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adnkronos.com/internazionale/e…

sembra il racconto degli zingari. e alla fine non rimase nessuno...

chi pensa di alimentare un sistema illiberale pensando di guadagnarci (forse all'inizio), in realtà costruisce comunque la rovina di tutti, se stesso incluso. la libertà non è un lusso ma una necessità. ad andare a cacciare le minoranze, ci si abitua a cacciare sempre qualcuno, e prima o poi toccherà anche a chi veniva lasciato stare. è il sistema che funziona così.

e adesso che in russia si comincia a combattere pure per la benzina e la coperta, già stretta, diventa ogni giorno anche più corta, gli animi si infiammano.

chi è solo strumento non può ambire a essere persona.




Con Pomelli ora Google minaccia anche agenzie pubblicitarie e social media manager

L'articolo proviene da #StartMag e viene ricondiviso sulla comunità Lemmy @Informatica (Italy e non Italy 😁)
Mountain View sta sguinzagliando un nuovo prodotto, noto come Pomelli, che minaccia l'esistenza delle agenzie pubblicitarie e dei social media manager. La rivoluzione



BRASILE. La destra bolsonarista dietro la strage nelle favelas, Lula in difficoltà


@Notizie dall'Italia e dal mondo
Per il governatore Castro si è trattato di una operazione di polizia proporzionata, per i residenti e le associazioni per i diritti umani di un brutale massacro. Il presidente del Brasile, Lula da Silva, critica la violenza della polizia ma è preoccupato dai sondaggi



AFGHANISTAN E COLTIVAZIONE DI OPPIO: IL DIVIETO FUNZIONA?

I risultati nell’Afghanistan Opium Survey 2025 pubblicato da UNODC



Contesto e Obiettivi


Il divieto di coltivazione del papavero da #oppio in #Afghanistan fu introdotto dalle Autorità de facto nel 2022 e ora al terzo anno di applicazione. #UNODC (l’Agenzia delle Nazioni UNite contro il crimine ed il traffico di droga) in un suo recente rapporto (reperibile qui: unodc.org/documents/crop-monit…unodc.org/documents/crop-monit…)) monitora l’evoluzione della coltivazione illecita, la produzione di oppio, e le conseguenze socio-economiche e ambientali per le comunità rurali afghane.

Principali Risultati
1. Riduzione drastica della coltivazione e produzione di oppio


  • Coltivazione: Nel 2025, la superficie coltivata a papavero da oppio è stimata in 10.200 ettari, il 20% in meno rispetto al 2024 (12.800 ettari) e solo il 4% dei livelli pre-divieto del 2022 (232.000 ettari).
  • Produzione: La produzione potenziale di oppio è scesa del 32% rispetto al 2024, raggiungendo 296 tonnellate (contro le 433 tonnellate del 2024). Questo calo è attribuito a:
    • Applicazione rigorosa del divieto.
    • Condizioni climatiche avverse, soprattutto siccità in province chiave come Badakhshan.


  • Eradicazione: Le Autorità de facto hanno riportato l’eradicazione di oltre 4.000 ettari (40% dell’area coltivata stimata), sebbene l’UNODC non abbia potuto verificare tecnicamente questi dati.


2. Impatto economico sulle comunità rurali


  • Reddito dei coltivatori: Il reddito derivante dalla vendita di oppio è crollato del 48%, passando da 260 milioni di USD nel 2024 a 134 milioni nel 2025.
    • Un ettaro di papavero genera ancora 12.000–17.000 USD (a seconda della provincia), ma questo valore è in forte calo rispetto agli anni precedenti.
    • Confronti: Colture lecite come il frumento rendono solo 800 USD/ettaro, il cotone 1.600 USD/ettaro.


  • Conseguenze: Tre anni di redditi minimi o nulli dall’oppio hanno aggravato la vulnerabilità economica rurale, con oltre il 40% dei terreni agricoli lasciati incolti per mancanza di alternative redditizie.


3. Cambiamenti nell’uso del suolo


  • Sostituzione delle colture: Il 67% dei terreni precedentemente dedicati al papavero è stato convertito a cereali (soprattutto frumento), ma con un calo del reddito per i coltivatori.
  • Terreni incolti: La siccità e la mancanza di alternative hanno portato all’abbandono di vasti appezzamenti, soprattutto nelle aree non irrigue.


4. Mercato degli oppiacei e metanfetamine


  • Oppiacei: La riduzione dell’offerta afghana ha portato a un aumento dei prezzi fino al 2024, seguito da un calo nel 2025, possibile segno di:
    • Vendita di scorte accumulate.
    • Spostamento della produzione in paesi vicini (es. aumento dell’eradicazione del papavero in due paesi confinanti, da 5.868 ettari nel 2022 a 13.200 nel 2023).


  • Metanfetamine: Le sequestri sono aumentati e i prezzi diminuiti (sotto i 600 USD/kg), suggerendo una maggiore disponibilità, probabilmente dovuta a:
    • Produzione interna resiliente ( Nonostante il divieto, la produzione di metanfetamina sembra non essere stata colpita).
    • Importazione da altri paesi.



5. Crisi umanitaria e ambientale


  • Siccità e cambiamento climatico: Precipitazioni sotto la media (-60-75%) e temperature elevate hanno ridotto la produttività agricola, colpendo sia l’oppio che le colture alimentari.
  • Ritorno dei migranti: Circa 4 milioni di afghani sono tornati da Pakistan e Iran nel 2024-2025, aumentando la pressione su risorse già scarse e opportunità lavorative limitate.
  • Gestione dell’acqua: La siccità ha esacerbato la crisi idrica, con falde acquifere in calo e sistemi irrigui tradizionali (come i qanat) in fallimento.


6. Implicazioni politiche


  • Sviluppo alternativo: Urgente necessità di programmi che offrano colture sostitutive redditizie, accesso ai mercati, e investimenti in infrastrutture e clima.
  • Cooperazione regionale: Monitoraggio congiunto per contrastare lo spostamento della produzione di oppio (“balloon effect”) e il traffico di droghe sintetiche.
  • Riforme strutturali: Servono investimenti a lungo termine in agricoltura sostenibile, formazione professionale e governance per ridurre la dipendenza dall’economia illecita.


Conclusione


Il divieto ha ridotto drasticamente la produzione di oppio, ma ha anche:

  • Impoverito le comunità rurali, senza alternative economiche sostenibili.
  • Spinto verso droghe sintetiche (metanfetamine), più difficili da contrastare.
  • Aggravato la crisi umanitaria, legata a siccità, migrazione e instabilità economica.

Le Raccomandazioni finali di UNODC riguardano

  • La necessità di Supporto internazionale per lo sviluppo rurale e la resilienza climatica.
  • Il Monitoraggio regionale per prevenire lo spostamento della produzione illecita.
  • Investimenti in infrastrutture idriche e agricoltura sostenibile.

@Attualità, Geopolitica e Satira



DIY Powerwall Blows Clouds, Competition Out of the Water


Economists have this idea that we live in an efficient market, but it’s hard to fathom that when disposable vapes are equipped with rechargeable lithium cells. Still, just as market economists point out that if you leave a dollar on the sidewalk someone will pick it up, if you leave dollars worth of lithium batteries on the sidewalk, [Chris Doel] will pick them up and build a DIY home battery bank that we really hope won’t burn down his shop.
Testing salvaged batteries.
The Powerwall-like arrangement uses 500 batteries salvaged from disposable vapes. His personal quality control measure while pulling the cells from the vapes was to skip any that had been discharged past 3 V. On the other hand, we’d be conservative too if we had to live with this thing, solid brick construction or not.

That quality control was accomplished by a clever hack in and of itself: he built a device to blow through the found vapes and see if they lit up. (That starts at 3:20 in the vid.) No light? Not enough voltage. Easy. Even if you’re not building a hoe powerbank, you might take note of that hack if you’re interested in harvesting other people’s deathsticks for lithium cells. The secret ingredient was the pump from a CPAP machine. Actually, it was the only ingredient.)

In another nod to safety, he fuses every battery and the links between the 3D printed OSHA unapproved packs. The juxtoposition between janky build and careful design nods makes this hack delightful, and we really hope [Chris] doesn’t burn down his shed, because like the cut of his jib and hope to see more hacks from this lad. They likely won’t involve nicotine-soaked lithium, however, as the UK is finally banning disposable vapes.

In some ways, that’s a pity, since they’re apparently good for more than just batteries — you can host a website on some of these things. How’s that for market efficiency?

youtube.com/embed/dy-wFixuRVU?…


hackaday.com/2025/11/06/diy-po…



Japan’s Forgotten Analog HDTV Standard Was Well Ahead Of Its Time


When we talk about HDTV, we’re typically talking about any one of a number of standards from when television made the paradigm switch from analog to digital transmission. At the dawn of the new millenium, high-definition TV was a step-change for the medium, perhaps the biggest leap forward since color transmissions began in the middle of the 20th century.

However, a higher-resolution television format did indeed exist well before the TV world went digital. Over in Japan, television engineers had developed an analog HD format that promised quality far beyond regular old NTSC and PAL transmissions. All this, decades before flat screens and digital TV were ever seen in consumer households!

Resolution


Japan’s efforts to develop a better standard of analog television were pursued by the Science and Technical Research Laboratories of NHK, the national public broadcaster. Starting in the 1970s, research and development focused on how to deliver a higher-quality television signal, as well as how to best capture, store, and display it.
The higher resolution of Hi-Vision was seen to make viewing a larger, closer television more desirable. The figures chosen were based on an intended viewing distance that of three times the height of the screen. Credit: NHK Handbook
This work led to the development of a standard known as Hi-Vision, which aimed to greatly improve the resolution and quality of broadcast television. At 1125 lines, it offered over double the vertical resolution of the prevailing 60 Hz NTSC standard in Japan. The precise number was chosen for meeting minimum requirements for image quality for a viewer with good vision, while being a convenient integer ratio to NTSC’s 525 lines (15:7), and PAL’s 625 lines (9:5). Hi-Vision also introduced a shift to the 16:9 aspect ratio from the more traditional 4:3 used in conventional analog television. The new standard also brought with it improved audio, with four independent channels—left, center, right, and rear—in what was termed “3-1 mode.” This was not unlike the layout used by Dolby Surround systems of the mid-1980s, though the NHK spec suggests using multiple speakers behind the viewers to deliver the single rear sound channel.
Hi-Vision offered improved sound, encoded with PCM. Credit: NHK handbook
Hi-Vision referred most specifically to the video standard itself; the broadcast standard was called MUSE—standing for Multiple sub-Nyquist Sampling Encoding. This was a method for dealing with the high bandwidth requirements of higher-quality television. Where an NTSC TV broadcast might only need 4.2 MHz of bandwidth, the Hi-Vision standard needed 20-25 MHz of bandwidth. That wasn’t practical to fit in alongside terrestrial broadcasts of the time, and even for satellite delivery, it was considered too great. Thus, MUSE offered a way to compress the high-resolution signal down into a more manageable 8.1 MHz, with a combination of dot interlacing and advanced multiplexing techniques. The method used meant that ultimately four frames were needed to make up a full image. Special motion-sensitive encoding techniques were also used to limit the blurring impact of camera pans due to the use of the dot interlaced method. Meanwhile, the four-channel digital audio stream was squeezed into the vertical blanking period.

MUSE broadcasts began on an experimental basis in 1989. NHK would eventually begin using the standard regularly on its BShi satellite service, with a handful of other Japanese broadcasters eventually following suit. Broadcasts ran until 2007, when NHK finally shut down the service with digital TV by then well established.

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An NHK station sign-on animation used from 1991 to 1994.
A station ident from NHK’s Hi-Vision broadcasts from 1995 to 1997. Note the 16:9 aspect ratio—then very unusual for TV. Credit: NHK
The technology wasn’t just limited to higher-quality broadcasts, either. Recorded media capable of delivering higher-resolution content also permeated the Japanese market. W-VHS (Wide-VHS) hit the market in 1993 as a video cassette standard capable of recording Hi-Vision/MUSE broadcast material. The W moniker was initially chosen for its shorthand meaning in Japanese of “double”—since Hi-Vision used 1125 lines which was just over double the 525 lines in an NTSC broadcast.

Later, in 1994, Panasonic released its Hi-Vision LaserDisc player, with Pioneer and Sony eventually offering similar products. They similarly offered 1,125 lines (1,035 visible) of resolution in a native 16:9 aspect ratio. The discs were read using a narrower-wavelength laser than standard laser discs, which also offered improved read performance and reliability.

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Sample video from a MUSE Hi-Vision Laserdisc. Note the extreme level of detail visible in the makeup palettes and skin, and the motion trails in some of the lens flares.

The hope was that Hi-Vision would become an international standard for HDTV, supplanting the ugly mix of NTSC, PAL, and SECAM formats around the world. Unfortunately, that never came to pass. While Hi-Vision and MUSE did offer a better quality image, there simply wasn’t much content that was actually broadcast in the standard. Only a few channels in Japan were available, creating a limited incentive for households to upgrade their existing sets. Similarly, the amount of recorded media available was also limited. The bandwidth requirements were also too great; even with MUSE squishing the signals down, the 8.1MHz required was still considered too much for practical use in the US market. Meanwhile, being based on a 60 Hz standard meant the European industry was not interested.

Further worsening the situation was that by 1996, DVD technology had been released, offering better quality and all the associated benefits of a digital medium. Digital television technology was not far behind, and buildouts began in countries around the world by the late 1990s. These transmissions offered higher quality and the ability to deliver more channels with the same bandwidth, and would ultimately take over.

youtube.com/embed/pJupQw1FtW8?…

Only a handful of Hi-Vision displays still exist in the world.

Hi-Vision and MUSE offered a huge step up in image quality, but their technical limitations and broadcast difficulties meant that they would never compete with the new digital technologies that were coming down the line. There was simply not enough time for the technology to find a foothold in the market before something better came along. Still, it’s quite something to look back on the content and hardware from the late 1980s and early 1990s that was able, in many ways, to measure up in quality to the digital flat screen TVs that wouldn’t arrive for another 15 years or so. Quite a technical feat indeed, even if it didn’t win the day!


hackaday.com/2025/11/06/japans…

Gazzetta del Cadavere reshared this.



Countdown To Pi 1 Loss Of Support, Activated


The older Raspberry Pi boards have had a long life, serving faithfully since 2012. Frankly, their continued support is a rarity these days — it’s truly incredible that an up-to-date OS image can still be downloaded for them in 2025. All good things must eventually come to an end though, and perhaps one of the first signs of that moment for the BCM2385 could be evident in Phoronix’s report on Debian dropping support for MIPS64EL & ARMEL architectures. Both are now long in the tooth and other than ARMEL in the Pi, rarely encountered now, so were it not for the little board from Cambridge this might hardly be news. But what does it mean for the older Pi?

It’s first important to remind readers that there’s no need to panic just yet, as the support is going not for the mainstream Debian releases, but the unstable and experimental ones. The mainstream Debian support period for the current releases presumably including the Debian-based Raspberry Pi OS extends until 2030, which tallies well with Raspberry Pi’s own end-of-life date for their earlier boards. But it’s a salutary reminder that that the clock’s ticking, should (like some of us) you be running an older Pi. You’ve got about five years.


hackaday.com/2025/11/06/countd…



Make Metal Rain with Thermal Spraying


Alec using the arc spraying device

For those of us hackers who have gone down a machining rabbit hole, we all know how annoying it can be to over-machine a part. Thermal spraying, while sounding sci-fi, is a method where you can just spray that metal back on your workpiece. If you don’t care about machining, how about a gun that shoots a shower of sparks just to coat your enemies in a layer of metal? Welcome to the world of thermal spraying, led by the one and only [Alec Steele].

There are three main techniques shown that can be used to coat using metal spools. The first, termed flame spraying, uses a propane flame and compressed air to blast fine drops of molten metal onto your surface. A fuel-heavy mixture allows the metal to remain unoxidized and protect any surface beneath. Perhaps one of the most fun to use is the arc method of thermal spray. Two wires feed together to short a high current circuit; all it takes from there is a little pressured air to create a shower of molten metal. This leaves the last method similar to the first, but uses a powder material rather than the wires used in flame spraying.

As with much crazy tech, the main uses of thermal spraying are somewhat mundane. Coating is applied to prevent oxidation, add material to be re-machined, or improve the mechanical resistance of a part. As expensive as this tech is, we would love to see someone attempt an open-source version to allow all of us at Hackaday to play with. Can’t call it too crazy when we have people making their own X-ray machines.

youtube.com/embed/e-QcseGvU5o?…


hackaday.com/2025/11/06/make-m…



12,5 milioni di film HD al secondo! Il cavo sottomarino di Amazon che collegherà gli USA all’Irlanda


Tra qualche anno, l’Irlanda e gli Stati Uniti saranno collegati da un cavo di comunicazione sottomarino progettato per aiutare Amazon a migliorare i suoi servizi AWS.

I cavi sottomarini sono una parte vitale dell’infrastruttura che collega i continenti. Secondo i media, attualmente sono circa 570 i cavi posati attraverso oceani e mari, e altri 81 sono in programma. Tra questi c’è il nuovo cavo Amazon Fastnet, progettato per collegare gli Stati Uniti e l’Irlanda in pochi anni e migliorare la rete AWS.

Come annunciato da Amazon in un comunicato stampa, il cavo sottomarino verrà posato tra il Maryland, negli Stati Uniti, e la contea di Cork, in Irlanda. Sebbene Amazon non abbia specificato la lunghezza esatta del cavo AWS, la distanza tra i due punti è di circa 5.300 chilometri (3.000 miglia) in linea d’aria. Amazon prevede di completare il progetto entro il 2028.

