto da Trump.
Hamas nella nuova realtà non avrà alcun ruolo; verrà disarmato; tutte le sue infrastrutture militari terroristiche e offensive verranno distrutte, a iniziare dai tunnel, che verranno smilitarizzati sotto il controllo di osservatori internazionali. Stati Uniti e partner arabi e internazionali svilupperanno una «Forza di stabilizzazione internazionale», la Isf, temporanea e da dispiegare immediatamente a Gaza. Essa addestrerà e supporterà le forze di polizia palestinesi; avrà un ruolo di sicurezza interna. Nel documento viene anche stabilito che Israele non occuperà, né annetterà Gaza. Questo punto non verrà certamente accolto dalla destra religiosa israeliana, la quale sognava di costruire colonie a Gaza, ridando vita a quelle estromesse nel 2005.
Man mano che la Isf ripristinerà controllo e stabilità, l’esercito israeliano si ritirerà, con tappe e tempistiche da concordare. I guerriglieri di Hamas potranno ottenere l’amnistia o il permesso di andare in esilio. A lungo termine, la riabilitazione di Gaza e le riforme dell’Olp in Cisgiordania potrebbero portare alla creazione di uno Stato palestinese. Questo punto, accennato indirettamente nel piano, è stato molto contestato da Netanyahu, il quale insiste nell’affermare che non ci sarà mai uno Stato palestinese.
Il piano, ben organizzato e congegnato, ha avuto l’appoggio di otto Paesi musulmani – le principali potenze arabe e la Türkiye – ed è stato giudicato favorevolmente anche dalle cancellerie occidentali. Spinto da Trump, Netanyahu ha cambiato rotta e ha fatto sapere di appoggiare il piano di pace, che garantisce gli obiettivi di guerra originari di Israele: liberare gli ostaggi ed estromettere Hamas dal potere. Il piano è sostenuto da quasi i due terzi della popolazione israeliana; sul piano politico, anche se due ministri di Netanyahu lasciassero il governo, facendogli mancare la maggioranza, i partiti di opposizione si sono impegnati a sostenere l’esecutivo[16]. In ogni caso «il piano Trump offre la via d’uscita migliore dalla tragedia che si è consumata a Gaza. Il suo successo richiederebbe una forte e continua pressione da parte di Trump su Israele e da parte degli Stati arabi e della Türkiye su Hamas»[17].
Trump aveva dato 3-4 giorni di tempo per una risposta; in caso contrario, aveva detto che «sarebbe scoppiato l’inferno» e che gli Stati Uniti avrebbero appoggiato Israele nella sua guerra. Alla fine Hamas, venerdì 3 ottobre, ha dato il primo via libera al piano. L’organizzazione islamica ha accettato di liberare tutti gli ostaggi e si è dichiarata pronta a cedere il governo a un organismo palestinese indipendente. Ma al tempo stesso ha chiesto di trattare alcuni punti. Insomma, la risposta era un «sì, ma», sufficiente a disinnescare l’ultimatum di Trump, ma avanzando anche alcune importanti riserve. A cominciare da un calendario preciso per il ritiro dell’esercito israeliano dalla Striscia, dai termini del disarmo e dalle garanzie inequivocabili che la guerra non sarebbe stata ripresa[18]. Trump, dal canto suo, ha chiesto a Israele di fermare subito i bombardamenti a Gaza e di favorire la pace.
Sembra che Hamas abbia diviso il piano Trump in due parti. La prima, costituita da un cessate il fuoco, un accordo per il rilascio degli ostaggi e un’ondata di aiuti umanitari, il tutto entro pochi giorni dall’accordo. La seconda, quella più complicata e generica, costituita da una proposta su come ricostituire il governo a Gaza dopo la guerra[19]. E su questo punto Hamas non si fida della strategia israeliana. In particolare teme che, una volta rilasciati gli ostaggi, Israele possa riprendere la guerra, per un motivo o per un altro, anche perché l’esercito israeliano in un primo momento non abbandonerà i territori occupati.
Da lunedì 6 ottobre sono iniziate, a Sharm el-Sheikh, in Egitto, le trattative tra Israele e Hamas, con la presenza degli inviati degli Usa Steve Witkoff e Jared Kushner, genero di Trump. In poco più di tre giorni le delegazioni di Hamas e di Israele, pressate dai mediatori statunitensi, egiziani, turchi e qatarioti, hanno raggiunto un accordo, al quale hanno poi dato pronta esecuzione. Questa fase dell’accordo è stata indicata come «fase uno», alla quale poi succederanno le altre fasi ancora più impegnative.
Lunedì 13 ottobre Hamas ha rilasciato i 20 ostaggi vivi, in discrete condizioni. Le salme dei 28 morti verranno consegnate in tempi più lunghi, a causa della difficoltà di reperirle tra le macerie ed effettuare il riconoscimento. Quello stesso giorno Trump si è recato per una visita lampo in Israele, dove ha parlato davanti al Parlamento. Nel pomeriggio ha partecipato al vertice di Sharm el Sheikh, nel quale erano presenti più di 20 Stati, la maggior parte arabi, ma anche occidentali. L’ordine del giorno era ambizioso: firmare la pace e mettere fine alla guerra e aprire una nuova pagina di sicurezza e stabilità nella regione.
Il ritiro dell’esercito israeliano dietro la linea gialla indicata nel piano è iniziato subito dopo l’accordo. Israele si è ritirato dai maggiori centri di Gaza, a eccezione di Rafah, conservando il 53% del controllo del territorio. È previsto che con la «fase due» arretrerà ulteriormente. In teoria, questa prima fase del piano di Trump è la più semplice. La seconda implicherà il disarmo e la smilitarizzazione di Hamas; allora entrerà in funzione la cosiddetta «forza internazionale di stabilizzazione». La seconda fase presenta non pochi problemi. I miliziani, anche se sono pronti ad abbandonare gli armamenti pesanti, probabilmente nascosti nei tunnel, non sono affatto disposti ad abbandonare quelli leggeri, necessari per difendersi dai non pochi nemici interni. Essi sarebbero disponibili a consegnare le armi all’autorità palestinese che gestirà la Striscia, quando questa si sarà costituita. I suoi capi, inoltre, non sembrano voler abbandonare il campo e andare in esilio, come prevede il piano. Il primo ministro israeliano fa capire che, se tutte le condizioni non saranno rispettate, è pronto «a far ripartire l’artiglieria», nonostante le garanzie che Stati Uniti e Qatar hanno dato ad Hamas. «Hamassarà disarmata e Gaza demilitarizzata – ha minacciato Netanyahu – se non nel modo morbido, allora nel modo duro»[20].
La «fase tre» prevede l’istituzione di un’autorità di transizione per governare Gaza e il dispiegamento di una forza multinazionale di peacekeeping per garantire la sicurezza nel territorio. Trump presiederebbe un Consiglio di pace per supervisionare tutto questo. L’esercito, pur rimanendo nella Striscia, si ritirerebbe in una zona cuscinetto alla periferia di Gaza. Alla fine, se tutto procederà secondo i piani, israeliani e palestinesi riprenderanno i colloqui sulla creazione di uno Stato palestinese[21]. Questo punto è fortemente osteggiato da Netanyahu e dai suoi ministri.
L’ostilità verso questo programma è dimostrata dal fatto che nella lista dei palestinesi da scarcerare non è comparso il nome di Marwan Barghouti, personaggio carismatico del partito Fatah, arrestato nel 2002 e condannato a cinque ergastoli, in quanto ritenuto mandante degli attacchi suicidi delle Brigate dei martiri di al-Aqsā, durante la seconda intifada. Non sono stati inclusi neppure i nomi di altri leader – ad esempio, Ahmad Sadat – molto popolari tra i palestinesi. Barghouti, detto il «Mandela palestinese», incarnerebbe una leadership capace di negoziare un accordo politico con un largo consenso popolare. Netanyahu preferisce trattare con Hamas, screditato dalla violenza, e molto meno con Mahmoud Abbas, conosciuto anche come Abu Mazen. È il modo migliore per bloccare qualsiasi velleità di una soluzione a due Stati[22]. Nel piano di pace, inoltre, non si fa riferimento alla Cisgiordania e alle colonie, compreso il piano E1, che taglia in due il territorio palestinese e che è stato approvato dal governo israeliano. Anche in questo caso, l’obiettivo dello Stato d’Israele è bloccare la nascita di uno Stato palestinese.
Nella speranza che il piano regga, una parte della popolazione di Gaza si è rimessa in marcia verso il nord, per ritornare alle macerie che aveva lasciato. In ogni caso, per essa il cessate il fuoco e l’ingresso dei camion con gli aiuti umanitari è un segno concreto di rinascita.
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[1] Cfr F. Battistini, «Gaza, parte l’invasione. Attacco finale sulla città», in Corriere della Sera, 16 settembre 2025.
