Edge computing & edge AI: la rivoluzione è appena cominciata
@Informatica (Italy e non Italy 😁)
Due tecnologie stanno trasformando il nostro approccio alla sicurezza e alle operazioni aziendali: riducono la latenza, migliorano le prestazioni, oltre a consentire un processo decisionale immediato e intelligente, elaborando i dati più vicino a dove vengono generati. Scopriamole
Aggiornamenti Android settembre 2025, corrette due vulnerabilità sfruttabili in attacchi mirati
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L’Android Security Bulletin di settembre 2025 interviene su 120 vulnerabilità identificate nelle componenti del sistema operativo mobile di Google. Tra queste, due che potrebbero essere oggetto di uno sfruttamento
Vertice volenterosi all’Eliseo. Macron: “Sicurezze per Kiev”. Putin provoca Zelensky
[quote]PARIGI – Nei saloni dell’Eliseo la riunione della coalizione dei volenterosi sull’Ucraina. “Questo incontro ci consente di finalizzare delle garanzie di sicurezza robuste per Kiev”, ha affermato il Presidente francese…
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Malvertising su Meta colpisce Android: così lo spyware Brokewell ruba criptovalute
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Scoperta l'evoluzione di una campagna malvertising su Meta: da desktop ora colpisce Android con lo spyware Brokewell. Il malware ruba criptovalute, bypassa la doppia autenticazione 2FA e usa targeting mirato per eludere i controlli
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Dazi Usa dichiarati illegali, la Casa Bianca fa ricorso. Ora si va alla Corte Suprema
[quote]Donald Trump fa ricorso alla Corte Suprema Usa per invalidare il verdetto federale che dichiara illegali i dazi
L'articolo Dazi Usa dichiarati illegali, la lumsanews.it/dazi-usa-dichiara…
Non adeguarsi alle prescrizioni del Garante è danno erariale, lo dice la Corte dei conti
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La Corte dei conti della Valle d’Aosta con una recente sentenza è netta nel dire che si configura un’ipotesi di danno erariale quando una PA, in questo caso la Regione della Valle d’Aosta, paga la sanzione del Garante privacy e il
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Napoli, accoltellata dal marito reagisce e lo uccide: arrestata una donna di 58 anni
[quote]NAPOLI – Accoltellata dal marito, lei reagisce e lo uccide accoltellandolo a sua volta. È successo questa notte a Napoli, in via Sant’Arcangelo a Baiano nel quartiere Forcella, dove Lucia…
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Il Gps dell’aereo di von der Leyen nel mirino delle interferenze russe: le ipotesi e i rischi
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L'incidente, avvenuto mentre l'aereo si preparava ad atterrare all'aeroporto internazionale di Plovdiv, nel sud della Bulgaria, ha costretto il pilota ad affidarsi a mappe cartacee per un atterraggio sicuro. Ecco cos'è
L’offerta dei volenterosi per Kiev. Macron: “Pace robusta e duratura” (Il Fatto del giorno)
[quote]A cura di Tommaso Di Caprio
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Grazie di avere v(i)olato con noi. Il data breach Air France – KLM e i rischi per chi viaggia
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Dopo Qantas Airways il cyber crimine colpisce Air France e KLM e, ancora una volta, l’anello debole della catena sono i fornitori
L'articolo Grazie di avere v(i)olato con noi. Il data breach Air France – KLM e i rischi per chi viaggia proviene da Cyber Security 360.
Il presidente israeliano Herzog in Vaticano. Il Papa cerca una soluzione per Gaza
[quote]ROMA – Un’udienza privata, a distanza di qualche mese dallo scorso incontro, è in corso stamattina tra Papa Leone XIV e il presidente israeliano Isaac Herzog. Un colloquio voluto da…
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Data Privacy Framework: il Tribunale UE respinge il ricorso e salva i trasferimenti dati UE-USA
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Confermato il livello adeguato di protezione dei dati negli Stati Uniti: respinta la richiesta di annullamento presentata da Philippe Latombe. La decisione conferma che, alla data del DPF, gli USA garantivano un livello
Proteste in Indonesia: crescita della rabbia sociale e solidarietà regionale
@Notizie dall'Italia e dal mondo
Nelle ultime settimane, il Paese è attraversato da una ondata di manifestazioni, generata da un mix di ingiustizie economiche e privilegi istituzionali
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Global Flotilla Summit, Meloni replica a Schlein: “Tuteleremo i connazionali”
[quote]ROMA – “Il governo tutelerà gli italiani della Flotilla” anche se “avvalersi dei canali umanitari già attivi eviterebbe rischi”. Non si fa attendere la replica della premier Giorgia Meloni, che…
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Zero-click in WhatsApp consente di spiare gli utenti iPhone, macOS ed Android: update urgente
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WhatsApp ha corretto una vulnerabilità critica nelle sue app per iOS, macOS ed Android, sfruttata in attacchi mirati di cyber spionaggio negli ultimi mesi. L’exploit può compromettere il dispositivo senza alcuna interazione da parte
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Druetti: su Gaza e Israele i potenti sono muti, parole di Ceferin confermano quanto sapevamo
“Le parole del Presidente UEFA Ceferin sui motivi per cui Israele non viene esclusa dalle competizioni internazionali confermano quello che già sapevamo: su Gaza e il genocidio messo in atto da Israele i potenti del mondo sono muti.”
Lo dichiara la Segretaria Nazionale di Possibile Francesca Druetti, che insieme ad Andrea di Lenardo ha lanciato nelle scorse settimane una petizione, Stop The Game, che chiede che Italia-Israele (in programma il 14 ottobre a Udine) non si giochi e che ha raggiunto più di 20.000 firme. La petizione può essere firmata su www.possibile.com/unafirmaper.
“Ceferin — continua Druetti — sostiene che la Russia sia stata esclusa dalle competizioni internazionali per una forte pressione politica, mentre con Israele non sta avvenendo la stessa cosa, c’è solo una pressione della società civile. È una dichiarazione pavida, perché la UEFA potrebbe decidere in autonomia di sospendere almeno le squadre di club israeliane dalle sue competizioni, ma è una dichiarazione che descrive perfettamente i motivi per cui le bombe su scuole e ospedali, la carestia imposta alla popolazione palestinese, l’occupazione del territorio palestinese proseguono indisturbati da tanto tempo.”
“Con Possibile — conclude Druetti — siamo al fianco della società civile che continua a insistere perché Israele venga escluso dai Mondiali di Calcio e dalle altre competizioni. Continuiamo a insistere perché la Federazione Italiana Gioco Calcio raccolga l’appello di Renzo Ulivieri e della Associazione Italiana Allenatori Calcio, perché vengano ascoltate le decine di migliaia di persone che hanno firmato la nostra petizione. Di fronte a questo sta accadendo, c’è bisogno di una presa di posizione forte da parte di tutti i mondi, compreso quello dello sport.”
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Microsoft BASIC For 6502 Is Now Open Source
An overriding memory for those who used 8-bit machines back in the day was of using BASIC to program them. Without a disk-based operating system as we would know it today, these systems invariably booted into a BASIC interpreter. In the 1970s the foremost supplier of BASIC interpreters was Microsoft, whose BASIC could be found in Commodore and Apple products among many others. Now we can all legally join in the fun, because the software giant has made version 1.1 of Microsoft BASIC for the 6502 open source under an MIT licence.
This version comes from mid-1978, and supports the Commodore PET as well as the KIM-1 and early Apple models. It won’t be the same as the extended versions found in later home computers such as the Commodore 64, but it still provides plenty of opportunities for retrocomputer enthusiasts to experiment. It’s also not entirely new to the community, because it’s a version that has been doing the rounds unofficially for a long time, but now with any licensing worries cleared up. A neat touch can be found in the GitHub repository, with the dates on the files being 48 years ago.
We look forward to seeing what the community does with this new opportunity, and given that the 50-year-old 6502 is very much still with us we expect some real-hardware projects. Meanwhile this isn’t the first time Microsoft has surprised us with an old product.
Header image: Michael Holley, Public domain.
ISRAELE. Smotrich vuole annettere la Cisgiordania senza i palestinesi
@Notizie dall'Italia e dal mondo
Il ministro ultranazionalista ha affermato di volere "il massimo territorio e il minimo della popolazione"
L'articolo ISRAELE. Smotrich vuole annettere pagineesteri.it/2025/09/04/med…
possibile.com/druetti-su-gaza-…
Ceferin - continua Druetti - sostiene che la Russia sia stata esclusa dalle competizioni internazionali per una forte pressione politica, mentre con
Attentato sventato a Viterbo alla Macchina di Santa Rosa, in manette due cittadini turchi
[quote]VITERBO – Due cittadini di origine turca sarebbero gli autori di un presunto attentato alla Macchina di Santa Rosa a Viterbo. Trovati in possesso di un mitra, diverse pistole, caricatori…
L'articolo Attentato sventato a Viterbo alla Macchina di Santa Rosa,
Verona, scoperta banca clandestina al servizio della comunità cinese. Fermati due uomini
[quote]VERONA – Una banca clandestina gestita da cittadini cinesi. È quanto scoperto in provincia di Verona a seguito di un blitz della Guardia di Finanza. A essere fermati due uomini…
L'articolo Verona, scoperta banca clandestina al servizio della comunità cinese.
Lo schiaffo di Pechino
@Giornalismo e disordine informativo
articolo21.org/2025/09/lo-schi…
“Presidente Trump e’ preoccupato dell’avvicinamento di questi giorni fra Russia e Cina?”” No , io ho buoni rapporti sia con il Presidente cinese che con quello russo”. Poche volte nella storia l’inadeguatezza di un leader e’ stata cosi’ palese. L’idea, o meglio l’illusione , che la superpersonalita’ di
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Carceri Sardegna: a Badu ‘e Carros di Nuoro censurate le lettere dei detenuti che denunciano situazioni illegali
Sosteniamo il digiuno di dialogo portato avanti da Rita Bernardini e la proposta di legge di iniziativa popolare Zuncheddu
L’Assciazione Luca Coscioni ha nuovamente ricevuto segnalazioni da parte di detenuti nel carcere Badu ‘e Carros di Nuoro. Se le precedenti missive avevano messo in luce con chiarezza le carenze strutturali, sanitarie e logistiche della casa circondariale di Nuoro, quanto segnalato a distanza di un mese documenterebbe che nulla di significativo è stato fatto per porre rimedio a tali condizioni di degrado e illegalità.
Alle già note criticità, in questa seconda comunicazione si aggiungono lamentele relative in particolare alle operazioni di spedizione della corrispondenza condotte secondo una prassi che appare non del tutto trasparente. Uno dei firmatari scrive che “tutte le lettere indirizzate alla vostra associazione (Luca Coscioni ndr), vengono bloccate per impedirci di comunicare con voi […] un abuso” per cui si è reso necessario l’intervento dell’Ufficio Comando – così come si viene informati da un altro recluso.
Un ulteriore aspetto allarmante è rappresentato dalle difficoltà nell’usufruire di colloqui familiari senza controllo a vista. Se confermato si tratterebbe della violazione di una libertà su cui la Corte Costituzionale si è espressa con la sentenza 10/24 che ha rimarcato il dovere di garantire alle persone recluse l’adeguato diritto all’affettività.
“Molti detenuti hanno fatto richiesta ma, come al solito, non c’è alcuna risposta” si legge nella lettera che conferma le difficoltà nelle relazioni tra operatori e popolazione detenuta che, insieme alle criticità evidenziate in passato acuiscono un clima di malessere che grava anche sull’operato degli agenti di sorveglianza, in alcuni casi vittime di episodi di violenza.
“Ci dicono sempre che la situazione migliorerà, ma anziché migliorare peggiora ogni giorno di più“, conclude una delle ultime lettere giunte all’attenzione dell’associazione.
L’Associazione Luca Coscioni torna a sollecitare le autorità sanitarie locali a effettuare nuovi sopralluoghi a Badu ‘e Carros, dedicando particolare attenzione a quanto denunciato nelle lettere ricevute, annunciando ulteriori azioni affinché negli istituti di pena non si ripetano violazioni dei diritti fondamentali, a partire da quello alla salute e all’affettività delle persone ristrette.
Nel sostenere il digiuno di dialogo con le forze politiche in Senato che Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, sta portando avanti da tre settimane, l’Assocazione sostiene anche la raccolta firme, anche online, per la proposta di legge d’iniziativa popolare Proposta di legge Zuncheddu, lanciata dal Partito Radicale, che prevede un risarcimento rapido e proporzionato per tutte le persone vittime di detenzione senza giusta causa.
L'articolo Carceri Sardegna: a Badu ‘e Carros di Nuoro censurate le lettere dei detenuti che denunciano situazioni illegali proviene da Associazione Luca Coscioni.
Ecco perché il 9 leggeremo i nomi dei giornalisti uccisi a Gaza. Prima che sia troppo tardi
@Giornalismo e disordine informativo
articolo21.org/2025/09/ecco-pe…
il giornalisticidio é stato ed é la premessa per il genocidio
L'articolo Ecco perché il 9 leggeremo
Nei voli si può anche fare a meno del Gps. Braghini spiega come
@Notizie dall'Italia e dal mondo
Il caso delle interferenze di jamming al Gps del business jet Dassault Falcon 900LX che trasportava Ursula von der Leyen in Bulgaria ha avuto immediato e ampio risalto nelle prime pagine dei quotidiani. Senza dubbio si tratta di un episodio grave per il quale si sospetta la Russia, e sarebbe dunque
CPU Utilization Not as Easy as It Sounds
If you ever develop an embedded system in a corporate environment, someone will probably tell you that you can only use 80% of the CPU or some other made-up number. The theory is that you will need some overhead for expansion. While that might have been a reasonable thing to do when CPUs and operating systems were very simple, those days are long gone. [Brendan Long] explains at least one problem with the idea in some recent tests he did related to server utilization.
[Brendan] recognizes that a modern CPU doesn’t actually scale like you would think. When lightly loaded, a modern CPU might run faster because it can keep other CPUs in the package slower and cooler. Increase the load, and more CPUs may get involved, but they will probably run slower. Beyond that, a newfangled processor often has fewer full CPUs than you expect. The test machine was a 24-core AMD processor. However, there are really 12 complete CPUs that can fast switch between two contexts. You have 24 threads that you can use, but only 12 at a time. So that skews the results, too.
Of course, our favorite problem is even more subtle. A modern OS will use whatever resources would otherwise go to waste. Even at 100% load, your program may work, but very slowly. So assume the boss wants you to do something every five seconds. You run the program. Suppose it is using 80% of the CPU and 90% of the memory. The program can execute its task every 4.6 seconds. So what? It may be that the OS is giving you that much because it would otherwise be idle. If you had 50% of the CPU and 70% of the memory, you might still be able to work in 4.7 seconds.
A better method is to have a low-priority task consume the resources you are not allowed to use, run the program, and verify that it still meets the required time. That solves a lot of [Brendan’s] observations, too. What you can’t do is scale the measurement linearly for all these reasons and probably others.
Not every project needs to worry about performance. But if you do, measuring and predicting it isn’t as straightforward as you might think. If you are interested in displaying your current stats, may we suggest analog? You have choices.
Netshacker: Retrogaming e Hacking Reale su Commodore 64
Nel panorama dei giochi per Commodore 64, Netshacker emerge come un progetto che sfida le convenzioni del gaming moderno, riportando i giocatori alle radici dell’informatica domestica degli anni ’80. Non si tratta di un semplice omaggio nostalgico, ma di una piccola grande esperienza di hacking autentica e credibile, sviluppata con la precisione tecnica di un ingegnere e al contempo la passione di un retro gamer.
Un concetto rivoluzionario per il C64 Netshacker non è un gioco che “finge” di essere retrò: è un prodotto nato dalla mentalità old-school, ma costruito con la cura e la precisione di un progetto moderno.
L’obiettivo è chiaro: ricreare l’esperienza autentica di un hacker degli anni ’90, quando le reti erano ancora un territorio inesplorato e ogni comando poteva rivelare nuovi orizzonti digitali.
Il gioco si presenta come un sistema operativo completo per C64, con due ambienti distinti: uno in stile Linux e uno in stile DOS, ognuno con le proprie peculiarità e comandi specifici.
La Shell che respira
Il cuore di Netshacker è la sua shell interattiva, un’interfaccia a riga di comando che non si limita a simulare i comandi, ma li implementa realmente: ogni input dell’utente ha conseguenze logiche e coerenti: i file esistono fisicamente nella memoria del C64, i permessi sono gestiti secondo regole realistiche, e gli errori forniscono dei feedback sensati che guidano il giocatore verso la soluzione. Non ci sono scorciatoie o bug da sfruttare: la progressione si basa esclusivamente sull’ingegno e sulla comprensione dei sistemi.
Missioni che premiano la creatività
Il sistema di missioni di Netshacker è progettato per premiare la creatività e la deduzione logica. Ogni obiettivo richiede una comprensione profonda degli strumenti disponibili e della logica sottostante. Le missioni spaziano dal port scanning al social engineering, dalla gestione di file protetti all’analisi forense. Il gioco non fornisce soluzioni dirette, ma lascia che il giocatore scopra i percorsi attraverso l’esplorazione e l’esperimentazione.
Strumenti di Comunicazione d’epoca
Una delle caratteristiche più affascinanti di Netshacker è il suo sistema di comunicazione, ispirato ai BBS e alle reti clandestine degli anni ’90.
Atmosfera e Immersione
L’atmosfera di Netshacker è meticolosamente curata per ricreare l’esperienza autentica di un hacker degli anni ’90. I colori del C64 sono utilizzati strategicamente per differenziare i diversi tipi di output, i suoni SID creano un’ambientazione sonora appropriata, e l’interfaccia mantiene la fedeltà visiva ai sistemi dell’epoca. Ogni dettaglio, dai messaggi di errore ai prompt dei comandi, è stato pensato per mantenere l’immersione senza compromettere la giocabilità.