Secondo Amazon, il collegamento tra Maryland e Cork è importante per due motivi. In primo luogo, Fastnet è progettato per fungere da collegamento di comunicazione di backup in caso di guasto di altri cavi sottomarini. Poiché la riparazione di tali cavi sottomarini è complessa, il ripristino della funzionalità dopo un danno può richiedere più tempo. Fastnet è inoltre progettato per soddisfare la crescente domanda di cloud computing e intelligenza artificiale tramite i servizi AWS.

Il cavo sottomarino, spesso 37 millimetri nel punto più largo, trasmetterà i dati tra i due punti utilizzando la tecnologia in fibra ottica. Secondo Amazon, ciò consentirà velocità di trasferimento dati fino a 320 terabit al secondo, paragonabili allo streaming simultaneo di 12,5 milioni di film in HD.

L’elevata capacità di trasmissione consentirà al sistema di monitoraggio automatizzato di Amazon AWS di gestire e reindirizzare più facilmente i carichi pesanti. Inoltre, il cavo fornisce ad Amazon un ulteriore livello di ridondanza, mitigando l’impatto di eventuali guasti su altri cavi.

Per prevenire guasti, il cavo sottomarino sarà meglio protetto dalle influenze esterne nelle zone costiere. Oltre ai conduttori in acciaio più sottili che proteggono la fibra ottica all’interno del cavo, nelle sezioni più piatte viene utilizzato uno strato aggiuntivo. In questi casi, fili in acciaio più spessi avvolgono l’intero cavo e sono a loro volta rivestiti da una guaina in nylon. Secondo Amazon, questa soluzione è progettata per proteggere meglio il cavo da “fattori naturali e artificiali”.

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Post SMTP sotto sfruttamento attivo: 400.000 siti WordPress sono a rischio


Gli aggressori stanno attaccando i siti web WordPress sfruttando una vulnerabilità critica nel plugin Post SMTP, che conta oltre 400.000 installazioni. Gli hacker stanno dirottando gli account amministratore e ottenendo il controllo completo sulle risorse vulnerabili.

Post SMTP è uno dei plugin più popolari per l’invio di email da siti WordPress. I suoi sviluppatori lo propongono come un’alternativa avanzata alla funzione standard wp_mail(), offrendo funzionalità avanzate e maggiore affidabilità.

La vulnerabilità è stata scoperta da un ricercatore di sicurezza di nome netranger, che l’ha segnalata a Wordfence l’11 ottobre. Le è stato assegnato l’identificatore CVE-2025-11833 (punteggio CVSS 9,8). Il bug interessa tutte le versioni di Post SMTP dalla 3.6.0 in poi.

La radice del problema risiede nella mancanza di controllo dei diritti di accesso quando si utilizza la funzione _construct in PostmanEmailLogs.

Il componente responsabile della registrazione delle email inviate restituisce direttamente il contenuto del log su richiesta, senza verificare chi lo sta richiedendo. Di conseguenza, chiunque può leggere le email memorizzate nei log, inclusi i messaggi di reimpostazione della password con link per modificare le credenziali di amministratore. Intercettando un’email di questo tipo, un hacker criminale può modificare la password dell’amministratore e ottenere il controllo completo del sito.

Wordfence ha notificato allo sviluppatore del plugin la vulnerabilità critica il 15 ottobre, ma la patch è stata rilasciata solo il 29 ottobre: la versione 3.6.1 corregge il bug. Tuttavia, secondo le statistiche di WordPress.org, circa la metà degli utenti del plugin ha installato l’aggiornamento, il che significa che circa 200.000 siti web rimangono vulnerabili.

Quel che è peggio è che gli hacker stanno già sfruttando quest’ultima vulnerabilità. Secondo gli esperti, i tentativi di sfruttare la vulnerabilità CVE-2025-11833 sono stati registrati dal 1° novembre e, negli ultimi giorni, l’azienda ha bloccato oltre 4.500 attacchi di questo tipo sui siti web dei suoi clienti. Considerando che Wordfence protegge solo una parte dell’ecosistema WordPress, il numero effettivo di tentativi di hacking potrebbe essere nell’ordine delle decine di migliaia.

Vale la pena notare che questa è la seconda grave vulnerabilità scoperta in Post SMTP negli ultimi mesi. Nel luglio 2025, l’azienda di sicurezza informatica PatchStack ha scoperto una vulnerabilità simile , CVE-2025-24000. Questo bug consentiva anche la lettura dei log e l’intercettazione delle email di reimpostazione della password, anche da parte di utenti con privilegi minimi.

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Ti hanno detto che il 6G sarà veloce vero? Ma non ti hanno detto tutta la verità


Non è “solo più veloce”: il 6G cambia la natura stessa della rete!

Quando parliamo di 6G rischiamo di ridurre tutto a un upgrade di velocità, come se la rete del futuro fosse solo un 5G con più cavalli. In realtà il salto non riguarda la banda, ma il modo in cui la rete percepirà il mondo. Per la prima volta, una rete mobile non si limiterà a trasmettere e ricevere segnali, ma osserverà l’ambiente per poter operare correttamente.

MSCP: la fusione tra sensori visivi e radio che cambia il paradigma


Lo studio IEEE introduce la tecnica MSCP, un approccio ibrido che fonde informazioni RF e immagini ambientali. Le telecamere analizzano il contesto, i modelli AI prevedono il comportamento del canale radio, il sistema corregge la trasmissione prima che l’ostacolo avvenga.

Il guadagno, scientificamente parlando, è enorme: oltre il 77% in accuratezza predittiva rispetto alle tecniche basate solo sul segnale radio. Ma per ottenere questa precisione, la rete deve sapere chi si muove, dove si muove e come si muove.

Dettagli tecnici e risultati completi sono descritti nel paper IEEE su MSCP e nei lavori sul dataset DeepSense 6G che abilitano la predizione multimodale del canale.

Il prezzo nascosto: la rete non “vede i dati”, vede i corpi


Qui non stiamo parlando di analisi del traffico o telemetria tecnica. Stiamo parlando di una rete che, per funzionare, deve costruire un modello spazio-temporale dei movimenti umani. Non importa se non riconosce i volti: la traiettoria è già un identificatore comportamentale.

Lo dice il GDPR, lo conferma l’AEPD, lo dimostrano anni di studi su fingerprinting e re-identificazione tramite metadati. Se il Wi-Fi tracking è già considerato trattamento di dati personali, immaginate un sistema che combina radio, video e machine learning in tempo reale.

La sorveglianza senza telecamere dichiarate: il trucco perfetto


Una telecamera classica richiede cartelli, informative, limiti d’uso, base giuridica. Una rete 6G con sensing integrato no: è “parte dell’infrastruttura tecnica”. Non registra video, genera metadati. Non sembra sorveglianza, ma lo è. E lo sarà in modo più capillare, invisibile e incontestabile di qualunque sistema CCTV. Non serve più installare un occhio elettronico su un palo: basta un’antenna su un tetto. La direzione “sensing + AI” non è episodica: progetti come DeepSense 6Graccolgono dati reali multi-modalità (mmWave, camera, GPS, LiDAR, radar) proprio per abilitare queste funzioni di predizione del canale e di localizzazione.

Violazione della privacy? No, violazione della sovranità del corpo nello spazio


Il vero rischio non è lo sguardo sul singolo individuo, ma la perdita del diritto collettivo all’invisibilità fisica. Una rete che mappa i movimenti delle persone in modo continuo abilita, per definizione, scenari di monitoraggio sociale: flussi di protesta, geofencing comportamentale, analisi predittiva dei gruppi, controllo delle folle, profiling ambientale. Tutto senza dover invocare né il riconoscimento facciale né la biometria classica.

Il quadro legale europeo oggi sarebbe già incompatibile – se qualcuno lo facesse davvero rispettare


Il principio di minimizzazione del GDPR renderebbe difficilmente difendibile l’uso di visione artificiale per risolvere un problema tecnico delle telecomunicazioni, se esistono alternative meno invasive. L’ePrivacy vieta analisi occulte dei terminali. L’AI Act classificherà i sistemi di sorveglianza ambientale come ad alto rischio. Ma il vero nodo è un altro: finché la tecnologia resta nei paper, il diritto non reagisce. Quando arriverà nei prodotti, sarà già troppo tardi.

La domanda finale non è tecnica: è politica

  • È lecito usare la visione artificiale per migliorare un canale radio?
  • È proporzionato?
  • È necessario?

Chi decide quando la rete osserva, cosa osserva, per quanto e con quali limiti?
E soprattutto: chi garantisce che lo farà solo per “ottimizzare la qualità del servizio”?

Conclusioni


Se accettiamo senza reagire l’idea che “la rete deve vederci per funzionare”, allora non ci servirà più un garante della privacy. Ci servirà un garante del movimento umano non monitorato.

Il 6G sarà una meraviglia tecnologica.
Ma ricordiamoci una regola semplice:
quando una tecnologia ti offre prestazioni straordinarie in cambio di un nuovo livello di tracciamento, non sta innovando.
Sta negoziando la tua libertà.

E come sempre, la parte debole del contratto… sei tu.

La differenza tra infrastruttura e sorveglianza è una sola cosa:
il limite che decidi di imporle prima che diventi inevitabile.

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in reply to Cybersecurity & cyberwarfare

dalle mie parti sconquassano l'asfalto per mettere la fibra e scavano terreni per mettere comunque antenne...


Aumentano gli attacchi informatici contro applicazioni pubbliche. Il report di CISCO


Milano, 4 novembre 2025 – Aumentano gli attacchi informatici che sfruttano applicazioni accessibili al pubblico, come siti web o portali aziendali, per entrare nei sistemi delle organizzazioni, e cresce anche il phishing condotto attraverso account aziendali compromessi. In calo invece gli attacchi ransomware, anche se di questo tipo di minaccia sono state rilevate nuove pericolose varianti.

Questi i dati più significativi emersi dal Report di Cisco Talos – relativo al trimestre luglio, agosto e settembre del 2025.

Per quanto riguarda attacchi informatici che sfruttano applicazioni accessibili al pubblico, si tratta di una modalità utilizzata in oltre sei casi su dieci tra gli interventi gestiti dal team di Incident Response, rispetto al 10% del trimestre precedente. Un aumento vertiginoso, legato in particolare a una serie di attacchi contro server Microsoft SharePoint installati localmente, che hanno sfruttato falle di sicurezza rese note a luglio.

Gli attacchi ransomware hanno rappresentato circa il 20% degli incidenti, in calo rispetto al 50% del trimestre precedente. Nonostante la diminuzione, il ransomware resta però una delle minacce più diffuse e persistenti per le aziende. Per la prima volta, il team di Cisco Talos ha affrontato nuove varianti come Warlock, Babuk e Kraken, oltre a famiglie già note come Qilin e LockBit.

In un caso, gli esperti hanno attribuito con “moderata certezza” un attacco a un gruppo di cybercriminali legato alla Cina, noto come Storm-2603. Un elemento insolito di questo attacco è stato l’uso di Velociraptor, un software open source normalmente usato per analisi forensi digitali, qui sfruttato per mantenere l’accesso ai sistemi violati, un comportamento mai osservato prima in questo tipo di attacchi. Infine, è stato registrato un aumento degli attacchi legati al ransomware Qilin, segno che questo gruppo sta intensificando la propria attività.

Attacchi informatici: cresce l’impatto della catena ToolShell e delle nuove falle di SharePoint


Gli attacchi legati alla cosiddetta catena ToolShell confermano quanto sia importante per le aziende segmentare correttamente la rete e installare subito gli aggiornamenti di sicurezza. Nel corso dell’ultimo trimestre, oltre il 60% degli incidenti analizzati da Cisco Talos ha avuto origine da applicazioni accessibili pubblicamente, come siti web o portali aziendali. In quasi quattro casi su dieci è stata riscontrata l’attività della catena ToolShell, una tecnica che ha contribuito in modo significativo alla crescita di questo tipo di attacchi.

A partire da metà luglio 2025, i criminali informatici hanno iniziato a sfruttare due nuove vulnerabilità nei server Microsoft SharePoint installati localmente (identificate come CVE-2025-53770 e CVE-2025-53771). Queste falle, collegate ad altre già corrette da Microsoft a inizio luglio, permettono ai criminali di eseguire un codice da remoto senza bisogno di accedere con credenziali valide.

Phishing da account compromessi: una minaccia in evoluzione


Come anticipato, gli attacchi di phishing lanciati da account aziendali compromessi continuano a rappresentare una minaccia concreta. I criminali informatici sfruttano email interne già violate per diffondere l’attacco all’interno dell’organizzazione o verso partner esterni.

Gli esperti di Talos hanno osservato che la catena ToolShell è stata sfruttata già prima dell’avviso ufficiale di Microsoft, con la maggior parte degli attacchi concentrata nei dieci giorni successivi. Questa tecnica è stata riscontrata in circa un terzo degli incidenti del trimestre, in aumento rispetto al periodo precedente. In molti casi è stata combinata con il phishing: durante uno degli attacchi monitorati, un account Microsoft 365 compromesso è stato usato per inviare quasi 3.000 email fraudolente.

Ransomware: nonostante il calo, la minacciaresta costante


Diminuiscono invece i ransomware. Nel trimestre appena concluso, gli attacchi ransomware hanno rappresentato circa il 20% degli incidenti gestiti da Cisco Talos, in calo rispetto al 50% del periodo precedente. Per la prima volta però, il teamdi Talos Incident Response ha affrontato nuove varianti come Warlock, Babuk e Kraken, oltre a famiglie già note come Qilin e LockBit.

Velociraptor: uno strumento legittimo usato in un attacco ransomware


Cisco Talos ha gestito un attacco ransomware attribuito con moderata certezza al gruppo di origine cinese Storm-2603. L’attacco ha colpito gravemente l’infrastruttura IT di un’azienda del settore telecomunicazioni, inclusi sistemi operativi critici per la gestione delle operazioni. Durante l’indagine, gli esperti di Talos hanno scoperto che i criminali informatici avevano installato una versione obsoleta di Velociraptor, uno strumento open source normalmente usato per le analisi forensi digitali e la risposta agli incidenti, su cinque server compromessi.

Velociraptor è stato utilizzato per mantenere l’accesso ai sistemi anche dopo l’isolamento di alcuni host – un comportamento mai osservato prima in un attacco ransomware. La versione impiegata presentava una vulnerabilità di sicurezza che consentiva agli attaccanti di controllare da remoto i sistemi infettati. Questo caso conferma una tendenza già evidenziata da Cisco Talos: i cybercriminali usano sempre più spesso strumenti legittimi, sia commerciali che open source, per rendere gli attacchi più efficaci e difficili da individuare.

Cresce l’attività del gruppo ransomware Qilin


Il gruppo Qilin, comparso per la prima volta nel trimestre precedente, ha intensificato le proprie operazioni, come mostra il numero crescente di fughe di dati pubblicate online a partire da febbraio 2025. Gli attacchi di Qilin seguono uno schema ormai consolidato: accesso iniziale con credenziali rubate, uso di un crittografo personalizzato per ogni vittima e impiego dello strumento CyberDuck per rubare e trasferire i dati. L’attività crescente del gruppo indica che Qilin resterà una delle principali minacce ransomware almeno fino alla fine del 2025.

Pubblica Amministrazione nel mirino


Per la prima volta dal 2021, la Pubblica Amministrazione è stata il settore più colpito. Gli enti pubblici sono obiettivi attraenti perché spesso dispongono di budget limitati e usano sistemi di difesa obsoleti. In questo trimestre gli attacchi hanno riguardato principalmente enti locali, che gestiscono anche scuole e strutture sanitarie e che trattano dati sensibili e non possono quindi permettersi lunghi periodi di inattività. Queste caratteristiche li rendono appetibili sia per cybercriminali orientati al profitto, sia per quelli motivati da spionaggio.

Accesso iniziale: app e phishing tra i principali vettori


Nel trimestre preso in considerazione, il modo piùcomune per ottenere l’accesso iniziale ai sistemi aziendali è stato lo sfruttamento di applicazioni su internet, spesso legato all’attività di ToolShell. Altri metodi osservati includono phishing, uso di credenziali valide compromesse e attacchi tramite siti web malevoli.

Le raccomandazioni di Cisco Talos


Nel corso dell’ultimo trimestre quasi un terzo degli incidenti ha coinvolto abusi dell’autenticazione a più fattori (MFA), come la MFA fatigue – richieste ripetute per indurre l’errore – o il bypass dei controlli. Per contrastare questi attacchi, Talos consiglia di attivare sistemi di rilevamento delle anomalie, come accessi da località incompatibili, e di rafforzare i criteri MFA. Un’altra criticità emersa riguarda la registrazione dei log: in molti casi, la mancanza di log completi ha ostacolato le indagini, con problemi frequenti come log eliminati, disabilitati o conservati per periodi troppo brevi. Cisco Talos raccomanda l’utilizzo di soluzioni SIEM (Security Information and Event Management) per centralizzare e proteggere i log, così da preservare le tracce anche in caso di compromissione dei sistemi. Infine, circa il 15% degli attacchi ha sfruttato sistemi non aggiornati, tra cui server SharePoint rimasti vulnerabili settimane dopo il rilascio delle patch. Per ridurre le vulnerabilità e impedire movimenti laterali degli aggressori, è fondamentale applicare tempestivamente gli aggiornamenti.

L'articolo Aumentano gli attacchi informatici contro applicazioni pubbliche. Il report di CISCO proviene da Red Hot Cyber.



Epic contro Google: accordo storico per gli sviluppatori di app


Proprio quando sembrava che il caso Epic contro Google fosse a un passo dalla vittoria finale per lo sviluppatore – a seguito del potenziale rigetto del ricorso di Google da parte della Corte Suprema – le parti hanno inaspettatamente annunciato un accordo martedì sera.

Se il giudice James Donato approvasse le modifiche proposte, la vittoria di Epic potrebbe trasformarsi in un successo globale a lungo termine.