[2] Cfr G. Di Feo, «Fuoco, acciaio e ira. In strada come a Stalingrado per stanare l’ultima brigata», in la Repubblica, 17 settembre 2025.
[3] Ivi.
[4] Cfr G. Privitera, «Quanto potrà durare l’“assalto lento”. Cosa sono i robot-bomba e quali sono gli obiettivi», in Corriere della Sera, 18 settembre 2025.
[5] Cfr F. Battistini, «Gaza, parte l’invasione…», cit.
[6] Cfr G. Colarusso, «Israele bombarda in Qatar i negoziati di Hamas. Doha: “Terrorismo di Stato”», in la Repubblica, 10 settembre 2025.
[7] Cfr «Israel’s Qatarstrophic error», in The Economist, 11 settembre 2025.
[8] Cfr «Israel gambles on decapitating Hamas in Qatar, shocking the Gulf», in The Economist, 9 settembre 2025.
[9] Cfr F. Battistini, «Quel “no” del Mossad sull’attacco al Qatar: sale lo scontro interno», in Corriere della Sera, 14 settembre 2025.
[10] Cfr «Israel goes to the brink in Gaza city», in The Economist, 16 settembre 2025.
[11] P. Mastrolilli, «Macron riconosce la Palestina all’Onu, mezza Europa lo segue. L’ira degli Usa: “atto simbolico”», in la Repubblica, 23 settembre 2025.
[12] Ivi.
[13] P. Haski, «Israele sta uccidendo Gaza un palazzo alla volta», in Internazionale, 16 settembre 2025.
[14] «The White House’s plan for Gaza deserves praise», in The Economist, 1 ottobre 2025.
[15] Cfr G. Fasano, «Ostaggi entro 72 ore, aiuti gestiti dall’Onu, Blair nel Consiglio guidato da Donald: cosa dicono i 20 punti», in Corriere della Sera, 30 settembre 2025.
[16] Cfr Id., «Smotrich e Ben-Gvir attaccano il piano: “Fallimento colossale”. Ma Bibi cerca il rilancio», in Corriere della Sera, 1 ottobre 2025.
[17] «The White House’s plan for Gaza deserves praise», cit.
[18] Cfr G. Colarusso, «Ostaggi, Hamas apre al rilascio. Trump: “Israele fermi le bombe”», in la Repubblica, 4 ottobre 2025.
[19] Cfr «Hamas says “yes, but” to the Trump Gaza plan. That may not be enough», in The Economist, 4 ottobre 2025.
[20] F. Tonacci, «La tregua. Israele ritira l’esercito e minaccia Hamas: “Disarmi o l’Idf tornerà”», in la Repubblica, 11 ottobre 2025.
[21] Cfr «Israel and Hamas agree to the first phase of Donald Trump’s peace plan», in The Economist, 10 ottobre 2025.
[22] Cfr P. Haski, «Perché è difficile essere ottimisti sul seguito del piano per Gaza», in Internazionale, 10 ottobre 2025.
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«Nostra aetate» e l’altro. L’eredità di Abraham Joshua Heschel
Quest’anno ricorre il sessantesimo anniversario della Nostra aetate, la dichiarazione del Concilio Vaticano II sulle relazioni della Chiesa cattolica con le religioni non cristiane[1]. Approvato il 28 ottobre 1965, al termine di un intenso confronto, questo documento – insieme a Unitatis redintegratio e Dignitatis humanae – rappresenta quello che papa Giovanni XXIII definì, all’apertura del Concilio (11 ottobre 1962), un vero e proprio «balzo in avanti» nella comprensione della Chiesa. In questi testi, infatti, l’identità cattolica si apre a una dimensione dialogica.
La Nostra aetate, al n. 2, dichiara solennemente che la Chiesa cattolica non rifiuta nulla di ciò che è vero e santo nelle altre religioni. La dichiarazione fu inizialmente preparata con l’intento di sanare le relazioni con il popolo ebraico e successivamente venne estesa anche alle altre religioni. L’approvazione di questo documento è avvenuta vent’anni dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale e la tragedia della Shoah. Da quel momento ha avuto inizio un percorso di riflessione interna, durante il quale l’identità cristiana è stata riconosciuta come inseparabile da quella ebraica.
Insieme al cardinale gesuita Augustin Bea, presidente di quello che allora veniva chiamato «Segretariato per l’unità dei cristiani», nella redazione della dichiarazione Nostra aetate ha avuto un ruolo di rilievo il rabbino Abraham Joshua Heschel, rappresentante dell’American Jewish Committee[2]. Nel maggio 1962 egli inviò a Bea un memorandum in cui proponeva alcuni punti fondamentali: la condanna esplicita dell’antisemitismo; l’eliminazione di ogni riferimento al popolo ebraico come «deicida»; il riconoscimento del giudaismo come tradizione religiosa viva e degna di rispetto; l’importanza del dialogo e della conoscenza reciproca.
Nel 1963 Bea si recò a New York, dove incontrò Heschel e altri leader ebrei, e in quell’occasione essi consolidarono un rapporto reciproco fatto di scambi intensi e franchi. Bea invitò più volte Heschel a Roma per contribuire al dibattito conciliare, come segno della stima e della fiducia mutua. Le osservazioni del rabbino influenzarono in maniera significativa le formulazioni della Nostra aetate, soprattutto nella parte che rifiuta le accuse di deicidio e condanna ogni forma di antisemitismo.
La vita e l’opera di Heschel
Abraham Joshua Heschel nacque a Varsavia l’11 gennaio 1907[3]. La sua formazione religiosa ebbe inizio a Medžbiž, una cittadina della Podolia, in Ucraina odierna, e continuò a Vilna e a Berlino. Tra i suoi antenati sono da annoverare rappresentanti fondamentali del movimento chassidicodel XIX secolo: rabbi Dov Baer di Mezeritch (il Grande Magghid), rabbi Abraham Joshua Heschel (il Rav di Apt) e rabbi Pinhas Shapiro di Korets. La vita e le opere di Heschel rappresentano un crocevia delle tre grandi correnti culturali: la tradizione religiosa della Bibbia ebraica e del Talmud, l’ebraismo chassidico dell’Europa orientale e la filosofia occidentale.
Durante i suoi studi universitari Heschel si rese conto delle differenze tra la mentalità secolare dell’Occidente e il modo di vivere ebraico. L’incontro con il metodo fenomenologico di Edmund Husserl gli permise di conciliare l’esperienza religiosa ebraica con le esigenze speculative della cultura occidentale. Ciò non toglie che la passione per lo studio dei profeti rimase il fattore determinante non solo della sua attività intellettuale, ma anche della sua stessa vita. Nel 1933 egli presentò al dipartimento di filosofia dell’Università di Berlino la sua dissertazione sulla coscienza profetica, Die Prophetie, pubblicata nel 1936 a Cracovia. Nel 1937 succedette a Martin Buber come presidente della Jüdische Hochschule di Francoforte. Con l’avvento della propaganda antisemitica, fu deportato in Polonia assieme ad altri connazionali: a Varsavia insegnò otto mesi all’Istituto di Studi ebraici.
Nell’aprile del 1939 accettò l’invito a insegnare all’Hebrew Union College a Cincinnati, negli Usa. Poté così lasciare la Polonia poco prima che i nazisti la invadessero. Ricordando quegli anni oscuri e terribili, nella sua prolusione all’Union Theological Seminary di New York, così parlò di sé: «Sono un tizzone acceso tirato fuori dall’incendio, in cui il mio popolo è stato bruciato a morte. Sono un tizzone acceso tirato fuori dal fuoco di un altare dedicato a Satana, sul quale sono state sterminate milioni di vite umane per la maggior gloria del male»[4]. Dal 1945 fino alla sua morte insegnò al Jewish Theological Seminary di New York, dove tenne la cattedra di etica e di mistica giudaica.
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Secondo Heschel, l’impegno culturale non può mai essere fine a sé stesso; più volte egli ha ripetuto che la cultura è un modo di vivere, e perciò deve uscire dagli ambienti strettamente accademici per divenire voce profetica nella società. Assieme a Martin Luther King Jr, marciò per le strade di Selma, in Alabama, per difendere i diritti civili dei neri d’America, e con lui istituì The Clergy and Laity Concerned about Viet Nam, un’organizzazione interreligiosa che condannava l’intervento americano in quel Paese dell’Estremo Oriente. La sua attività politica non fu diretta solo contro il governo americano, ma anche contro quello sovietico, condannando con varie manifestazioni le persecuzioni antisemitiche contro gli ebrei russi. Per questo egli venne chiamato «una voce per le genti» (kol le goyîm).