Compatibilità e Accessibilità
Netshacker è progettato per funzionare sia su hardware reale che su emulatori, garantendo un’esperienza autentica indipendentemente dalla piattaforma di esecuzione. Il gioco è localizzato in italiano, eliminando barriere linguistiche e rendendo l’esperienza più accessibile ai giocatori italiani.
La distribuzione del gioco avviene attraverso due modalità: una versione digitale in formato .d64 al prezzo di 8 euro, e un’edizione fisica con floppy e manuale stampato a 69 euro.
Un Progetto che rispetta la storia
Netshacker non è solo un gioco: è un piccolo grande tributo alla cultura hacker degli anni ’90, un’opportunità per i giocatori di oggi di sperimentare le sfide e le soddisfazioni di un’epoca in cui l’informatica era ancora un territorio inesplorato.
Il progetto dimostra che la complessità e la profondità non sono incompatibili con le limitazioni hardware del C64, e che la creatività può superare i vincoli tecnici apparenti.
Conclusioni
Netshacker dimostrando che è possibile creare un’esperienza di hacking autentica e coinvolgente senza compromessi sulla qualità o sulla fedeltà storica.
Il progetto sfida i giocatori a pensare come veri hacker, utilizzando strumenti reali e logica deduttiva per superare le sfide.
Non è un gioco per tutti, ma per coloro che apprezzano la profondità tecnica e l’autenticità storica, Netshacker offre un’esperienza insolita ed avvincente, poiché non è solo un gioco: è un viaggio nel tempo, un’opportunità per riscoprire le radici dell’hacking e della sicurezza informatica, attraverso la lente di una piattaforma che ha fatto la storia dell’informatica domestica.
Per i retrogamer esigenti e gli appassionati di sicurezza informatica, rappresenta un must-have che combina nostalgia, sfida intellettuale e autenticità tecnica in un pacchetto unico e irripetibile.
Dovete assolutamente andare a scaricare la demo da netshacker.com/ e poi comprare la versione completa. Per quanti hanno giocato su C64 a System 15000 o amano le sfide è un’occasione da non perdere.
Un plauso all’autore Stefano Basile
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Arriva NotDoor : La Backdoor per Microsoft Outlook di APT28
Un avanzato sistema di backdoor associato al noto gruppo di cyber spionaggio russo APT28 permette ai malintenzionati di scaricare dati, caricare file e impartire comandi su pc infettati. Questo sistema backdoor, recentemente scoperto e di ultima generazione, si concentra su Microsoft Outlook, dando la possibilità agli artefici dell’attacco di impossessarsi di informazioni e gestire il computer della persona colpita.
La backdoor è progettata per monitorare le email in arrivo della vittima alla ricerca di specifiche parole chiave, come “Report giornaliero”. Quando viene rilevata un’email contenente la parola chiave, il malware si attiva, consentendo agli aggressori di eseguire comandi dannosi. Il nome “NotDoor” è stato coniato dai ricercatori a causa dell’utilizzo della parola “Nothing” nel codice del malware.
Abilmente, il malware sfrutta le funzionalità legittime di Outlook per mantenersi nascosto e garantire la propria persistenza. Secondo S2 Grupo, vengono utilizzati trigger VBA basati su eventi specifici, ad esempio Application_MAPILogonComplete, che si attiva all’avvio dell’applicazione Outlook, e Application_NewMailEx, che risulta attivato in concomitanza con l’arrivo di nuove email. Le principali funzionalità del malware possono essere elencati in:
- Offuscamento del codice : il codice del malware è intenzionalmente codificato con nomi di variabili casuali e un metodo di codifica personalizzato per rendere difficile l’analisi.
- Caricamento laterale delle DLL : utilizza un file binario Microsoft legittimo e firmato OneDrive.exeper caricare un file DLL dannoso. Questa tecnica aiuta il malware a comparire come un processo attendibile.
- Modifica del Registro di sistema : per garantire la persistenza, NotDoor modifica le impostazioni del Registro di sistema di Outlook. Disattiva gli avvisi di sicurezza relativi alle macro e sopprime altri prompt, consentendo l’esecuzione silenziosa senza avvisare l’utente.
Il malware, è stato attribuito al gruppo di cyberminacce sponsorizzato dallo Stato russo APT28, noto anche come Fancy Bear. I risultati sono stati pubblicati da LAB52, l’unità di intelligence sulle minacce dell’azienda spagnola di sicurezza informatica S2 Grupo.
NotDoor è un malware stealth scritto in Visual Basic for Applications (VBA), il linguaggio di scripting utilizzato per automatizzare le attività nelle applicazioni di Microsoft Office. Per eludere il rilevamento da parte del software di sicurezza, NotDoor impiega diverse tecniche sofisticate:
Una volta attiva, la backdoor crea una directory nascosta per archiviare i file temporanei, che vengono poi esfiltrati in un indirizzo email controllato dall’aggressore prima di essere eliminati. Il malware conferma la sua esecuzione corretta inviando callback a un sito webhook.
APT28 è un noto gruppo criminale legato alla Direzione Centrale di Intelligence (GRU) dello Stato Maggiore russo. Attivo da oltre un decennio, il gruppo è responsabile di numerosi attacchi informatici di alto profilo, tra cui la violazione del Comitato Nazionale Democratico (DNC) nel 2016 durante le elezioni presidenziali statunitensi e le intrusioni nell’Agenzia Mondiale Antidoping (WADA).
La recente introduzione di questo strumento testimonia l’evoluzione costante del gruppo e la sua abilità nell’elaborare strategie innovative per eludere i sistemi di difesa contemporanei. Il malware NotDoor, come riferito da S2 Grupo, ha già avuto un utilizzo esteso per mettere a rischio la sicurezza di molteplici aziende appartenenti a diversi settori economici all’interno degli stati membri NATO.
Per difendersi da questa minaccia, gli esperti di sicurezza raccomandano alle organizzazioni di disattivare le macro per impostazione predefinita sui propri sistemi, di monitorare attentamente qualsiasi attività insolita in Outlook e di esaminare i trigger basati sulla posta elettronica che potrebbero essere sfruttati da tale malware.
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Come è stata scritta la dichiarazione «Nostra Aetate»
Nel 2025 la Chiesa celebra i sessant’anni dal Concilio Vaticano II e dalla dichiarazione sulle sue relazioni con le religioni non cristiane Nostra aetate. Se fino a quel momento i non cristiani erano stati considerati smarriti nella superstizione e nell’ignoranza, Nostra aetate segnò l’inizio di un approccio che promuoveva il dialogo permanente come parte integrante della testimonianza cattolica alla verità della fede cristiana. L’elaborazione del documento porta l’impronta dell’incontro tra il gesuita tedesco Augustin Bea, nominato dal Papa presidente del Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani, e Massimo IV Saigh, patriarca di Antiochia dei Melchiti. Il dialogo contemporaneo tra la Chiesa cattolica e il popolo ebraico conserva il segno delle prospettive da loro elaborate nel momento in cui la Chiesa cominciava a formulare una posizione che affermasse sia il dialogo con gli ebrei sia la consapevolezza della tragica sorte dei palestinesi.
Origini
La dichiarazione Nostra aetate nacque nel contesto successivo alla Shoah, cioè al tentativo, da parte della Germania nazista, di annientare gli ebrei in Europa durante la Seconda guerra mondiale. Dopo la guerra, la Chiesa dovette cominciare a confrontarsi con la dolorosa questione di quanto il tradizionale discorso cristiano sul popolo ebraico potesse aver contribuito al prendere piede dell’antisemitismo contemporaneo. Il 28 ottobre 1958 Angelo Roncalli divenne papa Giovanni XXIII. Roncalli aveva trascorso gli anni precedenti e quelli della Seconda guerra mondiale in Bulgaria, Grecia, Turchia e Francia come rappresentante diplomatico della Santa Sede. Era pienamente consapevole di quanto stava accadendo agli ebrei, e gli si attribuisce il merito di averne salvati migliaia.
Inizialmente, egli non intendeva portare la questione del popolo ebraico all’attenzione del Concilio che stava progettando e che avrebbe cambiato il volto della Chiesa nel mondo moderno. L’idea di un documento sugli ebrei entrò nella mente del Papa durante un’udienza privata del 13 giugno 1960. Quel giorno, poco dopo aver nominato Augustin Bea presidente del Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani, egli incontrò lo storico ed educatore ebreo francese Jules Isaac, il quale gli consegnò quanto aveva scritto sull’insegnamento cristiano del disprezzo nei confronti del popolo ebraico. Più tardi, Isaac commentò: «Più volte durante il mio breve discorso egli mostrò comprensione e simpatia. […] Chiedo se posso portare via con me un po’ di speranza. Egli esclama: “Hai diritto a più che una speranza!”»[1].
Il Papa inviò Isaac da Bea, biblista anticotestamentario e suo consigliere di fiducia, e nel settembre del 1960 quest’ultimo ricevette l’incarico di preparare un documento sul popolo ebraico. Più tardi Bea scrisse, in sintonia con i sentimenti del Papa: «Il bimillenario problema, vecchio quanto il cristianesimo stesso, delle relazioni della Chiesa col popolo ebraico è stato reso più acuto, e si è quindi imposto all’attenzione del Concilio Ecumenico Vaticano II, soprattutto per lo spaventoso sterminio di milioni di Ebrei da parte del regime nazista in Germania»[2]. Egli prevedeva che il documento non solo avrebbe condannato l’antisemitismo, ma avrebbe anche richiamato l’attenzione sulle radici ebraiche della Chiesa e promosso un dialogo tra ebrei e cattolici.
Sebbene le discussioni sugli ebrei, successive all’incontro con Isaac, dovessero rimanere riservate, Bea si confidò con un giornalista, che pubblicò la notizia del cambiamento di atteggiamento della Chiesa nei confronti degli ebrei, suscitando già allora una prima reazione negativa in Medio Oriente[3].
Reazioni in Medio Oriente
La resistenza a un documento sugli ebrei si manifestò in tre forme diverse. Anzitutto, quella degli antisemiti classici, contrari a qualsiasi mitigazione dell’insegnamento della Chiesa, perché consideravano il popolo ebraico nemico dell’umanità e della fede cristiana. Ad essa si aggiungeva l’opposizione dei tradizionalisti, che per principio rifiutavano ogni cambiamento nella dottrina ecclesiale. Infine, vi erano quanti respingevano un riavvicinamento agli ebrei a causa del conflitto ancora in corso in Medio Oriente. Costoro facevano notare che al centro di quel conflitto vi era uno Stato, Israele, che si definiva ebraico, e un popolo, quello palestinese, che era diventato senza patria in seguito alla fondazione dello Stato di Israele nel 1948, una tragedia che aveva gettato l’intero Medio Oriente nel caos. In alcuni casi antisemitismo, resistenza al cambiamento e preoccupazione per la giustizia e la pace in Medio Oriente andavano a braccetto.
In effetti, nella storiografia successiva al Concilio, alcuni hanno accusato Massimo IV e i vescovi del Medio Oriente di antisemitismo o tradizionalismo a causa della loro opposizione alla formulazione del documento sugli ebrei[4]. Altri hanno spiegato tale opposizione come radicata nel timore delle reazioni, da parte dei musulmani, a un atteggiamento positivo verso gli ebrei: reazioni che avrebbero potuto provocare persecuzioni contro i cristiani nei Paesi arabi in guerra con Israele[5]. Da parte loro, i Paesi arabi e Israele esercitarono pressioni per assicurarsi un esito favorevole alle rispettive cause, mantenendo contatti con i partecipanti al Concilio che sostenevano opzioni politiche convenienti ai loro interessi.
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Tutti questi fattori influenzarono in parte le posizioni espresse dai prelati mediorientali durante il Concilio; tuttavia, le opinioni di Massimo IV e la loro evoluzione nel corso dei lavori mostravano il tentativo di affrontare la formulazione di una posizione ecclesiale che tenesse conto della complessità dell’insieme. All’interno della Chiesa, Massimo IV (insieme ai suoi colleghi mediorientali) e Bea (con i suoi collaboratori europei e nordamericani) condussero un dialogo costruttivo che trasformò il documento sugli ebrei nella Nostra aetate. L’incontro tra Bea, alfiere dell’impegno verso un nuovo rapporto con il popolo ebraico, e Massimo IV, che rappresentava la preoccupazione per il Medio Oriente e per i palestinesi, ha segnato la relazione ebraico-cattolica degli ultimi sessant’anni.
Massimo IV, nominato membro della Commissione centrale preparatoria incaricata da papa Giovanni XXIII di gettare le basi per il Concilio nel giugno 1960, è stato senza dubbio la figura più rappresentativa tra i Padri conciliari del mondo arabo[6]. Il suo atteggiamento verso la questione ebraica non era dettato solo dalla sua prospettiva di arabo siriano e di guida spirituale della comunità greco-cattolica, che comprendeva anche greco-cattolici palestinesi sfollati nel 1948; egli era anche portavoce dei cattolici non europei e non latini, che rivendicavano il diritto di essere ascoltati dai vertici ecclesiali ancora prevalentemente europei e latini. Rifiutando di parlare in latino, Massimo IV intervenne con forza, in francese, per difendere i diritti e gli interessi non solo dei greco-cattolici, ma anche dei non europei in generale. Al tempo stesso, fu sostenitore delle richieste di riforma volte a condurre la Chiesa nel mondo moderno.
Riguardo al documento sugli ebrei, egli dichiarò nel 1962, in una nota alla commissione centrale che organizzava il Concilio: «Comprendiamo molto bene le ragioni che hanno motivato la proposta di questo “decreto” [sugli ebrei]. La Chiesa ha il dovere verso sé stessa di riconoscere le glorie, le promesse e la missione del popolo ebraico. Ha anche il dovere verso sé stessa di eliminare dalla sua liturgia, dai pensieri e dalle azioni dei suoi fedeli ogni traccia di disprezzo, vendetta o discriminazione razziale contro il popolo ebraico»[7]. Ciò nonostante, Massimo IV insisteva sul fatto che si dovesse operare una netta distinzione tra gli ebrei e lo Stato d’Israele; quest’ultimo «deve essere trattato secondo gli stessi criteri che regolano le relazioni tra la Chiesa e le società civili, senza alcun privilegio o considerazione speciale da parte della Chiesa»[8]. Inoltre, egli proponeva che «un decreto analogo venisse preparato riguardo all’Islam e alle altre religioni monoteiste. I cristiani che intrattengono frequenti rapporti con i seguaci di queste religioni sarebbero lieti di conoscere qualche insegnamento positivo della Chiesa su di esse, che vada oltre la pura e semplice condanna come “errori”»[9]. Nell’agosto 1962, il Sinodo greco-cattolico pubblicò un manifesto in cui si affermava che la fede in Cristo imponeva ai cristiani di non «nutrire alcun odio né rancore contro chicchessia»; tuttavia, «la giustizia, l’umanità e il patriottismo impongono loro il dovere di stare al fianco dei loro fratelli, gli arabi di Palestina, riconoscendo il loro diritto a ritornare nella loro terra e nella terra dei loro antenati»[10].
L’incontro tra la convinzione, prevalente in Europa e in Nord America, secondo cui la Chiesa dovesse promuovere un insegnamento di rispetto per il popolo ebraico e la resistenza prevalente in Medio Oriente, dove gli ebrei venivano identificati con la potenza militare dello Stato d’Israele e con la tragedia dei palestinesi, costituisce un esempio rilevante della globalizzazione della Chiesa. Il teologo cattolico Karl Rahner ha sostenuto che il Concilio Vaticano II fu «il primo grande evento ufficiale in cui la Chiesa ha attuato sé stessa precisamente come Chiesa universale […]; una Chiesa universale in quanto tale inizia ad agire grazie all’influsso reciproco esercitato da tutte le sue componenti»[11].
Un dialogo difficile
Il documento sugli ebrei fu presentato soltanto nella seconda sessione del Concilio, nel 1963[12]. Alla morte di Giovanni XXIII, il 3 giugno 1963, il suo successore, Paolo VI, ne confermò il progetto. Divenne tuttavia evidente che il nuovo Pontefice aveva una visione più ampia di ciò che il dialogo poteva significare nel mondo moderno. Nel settembre 1963, aprendo la seconda sessione del Concilio, Paolo VI affermò che la Chiesa «punta i suoi occhi al di là delle comunità cristiane e vede le altre religioni che conservano il concetto e la nozione di un Dio unico, creatore, provvido, sommo e trascendente la natura delle cose; che praticano il culto di Dio con atti di sincera pietà e che derivano da queste usanze e credenze i princìpi della vita morale e sociale»[13]. Il suo impegno per il dialogo era in parte guidato dall’intuizione del grande islamologo francese Louis Massignon, la cui influenza sul Concilio, per quanto riguarda l’atteggiamento della Chiesa verso i musulmani, può essere paragonata a quella esercitata da Isaac riguardo alla posizione della Chiesa verso il popolo ebraico.
Nel novembre 1963, Bea presentò il documento sugli ebrei come parte dello schema sull’ecumenismo. Essendo ormai consapevole della sensibilità dei mediorientali, assicurò al Concilio che il testo sul popolo ebraico non faceva alcun riferimento alla questione nazionale o politica: «Non si tratta – egli disse – di una questione nazionale o politica, e in special modo non si tratta di un riconoscimento dello Stato di Israele da parte della Santa Sede. Nessuna di tali questioni né è trattata né toccata in alcun modo nello schema, ma si affronta una questione di ordine puramente religioso»[14]. Nonostante ciò, i prelati del Medio Oriente espressero la loro opposizione e presero la parola, uno dopo l’altro, nella sessione. Tra loro vi era anche Massimo IV, il quale ribadì: «Se si parla degli ebrei, si deve parlare anche delle altre religioni non cristiane, e soprattutto dei musulmani, che sono 400 milioni e tra i quali noi viviamo come minoranza»[15]. Più tardi Bea avrebbe ammesso: «Furono soprattutto i Padri Conciliari del Vicino Oriente a chiedere che si parlasse anche dell’Islam. Altri però, andando più oltre, chiesero un’impostazione del tutto generale, in modo da comprendere tutte le religioni non cristiane»[16].