Il giudice Donato aveva precedentemente accolto le principali richieste di Epic. Aveva emesso un’ingiunzione permanente che imponeva a Google di ospitare app store concorrenti sul proprio Google Play Store e di fornire loro l’accesso al suo catalogo completo di app.

A Google era stato inoltre impedito di richiedere agli sviluppatori di utilizzare Google Play Billing dopo che una giuria aveva ritenuto illegittimo il collegamento dell’app store al sistema di pagamento dell’azienda.

Tuttavia, queste modifiche sono state in vigore solo negli Stati Uniti, sono state limitate a tre anni e non hanno influito sull’entità delle commissioni dell’app store.

Ora Google ha accettato di andare oltre. L’azienda ridurrà la sua commissione standard al 20% o al 9%, a seconda che l’acquisto fornisca un vantaggio significativo nel gameplay (superiore a un vantaggio de minimis).

Google creerà anche un nuovo programma nella prossima versione di Android, grazie al quale gli app store alternativi potranno registrarsi e diventare membri a pieno titolo dell’ecosistema, consentendo agli utenti di installare facilmente le proprie app.

La principale differenza rispetto alla sentenza originale è la sua portata globale. Il programma per i negozi registrati e le commissioni ridotte saranno in vigore in tutto il mondo fino a giugno 2032, ovvero per sei anni e mezzo.

Se il tribunale approva questa proposta, la nostra controversia sarà risolta“, ha scritto martedì sera il presidente di Android, Samir Samat. Anche il CEO di Epic, Tim Sweeney, ha confermato che Google ha fatto un’offerta eccellente che “riporta Android alla sua visione originale di piattaforma aperta, con supporto globale per gli store di terze parti, commissioni ridotte e la possibilità di offrire pagamenti alternativi“.

I dettagli delle commissioni sono piuttosto complessi e sono in parte adattati alle esigenze di sviluppatori di giochi come Epic. Google può addebitare il 20% se un acquisto offre più di un vantaggio minimo in-game, o il 9% in caso contrario. Alle app e agli abbonamenti tramite Google Play verrà addebitata una commissione del 9%, ma potrebbe essere aggiunto un ulteriore 5% per l’utilizzo della fatturazione di Play.

A titolo di riferimento, Google attualmente addebita il 15% per gli abbonamenti e il 15% del primo milione di dollari di fatturato annuo per gli sviluppatori, e poi il 30%.

Utilizzando un sistema di pagamento alternativo, gli sviluppatori non pagheranno alcuna commissione di elaborazione dei pagamenti, sebbene Google si riservi il diritto di addebitare una commissione di servizio. L’azienda può persino ricevere una percentuale se un utente reindirizza al sito web dello sviluppatore e paga l’acquisto entro 24 ore.

L’accordo affronta uno dei principali argomenti di Epic contro i principali app store: il problema delle “schermate inquietanti” e delle difficoltà di installazione di app store di terze parti. A partire dalla prossima versione di Android e fino al 30 giugno 2032, Google modificherà il sistema operativo per consentire agli utenti di installare app store registrati dal proprio sito web con un solo clic, utilizzando un linguaggio neutro, e lo store riceverà automaticamente l’autorizzazione a installare app.

Molte delle altre vittorie di Epic restano valide. Google deve smettere di condividere denaro o privilegi con produttori di telefoni, operatori e sviluppatori di app in cambio di esclusività o preinstallazione su Google Play. Gli sviluppatori possono anche rivelare i prezzi ai propri clienti al di fuori del Play Store.

Google ed Epic discuteranno questa proposta con un giudice giovedì 6 novembre. Se l’accordo verrà approvato e le commissioni saranno effettivamente significativamente più basse, ciò potrebbe creare un effetto a catena in tutto il settore e costringere Apple, Sony, Microsoft, Nintendo e Valve a riconsiderare le proprie politiche.

L'articolo Epic contro Google: accordo storico per gli sviluppatori di app proviene da Red Hot Cyber.



Nella mente dell’hacker


I dilettanti hackerano i computer, i professionisti hackerano le persone. Questa efficace e famosa sintesi di cosa significhi l’hacking, Bruce Schneier la argomenta con un raffinato ragionamento nel suo ultimo libro: La mente dell’hacker. Trovare la falla per migliorare il sistemapubblicato nel 2024 in italiano da Luiss University Press.

Il titolo dice già molto. Intanto l’hacker non è più il mostro della peggiore pubblicistica degli ultimi anni, ma una figura che va letta in chiaroscuro rispetto all’evoluzione dei sistemi umani.

In aggiunta, l’hacking, l’esplorazione delle possibilità all’interno di un sistema dato, termine in origine legato al mondo dell’informatica, secondo Schneier è diventato una pratica onnipresente nei sistemi economici, finanziari e sociali. Approccio metodico alla ricerca delle vulnerabilità strutturali che definiscono il nostro mondo, l’hacking dimostra come ogni sistema, dalle leggi fiscali alle intelligenze artificiali, può essere manipolato e sfruttato. Dall’hacking del sistema fiscale per pagare meno tasse, vedi Google & Co. fino al jackpotting, al ransomware e agli attacchi cibernetici tra gli Stati. Per l’autore ogni hack può essere letto come strumento chiave nella gestione del potere e del denaro nei suoi molteplici aspetti.

Un hack è infatti «un’attività consentita da un sistema, che sovverte però gli scopi o gli intenti del sistema stesso». E cos’altro è un sistema se non «un processo complesso, determinato da una serie di regole o norme, pensato per produrre un o più esisti desiderati»? Quindi l’hacking è esattamente questo: individuare la vulnerabilità di un sistema e trovare l’exploit per sfruttarla. In definitiva vale per ogni sistema, quelli informatici, quelli sociotecnici, quelli cognitivi. Lo scopo dell’hacking è di ottenere un vantaggio. Ma le contromisure sono sempre possibili. E questo vale anche per la democrazia, che può difendersi dagli usi imprevisti della libertà che consente, e vale anche per l’Intelligenza Artificiale: hackerandola capiamo meglio come possa essere messa al servizio delle persone e non della guerra e del profitto. Poiché libertà e democrazia riposano oggi su sistemi informatici, gli hacker possono ancora fregiarsi del titolo di «eroi della rivoluzione informatica» come li chiamava Stephen Levy già nel 1996.


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Ho sognato una rete intergalattica


Internet non è il Web, e il Web non è Internet. Internet non nasce come strumento militare, e i militari non hanno mai controllato l’intera Internet. Mettetevelo in testa.

Oggi, a 56 anni dalla nascita di Internet ce lo ricorda un libro, a firma di chi la Rete l’ha pensata e progettata, e cioè J.C.R. Licklider, un secchione, psicologo, esperto di psicoacustica, che in questo modo ha influenzato per sempre comunicazione e società. Il libro si chiama «Ho sognato una rete intergalattica. Scritti su Internet prima di Internet» e, con la prefazione del professore Luigi Laura, ed è stato pubblicato nel luglio del 2025 dalla Luiss University Press di Roma.

Licklider progettò Internet, l’Intergalactic computer network,come lo chiamava lui, nella forma che poi assunse, quando dirigeva l’IPTO, l’ufficio competente dell’Advanced Research Project Agency, ARPA, e il suo avvio viene fatto coincidere con il primo scambio di saluti attraverso quella che era chiamata inizialmente Arpanet, cioè la rete dell’Arpa.

Era il 29 ottobre 1969.

Il Web venne trent’anni dopo. Fu progettato nel 1989, chiamato World Wide Web nel 1990 e solo nel 1991 comparve il primo sito Web. Tutto merito di uno scienziato inglese di stanza al CERN di Ginevra, sir Tim Berners Lee, affascinato del modo in cui gli italiani si scambiavano informazioni piene di dettagli e racconti basati su continue digressioni e collegamenti.

Arpanet nel 1969 collegava 4 nodi e si chiamerà Internet solo dopo due eventi: il fork tra Arpanet e Milnet, e la creazione del protocollo TCP/IP.
Fu proprio uno dei due scienzati che ne scrissero il protocollo principale a dargli il nome Internet, con la maiuscola. Si chiamava Robert “Bob” Khan, che ci lavorò per dieci anni insieme a Vinton Cerf. Il protocollo TCP/IP (in realtà una famiglia di protocolli), era pensato per consentire a “computer diversi appartenenti a reti eterogenee”, di comunicare fra di loro. E attualizzava proprio l’idea di quel geniaccio di Robbnett Licklider: consentire alle persone di collaborare a distanza.

Il resto è una storia bella da conoscere.


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Nei giorni 8 e 9 novembre la diocesi di Acerra e l’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Conferenza episcopale italiana organizzano ad Acerra due giorni di riflessione e preghiera sulla valorizzazione e la giusta distribuzione de…


La Radio Vaticana lancia il podcast "Guerra musica e poesia". Ideato e realizzato dal maestro Marcello Filotei, della redazione "Musicali", il podcast riflette sul rapporto tra arte e conflitti.


“Questo Bilancio di Comunione testimonia una piattaforma di opere molto varie che collega persone e istituzioni, animate da un unico desiderio: essere prossimi di ogni fratello e sorella che ci sfiora, offrendo loro la possibilità di una vita degna e…


“Desidero esprimere la mia vicinanza a codesta comunità ecclesiale, ai suoi confratelli dell’Ordine dei Predicatori, ai sacerdoti, ai religiosi e ai fedeli che hanno trovato in lui un pastore forgiato nella fede e intrepido annunciatore del Vangelo”.


Su Tv2000 gli appuntamenti principali di Papa Leone XIV del weekend. Sabato 8 novembre alle ore 10 in Piazza San Pietro l’Udienza giubilare ai fedeli e ai partecipanti al Giubileo del mondo del lavoro in diretta streaming su Play2000, e in seconda se…


“Giovani e dipendenze”: è il seminario di studio promosso dal Servizio nazionale per la pastorale giovanile (Snpg), che si terrà a Roma il prossimo 3 dicembre (ore 10-14, Th Carpegna Palace Hotel, via Aurelia 481).



A pochi mesi dalla canonizzazione di San Carlo Acutis, la basilica inferiore di Santa Rita da Cascia ospita la prima mostra interamente dedicata al suo straordinario progetto di evangelizzazione digitale: “Sentieri eucaristici.


“In un Capitolo le illuminazioni più importanti si colgono in ginocchio”. Lo ha detto Leone XIV ricevendo questa mattina, nel Palazzo Apostolico Vaticano, le partecipanti ai Capitoli generali delle Religiose di Gesù-Maria e delle Suore Missionarie di…


È stata inaugurata oggi a Parma, nei locali della Caritas in Borgo San Giuseppe 15, la Lavanderia di San Francesco d’Assisi, nuova struttura al servizio delle persone senza dimora. Alla cerimonia ha partecipato il card.


LIBRI. Da Beirut a Gerusalemme. La memoria che resiste tra le macerie


@Notizie dall'Italia e dal mondo
La testimonianza della chirurga di Singapore che visse il massacro di Sabra e Shatila e trasformò l’orrore della guerra in un impegno di verità e solidarietà con il popolo palestinese.
L'articolo LIBRI. Da Beirut a Gerusalemme. La memoria che resiste tra le macerie



Discorso del Santo Padre Leone XIV al Collegio degli scrittori de «La Civiltà Cattolica»


Udienza di papa Leone XIV a La Civiltà Cattolica, 25 settembre 2025 (© Vatican Media)
Giovedì 25 settembre 2025 papa Leone XIV ha ricevuto in udienza, nella biblioteca privata del Palazzo Apostolico, p. Arturo Sosa S.I., Preposito generale della Compagnia di Gesù, e p. Nuno da Silva Gonçalves S.I., direttore de «La Civiltà Cattolica». Dopo questo colloquio, presso l’Aula del Concistoro, il Pontefice ha incontrato il Collegio degli scrittori insieme agli altri padri della comunità dei gesuiti, alla comunità delle suore del Cenacolo Cuore Addolorato Immacolato di Maria e ai collaboratori della rivista e della comunità. Per l’occasione, il Collegio degli scrittori ha voluto donare al Santo Padre «una raccolta di scritti su Sant’Agostino» apparsi negli ultimi settant’anni sulla rivista.

Ringraziamo papa Leone XIV per l’opportunità di incontrarlo, di ascoltare i suoi orientamenti e di ricevere la sua benedizione e pubblichiamo di seguito il suo discorso.

Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. La pace sia con voi! Buongiorno e grazie per la pazienza!

A pochi mesi dall’inizio del Pontificato, sono contento di accogliere voi, membri del Collegio degli scrittori e collaboratori della rivista «La Civiltà Cattolica». Saluto il Preposito Generale, che gentilmente ci accompagna in questa udienza.

Questo incontro si svolge nel 175° anniversario della fondazione de «La Civiltà Cattolica». Colgo dunque l’occasione per ringraziare tutti voi per il servizio così fedele e generoso che per tanti anni avete prestato alla Sede Apostolica. Il vostro lavoro ha contribuito – e continua a farlo – a rendere la Chiesa presente nel mondo della cultura, in sintonia con gli insegnamenti del Papa e con gli orientamenti della Santa Sede.

Qualcuno ha definito la vostra rivista «una finestra sul mondo», apprezzandone l’apertura, e davvero una sua caratteristica è quella di sapersi accostare all’attualità senza temere di affrontarne le sfide e le contraddizioni.

Potremmo individuare tre aree significative del vostro operato su cui soffermarci: educare le persone a un impegno intelligente e fattivo nel mondo, farsi voce degli ultimi, essere annunciatori di speranza.

Podcast | IL PREZZO DELLA DISUGUAGLIANZA


Papa Leone XIV ha lanciato un monito sulla crescente disuguaglianza economica globale. Ma quali sono le ragioni di questo fenomeno e quali i rischi? Lo abbiamo chiesto a due economisti che hanno curato la voce “disuguaglianza” nel Dizionario della Dottrina sociale della Chiesa: Andrea Boitani e Lorenzo Cappellari.

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Circa il primo aspetto, ciò che scrivete può aiutare i vostri lettori a comprendere meglio la società complessa in cui viviamo, valutandone potenzialità e debolezze, nella ricerca di quei «segni dei tempi» alla cui attenzione ci ha richiamato il Concilio Vaticano II (cfr Cost. past. Gaudium et spes, 4). E ciò li metterà in grado di dare apporti validi, anche a livello politico, su temi fondamentali come l’equità sociale, la famiglia, l’istruzione, le nuove sfide tecnologiche, la pace. Con i vostri articoli, voi potete offrire a chi legge strumenti ermeneutici e criteri d’azione utili perché ognuno possa contribuire alla costruzione di un mondo più giusto e fraterno, nella verità e nella libertà. Come diceva san Giovanni Paolo II, il «ruolo della Chiesa, che voi siete chiamati ad amplificare e diffondere, è quello di proclamare il vangelo della carità e della pace, promuovendo la giustizia, lo spirito di fraternità e la consapevolezza del destino comune degli uomini, premesse indispensabili per la costruzione dell’autentica pace tra i popoli» (Discorso alla comunità della rivista «La Civiltà Cattolica», 22 aprile 1999, 4).

Questo ci porta al secondo punto: farsi voce dei più poveri e degli esclusi. Papa Francesco ha scritto che, nell’annuncio del Vangelo, «c’è un segno che non deve mai mancare: l’opzione per gli ultimi, per quelli che la società scarta e getta via» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, 195). Farsi voce dei piccoli è dunque un aspetto fondamentale della vita e della missione di ogni cristiano. Esso richiede prima di tutto una grande e umile capacità di ascoltare, di stare vicino a chi soffre, per riconoscere nel suo grido silenzioso quello del Crocifisso che dice: «Ho sete» (Gv 19,28). Solo così è possibile farsi eco fedele e profetica della voce di chi è nel bisogno, spezzando ogni cerchio di isolamento, di solitudine e di sordità.

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E veniamo al terzo punto: essere messaggeri di speranza. Si tratta di opporsi all’indifferentismo di chi rimane insensibile agli altri e al loro legittimo bisogno di futuro, come pure di vincere la delusione di chi non crede più nella possibilità di intraprendere nuove vie, ma soprattutto di ricordare e annunciare che per noi la speranza ultima è Cristo, nostra via (cfr Gv 14,6). In Lui e con Lui, sul nostro cammino non ci sono più vicoli ciechi, né realtà che, per quanto dure e complicate, possano fermarci e impedirci di amare con fiducia Dio e i fratelli. Come ha scritto Benedetto XVI, al di là di successi e fallimenti, io so che «la mia vita personale e la storia nel suo insieme sono custodite nel potere indistruttibile dell’Amore» (Lett. enc. Spe salvi, 35), e perciò trovo ancora e sempre il coraggio di operare e di proseguire (cfr ivi). È un messaggio importante questo, specialmente in un mondo sempre più ripiegato su sé stesso.

Carissimi, concludendo vorrei ancora ricordare le parole che papa Francesco vi ha indirizzato, poco prima di lasciarci, in occasione dell’inizio ufficiale del vostro «giubileo di fondazione»: «Vi incoraggio – scriveva – a proseguire nel vostro lavoro con gioia, mediante il buon giornalismo, che non aderisce ad altro schieramento se non a quello del Vangelo, ascoltando tutte le voci e incarnando quella docile mitezza che fa bene al cuore» (Messaggio al direttore de «La Civiltà Cattolica» nel 175° di pubblicazione, 17 marzo 2025: L’Osservatore Romano, 2 aprile 2025, p. 5).

E in un’altra occasione disse, riferendosi al nome del vostro periodico: «Una rivista è davvero “cattolica” solo se possiede lo sguardo di Cristo sul mondo, e se lo trasmette e lo testimonia» (Discorso alla comunità de «La Civiltà Cattolica», 9 febbraio 2017). Ecco la vostra missione: cogliere lo sguardo di Cristo sul mondo, coltivarlo, comunicarlo, testimoniarlo.