L’impegno nel dialogo
Heschel partecipò ai lavori del Concilio Vaticano II come incaricato dell’American Jewish Committee, divenendo una delle figure più determinanti non solo nella preparazione del documento conciliare Nostrae aetate, ma anche nel successivo dialogo tra ebrei e cristiani. Tra i principali suoi desideri c’era quello di far eliminare dagli insegnamenti della Chiesa cattolica ogni accenno possibile a una missione della Chiesa per la conversione degli ebrei. A tale riguardo, egli affermò: «Per millenovecento anni la Chiesa ha definito la sua relazione agli ebrei in una sola parola: missione. Ciò che testimoniamo ora è l’inizio di un cambiamento in quella relazione, un passaggio dalla missione al dialogo. Poiché il problema della missione è l’ostacolo più serio che si trova sulla strada della mutua comprensione, sarà necessario esplorarla in modo ancor più approfondito»[5].
Nel maggio 1962 Heschel presentò un memorandum in cui chiedeva ai Padri conciliari di eliminare una volta per tutte ogni accusa di deicidio nei confronti del popolo ebraico; di riconoscere l’integrità e la perpetuità dell’elezione degli ebrei nella storia della salvezza; e infine di rinunciare a fare proselitismo verso gli ebrei. Un ebreo ha una dignità in quanto ebreo e non in quanto possibile convertito al cristianesimo. Heschel ripeteva spesso: «Se mi venisse chiesto di decidere tra convertirmi o morire nelle camere a gas ad Auschwitz, sceglierei Auschwitz»[6].
Durante gli anni del Concilio, egli incontrò papa Paolo VI e gli chiese di sostenere le richieste ebraiche contro l’accusa di deicidio e riguardo alla missione dei cattolici verso gli ebrei. La versione finale della Nostra aetate, approvata il 28 ottobre 1965, afferma che la morte di Gesù non deve essere imputata a tutti gli ebrei collettivamente, e omette la parola «deicidio», condannando ogni forma di antisemitismo. La Chiesa cattolica ha riconosciuto la perdurante validità dell’alleanza di Dio con Israele, così come ha promosso e raccomandato la conoscenza e il rispetto reciproci tra ebrei e cristiani. Papa Paolo VI ha promulgato immediatamente il testo come dottrina ufficiale della Chiesa. Egli è stato talmente colpito dalla figura di Heschel da incoraggiare la pubblicazione delle sue opere in Italia. Il rabbino polacco è morto il 23 dicembre 1972, a New York. Durante l’udienza generale tenutasi in Vaticano il 31 gennaio 1973, Paolo VI ha citato uno dei suoi libri, Dio in cerca dell’uomo, in cui si dice che «ancor prima e infinitamente ancor più che noi ci movessimo alla ricerca di Dio, Dio è venuto in cerca di noi»[7]. Allora era insolito che in un discorso ufficiale di un papa venisse citata una fonte non cristiana.
Il contributo di Heschel
Heschel ha avuto un ruolo fondamentale nel dialogo ebraico-cristiano, aiutando molti cristiani a riscoprire le radici ebraiche della loro fede. Per i cristiani, l’ebraismo è considerato preparatio evangelica; per gli ebrei (cfr La guida dei perplessi di Maimonide), il cristianesimo è considerato preparatio messianica. L’opera del rabbino polacco ha portato i cristiani a conoscere meglio la spiritualità e lo stile di vita ebraici, in particolare la tradizione chassidica.
Secondo Heschel, il dialogo consiste nel mostrare la singolarità di ciascuna fede, senza ostacolarne o trascurarne la particolarità. Tra ebraismo e cristianesimo c’è un legame spirituale talmente profondo che l’uno ha bisogno dell’altro per comprendere sé stesso[8]. In dialogo con il gesuita americano Gustave Weigel, il rabbino si chiedeva: «È davvero la volontà di Dio che non ci sia più l’ebraismo nel mondo? Sarebbe davvero il trionfo di Dio se i rotoli della Torah non venissero più tirati fuori dall’Arca e la Torah non venisse più letta nella Sinagoga, le nostre antiche preghiere ebraiche in cui Gesù stesso adorava non venissero più recitate, il Seder di Pasqua non venisse più celebrato nelle nostre vite, la legge di Mosè non venisse più osservata nelle nostre case? Sarebbe davvero ad maiorem Dei gloriam avere un mondo senza ebrei?»[9].
Podcast | IL PREZZO DELLA DISUGUAGLIANZA
Papa Leone XIV ha lanciato un monito sulla crescente disuguaglianza economica globale. Ma quali sono le ragioni di questo fenomeno e quali i rischi? Lo abbiamo chiesto a due economisti che hanno curato la voce “disuguaglianza” nel Dizionario della Dottrina sociale della Chiesa: Andrea Boitani e Lorenzo Cappellari.
In un contesto simile, Heschel esortava i cristiani a essere fedeli alle loro radici e a non preoccuparsi di convertire gli ebrei, lasciandosi alle spalle una volta per tutte lo scandalo dei secoli passati: «Sì, riconosco in voi la presenza della santità. La vedo, la percepisco, la sento. Non ci mettete in imbarazzo; vogliamo che non siate imbarazzati da ciò che siamo»[10]. Tra ebraismo e cristianesimo dovrebbe esserci lo stesso rapporto che c’è tra una madre e il suo bambino; una madre non può ignorare il suo bambino, e un bambino non può dimenticare da chi è nato.
Le parole di Heschel anticipavano quanto sarebbe stato successivamente dichiarato dal cardinale Roger Etchegaray all’indomani del Giubileo del 2000: «Il cristianesimo non può pensarsi senza l’ebraismo, non può stare senza l’ebraismo». Il cristianesimo e l’ebraismo hanno il loro ruolo specifico nella redenzione. «Quando noi cristiani ci rallegriamo per il “già”, gli ebrei ci ricordano il “non ancora”, e questa tensione feconda è nel cuore dell’intera vita della Chiesa»[11].
L’approccio del rabbino polacco al dialogo ebraico-cristiano è diverso da quello di molti altri teologi ebrei e cristiani coinvolti nel dialogo tra queste due fedi. «Heschel non discuteva di Gesù o di Paolo, né scriveva sul Nuovo Testamento o discuteva di punti dottrinali»[12]. Egli condivideva la spiritualità ebraica, e in questo modo aiutava i cattolici a essere cattolici migliori. Secondo la sua concezione del dialogo interreligioso, ogni partner del dialogo non dovrebbe rinunciare alla propria identità per compiacere l’altro partner, né mettere da parte la propria fede[13]. Il dialogo inizia e si fonda sul rispetto dell’impegno dell’altro, sulla fede dell’altro: «Il primo e più importante prerequisito dell’interreligiosità – egli diceva – è la fede. […] L’interreligiosità deve nascere dalla profondità, non dalla vuota assenza di fede. Non è un’impresa per coloro che sono a metà dell’apprendimento o spiritualmente immaturi. Se non vuole portare alla confusione dei molti, deve rimanere una prerogativa di pochi»[14].
Lo scopo del dialogo non è né il superamento di questioni controverse, come ad esempio il fatto che Gesù sia o non sia il Messia, o il significato della dottrina cristiana della Trinità, né la costruzione di una religione universale. «Qual è dunque lo scopo della cooperazione interreligiosa? Non è quello di adularsi o confutarsi l’un l’altro, ma di aiutarsi a vicenda; di condividere l’intuizione e l’apprendimento, di cooperare in iniziative accademiche al più alto livello scientifico e, cosa ancora più importante, di cercare nel deserto le sorgenti della devozione, i tesori della quiete, la forza dell’amore e la cura per l’uomo»[15].
Secondo Heschel, l’obiettivo del dialogo interreligioso è ciò che viene chiamato «teologia del profondo» (Depth Theology). «Le teologie ci dividono; la teologia del profondo ci unisce»[16]. Il cuore della teologia non è né la halacha (per gli ebrei), né la Chiesa(per i cristiani), ma il pathos di Dio, la sollecitazione divina (divine concern)per l’umanità. Essa sta alla base del dialogo interreligioso. «Il pathos di cui parla Heschel si esprime principalmente nella teologia del profondo. Questa è interessata al pre-teologico e intuisce l’ineffabile; la teologia (diremmo dogmatica) ne è l’espressione. Heschel non rifiuta i dogmi o la dottrina: essi sono necessari in quanto ci fanno ricordare i momenti passati di un’intuizione e ci permettono di comunicare e di esprimerli ad altri. La vitalità della religione consiste nel mantenere viva la polarità di dottrina ed intuizione, di dogma e di fede, di rituale e di spontaneità, di istituzione e di individuo. Il pathos rende possibile e realizza una circolarità ermeneutica tra mistero e sua espressione; il pathos fa sì che ogni definizione richieda sempre un rinvio ulteriore»[17]. Secondo Heschel, la verità ultima di tutte le religioni consiste nell’incontro di Dio nel profondo di ogni uomo, e di ogni uomo con l’altro uomo. «Il pensiero più prezioso dell’uomo è Dio, ma il pensiero più prezioso di Dio è l’umanità. Un credente è una persona che tiene insieme Dio e l’uomo in un unico pensiero»[18].