Una nuova prospettiva
La seconda sessione del Concilio si concluse con un annuncio clamoroso: Paolo VI si sarebbe recato in Terra Santa nel gennaio 1964. Era la prima volta che un Papa lasciava l’Italia da oltre 150 anni. La terza sessione del Concilio – da settembre a novembre 1964 – sarebbe stata fortemente influenzata dalla visione di Paolo VI sul dialogo con il mondo intero. Nella sua prima enciclica, Ecclesiam suam, pubblicata nell’agosto 1964, il Papa tratteggiava i cerchi concentrici dell’umanità con i quali la Chiesa è chiamata a entrare in dialogo interreligioso. Egli scriveva: «Poi intorno a noi vediamo delinearsi un altro cerchio, immenso anche questo, ma da noi meno lontano: è quello degli uomini innanzi tutto che adorano il Dio unico e sommo, quale anche noi adoriamo; alludiamo ai figli, degni del nostro affettuoso rispetto, del popolo ebraico, fedeli alla religione che noi diciamo dell’Antico Testamento; e poi agli adoratori di Dio secondo la concezione della religione monoteistica, di quella musulmana specialmente, meritevoli di ammirazione per quanto nel loro culto di Dio vi è di vero e di buono; e poi ancora ai seguaci delle grandi religioni afroasiatiche»[17].
Poco prima della convocazione della terza sessione del Concilio Vaticano II, il Sinodo greco-cattolico inviò una nota alla commissione organizzatrice del Concilio riguardo al documento sugli ebrei, in cui si diceva: «Non abbiamo alcuna obiezione fondamentale, sul piano teologico, contro questa bozza di dichiarazione. Ma, da un punto di vista pratico, riteniamo che si debba aggiungere […] un ultimo paragrafo con la seguente formulazione: “Questo santo Concilio tiene a sottolineare che la presente dichiarazione – che è un atto puramente religioso, ispirato unicamente da considerazioni teologiche – non ha alcuna motivazione né alcuno scopo politico. Questo santo Concilio condanna in anticipo qualsiasi interpretazione tendenziosa che cerchi di attribuire alla presente dichiarazione un qualsiasi significato politico, a favore o contro chicchessia”»[18]. Durante la sessione, l’arcivescovo greco-cattolico di Damasco Joseph Tawil, collaboratore stretto di Massimo IV, osservò che era inopportuno, quando «precisamente un milione di arabi furono ingiustamente e violentemente cacciati dalle loro terre», che la Chiesa si concentrasse sulla questione ebraica[19]. Sottolineò che «la Chiesa deve […] trattare l’ebraismo in un contesto spirituale e religioso. Il Concilio non deve intervenire in questioni civili e politiche»[20].
Il 25 settembre 1964 Bea tornò a prendere la parola davanti al Concilio. Sostenne che il documento sugli ebrei era «richiesto primariamente dalla fedeltà della Chiesa nel seguire l’esempio dell’amore di Cristo e degli Apostoli verso questo popolo. Tuttavia […] queste ragioni piuttosto esterne non si devono trascurare»[21]. Sebbene gran parte del suo intervento fosse dedicato a questioni teologiche, in particolare all’uso del termine «deicidio» per descrivere il popolo ebraico, spiegò anche le aggiunte al testo relative ai musulmani. Il documento, che andava ormai prendendo forma, sarebbe stato pubblicato come dichiarazione separata, non più come parte della dichiarazione conciliare sull’ecumenismo. Inoltre, Bea precisò che la posizione dei prelati mediorientali veniva tenuta in considerazione. Spiegò che la questione del popolo ebraico era religiosa e non politica: «Qui non parliamo del Sionismo né dello Stato politico d’Israele, ma dei seguaci della religione mosaica, dovunque si trovino nel mondo. Né si tratta di caricare di lodi e di onori il popolo ebraico, di esaltarlo sopra le altre genti, e di attribuirgli certi privilegi»[22]. Tuttavia insistette sul fatto che la questione era talmente importante «che val la pena di esporci anche al pericolo che alcuni forse abusino per fini politici di questa Dichiarazione. Si tratta infatti dei nostri doveri verso la verità e la giustizia»[23].
Al termine della terza sessione, Massimo IV pubblicò una reazione dettagliata riguardo ai lavori conciliari: «La Chiesa cattolica – scrisse – oggi è in posizione di dialogo: dialogo con sé stessa, dialogo con le altre Chiese, dialogo con il mondo che ha i suoi molteplici problemi umani e sociali, dialogo con chiunque cerchi Dio a suo modo. E questo dialogo mira a rafforzare la solidarietà umana e l’unità della famiglia di Dio, nel cammino verso il fine della sua esistenza». Poi aggiunse: «I Paesi arabi, da quando il sionismo si è costituito come Stato in Palestina, hanno saputo distinguere l’ebraismo come religione dall’ebraismo sionista come movimento politico. Hanno rispettato il primo e combattuto il secondo»[24]. In un comunicato del 31 dicembre 1964, Massimo IV ribadì: «Il Segretariato [per la promozione dell’unità dei cristiani] e l’episcopato mondiale non possono ignorare che esiste uno Stato che si definisce Israele; che questo Stato pretende di incarnare l’ebraismo; che quanto si dice sull’ebraismo come religione è inevitabilmente interpretato da Israele come detto di sé stesso in quanto Stato e movimento sionista mondiale; che ogni dichiarazione a favore dell’ebraismo come religione è sfruttata da Israele come un appoggio indiretto alla politica imperialista ed espansionista del sionismo mondiale contro i Paesi arabi». Inoltre il Patriarca affermò: «Nessuno dubita che il Concilio non desideri questa interpretazione, ma Israele la desidera, e i Padri del Concilio, in quanto responsabili e realisti, non devono prestarsi a tale manovra, soprattutto nelle circostanze in cui la tensione tra gli Stati arabi e Israele è al massimo livello»[25].
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Il frutto del dialogo
Nel periodo tra la terza e la quarta sessione del Concilio Vaticano II rimaneva ancora molto da fare, sia per affermare la necessità di pubblicare il documento che avrebbe segnato un nuovo inizio nei rapporti con il popolo ebraico, sia per rassicurare gli arabi sul fatto che esso non costituiva un’approvazione delle aspirazioni politiche israeliane in Medio Oriente.
Subito dopo la chiusura della terza sessione, Paolo VI si recò in India. Ufficialmente il viaggio era motivato dalla partecipazione a un Congresso Eucaristico, ma esso segnalava anche il nuovo spirito di dialogo con induisti, buddhisti e musulmani. Durante il viaggio, il Papa si fermò un’ora a Beirut, per incontrare leader politici e religiosi, alcuni dei quali seguivano con profonda preoccupazione la discussione sul documento sugli ebrei e le sue implicazioni per il Medio Oriente. Poco dopo, il Pontefice inviò una lettera ai patriarchi cattolici e ortodossi d’Oriente, lodando le loro Chiese ed esprimendo rispetto per la civiltà araba e per il ruolo del dialogo cristiano-musulmano[26].
Nella primavera e nell’estate del 1965, Paolo VI inviò una delegazione guidata dal vescovo Johannes Willebrands, segretario del Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani, in Medio Oriente per incontrare i leader cristiani a Beirut, Damasco, Gerusalemme e Il Cairo e cogliere il clima generale. Al suo ritorno, il presule olandese redasse un ampio rapporto, che successivamente fu comunicato ai Padri conciliari. Willebrands non solo riferì il rifiuto del documento sugli ebrei da parte di tutti i leader ecclesiali, cattolici e non cattolici, ma indicò anche il contesto mediorientale di tale rifiuto. Parlando di coloro che in Europa e nel Nord America sostenevano il documento, scrisse: «Non si ha conoscenza delle tensioni politiche e religiose in Medio Oriente, né consapevolezza della gravità della situazione in quei Paesi. È troppo facile ridurre il problema all’opposizione politica di qualche leader arabo. Siamo convinti che, vent’anni dopo Auschwitz, la Chiesa – e in particolare il Concilio – non possa rimanere in silenzio sull’antisemitismo. Riconosciamo le motivazioni religiose dell’antisemitismo e auspichiamo un nuovo sviluppo teologico riguardante il mistero d’Israele, un dialogo con la teologia ebraica e una collaborazione con gli ebrei. Poiché la grande maggioranza degli ebrei si trova in Occidente, questo riavvicinamento tra cristiani ed ebrei è facilmente distinguibile dalla questione politica posta dallo Stato di Israele e dal movimento sionista»[27]. Willebrands disse ai suoi colleghi europei e nordamericani che forse occorreva rivalutare l’intero progetto.
Le preoccupazioni dei vertici ecclesiali del Medio Oriente furono dunque recepite. Durante la quarta sessione dei lavori conciliari, il vescovo svizzero François Charrière dichiarò che il Concilio stava realmente prestando ascolto a tali preoccupazioni: «Non dobbiamo dare l’impressione di imporre decisioni alle altre Chiese solo perché siamo la maggioranza numerica. L’unanimità dei patriarchi orientali e il rapporto di monsignor Willebrands sono impressionanti. L’esistenza delle Chiese orientali ci obbliga a non basarci solo sui numeri. Conta una sola realtà: le Chiese orientali sono contrarie alla dichiarazione. Non possiamo costringerle ad accettare le nostre idee… Il nostro Concilio non è un Concilio latino: è un Concilio ecumenico»[28]. Massimo IV, gratificato dal fatto che la voce dei prelati mediorientali veniva ascoltata, cominciò a moderare la propria posizione e sostenne l’approvazione di un testo riformulato, facendo opera di persuasione in tal senso anche presso i suoi colleghi mediorientali[29].
Il frutto del dialogo tra Bea (e i suoi collaboratori) e Massimo IV (e i suoi colleghi) fu considerevole. In particolare, il documento sugli ebrei fu inserito in un contesto più ampio, relativo all’atteggiamento della Chiesa verso la pluralità delle religioni non cristiane. Il lungo paragrafo 4 sugli ebrei fu preceduto da un paragrafo 3, più breve ma non meno rivoluzionario, sull’atteggiamento della Chiesa verso i musulmani, definito di «stima». Uno dei principali redattori del paragrafo sui musulmani fu Georges Anawati, un domenicano egiziano che Bea aveva voluto nel Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani come consulente per le Chiese orientali. Egli svolse un ruolo essenziale nello sviluppo del dialogo con i musulmani[30]. Inoltre, il paragrafo 4 della Nostra aetate, sull’atteggiamento verso il popolo ebraico, affermava che «la Chiesa […], memore del patrimonio che essa ha in comune con gli ebrei, e spinta non da motivi politici, ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli ebrei in ogni tempo e da chiunque». L’atteggiamento della Chiesa verso il popolo ebraico è radicato nel Vangelo e non può essere ricondotto a motivazioni politiche. Espressa in poche parole – «non per motivi politici» –, questa prospettiva fondamentale ha orientato il successivo dialogo della Chiesa con il popolo ebraico.
Quando, il 14 ottobre 1965, presentò il testo riformulato, Bea riconobbe il processo di apprendimento che si era svolto nel dialogo interno tra i vescovi europei-nordamericani e quelli mediorientali: «Tutti questi sforzi miravano a due cose: 1) ovviare, per quanto possibile, a qualsiasi interpretazione meno esatta riguardo alla dottrina teologica proposta nello schema; 2) assicurare che la natura esclusivamente religiosa dello schema fosse chiaramente espressa, in modo che con ogni mezzo fosse preclusa la strada a qualsiasi interpretazione politica»[31]. Il lungo processo, nel corso del quale i vescovi arabi giunsero ad accettare un documento che trattava dell’ebraismo tra le religioni e i vescovi europei si disposero ad ascoltare le preoccupazioni della Chiesa in Medio Oriente, culminò con la promulgazione della dichiarazione nota come Nostra aetate, il 28 ottobre 1965.
Conclusione
Bea affermò: «A questa Dichiarazione si può applicare a buon diritto l’immagine biblica del granello di senape. Dapprima infatti si trattava di una semplice dichiarazione breve che concerneva l’atteggiamento dei cristiani verso il popolo ebraico. Col trascorrere del tempo poi, e soprattutto a motivo della discussione tenuta in quest’aula, quel granello, per vostro merito, è riuscito quasi un albero, su cui molti uccelli già trovano il loro nido, cioè in essi, almeno in qualche modo, tutte le religioni non cristiane occupano il loro posto quasi nello stesso modo in cui il Sommo Pontefice felicemente regnante nell’Enciclica Ecclesiam Suam abbraccia tutti i non cristiani»[32].
Non meno importante della formulazione della Nostra aetate per la vita della Chiesa fu il processo attraverso il quale la Chiesa latina si aprì a un fecondo dialogo con le varie Chiese orientali, ampliando la comprensione che la Chiesa ha di sé stessa come veramente cattolica. Nel novembre 1964 il Concilio pubblicò un decreto sulla comunione tra la Chiesa latina d’Occidente e le Chiese cattoliche d’Oriente, Orientalium Ecclesiarum, affermando che «il santo Concilio molto si rallegra della fruttuosa e attiva collaborazione delle Chiese cattoliche d’Oriente e d’Occidente»[33]. Massimo IV e Bea furono tra i pionieri di questo continuo processo di ascolto e apprendimento reciproco.
Nel 1985, vent’anni dopo la pubblicazione della Nostra aetate, la Chiesa chiarì ulteriormente come l’impegno in un dialogo costruttivo con il popolo ebraico dovesse essere distinto dalle questioni diplomatiche e politiche relative allo Stato d’Israele e al popolo palestinese. I cattolici possono certamente comprendere l’attaccamento religioso degli ebrei alla terra d’Israele, ma Israele in quanto Stato deve essere soggetto al diritto internazionale. «I cristiani sono invitati a comprendere questo vincolo religioso che affonda le sue radici nella tradizione biblica, pur non dovendo far propria un’interpretazione religiosa particolare di tale relazione. […] Per quanto si riferisce all’esistenza dello Stato di Israele e alle sue scelte politiche, esse vanno viste in un’ottica che non è di per sé religiosa, ma che si richiama ai principi comuni del diritto internazionale»[34].
Questa tensione tra il dialogo religioso, spirituale e teologico con il popolo ebraico e il conflitto tra Israele e Palestina è tuttora al centro dei rapporti tra ebrei e Chiesa cattolica. Nel suo discorso ai cristiani non cattolici e ai rappresentanti delle altre religioni, il giorno dopo l’inaugurazione del suo pontificato, papa Leone XIV ha affermato: «A motivo delle radici ebraiche del cristianesimo, tutti i cristiani hanno una relazione particolare con l’ebraismo. La Dichiarazione conciliare Nostra aetate (n. 4) sottolinea la grandezza del patrimonio spirituale comune a cristiani ed ebrei, incoraggiando alla mutua conoscenza e stima. Il dialogo teologico tra cristiani ed ebrei rimane sempre importante e mi sta molto a cuore. Anche in questi tempi difficili, segnati da conflitti e malintesi, è necessario continuare con slancio questo nostro dialogo così prezioso»[35].
La soluzione dei «conflitti e malintesi» nel rapporto tra la Chiesa cattolica e il popolo ebraico sarà notevolmente facilitata quando gli ebrei israeliani e gli arabi palestinesi sapranno trovare un modo di convivere in condizioni di uguaglianza, giustizia e pace. Paolo VI, nel suo messaggio natalizio del 1975, lanciò un appello in tal senso: «Benché consapevoli delle tragedie non lontane che hanno spinto il Popolo Ebraico a ricercare un sicuro e protetto presidio in un proprio Stato sovrano e indipendente, […] vorremmo invitare i figli di questo Popolo a riconoscere i diritti e le legittime aspirazioni di un altro Popolo, che ha anch’esso lungamente sofferto, la gente palestinese»[36]. Tutti i Pontefici successivi hanno ripreso più volte questo appello.
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[1] J. Isaac, «Notes about a crucial meeting with John XXIII», in Council of Centers on Jewish-Christian Relations (ccjr.us/dialogika-resources/documents-and-statements/jewish/isaac1960), 13 giugno 1960.
[2] A. Bea, La Chiesa e il popolo ebraico, Brescia, Morcelliana, 2015, 7.
[3] Cfr J. Borelli, «Correcting the Nostra Aetate Legend: The Contested, Minimal, and Almost Failed Effort to Embrace a Tragedy and Amend Christian Attitudes Toward Jews, Muslims, and the Followers of Other Religions», in K. Ellis (ed.), Nostra Aetate, Non-Christian Religions and Interfaith Relations, Cham, Palgrave Macmillan, 2021, 31.
[4] Esempi di questa categorizzazione si trovano nell’importante storia del Concilio di G. Caprile (ed.), Il Concilio Vaticano II: Cronache del Concilio Vaticano II. Quarto Periodo, Roma, La Civiltà Cattolica, 1965, 277 s.
[5] Un esempio di questa posizione è il libro di A. Melloni, L’altra Roma. Politica e S. Sede durante il Concilio Vaticano II (1959-1965), Bologna, il Mulino, 2000, 310-318.
[6] Cfr P. Doria, Il contributo del patriarca Maximos IV Saigh e della Chiesa greco-melchita al Concilio Vaticano II, Todi (Pg), Tau, 2023.
[7] Cfr Maximos IV, «Chapter 14: The Church and Other Religions», in L’Église Grecque Melkite au Concile, Rabweh, Dar al-Kalima, 1967; traduzione inglese e presentazione di R. Taft (melkite.org/faith/faith-worship/chapter-14).
[8] Ivi.
[9] Ivi.
[10] Citato in S. Shofani, The Melkites at the Vatican Council II: Contribution of the Melkite Prelates to Vatican Council II, Bloomington, AuthorHouse, 2005, 106 s.