Condividendo appieno le parole del mio compianto Predecessore, di nuovo vi ringrazio, vi assicuro il mio ricordo nella preghiera e vi benedico di cuore. Grazie!

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Riproduzione riservata
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L’impegno di promuovere la pace e la giustizia


Guerra e Pace, Picasso. Musée National Picasso, Vallauris (dbrnjhrj/Adobe Stock).
Dall’inizio del suo pontificato, papa Leone XIV ha manifestato grande attenzione alla drammatica situazione internazionale e all’inasprirsi dei conflitti, e non si è risparmiato in costanti e accorati appelli alla pace. Quasi volendo approfondire tali appelli, nell’agosto scorso ha incoraggiato i laici cattolici a santificare il mondo della politica e a lavorare per la pace, sottolineando che essa richiede una conversione basata sulla giustizia e sulla verità. Lo ha fatto in due discorsi: il primo, pronunciato il 23 agosto, ricevendo l’International Catholic Legislators Network, e il secondo, il 28 agosto, rivolgendosi ai fedeli impegnati in politica della diocesi di Créteil, in Francia.

In questi interventi, per riferirsi alle sfide dell’impegno politico, il Papa ha fatto ricorso ai concetti presenti nell’opera La Città di Dio, di sant’Agostino d’Ippona. Così ha posto il cuore umano al centro della vita sociale e pubblica e ha invitato i cristiani e tutti gli uomini di buona volontà a farsi promotori di pace e di giustizia, alla luce del pensiero agostiniano. Inoltre, ha offerto una lezione magistrale sulla Dottrina sociale della Chiesa, in feconda continuità con il suo omonimo e predecessore, Leone XIII.

«Il futuro della prosperità umana – ha affermato Leone XIV nel discorso del 23 agosto – dipende da quale “amore” scegliamo per organizzarvi intorno la nostra società: un amore egoistico, l’amore di sé, o l’amore di Dio e del prossimo». Infatti, il Papa aveva iniziato questo discorso riguardante la politica e l’arte del governo con un tema inaspettato: i desideri del cuore umano. Un punto di partenza senz’altro necessario per sondare le realtà spirituali che sostengono il mondo, perché le più ampie dimensioni politiche sono fondate sui moti più intimi della persona. Questo insegnamento è tra le intuizioni guida di sant’Agostino, ossia la distinzione di «due orientamenti del cuore umano» verso due amori differenti: l’amore di sé fino al disprezzo di Dio e l’amore di Dio (e del prossimo) fino al disprezzo di sé. I due amori si ripercuotono sulla società, perché corrispondono a due «città» o realtà spirituali che trascendono ogni singolo individuo. Vi è dunque un nesso intrinseco tra individuo e comunità, tra l’etico e il politico, tra lo spirituale e il sociale.

Di conseguenza, la fede ha anche una dimensione pubblica. Come ha affermato il Papa rivolgendosi ai pellegrini francesi il 28 agosto, «il cristianesimo non si può ridurre a una semplice devozione privata, perché comporta un modo di vivere in società improntato all’amore di Dio e del prossimo che, in Cristo, non è più un nemico ma un fratello». La questione della «prosperità umana» non può quindi mai essere accantonata: non solo il Vangelo ha necessariamente conseguenze pubbliche, ma il semplice tentativo di metterlo da parte implica una svolta spirituale verso la città terrena, che oscura, se non occulta, le verità più profonde sulla persona umana. Questa, in breve, è l’intuizione delle «due città» di sant’Agostino. E in tale prospettiva, osserva il Pontefice, il compito della Chiesa torna a delinearsi con chiarezza: fungere da «ponte». I cristiani, riconoscendo le due realtà presenti nel mondo, hanno un ruolo speciale nel dar voce ai desideri più profondi della persona umana: guarigione, riconciliazione e, in definitiva, pace; in sostanza, un desiderio che è amore e non si appaga in nulla di meno.

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I cristiani, tuttavia, possono rendere possibile questo servizio – ha precisato Leone XIV ai pellegrini francesi – solo a condizione di unirsi sempre più a Gesù e di testimoniarlo. Di conseguenza, «in un personaggio pubblico, non c’è da una parte l’uomo politico e dall’altra il cristiano. Ma c’è l’uomo politico che, sotto lo sguardo di Dio e della sua coscienza, vive cristianamente i propri impegni e le proprie responsabilità!». Come i grandi conflitti geopolitici trovano in ultima analisi la loro origine nei desideri del cuore, così la conversione che prepara i cristiani a contribuire alla pace e alla giustizia dentro quell’ordine di amori deve toccare anche la loro interiorità spirituale più profonda.

Nel presentare questo invito a partecipare alla missione di Cristo, Leone XIV apre vasti orizzonti sulla Dottrina sociale della Chiesa e sul pensiero di sant’Agostino. Soprattutto, egli collega strettamente la nozione di sviluppo umano integrale con la tradizione della Dottrina sociale cattolica. Radicando questo tema, così caro a san Paolo VI, nell’ordine dei due amori e delle due città e in riferimento alla felicità eterna ottenibile solo in Cristo, il Papa ricorda alla Chiesa che lo sviluppo umano integrale rimanda in definitiva al Vangelo. Egli riecheggia così papa Benedetto XVI, che nell’enciclica Caritas in veritate scriveva: «Non ci sono due tipologie di dottrina sociale, una preconciliare e una postconciliare, diverse tra loro, ma un unico insegnamento, coerente e nello stesso tempo sempre nuovo» (n. 12).

In effetti, con l’aiuto di sant’Agostino, papa Leone XIV collega i desideri del mondo con la missione più profonda della Chiesa. Quella dello sviluppo umano integrale è tutt’altro che una battaglia di retroguardia che la Chiesa combatte per opporsi alle metriche economiche e sociali contemporanee o correggerle, ma esprime e dà risposta alla profonda «fame del Pane del cielo» che muove i cristiani a offrire al mondo «sia il pane materiale sia il pane della Parola», come attestato nel Messaggio pontificio del 4 agosto ai partecipanti alla Settimana sociale in Perù.

Nei suoi interventi, Leone XIV propone il pensiero di sant’Agostino come un tesoro di grande valore per la Chiesa. La dottrina delle «due città» è una delle sue intuizioni più profonde, ma rischia di andare perduta tra i molti altri modelli politici odierni. Il Papa ci aiuta pertanto a rieducare la nostra immaginazione a una politica della speranza – una formazione di cui abbiamo grande bisogno – e ci sollecita a continuare a coltivare il desiderio di quella speranza in una vita abbondante.

Si può aggiungere che egli propone un sant’Agostino accessibile a tutti e che lo fa in modo comprensibile, non solo per la chiarezza e vivacità del suo stile, ma soprattutto per la sua limpida consapevolezza della saggezza che il vescovo di Ippona offre al mondo di oggi e di ogni tempo. Leone XIV percepisce che la «risposta» della Chiesa al mondo deve essere nuovamente collegata al cuore stesso della domanda a cui intende rispondere. E pochi santi, al momento di riformulare tale domanda, possiedono una sapienza migliore di colui che la Chiesa ha definito «il Dottore della Grazia».

Podcast | IL PREZZO DELLA DISUGUAGLIANZA


Papa Leone XIV ha lanciato un monito sulla crescente disuguaglianza economica globale. Ma quali sono le ragioni di questo fenomeno e quali i rischi? Lo abbiamo chiesto a due economisti che hanno curato la voce “disuguaglianza” nel Dizionario della Dottrina sociale della Chiesa: Andrea Boitani e Lorenzo Cappellari.

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Nei discorsi del Papa che abbiamo voluto ricordare si colgono anche le profonde risonanze del presente pontificato con quello di Leone XIII. In particolare, è la ricerca della natura dell’ordine sociale a caratterizzare la sapienza sulle questioni sociali. Come Leone XIII si impegnò a collocare le «tre società necessarie» – famiglia, comunità politica e Chiesa – all’interno della provvidenza divina, anche di fronte al crollo definitivo della cristianità, così l’attuale Pontefice contestualizza la persona e la famiglia, la famiglia delle nazioni e la Chiesa entro le realtà spirituali delle «due città», che costituiscono un riferimento fondamentale per tutte le altre questioni sociali.

Per entrambi i Leone, la dottrina sociale presuppone l’armonia tra fede e ragione: un’armonia che però va proposta nuovamente a ogni generazione. Nel discorso del 28 agosto, Leone XIV ha esortato i cristiani a rafforzarsi nella fede, «ad approfondire la dottrina – in particolare la dottrina sociale – che Gesù ha insegnato al mondo», la quale, ha precisato, è «sostanzialmente in sintonia con la natura umana, la legge naturale che tutti possono riconoscere, anche i non cristiani, persino i non credenti». Questa sintonia significa che i cristiani non devono «temere di proporla e di difenderla con convinzione: è una dottrina di salvezza che mira al bene di ogni essere umano, all’edificazione di società pacifiche, armoniose, prospere e riconciliate», come ha spiegato il Papa alla delegazione francese. Il dialogo tra fede e ragione fonda infatti il dialogo tra cristiani e tutti gli uomini di buona volontà.

In entrambi i discorsi dell’agosto scorso emerge inoltre la fiducia che Dio abbia affidato in custodia alla Chiesa un prezioso tesoro di sapienza da condividere con il mondo. Leone XIII era animato dalla stessa convinzione: inaugurando quella che appare come una novità – la Dottrina sociale cattolica –, egli in realtà riportava alla luce qualcosa di molto antico.

Infine, nella presentazione della Dottrina o pensiero sociale della Chiesa da parte del Pontefice si avvertono un meraviglioso equilibrio e una pienezza che completano la sintesi tomista di Leone XIII: felicità terrena e celeste; ragione (la legge naturale) e Vangelo; Chiesa che ascolta e Chiesa che insegna; unità dei cristiani in Cristo e testimonianza di pace nei legami fraterni tra le religioni; peccato e grazia, anche nel pensiero di sant’Agostino; azione e contemplazione; pace come dono di Dio e attività umana; desiderio umano e suo compimento ultimo, che corrisponde alla complementarità, nell’insegnamento di Leone XIII, tra l’esperienza «soggettiva» e la natura «oggettiva» della persona umana, e tra la persona e la comunità. Così la ricerca moderna di integrità del cuore, dell’anima e dello spirito trova il suo completamento nella pienezza dei molti doni che la Chiesa desidera condividere con il mondo, in qualità di amministratrice e non di proprietaria.

La Civiltà Cattolica

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Israele, Gaza e il piano di pace


Particolare del muro tra Israele e Palestina. (Levi Meir Clancy/ Unsplash).
Con l’accettazione, da parte di Israele e di Hamas, del piano di pace proposto dal presidente Trump e con l’entrata in vigore di un cessate il fuoco, la liberazione degli ostaggi e la scarcerazione di quasi 2.000 carcerati palestinesi, nonché il parziale arretramento dell’esercito israeliano, la guerra a Gaza sperimenta una tregua, nonostante le questioni da affrontare siano ancora tante e gli steps da superare molteplici.

Prima della tregua, però, è stata condotta una dura campagna militare: una città con quasi un milione di abitanti, Gaza City, è stata rasa al suolo dall’esercito israeliano e i suoi abitanti sono stati costretti ad abbandonarla. In questo articolo tratteremo della lenta agonia di Gaza, del piano di pace e delle molte questioni ancora da affrontare.

Operazione a passo lento


L’invasione di Gaza City da parte di Israele era iniziata la notte del 15 settembre. Sotto la copertura di attacchi aerei e fuoco di artiglieria – 20 raid aerei in meno di 40 minuti[1] –, due divisioni erano entrate nella parte interna della città: la 98a, detta «Divisione di fuoco», formata da paracadutisti e incursori, specialisti degli scontri urbani, e la 162a, detta «Divisione di acciaio», munita di tank e mezzi blindati[2].

L’obiettivo principale dell’attacco – spiegava il ministro della Difesa israeliano Katz – era eliminare l’unica brigata superstite di Hamas, con la convinzione di azzerarla definitivamente e ottenere la liberazione degli ostaggi: «Vogliamo prendere il controllo di Gaza City perché oggi è il simbolo principale della capacità di governare di Hamas. Se cadrà, anche loro cadranno»[3]. Si pensava che i miliziani asserragliati nella città fossero al massimo 2.500. Essi contavano sulla conoscenza del territorio e su una rete di cunicoli ancora intatti.

Si parlava di un’operazione «a passo lento», e ciò per due motivi principali[4]. Il primo era che la priorità, come ha detto il generale Eran Ortal, erano gli ostaggi; quindi muoversi lentamente dava maggiore possibilità di evitare errori. Il secondo motivo era la messa in sicurezza delle forze militari. In altre fasi della guerra di Gaza l’esercito aveva voluto procedere velocemente, ma questa volta la «lentezza» era necessaria, perché non si voleva soltanto occupare la città, ma anche sgomberarla completamente della presenza di Hamas. Ciò non era semplice e necessitava di strategie di attacco organizzate sul terreno.

Anche il generale Eyal Zamir, capo dell’operazione, nel gabinetto di sicurezza israeliano ha parlato di un’«invasione graduale». Si pensava che la maggior parte dei civili avrebbe deciso di lasciare la città solo all’ultimo momento, il che ha obbligato l’esercito a pianificare attentamente il dispiegamento delle truppe sul territorio. Questo piano è stato criticato dall’ala più dura degli strateghi militari[5]. Nei giorni precedenti, una parte dei civili – tra i 200.000 e i 350.000 –, seguendo le indicazioni fornite dall’esercito, avevano abbandonato la città e si erano spostati con i loro beni a Deir al-Balah, a 15 km di distanza da Gaza City, o nella zona umanitaria di al-Mawasi, sperando di trovare in quei luoghi maggiore sicurezza. La maggioranza però era rimasta, anche perché non aveva la disponibilità economica per noleggiare un minivan e trasportarvi i beni o comprare una tenda, il cui valore negli ultimi tempi era salito di 20 volte.

Nelle settimane successive, sotto la spinta delle autorità militari israeliane, che nel frattempo avevano circondato la città, ridotta a un cumulo di macerie, la popolazione aveva abbandonato Gaza City e si era rifugiata nelle zone umanitarie del sud della Striscia. Sembra che soltanto alcune decine di migliaia di vecchi e malati fossero rimasti in città.

L’attacco di Israele a Doha


Quando l’esercito, 22 mesi fa, attaccò Gaza City, gli israeliani erano unanimi nel sostenere l’azione. Hamas era appena uscito da Gaza massacrando oltre 1.200 persone e prendendo 250 ostaggi. L’opinione pubblica era concorde nel ritenere che il gruppo dovesse essere annientato. Dopo, però, questo sostegno è andato calando. I capi di Hamas sono stati eliminati e l’organizzazione è stata fortemente ridotta. I sondaggi indicavano che il 70% degli israeliani era favorevole a un cessate il fuoco che consentisse di porre fine alla guerra e di rilasciare gli ostaggi. Soluzione che Netanyahu non prendeva in considerazione, sia per motivi politici – ingraziarsi la destra religiosa –, sia per interessi personali, al punto da far bombardare sui negoziati per un cessate il fuoco che si tenevano a Doha, in Qatar, attirandosi le critiche dell’intera comunità internazionale.

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L’episodio è avvenuto il 9 settembre 2025, quando l’aviazione israeliana ha bombardato, con 10 jet da combattimento, una palazzina di tre piani nel quartiere Katara, a Doha, zona di ambasciate e di expat[6]. Era la prima volta che Israele colpiva una capitale del Golfo e attaccava un Paese non nemico, nel quale si trovava una base militare statunitense. Sebbene il piccolo emirato del Golfo avesse a lungo ospitato i leader di Hamas, era uno stretto alleato americano, ed era stato anche la sede principale dei colloqui per un cessate il fuoco tra Israele e Hamas. Attaccarlo era quindi un passo eccessivamente azzardato e poco diplomatico[7]. Eppure è stato fatto. Le bombe hanno ucciso sei persone, ma non hanno colpito i leader di Hamas (tra cui Khalil al-Hayya, capo del team negoziale, e Khaled Meshal, ex capo del gruppo) radunati in quel luogo, ma che in quel momento si trovavano in un altro ambiente.

I negoziatori si erano riuniti per discutere una nuova proposta di cessate il fuoco avanzata dall’amministrazione statunitense qualche giorno prima. L’accordo sarebbe stato favorevole per Israele. Richiedeva ad Hamas il rilascio immediato dei 48 ostaggi israeliani, vivi e morti. Il cessate il fuoco, di carattere temporaneo, non avrebbe posto fine alla guerra; quindi si richiedeva a Israele di sottoscrivere un cessate il fuoco non definitivo[8]. Ma queste condizioni non soddisfacevano Netanyahu, il quale dopo l’attentato terroristico a Gerusalemme di qualche giorno prima ha mandato in aria le trattative sul cessate il fuoco e ha sferrato un attacco missilistico al tavolo negoziale di Doha. Un atto che è stato duramente condannato da tutte le capitali arabe, e non soltanto. Il sovrano del Qatar ha denunciato l’aperta violazione del diritto internazionale e della sovranità del suo Paese e ha dichiarato la cessazione dei colloqui negoziali. Secondo Trump, l’operazione era stata compiuta a sua insaputa e gli era stata comunicata mentre era già in atto. Molti dubitano di ciò; alcune fonti segnalano che il Presidente era stato avvertito circa un’ora prima e che avrebbe potuto bloccare l’operazione: cosa che non ha fatto, nella speranza che essa potesse avere un esito positivo.