L’approccio del rabbino al dialogo interreligioso collega tra loro «identità» e «relazione» in modo tale da evitare che l’altro sia escluso come minaccia o incluso nella propria religione come mera anticipazione. Conoscere la religione dell’altro significa entrare nella pelle dell’altro, imparando a guardare il mondo così come l’altro lo osserva. Conoscendo un’altra religione ed entrando nella sua tradizione spirituale, ciascuno potrà comprendere meglio la propria fede. In questo modo, ognuno non capirà più la propria identità religiosa negando la religione dell’altro, ma anche in relazione a essa[19].
Le osservazioni di Heschel sul dialogo interreligioso hanno portato avanti l’eredità della dichiarazione Nostra aetate fino al compimento realizzato durante la visita di san Giovanni Paolo II alla sinagoga di Roma nel 1986. In quell’occasione, il Pontefice parlò del legame profondo tra cristiani ed ebrei: «La religione ebraica non ci è “estrinseca”, ma in un certo qual modo è “intrinseca” alla nostra religione. Abbiamo quindi verso di essa dei rapporti che non abbiamo con nessun’altra religione. Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori»[20].
Sessant’anni dopo la «Nostra aetate»
In questa prospettiva, il dialogo interreligioso si configura come un cammino di apertura e di reciproco riconoscimento, dove il confronto autentico è fondato sulla stima dell’altro in cerca della verità. In tal senso, il documento del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso Dialogo e annuncio (DA) ha voluto espressamente riprendere e continuare le linee ispiratrici del documento conciliare, affermando: «I cristiani devono essere pronti ad apprendere e a ricevere da e attraverso gli altri i valori positivi delle loro tradizioni. Attraverso il dialogo possono essere spinti a rinunciare a pregiudizi radicati, a rivedere idee preconcette e persino, a volte, a permettere la purificazione della comprensione della loro fede» (DA 49)[21].
Il rabbino Alon Goshen-Gottstein ha scritto: «L’ascolto è il primo passo verso la comprensione. Ascoltando, indichiamo sia che ci interessa l’altro sia che abbiamo qualcosa da imparare dall’altro. Mi sembra che l’umiltà religiosa imponga l’ascolto come modalità di base dell’essere in un contesto interreligioso»[22]. Potremmo formulare la regola d’oro del dialogo interreligioso in questo modo: «Cerca sempre di capire gli altri, come vorresti essere capito tu»[23].
Parlando del dialogo interreligioso, papa Francesco ha detto, in Evangelii gaudium (EG), che «la vera apertura implica il mantenersi fermi nelle proprie convinzioni più profonde, con un’identità chiara e gioiosa, ma aperti a comprendere quelle dell’altro e sapendo che il dialogo può arricchire ognuno» (EG 251). Durante il viaggio apostolico in Indonesia, nell’incontro interreligioso che ha avuto luogo a Giacarta il 5 settembre 2024, egli ha ribadito che l’incontro tra le religioni non riguarda «il cercare a tutti i costi dei punti in comune tra le diverse dottrine e professioni religiose. In realtà, può succedere che un approccio del genere finisca per dividerci, perché le dottrine e i dogmi di ogni esperienza religiosa sono diversi»[24]. Le religioni hanno origine da quella sorgente di vita che è «la ricerca dell’incontro con il divino, la sete di infinito che l’Altissimo ha posto nel nostro cuore, la ricerca di una gioia più grande e di una vita più forte di ogni morte, che anima il viaggio della nostra vita e ci spinge a uscire dal nostro io per andare incontro a Dio. Ecco, ricordiamoci questo: guardando in profondità, cogliendo ciò che scorre nell’intimo della nostra vita, il desiderio di pienezza che abita il profondo del nostro cuore, noi ci scopriamo tutti fratelli, tutti pellegrini, tutti in cammino verso Dio, al di là di ciò che ci differenzia»[25].
Il dialogo interreligioso, nella sua dimensione più profonda, non è semplicemente un confronto tra dottrine, ma un incontro di persone che cercano insieme la presenza di Dio nel mondo, nel volto dell’altro. In effetti, il documento conciliare Nostra aetate ha preferito avviare dei processi di conoscenza e di ascolto reciproco piuttosto che spartire spazi di potere tra le religioni.
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[1] Per un ampio ed esaustivo commento, si può consultare «“Nostra aetate”. Introduzione e commento di Maurizio Gronchi e Paolo Trianni», in S. Noceti – R. Repole (edd.), Commentario ai Documenti del Vaticano II, vol. 6, Bologna, EDB, 2018, 481-568.
[2] Un articolo pubblicato recentemente nella nostra rivista ha ricordato il ruolo di un altro protagonista della redazione del documento: il patriarca Massimo IV Saigh. Cfr D. Neuhaus, «Come è stata scritta la dichiarazione “Nostra aetate”? Il ruolo del cardinale Bea e del patriarca Massimo IV Saigh», in Civ. Catt. 2025 III 9-22.
[3] Per un approfondimento del pensiero di Heschel, cfr P. Gamberini, «Il “pathos” di Dio nel pensiero di Abraham Joshua Heschel», in Civ. Catt. 1998 II 450-464; Id., Pathos e Logos in Abraham Joshua Heschel, Roma, Città Nuova, 2009.
[4] A. J. Heschel, «No Religion Is an Island», in Id., Moral Grandeur and Spiritual Audacity, New York, Farrar, Straus & Giroux, 1996, 235.
[5] Id., «From Mission to Dialogue», in Conservative Judaism 21 (1967) 9.
[6] Cfr M. H. Tannenbaum, «Heschel and Vatican – Jewish-Christian Relations», in American Jewish Committee, New York, 21 febbraio 1963, 16.
[7] Paolo VI, s., Udienza generale, 31 gennaio 1973 (vatican.va/content/paul-vi/it/…).
[8] Cfr A. J. Heschel, «No Religion Is an Island», cit., 242.
[9] Ivi, 246.
[10] Id., «From Mission to Dialogue», cit., 8.
[11] R. Etchegaray, «Perché la fede cristiana ha bisogno del giudaismo», in tinyurl.com/4w9hbnry
[12] M. A. Chester, «Heschel and the Christians», in Journal of Ecumenical Studies 38 (2001) 256.
[13] Per approfondire la prospettiva di Heschel sul dialogo interreligioso, cfr S. Krajewski – A. Lipszyc (edd.), Abraham Joshua Heschel. Philosophy, Theology and Interreligious Dialogue, Wiesbaden,Harrassowitz Verlag, 2009.
[14] A. J. Heschel, «No Religion Is an Island», cit., 241.
[15] Id., «What We Might Do Together», in Id., Moral Grandeur…, cit., 300.
[16] Id., The Insecurity of Freedom: Essays in Applied Religion, New York, Farrar, Straus & Giroux, 1965, 119.
[17] P. Gamberini, Pathos e Logos…,cit., 41 s.
[18] A. J. Heschel, «What Is Ecumenism», in Id., Moral Grandeur…,cit., 289.
[19] Cfr Id., «No Religion Is An Island», cit., 244.
[20] Giovanni Paolo II, s., «Discorso nell’Incontro con la comunità ebraica», Sinagoga di Roma, 13 aprile 1986 (cttps://tinyurl,com//2y224ubf).
[21] Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, Dialogo e annuncio, 19 maggio 1991 (tinyurl.com/39he8yhd).
[22] A. Goshen-Gottstein, «Judaism and Incarnational Theologies: Mapping out the parameters of dialogue», in Journal of Ecumenical Studies 39 (2002) 23.
[23] M. Schulz, «Der Beitrag von Immanuel Levinas zum jüdisch-christlichen Dialog: Menschwerdung Gottes», in Münchner Theologische Zeitung 56 (2005) 152.
[24] Francesco, Discorso nell’Incontro interreligioso con i giovani, Singapore, 13 settembre 2024 (tinyurl.com/mr3a7pjm).
[25] Id., Discorso nell’Incontro interreligioso, Giacarta, 5 settembre 2024 (tinyurl.com/bdejsbc2).
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«Una Chiesa fedele al cuore di Dio»
Il 9 ottobre 2025 è stata pubblicata l’Esortazione apostolica Dilexi te di papa Leone XIV sull’amore verso i poveri. Il documento, firmato il 4 ottobre precedente, festa di san Francesco d’Assisi, è il primo del nuovo Pontefice e raccoglie e sviluppa un progetto che papa Francesco stava preparando nei suoi ultimi mesi di vita. Leone XIV lo spiega, proprio all’inizio del documento, con queste parole: «Avendo ricevuto come in eredità questo progetto, sono felice di farlo mio – aggiungendo alcune riflessioni – e di proporlo ancora all’inizio del mio pontificato, condividendo il desiderio dell’amato Predecessore che tutti i cristiani possano percepire il forte nesso che esiste tra l’amore di Cristo e la sua chiamata a farci vicini ai poveri» (n. 3). Ovvero, in altre parole, declinate e sviluppate in diversi modi nel documento, l’amore ai poveri è garanzia di fedeltà al cuore di Dio[1].