[11] K. Rahner, «Towards a Fundamental Theological Interpretation of Vatican II», in Theological Studies 40 (1979/4) 717.
[12] I contatti ebraici di Bea annunciarono che avrebbero nominato un funzionario civile israeliano, Chaim Wardi, come referente presso la Chiesa a Roma, con l’approvazione del governo israeliano. Il passo suscitò indignazione sia in Vaticano sia in Medio Oriente. La conseguenza fu il ritiro del documento sugli ebrei dall’agenda della prima sessione del Concilio.
[13] Paolo VI, s., Allocuzione nel solenne inizio della seconda sessione del Concilio Ecumenico Vaticano II, 29 settembre 1963.
[14] A. Bea, La Chiesa e il popolo ebraico, cit., 141.
[15] Maximos IV, «Chapter 14: The Church and Other Religions», cit.
[16] A. Bea, La Chiesa e il popolo ebraico, cit., 22.
[17] Paolo VI, s., Enciclica Ecclesiam Suam, 6 agosto 1964, n. 111.
[18] Maximos IV, «Chapter 14: The Church and Other Religions», cit.
[19] Cfr «Liban – Chronique», in Proche-Orient Chrétien, 14 (1964) 368.
[20] S. Shofani, The Melkites at the Vatican Council II, cit., 107.
[21] A. Bea, La Chiesa e il popolo ebraico, cit., 147.
[22] Ivi, 152.
[23] Ivi, 153 s.
[24] Il comunicato venne riprodotto in Proche-Orient Chrétien, 14 (1964) 393-396.
[25] Maximos IV, «Chapter 14: The Church and Other Religions», cit.
[26] Cfr «Una Lettera del Santo Padre ai Patriarchi con sede nei Paesi Arabi», in L’Osservatore Romano, 6 gennaio 1965.
[27] Acta synodalia Sacrosancti Concilii Oecumenici Vaticani II, V/3, 319 (archive.org/details/ASV.3/page/318/mode/2up?view=theater).
[28] C. Stackaruk, «Retrieving MENA Catholics’ Contributions to Nostra Aetate», tesi di dottorato, University of St. Michael’s College, 2022, 193.
[29] Un resoconto affascinante e puntuale del ruolo di Maximos IV si trova in P. Doria, Il contributo del patriarca Maximos IV Sajgh…, cit., 75-103.
[30] Cfr J.-J. Pérennès, Georges Anawati (1905-1994): Un chrétien égyptien devant le mystère de l’Islam, Paris, Cerf, 2008.
[31] A. Bea, La Chiesa e il popolo ebraico, cit., 160.
[32] Ivi, 155.
[33] Paolo VI, s., Decreto sulle Chiese cattoliche orientali Orientalium Ecclesiarum, 21 novembre 1964, n. 30.
[34] Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani, Sussidi per una corretta presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica, 1985 (tinyurl.com/bdshvbcb).
[35] Leone XIV, Discorso ai rappresentanti di altre Chiese e comunità ecclesiali e di altre religioni, 19 maggio 2025.
[36] Paolo VI, s., Discorso al Sacro Collegio e alla Prelatura romana, 22 dicembre 1975, in vatican.va/feed/rss
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L’operazione «Rising Lion»
Secondo il governo israeliano, l’Iran è la più grande minaccia esterna per Israele, ma la minaccia più grave di tutte è certamente il suo progetto di dotarsi di una bomba nucleare. Israele è un piccolo Paese densamente popolato, situato nel raggio di azione missilistico della Repubblica islamica, per cui un Iran dotato di armi nucleari metterebbe a rischio la sua stessa esistenza[2]. Ciò spiega l’attacco all’Iran del 13 giugno scorso, preparato e studiato da lungo tempo, in ogni sua parte.
L’operazione, denominata Rising Lion, è stata attuata con l’intento specifico di impedire che gli ayatollah arrivino a costruire una bomba nucleare. Il premier Netanyahu a tale riguardo ha parlato «di azione preventiva per rimuovere una minaccia esistenziale»[3]. I ripetuti raid aerei non si sono limitati a colpire i laboratori del programma atomico, ma hanno preso di mira le più importanti risorse strategiche iraniane, uccidendo le persone al vertice delle forze armate e dei Guardiani della rivoluzione[4], nonché gli scienziati impegnati nel progetto. Hanno colpito, inoltre, le difese contraeree, gli arsenali missilistici e bombardato aeroporti e caserme in tutto il Paese. Insomma, il vero obiettivo era colpire il sistema di potere degli ayatollah e spingere a un change regime, come aveva espressamente detto Benjamin Netanyahu in un messaggio rivolto agli iraniani.
Il giorno precedente, i governatori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), un’agenzia collegata alle Nazioni Unite, avevano dichiarato l’Iran inadempiente in ordine al nucleare. Era la prima volta in 20 anni che l’Agenzia censurava la Repubblica islamica perché non rispettava i suoi obblighi sul programma nucleare, non collaborava pienamente con le ispezioni e continuava a non spiegare la presenza di tracce di uranio trovate in tre siti non dichiarati. Teheran possedeva quantità di uranio arricchito al 60%, che, se fosse portato al 90%, potrebbe bastare per costruire diverse testate nucleari. L’Iran ha sempre rivendicato la natura pacifica del suo programma, ma è l’unico Paese al mondo senza atomica ad arricchire l’uranio al 60%[5]. È significativo che l’attacco israeliano sia avvenuto un giorno dopo la censura del sistema nucleare iraniano da parte di un organismo internazionale.
Secondo Guido Olimpio, Israele «ha usato un tridente per attaccare l’Iran»[6]. La prima arma è stata rappresentata dall’aviazione e dai missili lanciati da lontano. La seconda era costituita dai droni-kamikaze portati in Iran precedentemente. La terza era costituita dalle azioni attuate in loco dai servizi segreti, il Mossad. «Lo Stato Maggiore ha scatenato alle tre di notte la prima ondata e ne ha promesse molte altre. Sono stati impiegati 200 aerei […] che hanno lanciato non meno di 300 “proiettili” contro 150 bersagli divisi per “categorie”»[7]. Sono stati colpiti alcuni siti nucleari, numerose basi, postazioni missilistiche e radar, e i massimi esponenti militari dell’Iran, a cominciare dai vertici dei pasdaran fino ad alcuni scienziati impiegati nel programma nucleare, sono stati raggiunti da missili o droni nelle loro abitazioni.
Gli israeliani hanno fatto sapere aimediacome sono riusciti a eliminare contemporaneamente un numero così alto di ufficiali. Pare che questi, dal comandante dei pasdaran Hossein Salami al responsabile della divisione aerospaziale Amir Ali Hajizadeh, siano stati indotti a riunirsi in un luogo preciso, che poi è stato centrato da missili[8]. Per quanto riguarda i droni, agenti dei servizi segreti sono stati in grado di trasportarli in Iran, li hanno nascosti in luoghi sicuri e li hanno tirati fuori per metterli in azione contro gli obiettivi stabiliti. Queste azioni del Mossad confermano «una realtà in cui gli israeliani dimostrano di avere sponde all’interno della Repubblica islamica»[9], forse individui senza ideologia che lavorano per soldi o membri dell’opposizione. Non dimentichiamo che molti di questi in passato sono stati arrestati, processati e giustiziati dal regime.
Il momento scelto per l’intervento non è stato casuale. Israele, nonostante sia impegnato nella guerra di Gaza non ancora portata a termine, aveva a disposizione una breve finestra temporale per poter agire. Infatti, l’Iran ora è più debole di quanto non lo sia stato nei decenni precedenti. Non solo il suo regime è impopolare, ma anche la sua influenza in Libano e in Siria è notevolmente diminuita. Hezbollah, la milizia libanese che un tempo era considerata la punta di diamante di qualsiasi rappresaglia iraniana, ha ridotto le capacità militari per i bombardamenti israeliani. Altri gruppi filo-iraniani come Hamas, sono stati decimati a Gaza. Soltanto gli Houthi rimangono per il momento pericolosamente attivi.
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Ma la vera motivazione che ha spinto Israele ad agire è che l’Iran non è stato mai così vicino come in questo tempo a ottenere l’arma nucleare e, avendo accelerato la produzione di uranio arricchito, avrebbe materiale fissile sufficiente per creare diverse bombe[10]. I suoi funzionari ritenevano che, nei colloqui con l’America su un accordo per bloccare il programma nucleare, l’Iran abbia creato una sorta di cortina di fumo, dietro la quale i suoi scienziati stavano in realtà procedendo rapidamente nel progetto. Trump stesso aveva accusato l’Iran di non essere disposto a raggiungere un accordo secondo le condizioni statunitensi. Israele ha colto così l’occasione per passare all’azione.
La reazione del regime degli ayatollah è partita poco dopo il primo attacco, quando centinaia di missili e droni sono stati lanciati verso Israele. Soltanto pochi, però, sono riusciti a oltrepassare lo scudo di difesa israeliano. Gli Stati Uniti hanno contribuito ad abbattere non pochi di questi missili, dimostrando di essere a fianco di Israele nella difesa del suo territorio. Successivamente Israele ha ripetuto i bombardamenti sui siti colpiti in precedenza, come quelli nucleari di Natanz e Isfahan, e altri ancora in tutto l’Iran. Teheran ha dichiarato che avrebbe abbattuto obiettivi di Paesi occidentali, qualora questi avessero aiutato Israele.
Nei giorni successivi, i bombardamenti sono continuati su entrambi i fronti, provocando vittime anche tra i civili. In Israele è stata colpita una raffineria di petrolio ad Haifa, e successivamente la cittadina di Bat Yam, dove sono stati danneggiati più di 60 edifici, uccidendo diverse persone. Questo vuol dire che, nonostante il sofisticato sistema israeliano di difesa aerea multilivello, alcuni missili balistici iraniani sono riusciti a superarlo[11]. Ancora più devastanti sono stati i bombardamenti israeliani sull’Iran: più di 300 raid al giorno. I missili hanno colpito anche i quartieri residenziali, soprattutto a Teheran nord, dove vivono funzionari e militari, ma anche semplici civili. Sono stati presi di mira giacimenti di gas e depositi di carburante che riforniscono la capitale, ma anche infrastrutture come aeroporti e autostrade e perfino la Tv di Stato. Israele con i suoi missili e aerei ha avuto, per tutto il periodo della guerra, il dominio dei cieli, in particolare ha tenuto sotto tiro Teheran.
In generale l’Iran, nonostante la sua propaganda, non è stato in grado di reagire efficacemente all’attacco israeliano; non ha abbattuto un solo jet del nemico. Dei 532 missili balistici lanciati contro Israele, solo 31 hanno colpito aree popolose; i restanti sono stati intercettati, hanno fallito il lancio o hanno colpito zone deserte del Paese. I missili non sono riusciti a colpire obiettivi strategici, come le basi aeree, che avrebbero potuto ostacolare l’azione bellica di Israele[12].
Gli Usa e la guerra tra Israele e Iran
All’inizio, gli Stati Uniti non hanno preso parte all’attacco, anche se sono stati informati dell’operazione, alla quale, secondo gli studiosi, hanno dato «semaforo giallo», autorizzando Israele ad agire, senza però esporsi in prima persona. Le motivazioni della strategia statunitense sono state esplicitate in un comunicato diffuso nella notte del 13 giugno dal Segretario di Stato, Marco Rubio: «Stasera Israele ha compiuto un’azione unilaterale, noi non siamo coinvolti negli attacchi contro l’Iran e la nostra principale priorità è di proteggere le forze americane nella regione. Israele ci ha informati che ritiene questa azione necessaria per la propria autodifesa»[13].
Il giorno dopo l’attacco, Trump non ha nascosto di essere impressionato da quanto avvenuto. Ha parlato di «un grande successo», notando che è stato usato qualche equipaggiamento americano e ha presentato l’attacco israeliano come qualcosa che può aumentare le chances di un accordo e contribuire a convincere l’Iran a rinunciare completamente all’arricchimento dell’uranio. Ha detto anche che i mercati avrebbero risposto positivamente, perché l’Iran non avrebbe avuto un’arma nucleare[14]. Il 15 giugno, Trump è intervenuto più volte: «Iran e Israele – ha detto – dovrebbero raggiungere un accordo, e lo faranno, proprio come hanno fatto India e Pakistan»[15], e ha indicato Putin come possibile mediatore. Poi ha dichiarato: «Al momento gli Usa non sono coinvolti. È possibile che lo siano». Quindi ha specificato il senso di tale affermazione: gli Usa non hanno partecipato agli attacchi israeliani, «ma se verremo colpiti, risponderemo con una forza mai vista prima»[16].
Dopo il G7, svoltosi in Canada a metà giugno, dal quale Trump è ripartito in anticipo, la sua posizione sulla guerra israeliana in Iran è cambiata. Da quel momento egli ha chiesto agli ayatollah non la semplice ripresa dei negoziati, ma la resa totale. Accreditandosi parte della vittoria israeliana, ha scritto nel suo sito: «Ora abbiamo il controllo completo e totale dei cieli sopra l’Iran». Poi ha lanciato l’ultimatum: «Sappiamo esattamente dove si nasconde il cosiddetto “Leader Supremo”. È un bersaglio facile, ma è al sicuro lì. Non abbiamo intenzione di eliminarlo (ucciderlo!), almeno non per ora»[17]. In un successivo post, ha aggiunto, a lettere cubitali: «Resa incondizionata»[18].
Anche se gli Usa in quel momento non erano in guerra con l’Iran, è significativo che il Presidente abbia utilizzato il «noi» per indicare alcuni importanti passaggi. Per Israele l’appoggio e, ancor più, l’entrata in guerra degli Usa a suo fianco avrebbero fatto la differenza. Trump ha deciso di intervenire in questa guerra, in parte per aiutare l’alleato israeliano, in parte per attribuirsi i meriti della vittoria, che vedeva a portata di mano. «Per lui non c’è niente di più frustante di una guerra combattuta con armi statunitensi, ma di cui non può prendersi il merito in caso di vittoria»[19].
Sotto il profilo della politica interna, va però sottolineato che Trump era stato eletto presidente dopo aver presentato un programma di disimpegno dai conflitti del mondo, criticando le guerre senza fine condotte in passato dai democratici in Medio Oriente. E questa poteva essere una di quelle. Tanto più che molti attivisti del movimento Maga, come pure molti repubblicani, erano contrari all’intervento[20]. Inoltre, secondo alcuni sondaggi, sembra che la maggior parte dell’opinione pubblica americana fosse ostile all’intervento, e che solo il 16% fosse a favore[21]. In un primo momento Trump ha affermato di voler attendere due settimane prima di decidere se intervenire a fianco di Israele e dare all’Iran la possibilità di abbandonare il programma nucleare, ma subito dopo ha deciso di intervenire.
Israele aveva bisogno dell’intervento americano per sferrare un colpo decisivo ai siti nucleari iraniani interrati nel sottosuolo[22]. A pochi giorni dall’inizio dell’attacco israeliano, solo due siti nucleari erano stati colpiti – quello di Natanz e quello di Isfahan –, e non si sapeva con quali risultati concreti. Gli analisti stimavano che le forze israeliane avessero al massimo colpito un terzo del programma nucleare iraniano, il che lo avrebbe fatto regredire di mesi e non di anni. Alcuni impianti sotterranei, come quello di Fordow, dove viene arricchito l’uranio, non erano stati per nulla toccati[23].
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Il 20 giugno, un incontro a Ginevra dei ministri degli esteri di Germania, Regno Unito, Francia e dell’Alta rappresentante Ue con il ministro iraniano Abbas Araghchi non ha sortito risultati concreti. L’obiettivo dell’incontro era convincere l’Iran ad «accettare un controllo più invasivo»[24] da parte dell’Aiea sul programma nucleare e sulle attività balistiche, in modo da scongiurare l’intervento armato degli Usa. Gli ayatollah hanno detto di essere pronti a discutere, ma non a bloccare il programma nucleare.
L’intervento americano
Nonostante le iniziali esitazioni e le due settimane di ripensamento, gli Usa, probabilmente spinti da Netanyahu, hanno deciso di intervenire bombardando tre siti nucleari. Ciò è avvenuto la mattina del 22 giugno. Un gruppo di sette bombardieri B-2 ha sganciato 14 bombe anti-bunker (GBU – 57) su Fordow e su Natanz. Il primo è il più importante impianto nucleare iraniano, che si trova interrato sotto il fianco di una montagna, a una profondità di circa 100 metri. Secondo molti analisti, le bombe utilizzate dagli Usa, anche se molto potenti, non sarebbero in grado di distruggere l’impianto in profondità. Tuttavia, anche se non riuscissero ad arrivare alla sala di arricchimento dell’uranio, potrebbero causare un’onda d’urto capace di distruggere in modo sensibile le apparecchiature contenute al suo interno. Gli Usa hanno anche colpito Isfahan, già bombardata da Israele, con 30 missili da crociera lanciati dai sottomarini. Subito dopo i bombardamenti, Trump ha dichiarato: «Posso annunciare al mondo che gli attacchi sono stati uno spettacolare successo militare. I principali impianti di arricchimento nucleare dell’Iran sono stati completamente e totalmente distrutti»[25]. Il capo di Stato Maggiore Razin Caine ha specificato: «I danni finali saranno quantificati nel tempo, ma le prime valutazioni indicano che tutti e tre i siti hanno subìto distruzioni estremamente gravi»[26].
Decisa è stata la reazione di Teheran. Il ministro degli Esteri Araghchi ha annunciato la fine di ogni trattativa e ha dichiarato: «Quanto accaduto è oltraggioso e avrà conseguenze eterne per questi attacchi illegali e criminali. […] l’Iran si riserva tutte le opzioni per difendere la propria sovranità, i propri interessi e il proprio popolo»[27]. La Cina e la Russia hanno condannato l’azione militare statunitense: è stato violato, hanno detto, il diritto internazionale. Il Segretario generale dell’Onu, António Guterres, ha dichiarato che il bombardamento degli impianti nucleari iraniani «segna una svolta pericolosa in una regione già in preda al caos»[28].