Nell’amministrazione israeliana, non tutti condividevano la decisione di Netanyahu. Questi avrebbe preferito che l’operazione venisse svolta dal Mossad, il cui capo, David Barnea, si era però opposto a tale soluzione, lasciando che l’operazione venisse portata avanti dall’esercito, o meglio dall’aeronautica. Il discorso di Barnea a proposito di tale missione suonava così: «Grazie al Qatar siamo riusciti a negoziare due cessate-il-fuoco e la liberazione di 148 ostaggi, quasi tutti vivi, in cambio del rilascio di migliaia di prigionieri palestinesi; dove ci siamo mossi per vie militari, invece, abbiamo recuperato solo otto ostaggi vivi e 51 morti. Perché, allora, usare la forza e non continuare con i negoziati? Perché far saltare in aria il tavolo negoziale di Doha?»[9]. Ma Netanyahu pensava diversamente e ha prestato ascolto agli alleati della destra religiosa che spingevano per la guerra totale e per ricostituire le colonie di Gaza.

I vertici delle Forze di difesa israeliane (Idf) sembravano condividere l’opinione della popolazione israeliana, di cui si è detto, in merito al cessate il fuoco. Il generale Eyal Zamir aveva ripetutamente avvisato il governo che sferrare un colpo decisivo contro Hamas avrebbe potuto richiedere anni, se mai fosse stato possibile. Per questo egli era favorevole a un cessate il fuoco che liberasse gli ostaggi[10].

Hamas, che non aveva rispetto per la vita del suo popolo e che lo utilizzava come scudo umano contro i carri armati e l’artiglieria nemica, faceva pressione sulla popolazione perché non abbandonasse la città, mentre i suoi combattenti si erano dileguati: soltanto 3.000, secondo l’intelligence, erano rimasti in città a tenere imboscate; gli altri 20.000 erano fuggiti verso sud, vanificando in buona parte lo scopo dell’operazione israeliana.

L’unica grande potenza schierata dalla parte di Israele erano gli Stati Uniti, mentre la comunità internazionale, anche in sede Onu, aveva preso le distanze da Israele, in particolare per la sua politica in materia di distribuzione del cibo. Intanto, di fronte all’accusa di crimini di guerra compiuti da Israele, diversi Paesi avevano formalmente riconosciuto lo Stato di Palestina: innanzitutto, la Gran Bretagna il 21 settembre, come pure il Canada, l’Australia, il Portogallo. Il giorno dopo era toccato alla Francia, che presiedeva, insieme all’Arabia Saudita, la Conferenza Onu sul riconoscimento dei due Stati. «È arrivato il momento – aveva detto Macron – di fermare la guerra, il massacro. È arrivato il tempo della pace. Niente giustifica il conflitto in corso a Gaza. Niente»[11]. In totale, i Paesi che hanno riconosciuto la Palestina come Stato ora sono già 148, e nel tempo se ne aggiungeranno altri. Questa decisione aveva un carattere meramente formale e non cambiava nulla nei rapporti di forza tra i due Paesi, sebbene avesse un alto valore simbolico. Tanto che Netanyahu si era affrettato a replicare: «Non ci sarà alcuno Stato palestinese»; e aveva aggiunto, alla vigilia del suo intervento all’Onu: «Così si premiano i terroristi di Hamas»[12].

La distruzione di Gaza City


La distruzione di Gaza City, in realtà, era iniziata poco alla volta da mesi: i quartieri di Tuffah, Sabra, Zeitoun e Shujayea erano stati letteralmente rasi al suolo, come appariva evidente dalle foto scattate dall’alto. Poi era iniziato l’abbattimento delle torri, una dopo l’altra. Come mai erano state prese di mira le torri? Il motivo è semplice: per ragioni di sicurezza militare. Infatti, negli ultimi due anni esse erano state preparate da Hamas allo scontro con le milizie israeliane. Sembra che ciascuno di quegli edifici avesse telecamere per controllare il territorio, strutture per la comunicazione e centri operativi.

Vedendola dall’alto, nelle foto satellitari, Gaza City oggi ricorda le due città sorelle, Rafah e Khan Younis, distrutte in precedenza dall’esercito israeliano. A tale riguardo, alcuni analisti parlano dell’uccisione di un’intera città, come nei decenni passati era accaduto a Sarajevo, Mostar, ma anche ad Aleppo e Homs e a molte altre città. A Gaza «la devastazione è sistematica, studiata e voluta, non certo il prodotto di battaglie o danni collaterali»[13].

Lo Stato d’Israele ha reso la vita impossibile nella Striscia di Gaza, colpendo città dopo città, distruggendo palazzi residenziali, scuole, ospedali e altre infrastrutture e spingendo con la forza le popolazioni delle zone distrutte verso il sud, drammaticamente sovrappopolato e in condizioni umanitarie inaccettabili.

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Piano di pace per Gaza


La svolta sulla guerra a Gaza si è avuta lunedì 29 settembre, nell’incontro alla Casa Bianca fra Trump e Netanyahu, quando è stato discusso un nuovo piano per il cessate il fuoco in 20 punti, preparato dall’amministrazione statunitense. Inizialmente i punti erano 21, ma in seguito è stato eliminato il punto 18, che impegnava Israele a non attaccare più il Qatar. È stato cancellato anche perché lo stesso Netanyahu ha chiamato Doha per scusarsi, e perché Trump ha firmato un ordine esecutivo che impegnava gli Usa a garantire la sicurezza del Qatar. I princìpi del piano sono chiari, ma non i dettagli delle fasi successive al cessate il fuoco. «Questa proposta – è stato scritto – è una pietra miliare, perché stabilisce i parametri per una via di uscita dall’incubo e segna un cambiamento nelle posizioni di America e Israele e, forse, anche di Hamas»[14].

I punti fondamentali sono i seguenti[15]. Innanzitutto, il rilascio degli ostaggi (i 20 vivi e i resti dei 48 morti) entro 72 ore. Per contro, il rilascio, da parte di Israele, di 250 ergastolani e oltre 1.700 cittadini di Gaza arrestati dopo il 7 ottobre. Gli aiuti umanitari questa volta saranno gestiti da un’agenzia dell’Onu e dalla Mezzaluna Rossa. Gaza sarà governata da un comitato palestinese tecnico e apolitico, composto da personale qualificato, con la supervisione di un organismo internazionale, il Consiglio per la pace, presieduto da Trump.

Hamas nella nuova realtà non avrà alcun ruolo; verrà disarmato; tutte le sue infrastrutture militari terroristiche e offensive verranno distrutte, a iniziare dai tunnel, che verranno smilitarizzati sotto il controllo di osservatori internazionali. Stati Uniti e partner arabi e internazionali svilupperanno una «Forza di stabilizzazione internazionale», la Isf, temporanea e da dispiegare immediatamente a Gaza. Essa addestrerà e supporterà le forze di polizia palestinesi; avrà un ruolo di sicurezza interna. Nel documento viene anche stabilito che Israele non occuperà, né annetterà Gaza. Questo punto non verrà certamente accolto dalla destra religiosa israeliana, la quale sognava di costruire colonie a Gaza, ridando vita a quelle estromesse nel 2005.

Man mano che la Isf ripristinerà controllo e stabilità, l’esercito israeliano si ritirerà, con tappe e tempistiche da concordare. I guerriglieri di Hamas potranno ottenere l’amnistia o il permesso di andare in esilio. A lungo termine, la riabilitazione di Gaza e le riforme dell’Olp in Cisgiordania potrebbero portare alla creazione di uno Stato palestinese. Questo punto, accennato indirettamente nel piano, è stato molto contestato da Netanyahu, il quale insiste nell’affermare che non ci sarà mai uno Stato palestinese.

Il piano, ben organizzato e congegnato, ha avuto l’appoggio di otto Paesi musulmani – le principali potenze arabe e la Türkiye – ed è stato giudicato favorevolmente anche dalle cancellerie occidentali. Spinto da Trump, Netanyahu ha cambiato rotta e ha fatto sapere di appoggiare il piano di pace, che garantisce gli obiettivi di guerra originari di Israele: liberare gli ostaggi ed estromettere Hamas dal potere. Il piano è sostenuto da quasi i due terzi della popolazione israeliana; sul piano politico, anche se due ministri di Netanyahu lasciassero il governo, facendogli mancare la maggioranza, i partiti di opposizione si sono impegnati a sostenere l’esecutivo[16]. In ogni caso «il piano Trump offre la via d’uscita migliore dalla tragedia che si è consumata a Gaza. Il suo successo richiederebbe una forte e continua pressione da parte di Trump su Israele e da parte degli Stati arabi e della Türkiye su Hamas»[17].

Trump aveva dato 3-4 giorni di tempo per una risposta; in caso contrario, aveva detto che «sarebbe scoppiato l’inferno» e che gli Stati Uniti avrebbero appoggiato Israele nella sua guerra. Alla fine Hamas, venerdì 3 ottobre, ha dato il primo via libera al piano. L’organizzazione islamica ha accettato di liberare tutti gli ostaggi e si è dichiarata pronta a cedere il governo a un organismo palestinese indipendente. Ma al tempo stesso ha chiesto di trattare alcuni punti. Insomma, la risposta era un «sì, ma», sufficiente a disinnescare l’ultimatum di Trump, ma avanzando anche alcune importanti riserve. A cominciare da un calendario preciso per il ritiro dell’esercito israeliano dalla Striscia, dai termini del disarmo e dalle garanzie inequivocabili che la guerra non sarebbe stata ripresa[18]. Trump, dal canto suo, ha chiesto a Israele di fermare subito i bombardamenti a Gaza e di favorire la pace.

Sembra che Hamas abbia diviso il piano Trump in due parti. La prima, costituita da un cessate il fuoco, un accordo per il rilascio degli ostaggi e un’ondata di aiuti umanitari, il tutto entro pochi giorni dall’accordo. La seconda, quella più complicata e generica, costituita da una proposta su come ricostituire il governo a Gaza dopo la guerra[19]. E su questo punto Hamas non si fida della strategia israeliana. In particolare teme che, una volta rilasciati gli ostaggi, Israele possa riprendere la guerra, per un motivo o per un altro, anche perché l’esercito israeliano in un primo momento non abbandonerà i territori occupati.

Da lunedì 6 ottobre sono iniziate, a Sharm el-Sheikh, in Egitto, le trattative tra Israele e Hamas, con la presenza degli inviati degli Usa Steve Witkoff e Jared Kushner, genero di Trump. In poco più di tre giorni le delegazioni di Hamas e di Israele, pressate dai mediatori statunitensi, egiziani, turchi e qatarioti, hanno raggiunto un accordo, al quale hanno poi dato pronta esecuzione. Questa fase dell’accordo è stata indicata come «fase uno», alla quale poi succederanno le altre fasi ancora più impegnative.

Lunedì 13 ottobre Hamas ha rilasciato i 20 ostaggi vivi, in discrete condizioni. Le salme dei 28 morti verranno consegnate in tempi più lunghi, a causa della difficoltà di reperirle tra le macerie ed effettuare il riconoscimento. Quello stesso giorno Trump si è recato per una visita lampo in Israele, dove ha parlato davanti al Parlamento. Nel pomeriggio ha partecipato al vertice di Sharm el Sheikh, nel quale erano presenti più di 20 Stati, la maggior parte arabi, ma anche occidentali. L’ordine del giorno era ambizioso: firmare la pace e mettere fine alla guerra e aprire una nuova pagina di sicurezza e stabilità nella regione.

Il ritiro dell’esercito israeliano dietro la linea gialla indicata nel piano è iniziato subito dopo l’accordo. Israele si è ritirato dai maggiori centri di Gaza, a eccezione di Rafah, conservando il 53% del controllo del territorio. È previsto che con la «fase due» arretrerà ulteriormente. In teoria, questa prima fase del piano di Trump è la più semplice. La seconda implicherà il disarmo e la smilitarizzazione di Hamas; allora entrerà in funzione la cosiddetta «forza internazionale di stabilizzazione». La seconda fase presenta non pochi problemi. I miliziani, anche se sono pronti ad abbandonare gli armamenti pesanti, probabilmente nascosti nei tunnel, non sono affatto disposti ad abbandonare quelli leggeri, necessari per difendersi dai non pochi nemici interni. Essi sarebbero disponibili a consegnare le armi all’autorità palestinese che gestirà la Striscia, quando questa si sarà costituita. I suoi capi, inoltre, non sembrano voler abbandonare il campo e andare in esilio, come prevede il piano. Il primo ministro israeliano fa capire che, se tutte le condizioni non saranno rispettate, è pronto «a far ripartire l’artiglieria», nonostante le garanzie che Stati Uniti e Qatar hanno dato ad Hamas. «Hamassarà disarmata e Gaza demilitarizzata – ha minacciato Netanyahu – se non nel modo morbido, allora nel modo duro»[20].

La «fase tre» prevede l’istituzione di un’autorità di transizione per governare Gaza e il dispiegamento di una forza multinazionale di peacekeeping per garantire la sicurezza nel territorio. Trump presiederebbe un Consiglio di pace per supervisionare tutto questo. L’esercito, pur rimanendo nella Striscia, si ritirerebbe in una zona cuscinetto alla periferia di Gaza. Alla fine, se tutto procederà secondo i piani, israeliani e palestinesi riprenderanno i colloqui sulla creazione di uno Stato palestinese[21]. Questo punto è fortemente osteggiato da Netanyahu e dai suoi ministri.

L’ostilità verso questo programma è dimostrata dal fatto che nella lista dei palestinesi da scarcerare non è comparso il nome di Marwan Barghouti, personaggio carismatico del partito Fatah, arrestato nel 2002 e condannato a cinque ergastoli, in quanto ritenuto mandante degli attacchi suicidi delle Brigate dei martiri di al-Aqsā, durante la seconda intifada. Non sono stati inclusi neppure i nomi di altri leader – ad esempio, Ahmad Sadat – molto popolari tra i palestinesi. Barghouti, detto il «Mandela palestinese», incarnerebbe una leadership capace di negoziare un accordo politico con un largo consenso popolare. Netanyahu preferisce trattare con Hamas, screditato dalla violenza, e molto meno con Mahmoud Abbas, conosciuto anche come Abu Mazen. È il modo migliore per bloccare qualsiasi velleità di una soluzione a due Stati[22]. Nel piano di pace, inoltre, non si fa riferimento alla Cisgiordania e alle colonie, compreso il piano E1, che taglia in due il territorio palestinese e che è stato approvato dal governo israeliano. Anche in questo caso, l’obiettivo dello Stato d’Israele è bloccare la nascita di uno Stato palestinese.

Nella speranza che il piano regga, una parte della popolazione di Gaza si è rimessa in marcia verso il nord, per ritornare alle macerie che aveva lasciato. In ogni caso, per essa il cessate il fuoco e l’ingresso dei camion con gli aiuti umanitari è un segno concreto di rinascita.

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[1] Cfr F. Battistini, «Gaza, parte l’invasione. Attacco finale sulla città», in Corriere della Sera, 16 settembre 2025.

[2] Cfr G. Di Feo, «Fuoco, acciaio e ira. In strada come a Stalingrado per stanare l’ultima brigata», in la Repubblica, 17 settembre 2025.

[3] Ivi.

[4] Cfr G. Privitera, «Quanto potrà durare l’“assalto lento”. Cosa sono i robot-bomba e quali sono gli obiettivi», in Corriere della Sera, 18 settembre 2025.

[5] Cfr F. Battistini, «Gaza, parte l’invasione…», cit.

[6] Cfr G. Colarusso, «Israele bombarda in Qatar i negoziati di Hamas. Doha: “Terrorismo di Stato”», in la Repubblica, 10 settembre 2025.

[7] Cfr «Israel’s Qatarstrophic error», in The Economist, 11 settembre 2025.

[8] Cfr «Israel gambles on decapitating Hamas in Qatar, shocking the Gulf», in The Economist, 9 settembre 2025.

[9] Cfr F. Battistini, «Quel “no” del Mossad sull’attacco al Qatar: sale lo scontro interno», in Corriere della Sera, 14 settembre 2025.

[10] Cfr «Israel goes to the brink in Gaza city», in The Economist, 16 settembre 2025.

[11] P. Mastrolilli, «Macron riconosce la Palestina all’Onu, mezza Europa lo segue. L’ira degli Usa: “atto simbolico”», in la Repubblica, 23 settembre 2025.

[12] Ivi.

[13] P. Haski, «Israele sta uccidendo Gaza un palazzo alla volta», in Internazionale, 16 settembre 2025.

[14] «The White House’s plan for Gaza deserves praise», in The Economist, 1 ottobre 2025.

[15] Cfr G. Fasano, «Ostaggi entro 72 ore, aiuti gestiti dall’Onu, Blair nel Consiglio guidato da Donald: cosa dicono i 20 punti», in Corriere della Sera, 30 settembre 2025.

[16] Cfr Id., «Smotrich e Ben-Gvir attaccano il piano: “Fallimento colossale”. Ma Bibi cerca il rilancio», in Corriere della Sera, 1 ottobre 2025.

[17] «The White House’s plan for Gaza deserves praise», cit.

[18] Cfr G. Colarusso, «Ostaggi, Hamas apre al rilascio. Trump: “Israele fermi le bombe”», in la Repubblica, 4 ottobre 2025.

[19] Cfr «Hamas says “yes, but” to the Trump Gaza plan. That may not be enough», in The Economist, 4 ottobre 2025.

[20] F. Tonacci, «La tregua. Israele ritira l’esercito e minaccia Hamas: “Disarmi o l’Idf tornerà”», in la Repubblica, 11 ottobre 2025.

[21] Cfr «Israel and Hamas agree to the first phase of Donald Trump’s peace plan», in The Economist, 10 ottobre 2025.

[22] Cfr P. Haski, «Perché è difficile essere ottimisti sul seguito del piano per Gaza», in Internazionale, 10 ottobre 2025.