Dilexi te si colloca in ovvia continuità con l’ultima enciclica di papa Francesco Dilexit nos, che egli ha voluto dedicare all’amore umano e divino del cuore di Gesù Cristo. Proprio da questo amore salvifico che si rivolge a tutti scaturisce l’amore preferenziale e personalizzato ai più poveri che la Chiesa è chiamata a concretizzare. Essa lo ha fatto lungo la sua storia bimillenare e continua a farlo oggi, rendendo visibili le parole «Ti ho amato» (Ap 3,9). Se il titolo stesso del documento evoca il legame con Dilexit nos, le numerose citazioni di Evangelii gaudium, Laudato si’, Gaudete et exsultate e Fratelli tutti contribuiscono a fare di questo documento un chiaro tributo agli insegnamenti di papa Francesco.
L’Esortazione apostolica è strutturata in cinque capitoli con i seguenti titoli: 1. Alcune parole indispensabili (nn. 4-15); 2. Dio sceglie i poveri (nn. 16-34); 3. Una Chiesa per i poveri (nn. 35-81); 4. Una storia che continua (nn. 82-102); 5. Una sfida permanente (nn. 103-121). Si parte, quindi, da una contestualizzazione e definizione di concetti (cap. 1); si prosegue con una riflessione biblica e teologica sull’opzione preferenziale di Dio per i poveri (cap. 2); si mostra come, nella storia della Chiesa, sia stato vissuto concretamente l’amore per i più deboli (cap. 3); si ricordano la formulazione della Dottrina sociale della Chiesa e le sue conseguenze anche sociopolitiche (cap. 4); e infine si conclude con la constatazione che l’amore per i poveri rimane una sfida ineludibile e urgente per la Chiesa di oggi (cap. 5).
«Alcune parole indispensabili»
Il capitolo introduttivo dell’Esortazione, dal titolo Alcune parole indispensabili, ricorda le parole di Gesù, che si identifica con i più piccoli: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Più concretamente, «nessun gesto di affetto, neanche il più piccolo, sarà dimenticato, specialmente se rivolto a chi è nel dolore, nella solitudine, nel bisogno» (n. 4).
Dall’identificazione del Signore con i più piccoli scaturiscono conseguenze chiare. «Non siamo nell’orizzonte della beneficenza, ma della Rivelazione: il contatto con chi non ha potere e grandezza è un modo fondamentale di incontro con il Signore della storia. Nei poveri Egli ha ancora qualcosa da dirci» (n. 5). Leone XIV evoca di seguito l’esempio di san Francesco d’Assisi, per ribadire: «Sono convinto che la scelta prioritaria per i poveri genera un rinnovamento straordinario sia nella Chiesa che nella società, quando siamo capaci di liberarci dall’autoreferenzialità e riusciamo ad ascoltare il loro grido» (n. 7). Così ha fatto Dio stesso, ascoltando le grida del popolo ebreo in Egitto. Di conseguenza, anche noi, «ascoltando il grido del povero, siamo chiamati a immedesimarci col cuore di Dio, che è premuroso verso le necessità dei suoi figli e specialmente dei più bisognosi» (n. 8).
La condizione dei poveri – scrive il Papa – ci interpella personalmente, come interpella la società, i sistemi politici ed economici e la Chiesa stessa. E lo fa nella diversità di forme in cui la povertà si manifesta: «quella di chi non ha mezzi di sostentamento materiale, la povertà di chi è emarginato socialmente e non ha strumenti per dare voce alla propria dignità e alle proprie capacità, la povertà morale e spirituale, la povertà culturale, quella di chi si trova in una condizione di debolezza o fragilità personale o sociale, la povertà di chi non ha diritti, non ha spazio, non ha libertà» (n. 9). Va anche detto che non basta l’impegno concreto per i poveri: ad esso «occorre anche associare una trasformazione di mentalità che possa incidere a livello culturale» (n. 11). Specialmente per quanto riguarda lo stile di vita in cui si cercano la felicità, tante volte basata sull’accumulo della ricchezza, e il successo, anche approfittando di sistemi sociali che favoriscono i più forti e scartano i più deboli (cfr n. 11).
Papa Leone XIV ribadisce che «sulla povertà non possiamo abbassare la guardia» (n. 12), nemmeno nei Paesi ricchi, nei quali sono preoccupanti le cifre sul numero dei poveri e «si nota che sono aumentate le diverse manifestazioni di povertà», che «si declina in molteplici forme di depauperamento economico e sociale, riflettendo il fenomeno delle crescenti disuguaglianze anche in contesti generalmente benestanti» (n. 12). In questo contesto, alla fine del primo capitolo, Dilexi te ricorda i pregiudizi ideologici o le strumentalizzazioni che si verificano, a cominciare dall’interpretazione dei dati «in modo tale da convincere che la situazione dei poveri non sia così grave» (n. 13). Citando Fratelli tutti, il Pontefice ribadisce che la realtà è chiara: «Ci sono regole economiche che sono risultate efficaci per la crescita, ma non altrettanto per lo sviluppo umano integrale» (n. 13). «I poveri non ci sono per caso o per un cieco e amaro destino. Tanto meno la povertà, per la maggior parte di costoro, è una scelta. Eppure – dice il Papa – c’è ancora qualcuno che osa affermarlo, mostrando cecità e crudeltà» (n. 14).
L’avvertimento finale del primo capitolo è quindi molto chiaro: «Anche i cristiani, in tante occasioni, si lasciano contagiare da atteggiamenti segnati da ideologie mondane o da orientamenti politici ed economici che portano a ingiuste generalizzazioni e a conclusioni fuorvianti. Il fatto che l’esercizio della carità risulti disprezzato o ridicolizzato, come se si trattasse della fissazione di alcuni e non del nucleo incandescente della missione ecclesiale, mi fa pensare – scrive il Papa – che bisogna sempre nuovamente leggere il Vangelo, per non rischiare di sostituirlo con la mentalità mondana» (n. 15).
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«Dio sceglie i poveri»
Il secondo capitolo dell’Esortazione – Dio sceglie i poveri – ci fa vedere come Dio abbia scelto e continui a scegliere i poveri. Si è fatto povero egli stesso ed è venuto in mezzo a noi «per liberarci dalla schiavitù, dalle paure, dal peccato e dal potere della morte» (n. 16). Perciò, anche teologicamente, possiamo parlare di «un’opzione preferenziale da parte di Dio per i poveri», come ha riconosciuto l’Assemblea di Puebla ed è stato ricordato nel successivo magistero della Chiesa. Questa «preferenza», aggiunge Leone XIV, non vuol dire esclusivismo o discriminazione verso altri gruppi: «essa intende sottolineare l’agire di Dio che si muove a compassione verso la povertà e la debolezza dell’umanità intera e che, volendo inaugurare un Regno di giustizia, di fraternità e di solidarietà, ha particolarmente a cuore coloro che sono discriminati e oppressi, chiedendo anche a noi, alla sua Chiesa, una decisa e radicale scelta di campo a favore dei più deboli» (n. 16).
Gesù si presenta come un Messia povero, «dei poveri e per i poveri» (n. 19). Nella sua vita pubblica, vive come un maestro itinerante, in una povertà che egli chiede anche ai suoi discepoli, in quanto «è segno del legame con il Padre […], proprio perché la rinuncia ai beni, alle ricchezze e alle sicurezze di questo mondo diventi segno visibile dell’affidarsi a Dio e alla sua provvidenza» (n. 20).
La Scrittura è ricca di esempi che illustrano la misericordia di Dio verso i poveri, richiedendo un simile atteggiamento da parte dei credenti, come viene espresso nella parabola del giudizio finale (cfr Mt 25,31-46). Di fronte a tanta chiarezza, il Papa si interroga: «Tante volte mi domando perché, pur essendoci tale chiarezza nelle Sacre Scritture a proposito dei poveri, molti continuano a pensare di poter escludere i poveri dalle loro attenzioni» (n. 23). E citando Evangelii gaudium, conclude che la Scrittura «è un messaggio così chiaro, così diretto, così semplice ed eloquente, che nessuna ermeneutica ecclesiale ha il diritto di relativizzarlo. La riflessione della Chiesa su questi testi non dovrebbe oscurare o indebolire il loro significato esortativo, ma piuttosto aiutare a farli propri con coraggio e fervore» (n. 31). Così ha fatto la prima comunità cristiana, esempio di «condivisione dei beni e di attenzione alla povertà» (n. 32).