Gli analisti si sono chiesti come avrebbe reagito il regime iraniano dopo il bombardamento statunitense. Oltre a continuare a bersagliare Israele, esso aveva una serie di possibilità, tutte pericolose per gli interessi americani[29]. Avrebbe potuto lanciare droni o missili contro le basi statunitensi in Medio Oriente o attaccare gli alleati americani, prendendo di mira i giacimenti petroliferi dell’Arabia Saudita o i grattacieli di Dubai. Oppure avrebbe potuto bloccare lo Stretto di Hormuz, il braccio di mare in cui passa un terzo del greggio trasportato via mare. Solo che ciò avrebbe danneggiato anche le esportazioni del petrolio iraniano diretto in Cina. Tutte queste soluzioni avrebbero provocato una reazione molto forte da parte degli Stati Uniti, spingendoli a un vero e proprio conflitto armato, come in passato era avvenuto in Afghanistan e in Iraq, cosa che gli Usa non volevano. Trump aveva più volte sottolineato che i soldati statunitensi non avrebbero calcato il suolo mediorientale. Inoltre, i proxy dell’Iran, gli Houthi o l’Hezbollah avrebbero potuto attaccare obiettivi statunitensi o israeliani. Ma tutto questo non è avvenuto.
Per gli Usa, la scelta migliore era che l’Iran optasse per una rappresaglia simbolica, come era avvenuto nel 2020, quando Trump aveva ordinato l’uccisione del generale Qassem Soleimani. Il Presidente statunitense in questo caso avrebbe potuto spingere Israele a porre fine alla sua guerra e sollecitare l’Iran a riprendere i negoziati per un nuovo accordo sul nucleare. «Il bullo del Medio Oriente – aveva detto Trump – ora deve fare la pace. Se non lo farà, i futuri attacchi saranno molto più gravi e molto più facili»[30]. Dal canto loro, i funzionari di Teheran hanno cercato di minimizzare i danni subiti dai siti nucleari[31].
La rappresaglia iraniana ai bombardamenti statunitensi non si è fatta attendere. L’indomani, una raffica di missili è stata lanciata contro la base americana di Al Udeid, in Qatar, provocando pochi danni materiali. In ogni caso, «per una decina di minuti tra i grattacieli di Doha la notte si è riempita di esplosioni, con il drammatico duello tra contraerea e incursori, mentre negli shopping center del lusso la folla fuggiva in preda al panico»[32]. Dal punto di vista strategico, l’azione non era di poco conto: questo fatto rischiava di incrinare la fiducia tra nazioni che erano state storicamente amiche. Quella iraniana è stata una rappresaglia-show, una sorta di ritorsione simbolica sul modello di quella del 2020, un modo per cercare di chiudere i conti con Washington e aprire canali di negoziato. Di fatto, prima di lanciare l’attacco, le autorità di Teheran avevano preavvisato gli emiri di Doha, permettendo così agli statunitensi di attivare in anticipo la contraerea Patriot, così da ridurre in modo sensibile i danni[33]. Secondo gli Usa, soltanto un missile sarebbe giunto a destinazione; per gli iraniani, invece, diversi.
Successivamente, il presidente Trump ha ringraziato Teheran per l’informazione, e la Casa Bianca ha negoziato, grazie alla mediazione del Qatar, un cessate il fuoco tra Iran e Israele, al fine di avviare una trattativa. L’iniziativa è stata ben accolta sia da Israele sia da Teheran. «Vorrei congratularmi – ha scritto il Presidente Usa nel suo sito – con entrambi i Paesi, Israele e Iran, per aver avuto la resistenza, il coraggio e l’intelligenza necessari per porre fine a quella che dovrebbe essere chiamata “la guerra dei 12 giorni”»[34].
La cosiddetta «guerra dei 12 giorni», ha provocato 387 vittime civili (su un totale di 974) tra gli iraniani, mentre quelle israeliane sono state 29[35].
Tutti coloro che sono stati coinvolti nel conflitto possono affermare di aver raggiunto il loro obiettivo principale: Israele ha arrecato danni concreti ai programmi nucleari e missilistici dell’Iran; il regime iraniano è sopravvissuto, indebolito, ma intatto[36]; Trump ha sganciato le sue superbombe senza farsi risucchiare in un conflitto lungo e impopolare; gli Stati del Golfo hanno evitato l’incubo di un attacco iraniano distruttivo sul loro territorio. In ogni caso, è nell’interesse di tutti aver posto fine a un conflitto che poteva far saltare in aria tutta la regione e che rischia di riaccendersi nel caso in cui l’Iran, per ritorsione, riprenda il suo programma nucleare.
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[1] Cfr P. Smolar, «La guerra dei dodici giorni», in Internazionale, 27 giugno 2025.
[2] Cfr «Israel has taken an audacious but terrifying gamble», in The Economist,13 giugno 2025.
[3] G. Di Feo, «L’Iran risponde a Israele: Medio Oriente in guerra», in la Repubblica, 14 giugno 2025.
[4] Uomini come Hossein Salami, comandante in capo delle Guardie della rivoluzione, il più alto ufficiale iraniano; Ali Bagheri, capo di Stato maggiore delle forze armate; Esmail Qaani, comandante della Forza Quds delle Guardie rivoluzionarie; e altri.
[5] Cfr G. Colarusso, «Teheran non passa l’esame Aiea sul nucleare. Israele prepara l’attacco», in la Repubblica, 13 giugno 2025.
[6] G. Olimpio, «I droni nascosti, le talpe e la trappola del Mossad. Il piano studiato per anni», in Corriere della Sera, 14 giugno 2025.
[7] Ivi.
[8] Cfr ivi.
[9] Ivi.
[10] Cfr «Israel’s war with Iran is over», in The Economist, 26 giugno 2025.
[11] Cfr A. Lombardi, «Israele. Le città martellate dal super-missile “Soleimani”. Netanyahu giura vendetta», in la Repubblica, 16 giugno 2025.
[12] Cfr «Israel’s war with Iran is over», in The Economist, 26 giugno 2025.
[13] V. Mazza, «Qui Trump. Il doppio gioco del tycoon. “Sapevamo, ma gli Usa non sono coinvolti”», in Corriere della Sera, 14 giugno 2025.
[14] Cfr ivi.
[15] P. Mastrolilli, «Gli Usa, Trump apre a Putin: “Può essere lui il mediatore. Se ci attaccano, reagiremo”», in la Repubblica, 16 giugno 2025.
[16] Ivi.
[17] P. Mastrolilli, «Trump all’Iran: “Resa totale o guerra”. Mosca: rischio atomico», in la Repubblica, 18 giugno 2025.
[18] Ivi.
[19] P. Haski, «Cosa può spingere Washington a entrare in guerra contro Teheran», in Internazionale, 19 giugno 2025.
[20] Cfr ivi.
[21] Cfr «Trump v Iran: a negotiation made in hell», in The Economist, 20 giugno 2025.
[22] Cfr «The Israel Iran war is now a brutal test of staying power», in The Economist, 15 giugno 2025.
[23] Cfr ivi.
[24] Cfr F. Basso, «L’Europa tratta con l’Iran. Tre ore, zero progressi», in Corriere della Sera, 21 giugno 2025.
[25] M. Persivale, «Trump lancia l’attacco Usa. L’Iran: conseguenze eterne», in Corriere della Sera, 23 giugno 2025.
[26] Ivi.
[27] Ivi.
[28] Ivi.
[29] Cfr «Trump smashes Iran – and gambles the regime will now capitulate», in The Economist, 22 giugno 2025.
[30] Ivi.
[31] Israele intanto aveva lanciato un attacco su Teheran, prendendo di mira i simboli del regime, cioè la prigione di Evin, dove sono detenuti i dissidenti e i prigionieri politici. È stato colpito anche il quartier generale dei Guardiani della rivoluzione, dove sarebbero rimasti uccisi numerosi pasdaran, e quello dei Basij, la milizia paramilitare creata da Khomeini nel 1979.
[32] G. Di Feo, «L’Iran avvisa gli Usa del lancio di missili sul Qatar, poi l’annuncio di una tregua», in la Repubblica, 24 giugno 2025.
[33] Cfr ivi.
[34] «Trump says the war is over. Haw 14 bombs may change the Middle East», in The Economist, 24 giugno 2025.
[35] Cfr Corriere della Sera, 25 giugno 2025, 3.
[36] Il regime iraniano ha affermato di aver costretto i nemici a rifugiarsi in un cessate il fuoco e di aver messo in salvo le scorte di uranio arricchito. Il che non è accertato, anche perché il regime non accetta più nessun intervento dell’Aiea nel Paese.
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Gli angeli, messaggeri dello spirito
In diversi Paesi europei secolarizzati, come la Germania, Dio è diventato del tutto estraneo per molti. Sembra lontano, astratto, impersonale, impossibile da comprendere o da toccare, ma anche difficile da sentire o da sperimentare; una vaga fantasia, semplice di per sé eppure complessa, in qualche modo inconsistente; o una pura idea, che appare per di più paradossale, peraltro impossibile da fondare o dimostrare, non più adatta a un mondo funzionale e proprio per questo tormentato dalle crisi. E non si danno nemmeno risposte a domande profonde: se Dio ha fatto buone tutte le cose, da dove viene tutto il male attuale? Perché egli non se ne cura, se è buono e onnipotente? Dove va a finire il mondo se non nel nulla?
Se poi si cerca di accedere al sacro o alla religione passando per gli esseri umani, la cosa non appare più facile: gli esseri umani – per esempio, i santi della storia o le figure luminose della vita religiosa attuale – sono persone concrete, e per questo culturalmente limitate, deboli e peccatrici, a volte malate. Oggi difficilmente si crede che alcuni esseri umani siano plasmati dal divino e che rimandino a Dio. L’uomo contemporaneo, cresciuto nella modernità, è troppo informato, troppo realistico, troppo critico.
Una religione personale?
A questo punto, sarebbe più facile adottare una «spiritualità» impersonale. Nella religione, crea difficoltà soprattutto l’elemento personale, che tuttavia nel cristianesimo è irrinunciabile. Ma in che modo allora rappresentare questo elemento personale di Dio in una società ipercritica? Dio come un pastore? Alcuni diranno che così appare autoritario, rende infantili le pecore o le minimizza. Dio come padre? Ad altri sembrerà che sia patriarcale, con un potere eccessivo, e per questo propenso ad abusarne come tanti padri: un’immagine che risulterebbe provocatoria per le vittime di violenza, e che tra l’altro risulta impossibile per una prospettiva di genere così diffusa. Dio come padre e madre? Questa immagine forse va già un po’ meglio, ma potrà apparire troppo parentale per persone normali, e troppo tradizionale dal punto di vista sociale. Dio come re, dominatore del mondo, come Kyrios (questo era il titolo dell’imperatore romano)? Anche qui non mancheranno coloro ai quali tali qualifiche sembreranno roba da museo, oppure da monarchia, da destra conservatrice.
E che dire poi di Gesù Cristo come uomo venuto da Dio, o come Figlio di Dio, o addirittura come una persona divina? Un Dio sotto forma di una persona umana storica appare ormai poco credibile. Un dialogo interreligioso sembra oggi possibile quasi solo senza Gesù: l’impedimento è rappresentato soprattutto dalla sua incarnazione e poi dalla sua morte in croce, apportatrice di salvezza, e dalla sua risurrezione, che sconfigge la morte. Per noi cristiani è difficile spiegare queste realtà teologiche, e anche comprenderle.
Gli angeli ci possono permettere un accesso più facile alla religione? In qualche modo essi sono concreti, comprensibili, li si può immaginare; ma allo stesso tempo appaiono piacevolmente anonimi – i loro nomi non vengono quasi mai menzionati –, anche androgini, non binari, compatibili con il queer, oppure del tutto incorporei, come un soffio fugace. Compaiono nelle immagini, e allo stesso tempo si sottraggono a tutto ciò che è immagine. Sono puri, divini e buoni, ma allo stesso tempo trova posto in essi anche il male demoniaco. Gli angeli non sono troppo divini, e allo stesso tempo non sono troppo umani. Essi esistono in tutte le principali religioni e spiritualità, anche nella religione secolare. Da anni stanno vivendo un boom, forte nella letteratura popolare, ma anche nell’esoterismo, nella musica pop, nella pubblicità. È stato grazie al benedettino Anselm Grün che il culto degli angeli non si è fatto completamente assorbire dalla scena dell’esoterismo, ma è rimasto anche nel cristianesimo. Se il cristianesimo non è tanto ciò che si continua a intendere per «spiritualità» – ossia l’elevazione a una sfera spirituale presentata in modo impersonale –, ma è soprattutto fede, cioè fiducia e dono di sé a una divinità anche personale, gli angeli possono aiutarci a raggiungere una tale fede[1]?
Gli angeli nella Bibbia
Alcuni riferimenti biblici possono introdurre al significato degli angeli nel contesto cristiano. Essi non compaiono nella creazione del mondo, ma, dopo la cacciata dei primi esseri umani dal paradiso, i cherubini[2] ne sorvegliano la porta e, soprattutto, la via di accesso all’albero della vita (cfr Gen 3,24): su incarico di Dio, proteggono l’ordine del mondo dall’essere umano, spesso disordinato.
Abramo riceve la visita di tre uomini (cfr Gen 18), che in seguito si rivelano più volte come «il Signore» e nella storia sono stati interpretati come angeli; la loro figura oscilla tra il divino e l’umano, e resta a lungo ambigua, sfuggente, incomprensibile. Questi tre uomini sono stati interpretati anche come le persone della Trinità (la famosa icona della Trinità di Andrej Rublëv conserva questa interpretazione nella memoria collettiva). In seguito Abramo viene messo alla prova: Dio lo incarica di offrire suo figlio Isacco in sacrificio (cfr Gen 22). È una storia enigmatica, di difficile interpretazione. Ma poco prima che il figlio venga ucciso, «l’angelo del Signore» trattiene Abramo, gli procura un ariete da offrire al posto del figlio e gli promette la benedizione di Dio. Qui l’angelo appare come un messaggero che, su incarico di Dio, interrompe l’assurda «prova» a cui il Signore aveva sottoposto Abramo, trasformandola in benedizione.
Giacobbe sogna una scala che va dalla terra al cielo; gli angeli vi salgono e vi scendono; Dio benedice Giacobbe, promettendogli grandi cose (cfr Gen 18,10-22). La domanda che da sempre fanno i bambini agli adulti sul perché gli angeli abbiano bisogno di una scala, dal momento che hanno le ali e quindi possono volare, porta al paradosso degli angeli che mediano tra il cielo e la terra e vanno immaginati come esseri spirituali che volano e allo stesso tempo come esseri corporei che salgono su una scala.
Anche l’episodio della lotta di Giacobbe allo Iabbok (cfr Gen 32,23-22) è giocato sull’ambiguità: Giacobbe si è macchiato della colpa di aver sottratto la primogenitura al fratello, ma ora vuole tornare nella terra promessa. Per fare questo, deve attraversare il fiume che segna il confine, simbolo di purificazione. Un uomo lotta con lui di notte, per ore, in modo oscuro, violento, spaventoso. Anche in tale circostanza questo «uomo» è un angelo, o Dio stesso? Giacobbe resiste. Chiede il nome dello sconosciuto, ma non gli viene rivelato. Invece, è lui a ricevere un nome nuovo – «Israele», colui che ha combattuto con Dio – e riceve da quello sconosciuto la benedizione che gli aveva chiesto. Dalla lotta Giacobbe esce ferito, e zoppicherà per il resto della sua vita. Questo angelo è di nuovo un essere ibrido, misterioso, anche corporeo, ma viene dal nulla e con l’alba scompare di nuovo nel nulla. È un angelo vendicatore? Nella punizione c’è la benedizione di Dio? L’angelo ferisce Giacobbe su incarico dell’Altissimo? Giacobbe è segnato, ma allo stesso tempo viene guarito e benedetto.
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Nel libro di Tobia, l’angelo Raffaele è molto diverso. È un compagno di viaggio di Tobia, figlio di Tobi, che si trova in difficoltà, e gli dà una medicina per guarire la cecità del padre. Così l’angelo – il cui nome significa «Dio ha guarito» – è al tempo stesso messaggero e messaggio di guarigione e di guida di Dio.
Avendo ucciso, per incarico di Dio, 450 sacerdoti di Baal, il profeta Elia viene perseguitato. Fugge nel deserto. Stanco della vita e degli ordini di Dio, si sdraia sotto una ginestra, desideroso di morire, e si addormenta. Un angelo lo sveglia e gli dà da mangiare e da bere. Elia si addormenta di nuovo, e di nuovo l’angelo lo sveglia, gli dà da mangiare e lo indirizza a un cammino di 40 giorni attraverso il deserto, per incontrare Dio sull’Oreb (cfr 1 Re 19,1-13). L’angelo agisce contro la stanchezza, sveglia e nutre, ammonisce e invia. Davanti a Elia, egli si rivela un essere del tutto terreno, eppure è indubbiamente un messaggero di Dio, di cui annuncia la sollecitudine e la volontà.
Anche l’angelo Gabriele appare come un messaggero di Dio: annuncia a Maria la nascita miracolosa di un figlio, concepito dallo Spirito Santo (cfr Lc 1,26-38). In quel momento, per Maria le spiegazioni dell’angelo devono essere state difficilmente comprensibili, e tuttavia chiariscono il significato salvifico di quella nascita ai lettori futuri. La generosa disponibilità di Maria ad accogliere l’annuncio ha sempre impressionato in tutte le epoche della storia del cristianesimo. L’angelo qui annuncia in modo, per così dire, performativo, perché allo stesso tempo opera quello che dice: è Dio stesso che opera in lui.