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«Nostra aetate» e l’altro. L’eredità di Abraham Joshua Heschel


Abraham Heschel e il cardinale Bea.
Quest’anno ricorre il sessantesimo anniversario della Nostra aetate, la dichiarazione del Concilio Vaticano II sulle relazioni della Chiesa cattolica con le religioni non cristiane[1]. Approvato il 28 ottobre 1965, al termine di un intenso confronto, questo documento – insieme a Unitatis redintegratio e Dignitatis humanae – rappresenta quello che papa Giovanni XXIII definì, all’apertura del Concilio (11 ottobre 1962), un vero e proprio «balzo in avanti» nella comprensione della Chiesa. In questi testi, infatti, l’identità cattolica si apre a una dimensione dialogica.

La Nostra aetate, al n. 2, dichiara solennemente che la Chiesa cattolica non rifiuta nulla di ciò che è vero e santo nelle altre religioni. La dichiarazione fu inizialmente preparata con l’intento di sanare le relazioni con il popolo ebraico e successivamente venne estesa anche alle altre religioni. L’approvazione di questo documento è avvenuta vent’anni dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale e la tragedia della Shoah. Da quel momento ha avuto inizio un percorso di riflessione interna, durante il quale l’identità cristiana è stata riconosciuta come inseparabile da quella ebraica.

Insieme al cardinale gesuita Augustin Bea, presidente di quello che allora veniva chiamato «Segretariato per l’unità dei cristiani», nella redazione della dichiarazione Nostra aetate ha avuto un ruolo di rilievo il rabbino Abraham Joshua Heschel, rappresentante dell’American Jewish Committee[2]. Nel maggio 1962 egli inviò a Bea un memorandum in cui proponeva alcuni punti fondamentali: la condanna esplicita dell’antisemitismo; l’eliminazione di ogni riferimento al popolo ebraico come «deicida»; il riconoscimento del giudaismo come tradizione religiosa viva e degna di rispetto; l’importanza del dialogo e della conoscenza reciproca.

Nel 1963 Bea si recò a New York, dove incontrò Heschel e altri leader ebrei, e in quell’occasione essi consolidarono un rapporto reciproco fatto di scambi intensi e franchi. Bea invitò più volte Heschel a Roma per contribuire al dibattito conciliare, come segno della stima e della fiducia mutua. Le osservazioni del rabbino influenzarono in maniera significativa le formulazioni della Nostra aetate, soprattutto nella parte che rifiuta le accuse di deicidio e condanna ogni forma di antisemitismo.

La vita e l’opera di Heschel


Abraham Joshua Heschel nacque a Varsavia l’11 gennaio 1907[3]. La sua formazione religiosa ebbe inizio a Medžbiž, una cittadina della Podolia, in Ucraina odierna, e continuò a Vilna e a Berlino. Tra i suoi antenati sono da annoverare rappresentanti fondamentali del movimento chassidicodel XIX secolo: rabbi Dov Baer di Mezeritch (il Grande Magghid), rabbi Abraham Joshua Heschel (il Rav di Apt) e rabbi Pinhas Shapiro di Korets. La vita e le opere di Heschel rappresentano un crocevia delle tre grandi correnti culturali: la tradizione religiosa della Bibbia ebraica e del Talmud, l’ebraismo chassidico dell’Europa orientale e la filosofia occidentale.

Durante i suoi studi universitari Heschel si rese conto delle differenze tra la mentalità secolare dell’Occidente e il modo di vivere ebraico. L’incontro con il metodo fenomenologico di Edmund Husserl gli permise di conciliare l’esperienza religiosa ebraica con le esigenze speculative della cultura occidentale. Ciò non toglie che la passione per lo studio dei profeti rimase il fattore determinante non solo della sua attività intellettuale, ma anche della sua stessa vita. Nel 1933 egli presentò al dipartimento di filosofia dell’Università di Berlino la sua dissertazione sulla coscienza profetica, Die Prophetie, pubblicata nel 1936 a Cracovia. Nel 1937 succedette a Martin Buber come presidente della Jüdische Hochschule di Francoforte. Con l’avvento della propaganda antisemitica, fu deportato in Polonia assieme ad altri connazionali: a Varsavia insegnò otto mesi all’Istituto di Studi ebraici.

Nell’aprile del 1939 accettò l’invito a insegnare all’Hebrew Union College a Cincinnati, negli Usa. Poté così lasciare la Polonia poco prima che i nazisti la invadessero. Ricordando quegli anni oscuri e terribili, nella sua prolusione all’Union Theological Seminary di New York, così parlò di sé: «Sono un tizzone acceso tirato fuori dall’incendio, in cui il mio popolo è stato bruciato a morte. Sono un tizzone acceso tirato fuori dal fuoco di un altare dedicato a Satana, sul quale sono state sterminate milioni di vite umane per la maggior gloria del male»[4]. Dal 1945 fino alla sua morte insegnò al Jewish Theological Seminary di New York, dove tenne la cattedra di etica e di mistica giudaica.

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Secondo Heschel, l’impegno culturale non può mai essere fine a sé stesso; più volte egli ha ripetuto che la cultura è un modo di vivere, e perciò deve uscire dagli ambienti strettamente accademici per divenire voce profetica nella società. Assieme a Martin Luther King Jr, marciò per le strade di Selma, in Alabama, per difendere i diritti civili dei neri d’America, e con lui istituì The Clergy and Laity Concerned about Viet Nam, un’organizzazione interreligiosa che condannava l’intervento americano in quel Paese dell’Estremo Oriente. La sua attività politica non fu diretta solo contro il governo americano, ma anche contro quello sovietico, condannando con varie manifestazioni le persecuzioni antisemitiche contro gli ebrei russi. Per questo egli venne chiamato «una voce per le genti» (kol le goyîm).

L’impegno nel dialogo


Heschel partecipò ai lavori del Concilio Vaticano II come incaricato dell’American Jewish Committee, divenendo una delle figure più determinanti non solo nella preparazione del documento conciliare Nostrae aetate, ma anche nel successivo dialogo tra ebrei e cristiani. Tra i principali suoi desideri c’era quello di far eliminare dagli insegnamenti della Chiesa cattolica ogni accenno possibile a una missione della Chiesa per la conversione degli ebrei. A tale riguardo, egli affermò: «Per millenovecento anni la Chiesa ha definito la sua relazione agli ebrei in una sola parola: missione. Ciò che testimoniamo ora è l’inizio di un cambiamento in quella relazione, un passaggio dalla missione al dialogo. Poiché il problema della missione è l’ostacolo più serio che si trova sulla strada della mutua comprensione, sarà necessario esplorarla in modo ancor più approfondito»[5].

Nel maggio 1962 Heschel presentò un memorandum in cui chiedeva ai Padri conciliari di eliminare una volta per tutte ogni accusa di deicidio nei confronti del popolo ebraico; di riconoscere l’integrità e la perpetuità dell’elezione degli ebrei nella storia della salvezza; e infine di rinunciare a fare proselitismo verso gli ebrei. Un ebreo ha una dignità in quanto ebreo e non in quanto possibile convertito al cristianesimo. Heschel ripeteva spesso: «Se mi venisse chiesto di decidere tra convertirmi o morire nelle camere a gas ad Auschwitz, sceglierei Auschwitz»[6].

Durante gli anni del Concilio, egli incontrò papa Paolo VI e gli chiese di sostenere le richieste ebraiche contro l’accusa di deicidio e riguardo alla missione dei cattolici verso gli ebrei. La versione finale della Nostra aetate, approvata il 28 ottobre 1965, afferma che la morte di Gesù non deve essere imputata a tutti gli ebrei collettivamente, e omette la parola «deicidio», condannando ogni forma di antisemitismo. La Chiesa cattolica ha riconosciuto la perdurante validità dell’alleanza di Dio con Israele, così come ha promosso e raccomandato la conoscenza e il rispetto reciproci tra ebrei e cristiani. Papa Paolo VI ha promulgato immediatamente il testo come dottrina ufficiale della Chiesa. Egli è stato talmente colpito dalla figura di Heschel da incoraggiare la pubblicazione delle sue opere in Italia. Il rabbino polacco è morto il 23 dicembre 1972, a New York. Durante l’udienza generale tenutasi in Vaticano il 31 gennaio 1973, Paolo VI ha citato uno dei suoi libri, Dio in cerca dell’uomo, in cui si dice che «ancor prima e infinitamente ancor più che noi ci movessimo alla ricerca di Dio, Dio è venuto in cerca di noi»[7]. Allora era insolito che in un discorso ufficiale di un papa venisse citata una fonte non cristiana.

Il contributo di Heschel


Heschel ha avuto un ruolo fondamentale nel dialogo ebraico-cristiano, aiutando molti cristiani a riscoprire le radici ebraiche della loro fede. Per i cristiani, l’ebraismo è considerato preparatio evangelica; per gli ebrei (cfr La guida dei perplessi di Maimonide), il cristianesimo è considerato preparatio messianica. L’opera del rabbino polacco ha portato i cristiani a conoscere meglio la spiritualità e lo stile di vita ebraici, in particolare la tradizione chassidica.

Secondo Heschel, il dialogo consiste nel mostrare la singolarità di ciascuna fede, senza ostacolarne o trascurarne la particolarità. Tra ebraismo e cristianesimo c’è un legame spirituale talmente profondo che l’uno ha bisogno dell’altro per comprendere sé stesso[8]. In dialogo con il gesuita americano Gustave Weigel, il rabbino si chiedeva: «È davvero la volontà di Dio che non ci sia più l’ebraismo nel mondo? Sarebbe davvero il trionfo di Dio se i rotoli della Torah non venissero più tirati fuori dall’Arca e la Torah non venisse più letta nella Sinagoga, le nostre antiche preghiere ebraiche in cui Gesù stesso adorava non venissero più recitate, il Seder di Pasqua non venisse più celebrato nelle nostre vite, la legge di Mosè non venisse più osservata nelle nostre case? Sarebbe davvero ad maiorem Dei gloriam avere un mondo senza ebrei?»[9].

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In un contesto simile, Heschel esortava i cristiani a essere fedeli alle loro radici e a non preoccuparsi di convertire gli ebrei, lasciandosi alle spalle una volta per tutte lo scandalo dei secoli passati: «Sì, riconosco in voi la presenza della santità. La vedo, la percepisco, la sento. Non ci mettete in imbarazzo; vogliamo che non siate imbarazzati da ciò che siamo»[10]. Tra ebraismo e cristianesimo dovrebbe esserci lo stesso rapporto che c’è tra una madre e il suo bambino; una madre non può ignorare il suo bambino, e un bambino non può dimenticare da chi è nato.

Le parole di Heschel anticipavano quanto sarebbe stato successivamente dichiarato dal cardinale Roger Etchegaray all’indomani del Giubileo del 2000: «Il cristianesimo non può pensarsi senza l’ebraismo, non può stare senza l’ebraismo». Il cristianesimo e l’ebraismo hanno il loro ruolo specifico nella redenzione. «Quando noi cristiani ci rallegriamo per il “già”, gli ebrei ci ricordano il “non ancora”, e questa tensione feconda è nel cuore dell’intera vita della Chiesa»[11].

L’approccio del rabbino polacco al dialogo ebraico-cristiano è diverso da quello di molti altri teologi ebrei e cristiani coinvolti nel dialogo tra queste due fedi. «Heschel non discuteva di Gesù o di Paolo, né scriveva sul Nuovo Testamento o discuteva di punti dottrinali»[12]. Egli condivideva la spiritualità ebraica, e in questo modo aiutava i cattolici a essere cattolici migliori. Secondo la sua concezione del dialogo interreligioso, ogni partner del dialogo non dovrebbe rinunciare alla propria identità per compiacere l’altro partner, né mettere da parte la propria fede[13]. Il dialogo inizia e si fonda sul rispetto dell’impegno dell’altro, sulla fede dell’altro: «Il primo e più importante prerequisito dell’interreligiosità – egli diceva – è la fede. […] L’interreligiosità deve nascere dalla profondità, non dalla vuota assenza di fede. Non è un’impresa per coloro che sono a metà dell’apprendimento o spiritualmente immaturi. Se non vuole portare alla confusione dei molti, deve rimanere una prerogativa di pochi»[14].

Lo scopo del dialogo non è né il superamento di questioni controverse, come ad esempio il fatto che Gesù sia o non sia il Messia, o il significato della dottrina cristiana della Trinità, né la costruzione di una religione universale. «Qual è dunque lo scopo della cooperazione interreligiosa? Non è quello di adularsi o confutarsi l’un l’altro, ma di aiutarsi a vicenda; di condividere l’intuizione e l’apprendimento, di cooperare in iniziative accademiche al più alto livello scientifico e, cosa ancora più importante, di cercare nel deserto le sorgenti della devozione, i tesori della quiete, la forza dell’amore e la cura per l’uomo»[15].

Secondo Heschel, l’obiettivo del dialogo interreligioso è ciò che viene chiamato «teologia del profondo» (Depth Theology). «Le teologie ci dividono; la teologia del profondo ci unisce»[16]. Il cuore della teologia non è né la halacha (per gli ebrei), né la Chiesa(per i cristiani), ma il pathos di Dio, la sollecitazione divina (divine concern)per l’umanità. Essa sta alla base del dialogo interreligioso. «Il pathos di cui parla Heschel si esprime principalmente nella teologia del profondo. Questa è interessata al pre-teologico e intuisce l’ineffabile; la teologia (diremmo dogmatica) ne è l’espressione. Heschel non rifiuta i dogmi o la dottrina: essi sono necessari in quanto ci fanno ricordare i momenti passati di un’intuizione e ci permettono di comunicare e di esprimerli ad altri. La vitalità della religione consiste nel mantenere viva la polarità di dottrina ed intuizione, di dogma e di fede, di rituale e di spontaneità, di istituzione e di individuo. Il pathos rende possibile e realizza una circolarità ermeneutica tra mistero e sua espressione; il pathos fa sì che ogni definizione richieda sempre un rinvio ulteriore»[17]. Secondo Heschel, la verità ultima di tutte le religioni consiste nell’incontro di Dio nel profondo di ogni uomo, e di ogni uomo con l’altro uomo. «Il pensiero più prezioso dell’uomo è Dio, ma il pensiero più prezioso di Dio è l’umanità. Un credente è una persona che tiene insieme Dio e l’uomo in un unico pensiero»[18].

L’approccio del rabbino al dialogo interreligioso collega tra loro «identità» e «relazione» in modo tale da evitare che l’altro sia escluso come minaccia o incluso nella propria religione come mera anticipazione. Conoscere la religione dell’altro significa entrare nella pelle dell’altro, imparando a guardare il mondo così come l’altro lo osserva. Conoscendo un’altra religione ed entrando nella sua tradizione spirituale, ciascuno potrà comprendere meglio la propria fede. In questo modo, ognuno non capirà più la propria identità religiosa negando la religione dell’altro, ma anche in relazione a essa[19].

Le osservazioni di Heschel sul dialogo interreligioso hanno portato avanti l’eredità della dichiarazione Nostra aetate fino al compimento realizzato durante la visita di san Giovanni Paolo II alla sinagoga di Roma nel 1986. In quell’occasione, il Pontefice parlò del legame profondo tra cristiani ed ebrei: «La religione ebraica non ci è “estrinseca”, ma in un certo qual modo è “intrinseca” alla nostra religione. Abbiamo quindi verso di essa dei rapporti che non abbiamo con nessun’altra religione. Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori»[20].

Sessant’anni dopo la «Nostra aetate»


In questa prospettiva, il dialogo interreligioso si configura come un cammino di apertura e di reciproco riconoscimento, dove il confronto autentico è fondato sulla stima dell’altro in cerca della verità. In tal senso, il documento del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso Dialogo e annuncio (DA) ha voluto espressamente riprendere e continuare le linee ispiratrici del documento conciliare, affermando: «I cristiani devono essere pronti ad apprendere e a ricevere da e attraverso gli altri i valori positivi delle loro tradizioni. Attraverso il dialogo possono essere spinti a rinunciare a pregiudizi radicati, a rivedere idee preconcette e persino, a volte, a permettere la purificazione della comprensione della loro fede» (DA 49)[21].

Il rabbino Alon Goshen-Gottstein ha scritto: «L’ascolto è il primo passo verso la comprensione. Ascoltando, indichiamo sia che ci interessa l’altro sia che abbiamo qualcosa da imparare dall’altro. Mi sembra che l’umiltà religiosa imponga l’ascolto come modalità di base dell’essere in un contesto interreligioso»[22]. Potremmo formulare la regola d’oro del dialogo interreligioso in questo modo: «Cerca sempre di capire gli altri, come vorresti essere capito tu»[23].

Parlando del dialogo interreligioso, papa Francesco ha detto, in Evangelii gaudium (EG), che «la vera apertura implica il mantenersi fermi nelle proprie convinzioni più profonde, con un’identità chiara e gioiosa, ma aperti a comprendere quelle dell’altro e sapendo che il dialogo può arricchire ognuno» (EG 251). Durante il viaggio apostolico in Indonesia, nell’incontro interreligioso che ha avuto luogo a Giacarta il 5 settembre 2024, egli ha ribadito che l’incontro tra le religioni non riguarda «il cercare a tutti i costi dei punti in comune tra le diverse dottrine e professioni religiose. In realtà, può succedere che un approccio del genere finisca per dividerci, perché le dottrine e i dogmi di ogni esperienza religiosa sono diversi»[24]. Le religioni hanno origine da quella sorgente di vita che è «la ricerca dell’incontro con il divino, la sete di infinito che l’Altissimo ha posto nel nostro cuore, la ricerca di una gioia più grande e di una vita più forte di ogni morte, che anima il viaggio della nostra vita e ci spinge a uscire dal nostro io per andare incontro a Dio. Ecco, ricordiamoci questo: guardando in profondità, cogliendo ciò che scorre nell’intimo della nostra vita, il desiderio di pienezza che abita il profondo del nostro cuore, noi ci scopriamo tutti fratelli, tutti pellegrini, tutti in cammino verso Dio, al di là di ciò che ci differenzia»[25].