«Una Chiesa per i poveri»
Il terzo capitolo dell’Esortazione, dal titolo Una Chiesa per i poveri, è il più lungo, comprendendo i numeri 35-81. In esso, papa Leone XIV ci offre una sintesi dell’impegno per i poveri e i più deboli lungo tutta la storia della Chiesa. Si comincia dai tempi apostolici, quando già le prime comunità cristiane davano esempio «della necessità di prendersi cura di coloro che erano soggetti a maggiori privazioni» (n. 37) e, come mostra l’atteggiamento di san Lorenzo, li consideravano i veri «tesori della Chiesa» (n. 38). Si passa poi ai Padri della Chiesa, che «riconoscevano nei poveri una via privilegiata di accesso a Dio, un modo speciale per incontrarlo» (n. 39). Nei Padri, «la carità verso i bisognosi non era intesa come una semplice virtù morale, ma come espressione concreta della fede nel Verbo incarnato» (n. 39). Perciò la comunità dei fedeli non considerava i poveri «un’appendice, ma una parte essenziale del suo Corpo vivo» (n. 39) e «la Chiesa nascente non separava il credere dall’azione sociale» (n. 40).
Il Pontefice cita sant’Ignazio di Antiochia, san Policarpo e san Giustino, per poi soffermarsi in particolare su san Giovanni Crisostomo e sant’Agostino. Dagli scritti e omelie di Giovanni Crisostomo si rileva che «egli esortava i fedeli a riconoscere Cristo nei bisognosi», perché «se non incontrano Cristo nei poveri che stanno alla porta, non potranno adorarlo nemmeno sull’Altare» (n. 41). Di conseguenza, il vescovo «denunciava con veemenza il lusso eccessivo, che coesisteva con l’indifferenza verso i poveri» (n. 42). Per quanto riguarda sant’Agostino, egli si era formato alla scuola di sant’Ambrogio, il quale sosteneva che «l’elemosina è giustizia ristabilita, non un gesto di paternalismo» (n. 43). Seguendo il suo maestro, il vescovo di Ippona ha insegnato l’amore preferenziale per i poveri, riconoscendo in essi la presenza sacramentale del Signore (cfr n. 44) e vedendo nella cura dei più bisognosi «una prova concreta della sincerità della fede» (n. 45). Perciò – conclude papa Leone XIV – «in una Chiesa che riconosce nei poveri il volto di Cristo e nei beni lo strumento della carità, il pensiero agostiniano rimane una luce sicura» (n. 47).
Il terzo capitolo prosegue con una sintesi particolarmente suggestiva sull’impegno della Chiesa per i poveri lungo i secoli e in diversi ambiti di attuazione. Si comincia con la cura dei malati e sofferenti, ricordando i molti Istituti religiosi fondati con questa specifica finalità e ribadendo che oggi «questa eredità continua negli ospedali cattolici, nei luoghi di cura aperti in regioni remote, nelle missioni sanitarie operanti nelle foreste, nei centri di accoglienza per tossicodipendenti e negli ospedali da campo in zone di guerra» (n. 52). «Nell’atto di curare una ferita – ribadisce il Pontefice – la Chiesa annuncia che il Regno di Dio inizia tra i più vulnerabili» (n. 52).
L’Esortazione ricorda poi la cura dei poveri nella vita monastica, perché i monasteri, oltre all’assistenza materiale, «svolgevano un ruolo fondamentale nella formazione culturale dei più umili» (n. 57), così che, «dove i monaci hanno aperto le loro porte ai poveri, la Chiesa ha rivelato con umiltà e fermezza che la contemplazione non esclude la misericordia, ma la esige come suo frutto più puro» (n. 58).
Viene anche evocata l’opera di liberazione dei prigionieri, in particolare attraverso l’azione dei Trinitari e Mercedari in favore dei cristiani «catturati nel Mediterraneo o ridotti in schiavitù nelle guerre» (n. 60). Non si rimane però nel passato, perché i bisogni di liberazione sono quanto mai attuali: «Ancora oggi – scrive il Papa – quando “milioni di persone – bambini, uomini e donne di ogni età – vengono private della libertà e costrette a vivere in condizioni assimilabili a quelle della schiavitù”, tale eredità viene portata avanti da questi Ordini e da altre istituzioni e congregazioni che lavorano nelle periferie urbane, nelle zone di conflitto e nei corridoi migratori. Quando la Chiesa si inchina per spezzare le nuove catene che legano i poveri, diventa un segno pasquale» (n. 61).
Un capitolo specifico viene dedicato alla storia della vita religiosa: quello della nascita degli Ordini mendicanti, come i francescani, i domenicani, gli agostiniani e i carmelitani. Non si dimentica nemmeno, in questo contesto, la fondazione, a opera di santa Chiara d’Assisi, dell’Ordine delle Povere Dame, poi chiamate «clarisse». A proposito di san Francesco d’Assisi – figura emblematica del movimento mendicante –, il Papa scrive: «Non ha fondato una realtà di servizio sociale, ma una fraternità evangelica. Nei poveri ha visto fratelli e vive immagini del Signore. […] La sua povertà era relazionale: lo portava a farsi prossimo, uguale, anzi, minore. La sua santità germogliava dalla convinzione che si può ricevere veramente Cristo solo donandosi generosamente ai fratelli» (n. 64). E di san Domenico il Papa sottolinea che «voleva proclamare il Vangelo con l’autorevolezza che deriva da una vita povera, convinto che la Verità abbia bisogno di testimoni coerenti» (n. 66). In sintesi, «i mendicanti – afferma il Pontefice – sono diventati il simbolo di una Chiesa pellegrina, umile e fraterna, che vive tra i poveri non per proselitismo, ma per identità. Insegnano che la Chiesa è luce solo quando si spoglia di tutto, e che la santità passa attraverso un cuore umile e dedito ai più piccoli» (n. 67).
In questa carrellata storica, non viene nemmeno tralasciato l’impegno della Chiesa nell’educazione dei poveri, che ha preso forma negli Istituti religiosi maschili e femminili dedicati alla formazione popolare. Si ricordano a questo proposito gli esempi dei santi Giuseppe Calasanzio, Giovanni Battista de La Salle, Marcellino Champagnat e Giovanni Bosco, e del beato Antonio Rosmini. Nelle parole dell’Esortazione, «l’educazione dei poveri, per la fede cristiana, non è un favore, ma un dovere», con lo scopo non solo di formare professionisti, «ma persone aperte al bene, al bello e alla verità. La scuola cattolica, di conseguenza, quando è fedele al suo nome, si configura come uno spazio di inclusione, formazione integrale e promozione umana, coniugando fede e cultura, semina futuro, onora l’immagine di Dio e costruisce una società migliore» (n. 72).
Podcast | IL PREZZO DELLA DISUGUAGLIANZA
Papa Leone XIV ha lanciato un monito sulla crescente disuguaglianza economica globale. Ma quali sono le ragioni di questo fenomeno e quali i rischi? Lo abbiamo chiesto a due economisti che hanno curato la voce “disuguaglianza” nel Dizionario della Dottrina sociale della Chiesa: Andrea Boitani e Lorenzo Cappellari.
Dopo l’educazione, Leone XIV ricorda l’importanza dell’accompagnamento dei migranti, nei quali la Chiesa, facendo memoria dell’esperienza del Popolo di Dio, ha sempre riconosciuto «una presenza viva del Signore che, nel giorno del giudizio, dirà a quelli che sono alla sua destra: “Ero straniero e mi avete accolto” (Mt 25,35)» (n. 73). Nel secolo XIX, milioni di europei sono emigrati in cerca di migliori condizioni di vita e la Chiesa li ha accompagnati, «offrendo loro assistenza spirituale, legale e materiale» (n. 74). Di questo impegno sono esempio san Giovanni Battista Scalabrini e santa Francesca Saverio Cabrini. Si tratta di un’attività che continua oggi con i migranti e i rifugiati, sottolineando quattro verbi che papa Francesco amava ripetere: accogliere, proteggere, promuovere e integrare (cfr n. 75) e che papa Leone XIV riassume con queste parole quanto mai attuali: «La Chiesa, come una madre, cammina con coloro che camminano. Dove il mondo vede minacce, lei vede figli; dove si costruiscono muri, lei costruisce ponti. Sa che il suo annuncio del Vangelo è credibile solo quando si traduce in gesti di vicinanza e accoglienza. E sa che in ogni migrante respinto è Cristo stesso che bussa alle porte della comunità» (n. 75).