Nove mesi dopo, Gesù nasce a Betlemme, e un angelo annuncia una grande gioia (cfr Lc 2,1-20). La gloria del Signore avvolge di luce i pastori, che allo stesso tempo vengono colti da un grande timore. Gli angeli sono ambivalenti: gloriosi e spaventosi, luminosi e violenti, risplendono di luce divina e spaventano con la loro potenza. A Betlemme, subito una moltitudine dell’esercito celeste loda Dio: questo esercito è una forza militare, ma nello stesso tempo un coro possente.
Nella Bibbia, Giuseppe, il promesso sposo di Maria, è il grande silenzioso – non dice una parola –, ma è anche il grande sognatore: in sogno, un angelo gli ordina di accogliere Maria e il bambino, che non è suo; in sogno, l’angelo lo fa fuggire in Egitto insieme con la sua famiglia, perché il bambino è perseguitato; in sogno, l’angelo li fa tornare tutti (cfr Mt 1,20-24; 2,13-14.19-29). Il fatto che gli angeli appaiano nei sogni mostra quanto siano fugaci, irreali, puramente spirituali, ma anche quanto siano radicati nella psiche umana: è così che Dio parla all’uomo, per proteggerlo e salvarlo.
Quando Gesù prega al monte degli Ulivi, colto da una terribile paura della morte, abbandonato da tutti, gli appare un angelo per dargli forza (cfr Lc 22,43). «Dare forza» indica certo la consolazione divina, ma anche energia, coraggio, fiducia che vengono da Dio. Poco dopo, Gesù viene arrestato. Allora vieta ai discepoli una resistenza violenta, facendo loro notare che, se avesse voluto difendersi, avrebbe pregato il Padre suo, che gli avrebbe messo a disposizione «più di dodici legioni di angeli», cioè diverse decine di migliaia di angeli (cfr Mt 26,47-56). Gli angeli qui sono una forza armata, completamente fisica, che è sempre a disposizione di Dio e del Figlio suo che lo prega. Ma Gesù vi rinuncia, non vuole che Dio intervenga violentemente, prende la via non violenta del dono della propria vita. Nelle mani di Dio, gli angeli potrebbero compiere azioni di potenza, ma Dio non si serve di loro per questo, agisce diversamente.
Il mattino di Pasqua, ad attendere le donne al sepolcro vuoto è, secondo il Vangelo di Marco, un giovane vestito con una veste bianca (cfr Mc 16,5); per Luca, sono due uomini in abito sfolgorante (cfr Lc 24,4), mentre per Matteo è un angelo, il cui aspetto è come folgore, con un vestito bianco come neve, il quale fa rotolare via la pietra che chiudeva la tomba, spaventa le guardie e parla alle donne (cfr Mt 28,1-7); secondo Giovanni, sono due angeli in bianche vesti, seduti dove era stato posto il corpo di Gesù (cfr Gv 20,12-13). Che siano chiamati «uomini» o «angeli», splendenti e vestiti di bianco, questi personaggi incutono timore alle guardie, ma appaiono belli e premurosi – «Non abbiate paura!», dicono – verso le donne, che sono le prime a ricevere la buona notizia. Anche in questo caso gli angeli appaiono a volte umani, a volte spirituali, e trasmettono messaggi che interpretano gli eventi salvifici.
Attraverso un angelo viene comunicato al veggente Giovanni tutto quello che egli descrive nell’«Apocalisse» (cfr Ap 1,1). Il libro pullula di angeli e di esseri celesti simili, che sono messaggeri e sentinelle, araldi e cortigiani celesti, cori di lode e suonatori di tromba, ma anche mietitori con le falci affilate del giudizio. Michele e i suoi angeli combattono contro il drago e i suoi angeli (cfr Ap 12,7-12); e qui compaiono gli angeli decaduti, e quindi cattivi, che nella battaglia cosmica finale vengono sconfitti dagli angeli buoni di Dio. Ovviamente gli angeli diventeranno ancora più importanti alla fine dei tempi, ma anche nella visione di Giovanni rimangono al tempo stesso multiformi ed enigmatici, miti e potenti, terreni e celesti.
La testimonianza biblica sugli angeli – che spesso compaiono nei momenti decisivi della storia della salvezza – contiene tutti i temi essenziali della loro successiva immagine nella cultura e nella spiritualità del cristianesimo: essi sono innanzitutto misteriosi, anche paradossali, concettualmente inafferrabili – pertanto, senza interesse per il pensiero filosofico? –, «esseri di luce e di fuoco, dolcezza e terrore […], doppie icone di Dio e dell’uomo […], icone di mediazione tra il Totalmente Altro e noi»[3]. Annunciano e danno indicazioni; vegliano e consolano; dirigono e dispongono; puniscono e combattono; irradiano e risplendono; guizzano e volano; suonano la tromba e cantano le lodi. Alcuni precipitano nel male, ma alla fine sono gli angeli buoni a prevalere.
Gli angeli nella storia
Già le prime speculazioni ebraiche e gnostiche sviluppano gerarchie di angeli, spesso con venature neoplatoniche. Dionigi l’Areopagita (intorno al 500) classifica i tipi di angeli a tre livelli, ciascuno composto da tre cori. San Tommaso d’Aquino inquadra sistematicamente questa dottrina, dandole una forma che dominerà per molto tempo. I nove cori sono, a partire dai più elevati: serafini, cherubini e troni; poi, scendendo: dominazioni, virtù e potenze; e infine: principati, arcangeli e angeli[4]. La dottrina deriva da testimonianze bibliche e da speculazioni successive. Il termine «gerarchia» (= «ordine sacro») è stato coniato per questo.
Nel Medioevo, le gerarchie terrene della Chiesa e del mondo sono immagine della gerarchia celeste degli angeli e da essa traggono legittimazione: la corte nobiliare del sovrano è come la corte angelica di Dio, il suo organo regolativo e amministrativo, che serve contemporaneamente alla sua glorificazione. I grandiosi affreschi delle chiese medievali e le miniature dei manoscritti raffigurano questo mondo estremamente differenziato degli angeli[5].
Riprendendo l’antichità, a partire dal XV secolo si sviluppa la fede nell’«angelo custode»: ogni persona, in particolare ogni bambino, ha un angelo custode, che lo accompagna e lo protegge, sempre in modo invisibile. Questi angeli «sono i nostri aiutanti e garanti che la nostra speranza e nostaglia del cielo non vada a vuoto, ma che il cielo stia aperto per noi»[6]. Agli angeli custodi è dedicata, a partire dal XIX secolo, una ricca iconografia, anche in forma non religiosa. Si discute se ogni persona abbia anche un angelo cattivo che induce a peccare, e la teologia protestante si è interessata a tale questione[7].
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«L’angelo è quella luce che brilla e non brucia mai. Ma una volta questo fuoco si è infuocato, consumandosi. E nell’angelo decaduto il fuoco ha iniziato a bruciare senza brillare: un fuoco nero, gelido. In questo fuoco, la parola di Dio si è trasformata in pietra ed è morta. […] È il fuoco nero di una libertà che si rivolta contro Dio»[8]. Gli angeli sono creature spirituali di Dio, e quindi liberi. La loro libertà è il loro dono più grande e allo stesso tempo il presupposto per volgersi al male. Si spiega così l’ingresso del male nel mondo? Gli angeli decaduti inducono gli esseri umani – anch’essi creature libere – a ribellarsi contro Dio. Questo giustifica l’uomo cattivo? Niente affatto, perché, essendo persona libera, egli è responsabile delle sue azioni. Insieme agli angeli decaduti, l’uomo verrà giudicato per le sue azioni cattive, e i giudici saranno gli angeli buoni.
Nel XVI secolo sant’Ignazio di Loyola, rifacendosi alle antiche tradizioni, fece un’applicazione psicologica della dottrina degli angeli: nelle «mozioni» dell’anima – pensieri e sentimenti, immaginazioni e inclinazioni interiori – operano gli «spiriti», che sono molteplici e spesso contraddittori e confusi. Occorre discernere quali mozioni vengono da uno spirito buono, o angelo, e quali, invece, da uno spirito cattivo, o demonio, diavolo. Si seguiranno le mozioni dello spirito buono, e «non ci si lascerà determinare» da quelle dello spirito cattivo. L’angelo del male può anche camuffarsi da «angelo della luce» (Lucifero) e, sotto l’apparenza del bene, indurre al male l’anima ingenua. Questo ulteriore sviluppo della dottrina degli angeli trova accoglienza nell’etica come «discernimento degli spiriti», ma anche nell’accompagnamento spirituale di singoli o di gruppi; papa Francesco l’ha resa fruttuosa per i processi sinodali[9].
Nel Rinascimento e nel Barocco, gli angeli si trasformano in putti, ossia bambini piccoli e paffuti che si aggirano nei dipinti, o come statue nelle chiese, sbirciando da ogni angolo e meandro, dispettosi, eppure simpatici, mentre suonano da soli o in concerto. Sono soltanto banalizzati e degradati: «carne nuda, rigogliosa, addomesticati come porcellini»[10]? Certo, i putti incarnano una religione sensuale, formosa, umoristica, forse molto cattolica, ma nel bambino si manifesta il divino, e i putti alludono sempre a Gesù bambino. Essi sono i compagni di viaggio della Sapienza, che giocano davanti a Dio e sono la sua delizia (cfr Pr 8,27-31)[11]. I putti sono estranei alla spiritualità di oggi, ma simboleggiano temi centrali e attuali del cristianesimo. È sorprendente vedere come essi ispirino l’entusiasmo anche secolare, soprattutto nei famosi angioletti ai piedi della «Madonna Sistina» di Raffaello.
A partire dall’Illuminismo, la ragione ha scacciato gli angeli: essi non sono più adatti a un mondo funzionale e organizzato, ma agiscono come oppio per le persone immature, irrazionali e autoritarie. Inoltre, scompaiono in gran parte anche dalla teologia, e l’esegesi scientifica lotta con le storie di angeli che si trovano nella Bibbia. Tuttavia le religioni mantengono sempre un angolo antirazionale, mitico e persino antilluminista, in cui gli angeli faranno sentire la loro natura di bene o di male. Gli angeli dovranno dunque restare ancora negli antichi templi, che si ammirano solo come musei? O dovranno essere confinati nelle correnti antimoderniste della Chiesa, in quell’angolo sporco che viene ridicolizzato come reazionario e meramente emotivo? C’è una separazione tra un mondo ecclesiastico ufficiale e un mondo devozionale? Ossia, tra un mondo frutto di una riflessione razionale e organizzato in maniera efficiente, capace – almeno così si spera – di adattarsi alla modernità, e per questo privo di angeli, e un mondo devozionale, frutto di una speculazione emotiva, popolato in modo selvaggio da angeli e certamente molto «interessante» dal punto di vista storico-artistico e benedetto da Dio?
Su angeli e uomini
A proposito degli angeli, il Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC) cita sant’Agostino: «La parola “angelo” designa l’ufficio, non la natura. Se si chiede il nome di questa natura, si risponde che è spirito; se si chiede l’ufficio, si risponde che è angelo: è spirito per quello che è, mentre per quello che compie è angelo»[12]. Gli angeli – prosegue il Catechismo –, in quanto creature puramente spirituali, sono servitori e messaggeri di Dio. Sono completamente legati a Cristo: presenti quando Dio ha creato il mondo in Cristo, presenti nella vita del Dio incarnato e al servizio di Cristo nel suo ritorno e nel suo Giudizio[13].
Giorgio Agamben definisce gli angeli «funzionari del cielo»[14]. Essi hanno due compiti. Da un lato, nella loro funzione di governo, dotati del vocabolario tipico del potere, come «troni», «virtù», «potestà» ecc., essi formano un corpo di funzionari e una burocazia celeste, amministrando così il «regno» di Dio e facendo conoscere i suoi decreti storici sulla terra (servono e governano: in latino, virtus administrandi). Dall’altro lato, stanno davanti a Dio, come previsto dal cerimoniale di una corte (vedono Dio e lo lodano: in latino, virtus assistendi Deo). Agamben fa riferimento a Dante, che distingue due beatitudini nella natura degli angeli: quella contemplativa, con cui essi vedono il volto di Dio e lo glorificano; e quella del governo, che corrisponde nel mondo umano alla «vita attiva, ossia a quella civile»[15]. Sospesi, per così dire, nel mezzo, governando verso il basso e lodando verso l’alto, gli angeli collegano la terra e il cielo, l’umano e il divino, in un modo misterioso, che non potrà mai essere pienamente compreso. Ma oggi il loro posto non è forse stato preso, con le stesse funzioni e caratteristiche, dalla Chiesa, che spesso si presenta in modo piuttosto terreno?
La gerarchia angelica è stata interpretata in modi diversi nel corso della storia. Prendiamo come esempio Bernardo da Chiaravalle. Secondo lui, Dio si manifesta nelle schiere angeliche nella sua attenzione all’uomo, che si esprime in forme molteplici: «Nei serafini, Dio ama come carità, nei cherubini conosce come verità, nei troni governa come giustizia, nelle dominazioni regna come maestà, nei principati governa come legge, nelle virtù custodisce come salvezza, nelle potenze agisce come forza, negli arcangeli si manifesta come luce, negli angeli consola come bontà»[16]. Gli angeli mostrano le azioni di Dio nella loro complessità, anche nelle sue decisioni spesso paradossali e apparentemente insondabili, ma sempre nella sua benevolenza e nella sua bontà, proprio come una benedizione.
Gli angeli cantano in coro, per cui nel canto corale antico e in quello del cristianesimo primitivo parola e musica si fondevano, esprimendosi insieme nel movimento, nella danza: «Sillaba pronunciata, suono di musica e passo di danza erano manifestazioni della stessa forza»[17]. Gli angeli appaiono quindi «in una naturale unità dei sensi». Nella danza in circolo «si perdeva la capacità di articolare le parole, perché non c’era più niente da esprimere: gli stessi danzatori erano l’espressione che camminava e girava»[18].
Gli angeli cantano alter ad alterum, l’uno rivolto all’altro, a cori alterni, in dialogo. Già i Salmi in ebraico erano disposti in parallelo, e ancora oggi nei monasteri vengono cantati a cori alterni. L’alter ad alterum rimanda anche all’angelo custode che, per così dire, è un doppio dell’essere umano e lo accompagna in un dialogo amichevole.
Naturalmente gli angeli cantano una voce, all’unisono: un coro è un essere brulicante, in cui chi canta ascolta sé stesso e allo stesso tempo il suono prodotto dal coro; questo lo trasforma e risuona molto al di là di lui; chi canta è, per così dire, assorbito da questo suono.
Gli angeli cantano sine fine, all’infinito: poiché la musica si svolge nel tempo, avviene solo adesso, questa espressione è paradossale. «Il canto angelico sine fine è quindi qualcosa di diverso dalla musica come la sentiamo noi. È una sorta di espressione artistica illimitata […], disinteressata, spontanea, senza forma, e come uno spazio che si espande all’infinito alla velocità del suono»[19]. Gli angeli che cantano puntano verso l’alto, verso il cielo; nell’arte gotica, si librano sulle absidi delle chiese dalle volte sempre più alte. Gli angeli che cantano sono già il cielo: l’io, il tu e il noi si fondono in un’unità senza tempo e senza spazio[20].
Gli angeli dissolvono immagini e concetti rigidi di Dio: «Gli angeli […] sfuggono alla teoria degli insiemi, passano attraverso i muri della rigidità come attraverso quelli delle prigioni […]. Di fronte al Dio unico, testimoniano il politeismo; di fronte il paganesimo, annunciano il monoteismo; e diffondono ovunque il panteismo quando cantano nei campi»[21]. Dio è uno, ma multiforme; percettibile, ma fugace; non è in nessun luogo, ma ovunque; è in tutte le cose, ma non in quelle di questo mondo; gli angeli tengono a freno ogni pensiero ristretto o razionalistico, che esclude o che vuole definire in concetti.
Christian Lehner scopre negli angeli la sola fide: «Con la sola fede. Si potrebbe quasi dire: ciò che Agostino e Lutero intendevano per fede, ossia l’appropriazione interiore di una promessa, di una trasformazione e di una salvezza che sono già avvenute da molto tempo, ma che per me possono diventare reali solo con la mia accettazione personale, ossia la realizzazioneinteriore di Dio mediante la fiducia in lui, una forma di movimento che è allo stesso tempo accoglienza che dà pace, al di là della chiusura dell’uomo in sé stesso, tutto questo è un altro modo di esprimere la realtà degli angeli»[22]. Se gli angeli stessi sono, per così dire, la fede, allora credere negli angeli non è la forma peggiore di fede, perché gli angeli vengono da Dio e conducono a Dio. I cattolici, che da sempre hanno apprezzato i sensi e le forme, e per questo anche gli angeli, concorderanno volentieri con questa idea di origine evangelica.
Gli angeli non esistono, nel senso di una realtà verificabile con i sensi, accessibile alle scienze naturali, nel senso di un’ontologia che opera sui concetti, nel senso di una comprensione moderna del mondo. Ma gli angeli esistono, comprensibili solo con la poesia, come realtà spirituali fantastiche, come ombre di un’altra realtà più elevata, come immagini mentali nell’ambivalenza tra energie buone e cattive, come «cortocircuiti che si creano in un lampo tra poli inconciliabili, come miracoli, cose imprevedibili, come energie di trasformazione»[23].
Per tornare all’esempio della Germania citato prima, si presume che il 40% dei tedeschi creda negli angeli, con una tendenza al rialzo, e il 55% creda in Dio, con una tendenza al ribasso; nell’est della Germania sono già più le persone che credono negli angeli che quelle che credono in Dio[24]. Gli angeli sembrano essersene andati via dalla Chiesa, intercettati dall’industria dell’esoterico e del kitsch. Ma la Chiesa dà forse l’impressione di aver rinunciato agli angeli? Essi sono utili, almeno a Dio, che li usa come funzionari, ambasciatori e coristi. Ma essi non sono forse utili anche al cristianesimo, come accesso a una realtà religiosa sensuale-sovrasensibile che si colloca al di là del razionale e che aiuta all’incontro con la persona di Dio?