Il dialogo interreligioso, nella sua dimensione più profonda, non è semplicemente un confronto tra dottrine, ma un incontro di persone che cercano insieme la presenza di Dio nel mondo, nel volto dell’altro. In effetti, il documento conciliare Nostra aetate ha preferito avviare dei processi di conoscenza e di ascolto reciproco piuttosto che spartire spazi di potere tra le religioni.

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[1] Per un ampio ed esaustivo commento, si può consultare «“Nostra aetate”. Introduzione e commento di Maurizio Gronchi e Paolo Trianni», in S. Noceti – R. Repole (edd.), Commentario ai Documenti del Vaticano II, vol. 6, Bologna, EDB, 2018, 481-568.

[2] Un articolo pubblicato recentemente nella nostra rivista ha ricordato il ruolo di un altro protagonista della redazione del documento: il patriarca Massimo IV Saigh. Cfr D. Neuhaus, «Come è stata scritta la dichiarazione “Nostra aetate”? Il ruolo del cardinale Bea e del patriarca Massimo IV Saigh», in Civ. Catt. 2025 III 9-22.

[3] Per un approfondimento del pensiero di Heschel, cfr P. Gamberini, «Il “pathos” di Dio nel pensiero di Abraham Joshua Heschel», in Civ. Catt. 1998 II 450-464; Id., Pathos e Logos in Abraham Joshua Heschel, Roma, Città Nuova, 2009.

[4] A. J. Heschel, «No Religion Is an Island», in Id., Moral Grandeur and Spiritual Audacity, New York, Farrar, Straus & Giroux, 1996, 235.

[5] Id., «From Mission to Dialogue», in Conservative Judaism 21 (1967) 9.

[6] Cfr M. H. Tannenbaum, «Heschel and Vatican – Jewish-Christian Relations», in American Jewish Committee, New York, 21 febbraio 1963, 16.

[7] Paolo VI, s., Udienza generale, 31 gennaio 1973 (vatican.va/content/paul-vi/it/…).

[8] Cfr A. J. Heschel, «No Religion Is an Island», cit., 242.

[9] Ivi, 246.

[10] Id., «From Mission to Dialogue», cit., 8.

[11] R. Etchegaray, «Perché la fede cristiana ha bisogno del giudaismo», in tinyurl.com/4w9hbnry

[12] M. A. Chester, «Heschel and the Christians», in Journal of Ecumenical Studies 38 (2001) 256.

[13] Per approfondire la prospettiva di Heschel sul dialogo interreligioso, cfr S. Krajewski – A. Lipszyc (edd.), Abraham Joshua Heschel. Philosophy, Theology and Interreligious Dialogue, Wiesbaden,Harrassowitz Verlag, 2009.

[14] A. J. Heschel, «No Religion Is an Island», cit., 241.

[15] Id., «What We Might Do Together», in Id., Moral Grandeur…, cit., 300.

[16] Id., The Insecurity of Freedom: Essays in Applied Religion, New York, Farrar, Straus & Giroux, 1965, 119.

[17] P. Gamberini, Pathos e Logos…,cit., 41 s.

[18] A. J. Heschel, «What Is Ecumenism», in Id., Moral Grandeur…,cit., 289.

[19] Cfr Id., «No Religion Is An Island», cit., 244.

[20] Giovanni Paolo II, s., «Discorso nell’Incontro con la comunità ebraica», Sinagoga di Roma, 13 aprile 1986 (cttps://tinyurl,com//2y224ubf).

[21] Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, Dialogo e annuncio, 19 maggio 1991 (tinyurl.com/39he8yhd).

[22] A. Goshen-Gottstein, «Judaism and Incarnational Theologies: Mapping out the parameters of dialogue», in Journal of Ecumenical Studies 39 (2002) 23.

[23] M. Schulz, «Der Beitrag von Immanuel Levinas zum jüdisch-christlichen Dialog: Menschwerdung Gottes», in Münchner Theologische Zeitung 56 (2005) 152.

[24] Francesco, Discorso nell’Incontro interreligioso con i giovani, Singapore, 13 settembre 2024 (tinyurl.com/mr3a7pjm).

[25] Id., Discorso nell’Incontro interreligioso, Giacarta, 5 settembre 2024 (tinyurl.com/bdejsbc2).

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«Una Chiesa fedele al cuore di Dio»



Il 9 ottobre 2025 è stata pubblicata l’Esortazione apostolica Dilexi te di papa Leone XIV sull’amore verso i poveri. Il documento, firmato il 4 ottobre precedente, festa di san Francesco d’Assisi, è il primo del nuovo Pontefice e raccoglie e sviluppa un progetto che papa Francesco stava preparando nei suoi ultimi mesi di vita. Leone XIV lo spiega, proprio all’inizio del documento, con queste parole: «Avendo ricevuto come in eredità questo progetto, sono felice di farlo mio – aggiungendo alcune riflessioni – e di proporlo ancora all’inizio del mio pontificato, condividendo il desiderio dell’amato Predecessore che tutti i cristiani possano percepire il forte nesso che esiste tra l’amore di Cristo e la sua chiamata a farci vicini ai poveri» (n. 3). Ovvero, in altre parole, declinate e sviluppate in diversi modi nel documento, l’amore ai poveri è garanzia di fedeltà al cuore di Dio[1].

Dilexi te si colloca in ovvia continuità con l’ultima enciclica di papa Francesco Dilexit nos, che egli ha voluto dedicare all’amore umano e divino del cuore di Gesù Cristo. Proprio da questo amore salvifico che si rivolge a tutti scaturisce l’amore preferenziale e personalizzato ai più poveri che la Chiesa è chiamata a concretizzare. Essa lo ha fatto lungo la sua storia bimillenare e continua a farlo oggi, rendendo visibili le parole «Ti ho amato» (Ap 3,9). Se il titolo stesso del documento evoca il legame con Dilexit nos, le numerose citazioni di Evangelii gaudium, Laudato si’, Gaudete et exsultate e Fratelli tutti contribuiscono a fare di questo documento un chiaro tributo agli insegnamenti di papa Francesco.

L’Esortazione apostolica è strutturata in cinque capitoli con i seguenti titoli: 1. Alcune parole indispensabili (nn. 4-15); 2. Dio sceglie i poveri (nn. 16-34); 3. Una Chiesa per i poveri (nn. 35-81); 4. Una storia che continua (nn. 82-102); 5. Una sfida permanente (nn. 103-121). Si parte, quindi, da una contestualizzazione e definizione di concetti (cap. 1); si prosegue con una riflessione biblica e teologica sull’opzione preferenziale di Dio per i poveri (cap. 2); si mostra come, nella storia della Chiesa, sia stato vissuto concretamente l’amore per i più deboli (cap. 3); si ricordano la formulazione della Dottrina sociale della Chiesa e le sue conseguenze anche sociopolitiche (cap. 4); e infine si conclude con la constatazione che l’amore per i poveri rimane una sfida ineludibile e urgente per la Chiesa di oggi (cap. 5).

«Alcune parole indispensabili»


Il capitolo introduttivo dell’Esortazione, dal titolo Alcune parole indispensabili, ricorda le parole di Gesù, che si identifica con i più piccoli: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Più concretamente, «nessun gesto di affetto, neanche il più piccolo, sarà dimenticato, specialmente se rivolto a chi è nel dolore, nella solitudine, nel bisogno» (n. 4).

Dall’identificazione del Signore con i più piccoli scaturiscono conseguenze chiare. «Non siamo nell’orizzonte della beneficenza, ma della Rivelazione: il contatto con chi non ha potere e grandezza è un modo fondamentale di incontro con il Signore della storia. Nei poveri Egli ha ancora qualcosa da dirci» (n. 5). Leone XIV evoca di seguito l’esempio di san Francesco d’Assisi, per ribadire: «Sono convinto che la scelta prioritaria per i poveri genera un rinnovamento straordinario sia nella Chiesa che nella società, quando siamo capaci di liberarci dall’autoreferenzialità e riusciamo ad ascoltare il loro grido» (n. 7). Così ha fatto Dio stesso, ascoltando le grida del popolo ebreo in Egitto. Di conseguenza, anche noi, «ascoltando il grido del povero, siamo chiamati a immedesimarci col cuore di Dio, che è premuroso verso le necessità dei suoi figli e specialmente dei più bisognosi» (n. 8).

La condizione dei poveri – scrive il Papa – ci interpella personalmente, come interpella la società, i sistemi politici ed economici e la Chiesa stessa. E lo fa nella diversità di forme in cui la povertà si manifesta: «quella di chi non ha mezzi di sostentamento materiale, la povertà di chi è emarginato socialmente e non ha strumenti per dare voce alla propria dignità e alle proprie capacità, la povertà morale e spirituale, la povertà culturale, quella di chi si trova in una condizione di debolezza o fragilità personale o sociale, la povertà di chi non ha diritti, non ha spazio, non ha libertà» (n. 9). Va anche detto che non basta l’impegno concreto per i poveri: ad esso «occorre anche associare una trasformazione di mentalità che possa incidere a livello culturale» (n. 11). Specialmente per quanto riguarda lo stile di vita in cui si cercano la felicità, tante volte basata sull’accumulo della ricchezza, e il successo, anche approfittando di sistemi sociali che favoriscono i più forti e scartano i più deboli (cfr n. 11).

Papa Leone XIV ribadisce che «sulla povertà non possiamo abbassare la guardia» (n. 12), nemmeno nei Paesi ricchi, nei quali sono preoccupanti le cifre sul numero dei poveri e «si nota che sono aumentate le diverse manifestazioni di povertà», che «si declina in molteplici forme di depauperamento economico e sociale, riflettendo il fenomeno delle crescenti disuguaglianze anche in contesti generalmente benestanti» (n. 12). In questo contesto, alla fine del primo capitolo, Dilexi te ricorda i pregiudizi ideologici o le strumentalizzazioni che si verificano, a cominciare dall’interpretazione dei dati «in modo tale da convincere che la situazione dei poveri non sia così grave» (n. 13). Citando Fratelli tutti, il Pontefice ribadisce che la realtà è chiara: «Ci sono regole economiche che sono risultate efficaci per la crescita, ma non altrettanto per lo sviluppo umano integrale» (n. 13). «I poveri non ci sono per caso o per un cieco e amaro destino. Tanto meno la povertà, per la maggior parte di costoro, è una scelta. Eppure – dice il Papa – c’è ancora qualcuno che osa affermarlo, mostrando cecità e crudeltà» (n. 14).

L’avvertimento finale del primo capitolo è quindi molto chiaro: «Anche i cristiani, in tante occasioni, si lasciano contagiare da atteggiamenti segnati da ideologie mondane o da orientamenti politici ed economici che portano a ingiuste generalizzazioni e a conclusioni fuorvianti. Il fatto che l’esercizio della carità risulti disprezzato o ridicolizzato, come se si trattasse della fissazione di alcuni e non del nucleo incandescente della missione ecclesiale, mi fa pensare – scrive il Papa – che bisogna sempre nuovamente leggere il Vangelo, per non rischiare di sostituirlo con la mentalità mondana» (n. 15).

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«Dio sceglie i poveri»

Il secondo capitolo dell’Esortazione – Dio sceglie i poveri – ci fa vedere come Dio abbia scelto e continui a scegliere i poveri. Si è fatto povero egli stesso ed è venuto in mezzo a noi «per liberarci dalla schiavitù, dalle paure, dal peccato e dal potere della morte» (n. 16). Perciò, anche teologicamente, possiamo parlare di «un’opzione preferenziale da parte di Dio per i poveri», come ha riconosciuto l’Assemblea di Puebla ed è stato ricordato nel successivo magistero della Chiesa. Questa «preferenza», aggiunge Leone XIV, non vuol dire esclusivismo o discriminazione verso altri gruppi: «essa intende sottolineare l’agire di Dio che si muove a compassione verso la povertà e la debolezza dell’umanità intera e che, volendo inaugurare un Regno di giustizia, di fraternità e di solidarietà, ha particolarmente a cuore coloro che sono discriminati e oppressi, chiedendo anche a noi, alla sua Chiesa, una decisa e radicale scelta di campo a favore dei più deboli» (n. 16).

Gesù si presenta come un Messia povero, «dei poveri e per i poveri» (n. 19). Nella sua vita pubblica, vive come un maestro itinerante, in una povertà che egli chiede anche ai suoi discepoli, in quanto «è segno del legame con il Padre […], proprio perché la rinuncia ai beni, alle ricchezze e alle sicurezze di questo mondo diventi segno visibile dell’affidarsi a Dio e alla sua provvidenza» (n. 20).

La Scrittura è ricca di esempi che illustrano la misericordia di Dio verso i poveri, richiedendo un simile atteggiamento da parte dei credenti, come viene espresso nella parabola del giudizio finale (cfr Mt 25,31-46). Di fronte a tanta chiarezza, il Papa si interroga: «Tante volte mi domando perché, pur essendoci tale chiarezza nelle Sacre Scritture a proposito dei poveri, molti continuano a pensare di poter escludere i poveri dalle loro attenzioni» (n. 23). E citando Evangelii gaudium, conclude che la Scrittura «è un messaggio così chiaro, così diretto, così semplice ed eloquente, che nessuna ermeneutica ecclesiale ha il diritto di relativizzarlo. La riflessione della Chiesa su questi testi non dovrebbe oscurare o indebolire il loro significato esortativo, ma piuttosto aiutare a farli propri con coraggio e fervore» (n. 31). Così ha fatto la prima comunità cristiana, esempio di «condivisione dei beni e di attenzione alla povertà» (n. 32).

«Una Chiesa per i poveri»


Il terzo capitolo dell’Esortazione, dal titolo Una Chiesa per i poveri, è il più lungo, comprendendo i numeri 35-81. In esso, papa Leone XIV ci offre una sintesi dell’impegno per i poveri e i più deboli lungo tutta la storia della Chiesa. Si comincia dai tempi apostolici, quando già le prime comunità cristiane davano esempio «della necessità di prendersi cura di coloro che erano soggetti a maggiori privazioni» (n. 37) e, come mostra l’atteggiamento di san Lorenzo, li consideravano i veri «tesori della Chiesa» (n. 38). Si passa poi ai Padri della Chiesa, che «riconoscevano nei poveri una via privilegiata di accesso a Dio, un modo speciale per incontrarlo» (n. 39). Nei Padri, «la carità verso i bisognosi non era intesa come una semplice virtù morale, ma come espressione concreta della fede nel Verbo incarnato» (n. 39). Perciò la comunità dei fedeli non considerava i poveri «un’appendice, ma una parte essenziale del suo Corpo vivo» (n. 39) e «la Chiesa nascente non separava il credere dall’azione sociale» (n. 40).

Il Pontefice cita sant’Ignazio di Antiochia, san Policarpo e san Giustino, per poi soffermarsi in particolare su san Giovanni Crisostomo e sant’Agostino. Dagli scritti e omelie di Giovanni Crisostomo si rileva che «egli esortava i fedeli a riconoscere Cristo nei bisognosi», perché «se non incontrano Cristo nei poveri che stanno alla porta, non potranno adorarlo nemmeno sull’Altare» (n. 41). Di conseguenza, il vescovo «denunciava con veemenza il lusso eccessivo, che coesisteva con l’indifferenza verso i poveri» (n. 42). Per quanto riguarda sant’Agostino, egli si era formato alla scuola di sant’Ambrogio, il quale sosteneva che «l’elemosina è giustizia ristabilita, non un gesto di paternalismo» (n. 43). Seguendo il suo maestro, il vescovo di Ippona ha insegnato l’amore preferenziale per i poveri, riconoscendo in essi la presenza sacramentale del Signore (cfr n. 44) e vedendo nella cura dei più bisognosi «una prova concreta della sincerità della fede» (n. 45). Perciò – conclude papa Leone XIV – «in una Chiesa che riconosce nei poveri il volto di Cristo e nei beni lo strumento della carità, il pensiero agostiniano rimane una luce sicura» (n. 47).

Il terzo capitolo prosegue con una sintesi particolarmente suggestiva sull’impegno della Chiesa per i poveri lungo i secoli e in diversi ambiti di attuazione. Si comincia con la cura dei malati e sofferenti, ricordando i molti Istituti religiosi fondati con questa specifica finalità e ribadendo che oggi «questa eredità continua negli ospedali cattolici, nei luoghi di cura aperti in regioni remote, nelle missioni sanitarie operanti nelle foreste, nei centri di accoglienza per tossicodipendenti e negli ospedali da campo in zone di guerra» (n. 52). «Nell’atto di curare una ferita – ribadisce il Pontefice – la Chiesa annuncia che il Regno di Dio inizia tra i più vulnerabili» (n. 52).

L’Esortazione ricorda poi la cura dei poveri nella vita monastica, perché i monasteri, oltre all’assistenza materiale, «svolgevano un ruolo fondamentale nella formazione culturale dei più umili» (n. 57), così che, «dove i monaci hanno aperto le loro porte ai poveri, la Chiesa ha rivelato con umiltà e fermezza che la contemplazione non esclude la misericordia, ma la esige come suo frutto più puro» (n. 58).

Viene anche evocata l’opera di liberazione dei prigionieri, in particolare attraverso l’azione dei Trinitari e Mercedari in favore dei cristiani «catturati nel Mediterraneo o ridotti in schiavitù nelle guerre» (n. 60). Non si rimane però nel passato, perché i bisogni di liberazione sono quanto mai attuali: «Ancora oggi – scrive il Papa – quando “milioni di persone – bambini, uomini e donne di ogni età – vengono private della libertà e costrette a vivere in condizioni assimilabili a quelle della schiavitù”, tale eredità viene portata avanti da questi Ordini e da altre istituzioni e congregazioni che lavorano nelle periferie urbane, nelle zone di conflitto e nei corridoi migratori. Quando la Chiesa si inchina per spezzare le nuove catene che legano i poveri, diventa un segno pasquale» (n. 61).