Arrivando ai nostri tempi, il Papa vuole ancora evocare chi ha lavorato o lavora accanto agli ultimi, «nei luoghi più dimenticati e feriti dell’umanità. I più poveri tra i poveri […] occupano un posto speciale nel cuore di Dio»; in essi «la Chiesa ritrova la chiamata a mostrare la sua realtà più autentica» (n. 76). Il più conosciuto degli esempi evocati è quello di santa Teresa di Calcutta, che «non si considerava una filantropa o un’attivista, ma una sposa di Cristo crocifisso, che serviva con amore totale nei fratelli sofferenti» (n. 77). Il suo esempio, come quello di tanti altri, ci insegna «che servire i poveri non è un gesto da fare “dall’alto verso il basso”, ma un incontro tra pari, dove Cristo viene rivelato e adorato» (n. 79). Per cui, come insegnava san Giovanni Paolo II, «c’è una presenza speciale di Cristo nella persona dei poveri, che obbliga la Chiesa a fare un’opzione preferenziale per loro» (n. 79). In questo modo – conclude papa Leone XIV – la Chiesa, «quando si china a prendersi cura dei poveri, assume la sua postura più elevata» (n. 79).
L’ultimo riferimento del capitolo terzo è dedicato ai movimenti popolari per i quali la solidarietà implica combattere le cause strutturali della povertà e promuovere politiche sociali non solo verso i poveri, ma concepite con i poveri e dei poveri.
«Una storia che continua»
La carrellata storica del capitolo terzo di Dilexi te ci aveva già fatto vedere che l’impegno della Chiesa per i poveri continua in tempi più recenti e nei nostri giorni. Il capitolo quarto lo sottolinea in modo particolare, facendo riferimento alla formazione e al contributo della Dottrina sociale della Chiesa e al ruolo di tutti i membri della comunità ecclesiale. Infatti, «il cambiamento d’epoca che stiamo affrontando rende oggi ancora più necessaria la continua interazione tra battezzati e Magistero, tra cittadini ed esperti, tra popolo e istituzioni. In particolare, va nuovamente riconosciuto che la realtà si vede meglio dai margini e che i poveri sono soggetti di una specifica intelligenza, indispensabile alla Chiesa e all’umanità» (n. 82).
Viene ribadito che il Magistero degli ultimi centocinquant’anni è ricco di insegnamenti che riguardano i poveri. Lo si vede negli insegnamenti dei singoli pontefici, da Leone XIII in poi, e nell’insegnamento del Concilio Vaticano II, voluto e convocato da san Giovanni XXIII. Il Concilio «rappresenta una tappa fondamentale nel discernimento ecclesiale riguardo ai poveri, alla luce della Rivelazione» (n. 84), prospettando «la necessità di una nuova forma ecclesiale, più semplice e sobria, coinvolgente l’intero popolo di Dio e la sua figura storica. Una Chiesa più simile al suo Signore che alle potenze mondane, tesa a stimolare in tutta l’umanità un impegno concreto per la soluzione del grande problema della povertà nel mondo» (n. 84).
Nell’insegnamento conciliare e in quello dei Papi si sottolinea come ogni proprietà privata abbia una funzione sociale fondata sulla comune destinazione dei beni. «Questa convinzione è rilanciata da san Paolo VI nell’Enciclica Populorum progressio, dove leggiamo che nessuno può ritenersi “autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario”» (n. 86). A sua volta, san Giovanni Paolo II approfondisce concettualmente «il rapporto preferenziale della Chiesa con i poveri», riconoscendo che «l’opzione per i poveri è una “forma speciale di primazia nell’esercizio della carità cristiana, della quale dà testimonianza tutta la tradizione della Chiesa”» (n. 87). Inoltre, papa Wojtyła colloca il lavoro umano al centro di tutta la questione sociale.
Del contributo di papa Benedetto XVI l’Esortazione ricorda l’identificazione tra il conseguimento del bene comune e l’amore al prossimo: identificazione che egli colloca alla base dell’impegno sociopolitico. Quindi si giunge al pontificato di Francesco. A questo punto, si fa riferimento all’importanza, anche per la Chiesa intera, delle Conferenze dell’Episcopato latinoamericano a Medellín, a Puebla, a Santo Domingo e ad Aparecida, a proposito delle quali papa Leone XIV scrive una nota autobiografica: «Io stesso, per lunghi anni missionario in Perù, devo molto a questo cammino di discernimento ecclesiale che Papa Francesco ha saputo sapientemente legare a quello delle altre Chiese particolari, specie del Sud globale» (n. 89).
Collegando l’insegnamento di papa Francesco con quello dell’Episcopato latinoamericano, Dilexi te si sofferma, alla fine del capitolo quarto, su due tematiche: le «strutture di peccato che creano povertà e disuguaglianze estreme» e i «poveri come soggetti». È l’occasione per ribadire che i deboli o meno dotati sono persone umane, hanno la stessa dignità degli altri e non devono solo limitarsi a sopravvivere. Poi, citando il Documento di Aparecida del 2007, il Pontefice «insiste sulla necessità di considerare le comunità emarginate quali soggetti capaci di creare una propria cultura, più che come oggetti di beneficenza. Ciò implica che tali comunità hanno il diritto di vivere il Vangelo e celebrare e comunicare la fede secondo i valori presenti nelle loro culture. L’esperienza della povertà dà loro la capacità di riconoscere aspetti della realtà che altri non riescono a vedere, e per questo la società ha bisogno di ascoltarli. Lo stesso vale per la Chiesa, che deve valutare positivamente il loro modo “popolare” di vivere la fede» (n. 100).
Le ultime parole del capitolo quarto includono un ringraziamento e un appello. Il ringraziamento è indirizzato a chi ha scelto di stare tra i poveri, vivendo con loro e come loro, «un’opzione che deve trovare posto tra le forme più alte di vita evangelica» (n. 101). L’appello è di lasciarsi evangelizzare dai poveri, riconoscendo «la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro» (n. 102) e accettando di essere sfidati dalla loro esperienza: «Solo mettendo in relazione le nostre lamentele con le loro sofferenze e privazioni è possibile ricevere un rimprovero che ci invita a semplificare la nostra vita» (n. 102).
«Una sfida permanente»
Il quinto e ultimo capitolo dell’Esortazione apostolica, dal titolo Una sfida permanente, inizia ricordando il percorso fatto e spiegando di nuovo i suoi fondamenti. Scrive il Papa: «Ho scelto di ricordare questa bimillenaria storia di attenzione ecclesiale verso i poveri e con i poveri per mostrare che essa è parte essenziale dell’ininterrotto cammino della Chiesa. […] L’amore per i poveri è un elemento essenziale della storia di Dio con noi e, dal cuore stesso della Chiesa, prorompe come un continuo appello ai cuori dei credenti, sia delle comunità che dei singoli fedeli» (n. 103). «Per questo l’amore a coloro che sono poveri […] è la garanzia evangelica di una Chiesa fedele al cuore di Dio» (ivi). I poveri – continua il Papa – non sono da considerare solo come un problema sociale: «essi sono una “questione familiare”. Sono “dei nostri”. Il rapporto con loro non può essere ridotto a un’attività o a un ufficio della Chiesa» (n. 104). Perciò Leone XIV cita la parabola del buon samaritano, riprendendo le parole finali di Gesù come un monito quotidiano a ogni cristiano: «Va’ e anche tu fa’ così» (Lc 10,37).
L’Esortazione ribadisce poi che il rapporto con i poveri arreca benefìci reciproci. I poveri sono aiutati da chi possiede mezzi economici, ma in contraccambio evangelizzano chi li avvicina: «Essi rivelano la nostra precarietà e la vacuità di una vita apparentemente protetta e sicura» (n. 109). I poveri ci riconducono – scrive il Papa – «all’essenziale della nostra fede» (n. 110), perché «non sono una categoria sociologica, ma la stessa carne di Cristo […], carne che ha fame, che ha sete, che è malata, carcerata» (n. 110). Infine, non si deve dimenticare – afferma Leone XIV, citando l’Evangelii gaudium di papa Francesco – che, senza sottovalutare l’importanza dell’impegno per la giustizia, la mancanza di attenzione spirituale è la peggiore discriminazione di cui soffrono i più deboli. Perciò, «l’opzione preferenziale per i poveri deve tradursi principalmente in un’attenzione religiosa privilegiata e prioritaria» (n. 114).
È significativo e per alcuni versi inaspettato che la conclusione di Dilexi te sia dedicata all’elemosina: «ancora oggi, dare», si scrive. Si ribadisce ovviamente che la cosa più importante è aiutare il povero ad avere un lavoro che gli permetta di guadagnarsi la vita in un modo degno; però, quando questo non è ancora possibile, «l’elemosina – afferma il Pontefice – rimane un momento necessario di contatto, di incontro e di immedesimazione nella condizione altrui» (n. 115). Essa non sostituisce l’impegno delle istituzioni né la lotta per la giustizia, «però invita almeno a fermarsi e a guardare in faccia la persona povera, a toccarla e a condividere con lei qualcosa del proprio. In ogni caso, l’elemosina, anche se piccola, infonde pietas in una vita sociale in cui tutti si preoccupano del proprio interesse personale» (n. 116).