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[1] Ci sarebbero molte cose da dire sul tema degli angeli nel giudaismo, nell’islam e altrove, ma qui ci limitiamo al cristianesimo.
[2] Più volte menzionato nell’Antico Testamento, il termine «cherubino» indica innanzitutto un servitore o assistente di Dio; in seguito esso viene visto anche come angelo, e nel Medioevo è inserito nelle gerarchie angeliche. Su questo argomento, cfr Y. Cattin – Ph. Faure, Les anges et leur image au Moyen Age, Abbaye de la Pierre-qui-vire, Zodiaque, 1999.
[3] Ivi, 20.
[4] Cfr Ch. Lehnert, Ins Innere hinaus. Von Engeln und Mächten, Berlin, Suhrkamp, 2020, 114.
[5] Cfr i volumi illustrati di Y. Cattin – Ph. Faure, Les anges et leur image au Moyen Age, cit., e di M.-Ch. Boerner, Angelus et Diabolus. Engel, Teufel und Dämonen in der christlichen Kunst, Potsdam, Ullmann, 2016.
[6] Katholischer Erwachsenenkatechismus, vol. 1, 1985, 111. Cfr R. Guardini, L’Angelo. Cinque meditazioni, Brescia, Morcelliana, 2024.
[7] Cfr E. Weinberger, Engel und Heilige, Berlin, Berenberg, 2023, 32 s.
[8] Y. Cattin – Ph. Faure, Les anges et leur image au Moyen Age, cit., 25.
[9] Esistono approcci psicologici moderni agli angeli: cfr, ad esempio, R. Perrone, Le syndrome de l’ange. Considérations à propos de l’agressivité, Paris, ESF, 2013. L’autore parla di «sindrome dell’angelo», nel caso in cui le persone che subiscono le aggressioni da parte di altri si rifugiano in un atteggiamento simile a quello di un angelo, quindi non attaccabile e autosufficiente, ma che al tempo stesso consente loro di svalutare e disprezzare gli aggressori.
[10] Ch. Lehnert, Ins Innere hinaus…, cit., 63.
[11] Cfr S. Kiechle, Spielend leben, Würzburg, Echter, 2008, 31 s.
[12] Catechismo della Chiesa Cattolica, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1992, n. 329.
[13] Cfr ivi, nn. 329-333.
[14] Cfr G. Agamben, Die Beamten des Himmels. Über Engel, Frankfurt – Leipzig, Verlag der Weltreligionen, 2007.
[15] Ivi, 38.
[16] Citato da E. Weinberger, Engel und Heilige, cit., 52.
[17] Ch. Lehnert, Ins Innere hinaus…, cit., 90. Le idee che verranno presentate in seguito sono ispirate da questo libro.
[18] Ivi, 91.
[19] Ivi, 95.
[20] Cfr, sugli angeli concertanti, W. W. Müller, Musik der Engel. Eine Kultur–geschichte, Basel, Schwabe, 2024.
[21] Ch. Lehnert, Ins Innere hinaus…, cit., 230.
[22] Ivi, 36.
[23] Ivi, 14.
[24] Tuttavia i risultati dei sondaggi sono assai diversi. Nel caso di questi argomenti molto sensibili, dipendono in misura notevole dai metodi di indagine e dall’intenzione di chi fa il sondaggio.
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Chi sono gli agostiniani?
L’elezione del cardinale Robert Francis Prevost a Romano Pontefice, con il nome di Leone XIV, rappresenta una novità nella storia della Chiesa: è il primo papa dell’Ordine di sant’Agostino. Dopo Francesco, il primo pontefice gesuita, sale al soglio di Pietro per la prima volta un agostiniano. Nel discorso pronunciato la sera dell’elezione si è presentato così: «Sono un figlio di sant’Agostino, agostiniano».
Ci sono altre sorprese. Leone XIV è il primo pontefice nato negli Stati Uniti e anche il primo papa laureato in matematica; ha svolto gran parte del suo ministero apostolico in Perù, e quindi è anche un papa dell’America Latina; nel 2002 è stato eletto Priore generale dell’Ordine, un incarico che lo ha portato a visitare i numerosi agostiniani, sparsi un po’ dovunque nei cinque continenti. Papa Francesco, nel 2014, lo ha nominato Amministratore apostolico di Chiclayo, in Perù, e successivamente vescovo della stessa diocesi; nel 2023 lo ha chiamato a Roma come Prefetto del Dicastero per i vescovi.
La formazione religiosa di Leone XIV è dunque segnata da una profonda familiarità con la spiritualità agostiniana, abbracciata fin dagli anni della gioventù. La sua pastorale, ispirata alla Regola di sant’Agostino[1], pone l’accento sull’unità nella carità e sulla ricerca della verità, valori che ne hanno plasmato l’animo verso una missione universale nella Chiesa.
L’elezione ha richiamato l’attenzione sull’Ordine di sant’Agostino. Esso fa parte degli Ordini mendicanti, sorti tra il XII e il XIII secolo, che hanno adottato la Regola agostiniana. Questa comporta la «rinuncia a formarsi una famiglia per un’operosità in monastero, che fosse insieme modello e servizio di vita cristiana nella Chiesa. Con la salvezza della propria anima, attraverso una vita comune vissuta in povertà ed amicizia spirituale, ci si preoccupava anche dell’evangelizzazione in modo concreto ed organico, offrendo ai vescovi locali il servizio dell’officium praedicationis»[2]. Sono queste le caratteristiche dei domenicani (Ordo Praedicatorum), della scuola francescana di san Bonaventura, dei Servi di Maria, di altri ancora, e principalmente degli agostiniani.
L’Ordine di sant’Agostino
Gli agostiniani, giuridicamente, sono sorti dalla «Piccola unione» del 1244, quando Innocenzo IV fuse alcuni gruppi di eremiti della Tuscia che si ispiravano alla Regola agostiniana in un nuovo Ordine mendicante. L’Unione fu ratificata da Alessandro IV nel 1256 – la «Grande unione» – e i membri presero il nome di Eremitani di sant’Agostino[3]. L’Ordine, fin dall’inizio, riconosce sant’Agostino come padre e maestro, perché ne ha assunto la Regola, il nome e la spiritualità, e da quasi otto secoli è al servizio della Chiesa. Ma il modo in cui gli agostiniani si sono richiamati al loro padre, il loro «fondatore», e l’amore con cui ne hanno assimilato la spiritualità hanno creato un vincolo particolare, che li ha distinti dagli altri Ordini mendicanti: «Il richiamo a s. Agostino, divenuto sempre più vivo e profondo, fece di quest’Ordine […] l’unico e vero erede dell’ideale religioso del vescovo d’Ippona. La dottrina agostiniana sulla vita religiosa, unitamente alle caratteristiche proprie del movimento dei Mendicanti, form[ò] la spiritualità dell’Ordine su quattro punti basilari: comunità, interiorità, povertà ed ecclesialità, facendo una sintesi di nuovo e di antico. Il “nuovo” gli viene dall’essere stato fondato in un tempo così importante per la vita della Chiesa, quale fu il ricco e suggestivo secolo XIII; l’“antico” gli viene per la sua forma di vita, dall’essere chiaro riflesso di s. Agostino, uomo religioso della Chiesa, il quale, a buon diritto, può e deve essere chiamato Padre dell’Ordine agostiniano»[4]. Nel 1401 Bonifacio IX concesse agli Eremitani di fondare comunità femminili di agostiniane con la loro stessa Regola[5].
Verso la metà del XIV secolo, all’Ordine fu affidato l’incarico di Sacrista del Palazzo apostolico, con il compito di custodire e conservare i paramenti, i vasi sacri e le reliquie del Sacrario. Più tardi, alla fine del Cinquecento, Clemente VIII conferì al Sacrista la dignità episcopale. Nel secolo scorso, dal 1968 al 1991, gli fu data anche la funzione di Vicario generale del Papa per la Città del Vaticano. Ancora oggi gli agostiniani hanno la cura della Sagrestia Pontificia e della chiesa di Sant’Anna in Vaticano.
L’Ordine ha annoverato fin dalle origini diversi santi: il primo è stato san Nicola da Tolentino (1245-1305), canonizzato nel 1446; seguono santa Rita da Cascia (1381-1447), la santa del perdono e dei casi impossibili; san Giovanni Stone, martire inglese (†1539); san Tommaso da Villanova (1486-1555), consigliere dell’imperatore Carlo V e arcivescovo di Valencia; sant’Alonso de Orozco (1500-1591), scrittore e mistico; e altri ancora, fino al beato Stefano Bellesini (1774-1840), il primo parroco elevato, nel 1904, agli onori degli altari da san Pio X. Nella sua storia si contano anche numerosi martiri.
La storia degli agostiniani
Quattro sono i periodi principali in cui si può dividere la storia degli agostiniani: il primo, dalla fondazione alle Costituzioni di Ratisbona del 1290, fino al 1356; il secondo, fino alle Costituzioni di Seripando del 1551; il terzo, dal Concilio di Trento alla fine del Settecento; infine, gli ultimi secoli.
Il primo periodo si qualifica per l’ideale che le Costituzioni di Ratisbona pongono a fondamento della vita religiosa: lo studio della Sacra Scrittura e l’insegnamento spirituale di sant’Agostino. Essi sono «visti come quel bene (la cultura) che impedisce a chiunque abbia responsabilità di convertirlo in tirannia»[6]. Così Egidio Romano, alunno di san Tommaso a Parigi, presentava il valore dell’impegno culturale per chi volesse seguirne la Regola. E lo sviluppò con tanto vigore da avere una posizione di tutto rispetto all’Università, tanto che seppe trasformare la casa in cui studiavano i giovani agostiniani a Parigi in Studium generale dell’Ordine, che fu associato alla Sorbona e sopravvisse fino alla Rivoluzione francese.
Egidio Romano ebbe il grande merito di raccogliere l’eredità dell’Aquinate, che fu il protagonista del passaggio culturale dal platonismo all’aristotelismo, e in quel momento di cambiamento epocale ebbe l’onore di succedergli nella cattedra alla Sorbona. Fu anche nominato vescovo di Bruges da Bonifacio VIII e seppe testimoniare nella vita l’ideale del vescovo agostiniano voluto dal dottore di Ippona[7].
Le Costituzioni di Ratisbona prevedono, tra gli obblighi del Priore generale, una particolare attenzione agli studi: «Provveda attentamente agli studi, nei quali risiede il fondamento dell’Ordine, perché essi abbiano nell’intero Ordine la loro sollecita continuità»[8]. Occorre qui ricordare l’antico convento di Santo Spirito a Firenze, dove il teologo Luigi Marsili (1348-1394), amico di Petrarca, Salutati e Boccaccio, porta la fondazione all’avanguardia dell’Ordine e l’innesta nell’intreccio politico e culturale dell’Umanesimo fiorentino[9]. Più tardi è ospite del convento il giovane Michelangelo, il quale, per gratitudine, lascia in dono ai frati un pregevole Crocifisso ligneo che vi si può tuttora ammirare.
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Tra gli scritti degli agostiniani del tempo va ricordata un’opera pionieristica, il Milleloquium veritatis Augustini, avviato da Agostino da Ancona, completato da Bartolomeo da Urbino (†1350) e offerto al papa Clemente VI nel 1343-44: una monumentale concordanza di 15.000 passi dalle opere di Agostino, sintetizzati in circa 1.000 voci in ordine alfabetico (per esempio: abstinentia, ecclesia, fides, haeresis, lex ecc.), che illustrano il pensiero dell’Ipponese[10].
Alla fine del Quattrocento gli agostiniani contavano 27 province e 10 Congregazioni di Osservanti[11]: i conventi si estendevano dall’Ungheria e dalla Polonia fino al Portogallo, e da Cipro, Rodi, Corfù fino all’Irlanda. Nell’Ordine ebbero grande sviluppo lo Studium generale provinciae, gli Studia generalia Ordinis interprovinciali, come quelli di Bologna e Padova, e lo Studium curiae,che dipendeva dalla casa generalizia. Seguirono quelli di Firenze, Cambridge e Oxford, ma anche una serie di Studia nazionali in vari Paesi[12].
Il secondo periodo: la Riforma protestante e le «Costituzioni» di Seripando
All’inizio del Cinquecento, un Capitolo generale denuncia un certo rilassamento nell’Ordine, soprattutto a causa della peste nera che aveva falcidiato nel secolo precedente circa 5.000 frati, con conseguenze anche negli studi e nella vita monastica; perciò si insiste nell’esigere dai candidati al sacerdozio i buoni costumi, la competenza nel latino e le basi per comprendere il greco in modo da interpretare il Nuovo Testamento nel testo originale. La disposizione risale quasi certamente a Egidio da Viterbo, sensibile al nuovo tempo dell’Umanesimo e del Rinascimento.
L’eredità di Agostino ha determinato un imponente interesse per le opere del Padre e Maestro, documentato nel 1506 dalla pubblicazione a Basilea di tutte le sue opere, a cura dello stampatore Johann Amerbach[13]. Non esiste ancora il nome appropriato – Opera omnia – per quella edizione in 11 tomi in folio, segno di quanto fossero ricercati e apprezzati gli scritti del Santo. Se la prima opera a stampa di grande respiro è stata la Bibbia di Gutenberg, la seconda opera monumentale è quella che raccoglie tutti gli scritti del Dottore di Ippona in ordine cronologico e permette uno studio sistematico sul suo pensiero[14]. Nel 1516 è apparso il Novum Testamentum di Erasmo da Rotterdam, un volume di oltre un migliaio di pagine, che in quel secolo ha avuto cinque edizioni con 205 ristampe: è il manuale di base necessario per l’esegesi della parola di Dio e per la teologia[15]. L’interesse e l’attenzione per lo studio, quale fondamento dell’Ordine, era il servizio qualificato reso dagli agostiniani alla Chiesa, al passo con i tempi e con la cultura.
Dal 1517 va ricordata la Riforma protestante, che ha preso l’avvio a Wittenberg con Martin Lutero, un frate agostiniano degli Osservanti, docente di Sacra Scrittura all’Università. Egli era preoccupato per il modo ciarlatanesco con cui venivano predicate le indulgenze nei dintorni dell’elettorato di Sassonia e per la foga con cui le persone vi si recavano per acquistare le lettere indulgenziali. Perciò scrisse una lettera al responsabile delle indulgenze, Alberto di Brandeburgo, arcivescovo di Magonza. In essa denunciava una predicazione irresponsabile, ingannevole per la coscienza dei fedeli, che prometteva la liberazione delle anime dal purgatorio e una falsa sicurezza per la propria salvezza: nessuno è sicuro di potersi salvare. Con discrezione e rispetto, Lutero ricordava all’arcivescovo che al popolo si devono predicare il Vangelo, le opere di carità e la preghiera, piuttosto che le indulgenze. Gli chiedeva perciò di revocare le istruzioni date ai predicatori.
Alla lettera vengono allegate le 95 Tesi, per mostrare come sia cosa insicura la concessione delle indulgenze, e un trattato De indulgentiis,per chiarirne i problemi[16]. Inoltre si chiede un incontro con l’arcivescovo per una sincera riflessione di fede. Da qui ha origine la leggenda dell’affissione delle Tesi nella chiesa del castello di Wittenberg, presentate come se fossero una sfida alla Chiesa, quando invece esse erano una richiesta di chiarificazione[17]. Purtroppo l’arcivescovo non prestò attenzione alla lettera e non ne colse la sincerità; anzi, ne fu indignatissimo, tanto che denunciò Lutero a Roma per diffusione di nuove dottrine. Il papa Leone X non prese sul serio la situazione e seguì il consiglio di scomunicare Lutero per aver criticato le indulgenze approvate da Roma: fu l’inizio della Riforma protestante.
Ci furono conseguenze nel Concilio di Trento, nel 1546. Anche se Lutero morì due mesi dopo la convocazione dell’assemblea, furono presi di mira gli agostiniani, tra i quali Girolamo Seripando, Priore generale dal 1539. Questi conosceva i grandi scritti programmatici di Lutero e aveva redatto un progetto di giustificazione per fede, per correggere l’impostazione luterana. Per i suoi interventi, fu accusato dal vescovo greco Dionigi Zanetti di essere dalla parte dell’eretico. La denuncia non ebbe seguito, tanto che Seripando fu incaricato di scrivere il testo finale del Decreto sulla giustificazione. Tuttavia, quell’accusa puntava in alto: secondo Zanetti, non solo il Priore generale, ma tutto l’Ordine agostiniano era contagiato dalla dottrina di Lutero[18]. In ogni caso, anche a causa delle opere del riformatore del 1521 contro i voti monastici, furono numerosi i frati che abbandonarono la vita religiosa: dei 160 conventi dell’inizio del Cinquecento ne rimasero 91[19].
Si può così comprendere la decisione di Seripando di riformare l’Ordine. Nel 1551, rinnovando le Costituzioni, tracciò un moderno programma di studi, giunto fino ai nostri giorni, mettendone da parte la precedente impostazione medievale e ristrutturandola su base umanistica, filosofica e teologica. Adeguò le biblioteche delle case di formazione alle nuove esigenze e ne formulò la motivazione secondo le direttive di sant’Agostino. Perciò raccomandò anche la vita comune, la buona preparazione spirituale e scientifica dei giovani, la severità nel promuovere i candidati al sacerdozio e la distribuzione degli incarichi solo a persone degne.
Ci furono conseguenze anche nei Capitoli generali dell’Ordine. Dalla fine del Quattrocento in poi essi «si sono tenuti tutti in Italia, con pregiudizio del carattere internazionale dell’Ordine. […] Tale carattere si è manifestato molto meglio nei primi tre secoli della […] storia che negli ultimi cinque»[20].