L’appello finale di papa Leone XIV a ognuno di noi è molto chiaro e ricorda, ancora una volta, il rapporto, che possiamo chiamare «sacramentale», con i poveri: «Sia attraverso il vostro lavoro, sia attraverso il vostro impegno per cambiare le strutture sociali ingiuste, sia attraverso quel gesto di aiuto semplice, molto personale e ravvicinato, sarà possibile per quel povero sentire che le parole di Gesù sono per lui: “Io ti ho amato” (Ap 3,9)» (n. 121).
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[1] Il testo dell’Esortazione apostolica si può trovare in vatican.va/content/leo-xiv/it/…
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Sempre più in basso!
Giuseppe Salamone
possibile.com/sulle-case-popol…
È una strategia politica coerente, che punta a dividere, individuare un nemico, far credere che alcuni abbiano più diritto di altri di accedere ai servizi e alle tutele
L’era dei malware AI-driven è iniziata: ecco i rischi cyber per aziende e PMI
@Informatica (Italy e non Italy 😁)
Per la prima volta Google ha rilevato cinque famiglie di malware che sfruttano gli LLM in esecuzione. Ecco di cosa si tratta e quali sono i rischi cyber per tutti, a partire dagli attacchi just-in-time mediante malware AI
L'articolo L’era dei malware
Horizon cambia rotta. La ricerca europea guarda alla sicurezza
@Notizie dall'Italia e dal mondo
L’Unione europea prepara la prossima fase della ricerca scientifica con l’obiettivo preciso di rendere più stretto il legame tra innovazione, sicurezza e competitività tecnologica. Il dibattito sul futuro programma Horizon, successore dell’attuale Horizon europe, apre la strada a una maggiore
Intelligenza artificiale nel settore Finance: rischi e accorgimenti del “journey to AI”
@Informatica (Italy e non Italy 😁)
Le tecnologie di nuova generazione sono da sempre sinonimo di innovazione, ma la fretta di adottarle non dovrebbe far dimenticare un’adeguata e bilanciata strategia di adozione. Considerazioni vere soprattutto per il settore finanziario
È uscito il nuovo numero di The Post Internazionale. Da oggi potete acquistare la copia digitale
@Politica interna, europea e internazionale
È uscito il nuovo numero di The Post Internazionale. Il magazine, disponibile già da ora nella versione digitale sulla nostra App, e da domani, venerdì 7 novembre, in tutte le edicole, propone ogni due settimane inchieste e approfondimenti sugli affari e il potere
La farsa è finita. Dopo tanta ipocrisia, la destra è tornata a odiare i giornalisti
@Giornalismo e disordine informativo
articolo21.org/2025/11/la-fars…
La farsa è finita. Dopo tanta ipocrisia e finta solidarietà la destra ha ripreso l’infinito processo contro Report e Sigfrido
Sì, ma solo con i giornalisti veri, quelli che mettono in piazza le varie porcate commesse da sedicenti "onorevoli". I loro squallidi cartolai tirapiedi invece sono intoccabili, con tanto di scorta pagata dai cittadini! (Vedi sallusti feltri. .. ecc ecc)
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Prevenire la minaccia cyber nel settore sanitario: le raccomandazioni di ACN
@Informatica (Italy e non Italy 😁)
L'Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale meglio ha aggiornato il report sul rischio nel settore sanitario, analizzando il periodo temporale compreso tra gennaio 2023 e settembre 2025. Nuovi dati, analisi e raccomandazioni. Scopriamo quali
Elia Viviani replica a Vannacci: “Ma quale Decima Mas, non conosce il ciclismo”. E valuta azioni legali
@Politica interna, europea e internazionale
Dopo giorni di polemiche è arrivata la replica di Elia Viviani all’eurodeputato della Lega Roberto Vannacci. L’ex generale, infatti, aveva commentato il gesto fatto dal ciclista dopo la conquista dell’oro mondiale scrivendo sui social: “Un’altra decima per
Recensione : Spain The blue moods of Spain
“The Blue Moods of Spain” debutto della band americana Spain viene ristampato con un’edizione ampiamente arricchita per il suo trentennale dalla Rhino Records.
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La mancanza di educazione sessuale è un’emergenza sociale che riguarda tutti
@Giornalismo e disordine informativo
articolo21.org/2025/11/la-manc…
In Italia si discute da decenni dell’introduzione dell’educazione sessuale nelle scuole. È un tema su cui chiunque si sente in diritto di
La stretta sullo stretto. Quasi un dietro-front
@Giornalismo e disordine informativo
articolo21.org/2025/11/la-stre…
Nel fatidico 1968 vinsi le elezioni promettendo il “ponte sullo stretto”. Ma erano le elezioni a capoclasse ai salesiani, alle medie. Da quasi un secolo in Sicilia aspettiamo il ponte, ma non sappiamo cosa sarà. Oggi abbiamo il
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La Norvegia revoca l’esclusione delle imprese israeliane dal suo fondo sovrano
@Notizie dall'Italia e dal mondo
Ad agosto il fondo sovrano della Norvegia aveva escluso varie imprese israeliane dai suoi investimenti per motivi etici. Su spinta di Jens Stoltenberg il parlamento di Oslo ha revocato la misura
L'articolo La Norvegia revoca l’esclusione delle imprese israeliane dal suo fondo sovrano
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SLAPP, l’Italia al bivio: nel 2026 dovrà recepire la Direttiva europea contro le querele bavaglio
@Giornalismo e disordine informativo
articolo21.org/2025/11/slapp-l…
In Italia si moltiplicano i casi di azioni legali intimidatorie contro attivisti,
In difesa di Francesca Albanese
@Giornalismo e disordine informativo
articolo21.org/2025/11/in-dife…
Se poteva sussistere ancora qualche dubbio sulla connivenza del governo italiano con le azioni genocidiarie di Israele, le dichiarazioni rese dall’ambasciatore italiano Maurizio Massari all’Assemblea Generale dell’ONU il 28 ottobre in occasione della presentazione dell’ultimo
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Sudan. Dopo il Darfur le RSF puntano al Kordofan, proseguono i massacri
@Notizie dall'Italia e dal mondo
Dopo la caduta di El Fasher e le atrocità compiute nel Darfur, le Forze di supporto rapido puntano alla conquista del Kordofan settentrionale. Villaggi incendiati, civili uccisi e una nuova catastrofe umanitaria che rischia di travolgere il cuore del Sudan.
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Grecia, Libia e Malta. Le ultime mosse sulle Zee viste da Caffio
@Notizie dall'Italia e dal mondo
L’interesse per le questioni marittime in Italia è ancora limitato anche se può considerarsi oramai acquisita la coscienza della dimensione subacquea, delle infrastrutture critiche e delle Zone economiche esclusive. Altrove c’è maggiore attenzione. Nel Mediterraneo orientale cova sempre sotto
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Europa, il diritto all’aborto sotto attacco: allarmanti segnali di arretramento
@Notizie dall'Italia e dal mondo
Amnesty International denuncia un’ondata di restrizioni e campagne dissuasive che, in diversi Paesi europei, minacciano il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza. Un arretramento che mette in pericolo salute, libertà e dignità delle donne e di
Manufacturing security summit: la NIS 2 è la risposta ai cyber attacchi in aumento
@Informatica (Italy e non Italy 😁)
Il settore manifatturiero continua ad essere fra i settori più colpiti. Se il ransomware fosse un'impresa sarebbe fra le più redditizie. Ma per mitigare i rischi, occorre adottare la direttiva NIS 2. Ecco cosa emerge dai dati del Rapporto Clusit
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Spectravideo Computers Get A Big Upgrade
Spectravideo is not exactly the most well-known microcomputer company, but they were nevertheless somewhat active in the US market from 1981 to 1988. Their computers still have a fanbase of users and modders. Now, as demonstrated by [electricadventures], you can actually upgrade your ancient Spectravideo machine with some modern hardware.
The upgrade in question is the SVI-3×8 PicoExpander from [fitch]. It’s based on a Raspberry Pi Pico 2W, and is built to work with the Spectravideo 318 and 328 machines. If you’re running a 328, it will offer a full 96kB of additional RAM, while if you’re running a 318, it will add 144 kB more RAM and effectively push the device up to 328 spec. It’s also capable of emulating a pair of disk drives or a cassette drive, with saving and loading images possible over Wi-Fi.
It’s worth noting, though, that the PicoExpander pushes the Pico 2W well beyond design limits, overclocking it to 300 MHz (versus the original 150 MHz clock speed). The makers note it is “bleeding edge” hardware and that it may not last as long as the Spectravideo machines themselves.
Design files are available on Github if you want to spin up your own PicoExpander, or you can just order an assembled version. We’ve seen a lot of other neat retrocomputer upgrades built around modern hardware, too. Video after the break.
youtube.com/embed/ACU958Gl7Ac?…
[Thanks to Stephen Walters for the tip!]
Federico
in reply to The Privacy Post • •Https perlomeno C'è?