Quando nel 1551 Seripando lasciò il generalato, gli agostiniani, grazie alla sua opera riformatrice, si trovarono in condizioni decisamente migliori, tanto che egli poteva affermare: «Per essere veramente osservanti è necessario dedicarsi con diligenza al servizio di Dio e allo studio ordinato al bene delle anime»[21]. Dopo aver faticato 13 anni per rinnovare la vita religiosa, concludeva che «la riforma è una cosa che si fa sempre e che non è mai fatta»[22].
Negli anni successivi al Tridentino sono riconoscibili i frutti dell’impegno di Seripando e dei suoi successori. L’Ordine vive un rinnovamento, e se ne vedono i risultati, non solo nell’aumento numerico dei membri, ma anche nelle molte richieste pastorali che essi ebbero dai vescovi. Diversi agostiniani furono chiamati per la predicazione e per l’insegnamento della teologia. San Carlo Borromeo li volle a Milano per partecipare ai lavori del Concilio provinciale del 1565, affidando loro la parte relativa all’amministrazione dei sacramenti e alla liturgia della Messa[23]. Nel 1602, il Priore generale Ippolito Fabriani, in visita ai conventi della Campania, ringraziò l’arcivescovo di Capua, san Roberto Bellarmino, per la stima che aveva mostrato nei confronti del suo Ordine[24].
Va segnalato anche il successo che ebbero le missioni nelle Americhe e in Oriente: tra il 1533 e il 1610, gli agostiniani spagnoli fondarono missioni in Messico, Perù, Ecuador, Colombia, Venezuela, Cile e nelle Filippine, nel 1602 in Giappone, e nel 1680 in Cina; quelli portoghesi in India e nell’Africa orientale e Madagascar[25].
Il movimento di riforma carmelitano di santa Teresa d’Ávila, nel 1612, favorì in Spagna il sorgere di un nuovo istituto, i Recolletti di sant’Agostino, fino a diventare una Congregazione autonoma all’interno dell’Ordine. A Napoli, nel 1592, sorse la Congregazione degli Agostiniani scalzi, che dall’Italia si estesero in Francia, in Boemia, in Moravia, in Austria e Germania ed ebbero anche diverse missioni. Più tardi sorse il Terz’Ordine agostiniano per i laici che si ispiravano alla spiritualità del Santo fondatore.
Il terzo periodo
I secoli XVII e XVIII segnano l’affermazione della scuola degli agostiniani in campo antropologico. L’uomo è ancorato nella storia e ne è il protagonista; è soggetto al divenire, in cui scopre l’umana fragilità e i suoi limiti. Ma è anche bisognoso di Dio e della salvezza, e senza Dio rimane privo del proprio bene e della propria vera identità. Scriveva in proposito Maurice Blondel nel 1930: «Il rapporto che Agostino ha concepito tra il pensiero e la vita, tra la speculazione e l’esperienza, tra la scienza e la fede, tra la libertà e la grazia, tra l’umiltà e la carità fa della sua dottrina un dramma spirituale che si perpetua in ogni coscienza attraverso tutta la storia sino all’eternità. Esso tende a fare di noi degli attori piuttosto che degli spettatori»[26]. E Henri-Irénée Marrou affermava nel 1960: «In questo sant’Agostino eccelle, in questo è veramente ammirevole: nessuno ha fatto progredire quanto lui la conoscenza dei problemi essenziali nella vita interiore dell’uomo»[27].
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Per questa impostazione antropologica l’Ordine ebbe diverse contestazioni da parte di cattolici e di religiosi, i quali avanzarono perfino la proposta di censurare alcune formulazioni di sant’Agostino, quando nel 1679 prese l’avvio la pubblicazione delle sue opere nella Patrologia latina dei Maurini.
Bisogna segnalare anche la grande espansione dell’Ordine fino alla metà del XVIII secolo: nel 1545 gli agostiniani erano circa 8.000, mentre, un secolo dopo, contavano più di 12.000 membri[28]. L’aumento era dovuto alla restaurazione di alcune province d’Europa – quelle di Colonia, Baviera e Austria – e alla formazione di nuove province nell’America spagnola e nelle Filippine.
Gli ultimi secoli
Le difficoltà che la Chiesa incontrò dopo l’Illuminismo e la Rivoluzione francese colpirono anche gli agostiniani. Nel XIX secolo non fu più possibile celebrare i Capitoli generali. Dal 1806, durante la dominazione napoleonica, la soppressione degli Ordini religiosi e l’incameramento dei beni ecclesiastici segnarono drammaticamente la vita dei religiosi.
Gli agostiniani subirono la perdita di molti conventi con il loro patrimonio librario, soprattutto in centro Europa e in Inghilterra, ma si dedicarono con passione alla conservazione e all’arricchimento delle biblioteche rimaste. Queste ebbero una nuova destinazione: furono aperte a tutti coloro che volevano usufruirne, religiosi e laici. Già nelle Costituzioni del 1581, aggiornate sul Concilio di Trento dal Priore generale Taddeo Guidelli, veniva detto che le biblioteche costituiscono il tesoro più prezioso dei conventi: sono necessarie per lo studio, e quindi occorre avere per esse una cura particolare.
Se non sono rari i rimproveri dei superiori per i bibliotecari poco diligenti, per chi trascura l’ordine e la pulizia delle sale, per chi vende codici antichi di grande valore per comprare libri stampati, sono frequenti anche gli elogi e il sostegno per i frati che hanno a cuore il lavoro di bibliotecario, che è, sì, utile per l’Ordine, ma anche per i cultori del sapere. C’era stato l’esempio di Seripando, il quale fece costruire nel suo convento di San Giovanni da Carbonara, al centro di Napoli, una sala spaziosa dove i confratelli, ma anche «tutti gli studiosi della città»[29], potessero consultare i preziosi manoscritti e i volumi. A Roma, il vescovo agostiniano Angelo Rocca, d’accordo con il Priore generale e con Paolo III, fondò nel 1605, accanto alla chiesa di Sant’Agostino, la prima biblioteca pubblica a servizio dei cittadini, chierici e laici. Se all’inizio del Cinquecento essa contava 1.500 volumi, nel 1626 – quando ebbe il nome di «Biblioteca Angelica» –, ne custodiva più di 22.000, grazie alla cura diligente e al lascito del vescovo[30]. Ma vi furono altri casi, quali la biblioteca del convento di Santo Spirito a Firenze e quelle dei conventi di Padova, Saragozza, Siviglia e Coimbra. Era la realizzazione concreta di un antico desiderio espresso da sant’Agostino quando era vescovo d’Ippona.
Nonostante i tempi difficili, non sono mancati agostiniani che hanno dato il loro contributo alla cultura europea: Giulio Accetta († 1752), matematico e astronomo, titolare della cattedra di matematica all’Università di Torino; Gian Michele Cavalieri († 1757), grande storico della liturgia con l’Opera omnia liturgica del 1778; Enrico Flórez (†1773), che pubblicò 27 volumi di España Sagrada; Gregor Mendel († 1884), biologo, matematico e botanico, che è stato il padre della scienza genetica moderna[31].
Anche coloro che per le persecuzioni dovettero fuggire al di là dell’Atlantico portarono frutti insperati. Gli agostiniani irlandesi giunsero a Filadelfia alla fine del XVIII secolo e fondarono nel Nord America le quattro province tuttora esistenti. Nel 1838 un altro confratello irlandese approdò in Australia, creandovi il primo convento dell’attuale provincia.
Con la soppressione degli Ordini religiosi e la conseguente secolarizzazione, in Germania vennero meno tre fiorenti province. Si salvò il convento di Münnerstadt, un piccolo paese della Baviera, con la chiesa agostiniana del XIII secolo. Con la guerra dei contadini, al tempo di Lutero, i frati dovettero fuggire a Würzburg, dove fondarono un ospizio; alla fine dell’Ottocento ritornarono a Münnerstadt, che, da allora, è il punto di riferimento per la provincia tedesca. In Portogallo scomparvero tutti i conventi, e in Spagna è sopravvissuto solo quello di Valladolid: vi si formavano i sacerdoti per il Nuovo Mondo. In Polonia, dal 1864 era rimasto solo il convento di Kraków; in Italia, molti conventi furono chiusi e incamerati dallo Stato[32].
Con l’inizio del XX secolo si ha la rinascita degli agostiniani. In Germania riprende vita la provincia di Baviera, e quasi contemporaneamente quelle olandese e belga. Anche in Spagna c’è una rinascita dei conventi. Intanto la provincia tedesca rifonda le missioni nel Nord America e in Canada che, verso la metà del secolo, divengono province indipendenti.
Gli agostiniani oggi
L’Ordine di sant’Agostino è presente in tutto il mondo con circa 2.340 membri in 47 Paesi, con 400 case tra conventi, parrocchie, studentati e sedi di formazione[33]. Gli agostiniani si dedicano non solo all’insegnamento e alla predicazione, ma anche alla vita parrocchiale, ai santuari, alle opere sociali per i poveri, i migranti e gli anziani. Il loro motto, Charitas et Scientia,indica l’armonia tra vita comunitaria, studio e dedizione ai fratelli.
Anche in Italia si segnala la ripresa degli agostiniani, e vanno ricordati alcuni eminenti studiosi. Innanzitutto, p. Agostino Trapè (1915-1987), uno straordinario cultore di scienze patristiche, docente all’Università Lateranense, che ha ideato e diretto la Nuova Biblioteca Agostiniana: ha pubblicato l’Opera Omnia di sant’Agostino in edizione bilingue latino-italiano[34]. È stato Priore generale dell’Ordine, e a lui si deve la fondazione dell’Istituto Patristico Augustinianum di Roma nel 1969, alla cui inaugurazione volle intervenire di persona papa Paolo VI[35]. Poi va ricordato p. Prosper Grech (1925-2019), creato cardinale da Benedetto XVI, studioso del Nuovo Testamento, docente all’Università Gregoriana e all’Istituto Biblico di Roma, preside dell’Augustinianum e consultore del Dicastero per la dottrina della fede.
Va rilevata infine l’attualità di sant’Agostino nel Concilio Vaticano II. Il vescovo di Ippona ha avuto un influsso sulla spiritualità conciliare, che ha dato all’antropologia del Santo un posto di rilievo. «Nella [Costituzione] Lumen Gentium, il Concilio ha sottolineato come un finalismo soprannaturale muova la Chiesa, l’umanità e il mondo, intimamente congiunto con l’uomo verso il raggiungimento di un fine comune (7,48). Nella Gaudium et Spes poi vengono approfonditi gli elementi comuni ad ogni uomo. Questi, immagine di Dio, ha in essa la spiegazione della sua grandezza, delle sue responsabilità, del suo dinamismo verso Dio e del suo bisogno di redenzione in Cristo (1-2, cc. 1-4)»[36].
Sull’origine di questi temi, un agostiniano studioso del grande Padre ha affermato: «Difficilmente si troverà un’esposizione più sintetica dell’antropologia agostiniana di quella offerta dal Concilio nella Costituzione apostolica Gaudium et spes. Basti dire soltanto delle aspirazioni universali di tutti gli uomini […] alla giustizia e all’amore, a una più matura coscienza e responsabilità, così come alla felicità, alla cultura e a tutti i valori trascendenti. […] Quando il Concilio, dopo i cambiamenti del mondo, comincia a considerare l’uomo in sé stesso, nella comunità e nella sua attività, si manifesta agostiniano»[37].
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[1] Cfr Agostino d’Ippona, Regula ad servos Dei. La Regola, in Opere di sant’Agostino, VII/2,Roma, Città Nuova, 2001, 29-49. La Regola risale intorno all’anno 400.
[2] V. Grossi, «L’influsso – Il futuro – Le prospettive», in V. Grossi – L. Marín – G. Ciolini, Gli Agostiniani. Radici, storia, prospettive, Palermo, Augustinus, 1993, 192.
[3] Ordo Eremitarum Sancti Augustini. Cfr L. Marín, «La storia. Dalla morte di S. Agostino al 1244-1256», in V. Grossi – L. Marín – G. Ciolini, Gli Agostiniani…, cit., 117-140. L’unione ha riguardato gli eremiti della Tuscia, quelli di Monte Favale, di Brettino e dei Giamboniti. I Guglielmiti, invece, dopo una prima adesione, decisero di tornare alla Regola di san Benedetto.
[4] Ivi, 187 s.
[5] Cfr M. Rodriguez, «Monache Agostiniane», in Enciclopedia Cattolica, vol. I, Città del Vaticano – Firenze, Ente per l’Enciclopedia Cattolica, 1949, 501 s.
[6] Costituzioni di Ratisbona, 40. Cfr Egidio Romano, De regimine principum III, 2, 8, in Il «Livro del governamento dei re e dei principi» secondo il codice BNCF II.IV.129, vol. I, Bologna, ETS, 2016, 537.
[7] Cfr G. Pani, «“Il Vangelo mi spaventa”. Il buon vescovo secondo sant’Agostino», in Civ. Catt. 2015 II 117-130.
[8] G. Ciolini – V. Grossi, «Gli Agostiniani e le mediazioni culturali», in V. Grossi – L. Marín – G. Ciolini, Gli Agostiniani…, cit., 250.
[9] Cfr ivi, 217 s.
[10] Cfr D. Aurelii Augustini Milleloquium veritatis, à F. Bartholomaeo de Urbino digestum, Lugduni, M. Bonhomme, 1555.
[11] Le Congregazioni di Osservanti si proponevano di vivere rigorosamente le prescrizioni della Regola e delle Costituzioni, senza gli abusi che si erano introdotti nelle province. Delle 10 Congregazioni di Osservanti, una si trovava in Germania (a Erfurt), le altre in Italia. Cfr D. Gutiérrez, Storia dell’Ordine di Sant’Agostino. II. Gli Agostiniani dal protestantesimo alla riforma cattolica (1518-1648), Roma, Institutum Historicum Ordinis Fratrum S. Augustini, 1972, 87 s.
[12] Questi si trovavano a Roma, Napoli, Siena, Milano, Vienna, Magonza, Colonia, Bruges, Metz, Strasburgo, Lione, Montpellier e Tolosa. In Italia, i più antichi e migliori Studi generali rimasero quelli di Padova, Bologna, Roma e Napoli.
[13] Ogni tomo ha il suo titolo proprio. Nel frontespizio del primo tomo si legge: Prima pars librorum divi Aurelii Augustini quos edidit cathecuminus. Furono stampati 2.200 esemplari in 11 tomi, ma i primi tre costituiscono un volume, per cui si ha un insieme di 9 volumi. Cfr Chronicon Conradi Pellicani Rubeaquensis (del 1544), Bâle, B. Riggenbach, 1877, 27.
[14] Cfr G. Pani, Paolo, Agostino, Lutero: alle origini del mondo moderno, Soveria Mannelli (Cz), Rubbettino, 2005, 77-81.
[15] Ivi, 37-44. La prima edizione era intitolata Novum Instrumentum, che traduceva alla lettera il titolo greco kainē diathēkē. Ma nella seconda edizione, in seguito alle critiche che gli furono rivolte, Erasmo riportò il titolo tradizionale.
[16] Cfr G. Pani, Lutero tra eresia e profezia, Bologna, EDB, 2017, 84-97.
[17] Cfr Id., «L’affissione delle 95 Tesi di Lutero: storia o leggenda?», in Civ. Catt. 2016 IV 213-226. Dell’affissione delle 95 Tesi non si ha una documentazione storica coeva, ma se ne parla per la prima volta un secolo dopo.
[18] Cfr H. Jedin, Storia del Concilio di Trento. II. Il primo periodo 1545-1547, Brescia, Morcelliana, 1974, 209 s.; Concilium Tridentinum Diariorum, Actorum, Epistolarum Tractatuum nova collectio,X, Freiburg i. Br., Herder, 1916, 539: lettera di Zanetti al cardinale A. Farnese, 25 giugno 1546.
[19] Cfr W. Eckermann, «Augustiner-Eremiten», in Lexikon für Theologie und Kirche, vol. I, Freiburg – Basel – Roma ecc., Herder, 1993, col. 1234.
[20] D. Gutiérrez, Storia dell’Ordine di Sant’Agostino, II, cit., 81.
[21] Ivi, 59.
[22] Ivi, 90.
[23] Cfr ivi.
[24] Cfr ivi.
[25] Cfr W. Eckermann, «Augustiner-Eremiten», cit., 1234; D. Gutiérrez, Storia dell’Ordine di Sant’Agostino, II, cit., 245-282.
[26] M. Blondel, «L’unité originale et la validité permanente de sa doctrine philosophique», in Revue de Métaphysique et de Morale 37 (1930) 466; cfr V. Grossi, «L’influsso – Il futuro – Le prospettive», cit., 199.
[27] H.-I. Marrou, Sant’Agostino, Milano, Mondadori, 1960, 81.
[28] Cfr D. Gutiérrez, Storia dell’Ordine di Sant’Agostino, II, cit., 115; 120 s.; 88.
[29] Ivi, 207.
[30] Cfr ivi, 206.
[31] Cfr G. Ciolini – V. Grossi, «Gli Agostiniani e le mediazioni culturali», cit., 252 s.
[32] Cfr W. Eckermann, «Augustiner-Eremiten», cit., 1235.
[33] Cfr Annuario Pontificio per l’anno 2025, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2025, 1624.
[34] Cfr Agostino d’Ippona, s., Nuova biblioteca agostiniana. Tutte le Opere, Roma, Città Nuova, 1965-2005. L’opera si compone di 70 volumi, in carta india, rilegati in tela.
[35] Cfr G. Ciolini – V. Grossi, «Gli Agostiniani e le mediazioni culturali», cit., 256.
[36] V. Grossi, «L’influsso – Il futuro – Le prospettive», cit., 197.
[37] Ivi, 197. Cfr J. Morán, «Presenza di S. Agostino nel Concilio Vaticano II», in Augustinianum 6 (1966) 484 s. Si può anche ricordare che Joseph Ratzinger-Benedetto XVI è stato un grande studioso e cultore di sant’Agostino; i riferimenti al Santo nelle sue opere teologiche e nelle sue omelie sono nettamente più numerosi di quelli ad altri Padri della Chiesa.
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