Un capitolo specifico viene dedicato alla storia della vita religiosa: quello della nascita degli Ordini mendicanti, come i francescani, i domenicani, gli agostiniani e i carmelitani. Non si dimentica nemmeno, in questo contesto, la fondazione, a opera di santa Chiara d’Assisi, dell’Ordine delle Povere Dame, poi chiamate «clarisse». A proposito di san Francesco d’Assisi – figura emblematica del movimento mendicante –, il Papa scrive: «Non ha fondato una realtà di servizio sociale, ma una fraternità evangelica. Nei poveri ha visto fratelli e vive immagini del Signore. […] La sua povertà era relazionale: lo portava a farsi prossimo, uguale, anzi, minore. La sua santità germogliava dalla convinzione che si può ricevere veramente Cristo solo donandosi generosamente ai fratelli» (n. 64). E di san Domenico il Papa sottolinea che «voleva proclamare il Vangelo con l’autorevolezza che deriva da una vita povera, convinto che la Verità abbia bisogno di testimoni coerenti» (n. 66). In sintesi, «i mendicanti – afferma il Pontefice – sono diventati il simbolo di una Chiesa pellegrina, umile e fraterna, che vive tra i poveri non per proselitismo, ma per identità. Insegnano che la Chiesa è luce solo quando si spoglia di tutto, e che la santità passa attraverso un cuore umile e dedito ai più piccoli» (n. 67).

In questa carrellata storica, non viene nemmeno tralasciato l’impegno della Chiesa nell’educazione dei poveri, che ha preso forma negli Istituti religiosi maschili e femminili dedicati alla formazione popolare. Si ricordano a questo proposito gli esempi dei santi Giuseppe Calasanzio, Giovanni Battista de La Salle, Marcellino Champagnat e Giovanni Bosco, e del beato Antonio Rosmini. Nelle parole dell’Esortazione, «l’educazione dei poveri, per la fede cristiana, non è un favore, ma un dovere», con lo scopo non solo di formare professionisti, «ma persone aperte al bene, al bello e alla verità. La scuola cattolica, di conseguenza, quando è fedele al suo nome, si configura come uno spazio di inclusione, formazione integrale e promozione umana, coniugando fede e cultura, semina futuro, onora l’immagine di Dio e costruisce una società migliore» (n. 72).

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Dopo l’educazione, Leone XIV ricorda l’importanza dell’accompagnamento dei migranti, nei quali la Chiesa, facendo memoria dell’esperienza del Popolo di Dio, ha sempre riconosciuto «una presenza viva del Signore che, nel giorno del giudizio, dirà a quelli che sono alla sua destra: “Ero straniero e mi avete accolto” (Mt 25,35)» (n. 73). Nel secolo XIX, milioni di europei sono emigrati in cerca di migliori condizioni di vita e la Chiesa li ha accompagnati, «offrendo loro assistenza spirituale, legale e materiale» (n. 74). Di questo impegno sono esempio san Giovanni Battista Scalabrini e santa Francesca Saverio Cabrini. Si tratta di un’attività che continua oggi con i migranti e i rifugiati, sottolineando quattro verbi che papa Francesco amava ripetere: accogliere, proteggere, promuovere e integrare (cfr n. 75) e che papa Leone XIV riassume con queste parole quanto mai attuali: «La Chiesa, come una madre, cammina con coloro che camminano. Dove il mondo vede minacce, lei vede figli; dove si costruiscono muri, lei costruisce ponti. Sa che il suo annuncio del Vangelo è credibile solo quando si traduce in gesti di vicinanza e accoglienza. E sa che in ogni migrante respinto è Cristo stesso che bussa alle porte della comunità» (n. 75).

Arrivando ai nostri tempi, il Papa vuole ancora evocare chi ha lavorato o lavora accanto agli ultimi, «nei luoghi più dimenticati e feriti dell’umanità. I più poveri tra i poveri […] occupano un posto speciale nel cuore di Dio»; in essi «la Chiesa ritrova la chiamata a mostrare la sua realtà più autentica» (n. 76). Il più conosciuto degli esempi evocati è quello di santa Teresa di Calcutta, che «non si considerava una filantropa o un’attivista, ma una sposa di Cristo crocifisso, che serviva con amore totale nei fratelli sofferenti» (n. 77). Il suo esempio, come quello di tanti altri, ci insegna «che servire i poveri non è un gesto da fare “dall’alto verso il basso”, ma un incontro tra pari, dove Cristo viene rivelato e adorato» (n. 79). Per cui, come insegnava san Giovanni Paolo II, «c’è una presenza speciale di Cristo nella persona dei poveri, che obbliga la Chiesa a fare un’opzione preferenziale per loro» (n. 79). In questo modo – conclude papa Leone XIV – la Chiesa, «quando si china a prendersi cura dei poveri, assume la sua postura più elevata» (n. 79).

L’ultimo riferimento del capitolo terzo è dedicato ai movimenti popolari per i quali la solidarietà implica combattere le cause strutturali della povertà e promuovere politiche sociali non solo verso i poveri, ma concepite con i poveri e dei poveri.

«Una storia che continua»


La carrellata storica del capitolo terzo di Dilexi te ci aveva già fatto vedere che l’impegno della Chiesa per i poveri continua in tempi più recenti e nei nostri giorni. Il capitolo quarto lo sottolinea in modo particolare, facendo riferimento alla formazione e al contributo della Dottrina sociale della Chiesa e al ruolo di tutti i membri della comunità ecclesiale. Infatti, «il cambiamento d’epoca che stiamo affrontando rende oggi ancora più necessaria la continua interazione tra battezzati e Magistero, tra cittadini ed esperti, tra popolo e istituzioni. In particolare, va nuovamente riconosciuto che la realtà si vede meglio dai margini e che i poveri sono soggetti di una specifica intelligenza, indispensabile alla Chiesa e all’umanità» (n. 82).

Viene ribadito che il Magistero degli ultimi centocinquant’anni è ricco di insegnamenti che riguardano i poveri. Lo si vede negli insegnamenti dei singoli pontefici, da Leone XIII in poi, e nell’insegnamento del Concilio Vaticano II, voluto e convocato da san Giovanni XXIII. Il Concilio «rappresenta una tappa fondamentale nel discernimento ecclesiale riguardo ai poveri, alla luce della Rivelazione» (n. 84), prospettando «la necessità di una nuova forma ecclesiale, più semplice e sobria, coinvolgente l’intero popolo di Dio e la sua figura storica. Una Chiesa più simile al suo Signore che alle potenze mondane, tesa a stimolare in tutta l’umanità un impegno concreto per la soluzione del grande problema della povertà nel mondo» (n. 84).

Nell’insegnamento conciliare e in quello dei Papi si sottolinea come ogni proprietà privata abbia una funzione sociale fondata sulla comune destinazione dei beni. «Questa convinzione è rilanciata da san Paolo VI nell’Enciclica Populorum progressio, dove leggiamo che nessuno può ritenersi “autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario”» (n. 86). A sua volta, san Giovanni Paolo II approfondisce concettualmente «il rapporto preferenziale della Chiesa con i poveri», riconoscendo che «l’opzione per i poveri è una “forma speciale di primazia nell’esercizio della carità cristiana, della quale dà testimonianza tutta la tradizione della Chiesa”» (n. 87). Inoltre, papa Wojtyła colloca il lavoro umano al centro di tutta la questione sociale.

Del contributo di papa Benedetto XVI l’Esortazione ricorda l’identificazione tra il conseguimento del bene comune e l’amore al prossimo: identificazione che egli colloca alla base dell’impegno sociopolitico. Quindi si giunge al pontificato di Francesco. A questo punto, si fa riferimento all’importanza, anche per la Chiesa intera, delle Conferenze dell’Episcopato latinoamericano a Medellín, a Puebla, a Santo Domingo e ad Aparecida, a proposito delle quali papa Leone XIV scrive una nota autobiografica: «Io stesso, per lunghi anni missionario in Perù, devo molto a questo cammino di discernimento ecclesiale che Papa Francesco ha saputo sapientemente legare a quello delle altre Chiese particolari, specie del Sud globale» (n. 89).

Collegando l’insegnamento di papa Francesco con quello dell’Episcopato latinoamericano, Dilexi te si sofferma, alla fine del capitolo quarto, su due tematiche: le «strutture di peccato che creano povertà e disuguaglianze estreme» e i «poveri come soggetti». È l’occasione per ribadire che i deboli o meno dotati sono persone umane, hanno la stessa dignità degli altri e non devono solo limitarsi a sopravvivere. Poi, citando il Documento di Aparecida del 2007, il Pontefice «insiste sulla necessità di considerare le comunità emarginate quali soggetti capaci di creare una propria cultura, più che come oggetti di beneficenza. Ciò implica che tali comunità hanno il diritto di vivere il Vangelo e celebrare e comunicare la fede secondo i valori presenti nelle loro culture. L’esperienza della povertà dà loro la capacità di riconoscere aspetti della realtà che altri non riescono a vedere, e per questo la società ha bisogno di ascoltarli. Lo stesso vale per la Chiesa, che deve valutare positivamente il loro modo “popolare” di vivere la fede» (n. 100).

Le ultime parole del capitolo quarto includono un ringraziamento e un appello. Il ringraziamento è indirizzato a chi ha scelto di stare tra i poveri, vivendo con loro e come loro, «un’opzione che deve trovare posto tra le forme più alte di vita evangelica» (n. 101). L’appello è di lasciarsi evangelizzare dai poveri, riconoscendo «la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro» (n. 102) e accettando di essere sfidati dalla loro esperienza: «Solo mettendo in relazione le nostre lamentele con le loro sofferenze e privazioni è possibile ricevere un rimprovero che ci invita a semplificare la nostra vita» (n. 102).

«Una sfida permanente»


Il quinto e ultimo capitolo dell’Esortazione apostolica, dal titolo Una sfida permanente, inizia ricordando il percorso fatto e spiegando di nuovo i suoi fondamenti. Scrive il Papa: «Ho scelto di ricordare questa bimillenaria storia di attenzione ecclesiale verso i poveri e con i poveri per mostrare che essa è parte essenziale dell’ininterrotto cammino della Chiesa. […] L’amore per i poveri è un elemento essenziale della storia di Dio con noi e, dal cuore stesso della Chiesa, prorompe come un continuo appello ai cuori dei credenti, sia delle comunità che dei singoli fedeli» (n. 103). «Per questo l’amore a coloro che sono poveri […] è la garanzia evangelica di una Chiesa fedele al cuore di Dio» (ivi). I poveri – continua il Papa – non sono da considerare solo come un problema sociale: «essi sono una “questione familiare”. Sono “dei nostri”. Il rapporto con loro non può essere ridotto a un’attività o a un ufficio della Chiesa» (n. 104). Perciò Leone XIV cita la parabola del buon samaritano, riprendendo le parole finali di Gesù come un monito quotidiano a ogni cristiano: «Va’ e anche tu fa’ così» (Lc 10,37).

L’Esortazione ribadisce poi che il rapporto con i poveri arreca benefìci reciproci. I poveri sono aiutati da chi possiede mezzi economici, ma in contraccambio evangelizzano chi li avvicina: «Essi rivelano la nostra precarietà e la vacuità di una vita apparentemente protetta e sicura» (n. 109). I poveri ci riconducono – scrive il Papa – «all’essenziale della nostra fede» (n. 110), perché «non sono una categoria sociologica, ma la stessa carne di Cristo […], carne che ha fame, che ha sete, che è malata, carcerata» (n. 110). Infine, non si deve dimenticare – afferma Leone XIV, citando l’Evangelii gaudium di papa Francesco – che, senza sottovalutare l’importanza dell’impegno per la giustizia, la mancanza di attenzione spirituale è la peggiore discriminazione di cui soffrono i più deboli. Perciò, «l’opzione preferenziale per i poveri deve tradursi principalmente in un’attenzione religiosa privilegiata e prioritaria» (n. 114).

È significativo e per alcuni versi inaspettato che la conclusione di Dilexi te sia dedicata all’elemosina: «ancora oggi, dare», si scrive. Si ribadisce ovviamente che la cosa più importante è aiutare il povero ad avere un lavoro che gli permetta di guadagnarsi la vita in un modo degno; però, quando questo non è ancora possibile, «l’elemosina – afferma il Pontefice – rimane un momento necessario di contatto, di incontro e di immedesimazione nella condizione altrui» (n. 115). Essa non sostituisce l’impegno delle istituzioni né la lotta per la giustizia, «però invita almeno a fermarsi e a guardare in faccia la persona povera, a toccarla e a condividere con lei qualcosa del proprio. In ogni caso, l’elemosina, anche se piccola, infonde pietas in una vita sociale in cui tutti si preoccupano del proprio interesse personale» (n. 116).

L’appello finale di papa Leone XIV a ognuno di noi è molto chiaro e ricorda, ancora una volta, il rapporto, che possiamo chiamare «sacramentale», con i poveri: «Sia attraverso il vostro lavoro, sia attraverso il vostro impegno per cambiare le strutture sociali ingiuste, sia attraverso quel gesto di aiuto semplice, molto personale e ravvicinato, sarà possibile per quel povero sentire che le parole di Gesù sono per lui: “Io ti ho amato” (Ap 3,9)» (n. 121).

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[1] Il testo dell’Esortazione apostolica si può trovare in vatican.va/content/leo-xiv/it/…

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La «Rerum novarum» e «La Civiltà Cattolica». Il ruolo di P. Matteo Liberatore


P. Matteo Liberatore e una delle bozze della Rerum novarum.
Leone XIV, fra i motivi della scelta del nome, ha fatto riferimento all’enciclica Rerum novarum del suo predecessore Leone XIII, ciò che naturalmente ha ridestato grande attenzione su quella famosa enciclica e sul suo significato storico. In tale contesto, abbiamo pensato a questa breve nota, non certo per dare un nuovo contributo sull’importanza e i contenuti ben conosciuti di quel documento fondamentale del magistero sociale della Chiesa, quanto per ricordare con gratitudine una circostanza meno conosciuta, cioè che per la sua formulazione papa Leone XIII ricorse alla collaborazione di uno dei gesuiti fondatori e scrittori de La Civiltà Cattolica, p. Matteo Liberatore. Questo ci induce a rinnovare l’auspicio che, pur in tempi e situazioni assai cambiati, questa rivista possa continuare a fare un buon servizio anche a papa Leone XIV, come ha cercato di fare ai suoi predecessori.

Mons. Tardini e la «Rerum novarum»


Pochi giorni dopo il 50° anniversario della grande enciclica – caduto il 15 maggio del 1941 –, il 1° giugno, nel giorno di Pentecoste, Pio XII tenne uno dei suoi famosi radiomessaggi, ricordando al mondo sconvolto dalla guerra l’insegnamento sociale della Chiesa e la grande figura di Leone XIII[1]. Mons. Domenico Tardini, allora Segretario della Congregazione per gli affari ecclesiastici straordinari, ma da sempre attento e molto attivo nel promuovere l’impegno sociale e politico del laicato cattolico, ne fu profondamente colpito, tanto da sentirsi spinto ad approfondire lo studio dell’origine della Rerum novarum, compiendo anche personalmente ricerche negli archivi vaticani. Ma, alla fine della guerra, i numerosi impegni del servizio alla Santa Sede gli impedirono di portare avanti il suo progetto. Tuttavia nel 1948 egli ne parlò a mons. Giuseppe De Luca, uno degli ecclesiastici più autorevoli nel mondo della cultura italiana, il quale si convinse del valore delle ricerche avviate e propose a uno studioso di sua conoscenza, mons. Giovanni Antonazzi, già noto per pubblicazioni di indole storica, di continuare il lavoro.

Il lavoro fu lungo, accurato e paziente. Nel 1957, le prestigiose Edizioni di Storia e Letteratura pubblicarono infine uno splendido volume di grande formato, L’Enciclica «Rerum novarum». Testo autentico e redazioni preparatorie dai documenti originali[2], curato appunto da mons. Antonazzi, con una prefazione di mons. Tardini e un breve testo introduttivo di mons. De Luca. Di quest’ultimo vale la pena ricordare le prime parole: «Rare volte, sulla soglia di queste Edizioni, mi è accaduto di provare tanta commozione nel congedarmi da un libro sul punto ormai di prendere la propria strada, e nessun libro più di questo mi ha tenuto in altrettanta soggezione, in tutti gli anni che mi è rimasto in cantiere. Costituisce una delle pagine più alte di un Pontefice, che di simili non poche ne ha lasciate alla Chiesa, ma nessuna più grande, improntata com’è tutta al suo genio, e segnata veramente e intimamente dal suo nome». Il volume venne presentato al papa Pio XII, e La Civiltà Cattolica ne fece un’ampia recensione, molto elogiativa, firmata da p. Angelo Martini[3].

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Mons. Antonazzi premise alla parte documentale un’ampia Introduzione, molto interessante, in cui spiegava e dimostrava accuratamente che il pontefice Leone XIII, pur scrivendo egli stesso pochissimo, guidava con estrema cura la redazione di tutti i documenti a cui avrebbe apposto il suo nome. Ciò vale anche per questa enciclica, sulla quale non si è rinvenuto alcun suo autografo, ma che senza alcun dubbio è sua. Mons. Antonazzi rievoca e presenta con efficacia anche la personalità e lo stile di lavoro dei prelati che furono i principali e più vicini collaboratori del Pontefice nella preparazione del testo, in particolare i monsignori Gabriele Boccali e Alessandro Volpini. Il primo fu «consigliere e confidente» del Papa, «del quale era in grado forse meglio di ogni altro di interpretare la mente». Il secondo, «considerato a ragione il più illustre dei latinisti pur così valenti del Pontefice latinista egli stesso», fu «il paziente e forbito cesellatore della prosa latina della Rerum novarum». Non bisogna dimenticare che a quel tempo il vero testo autentico ufficiale delle encicliche era quello latino.

Nel corpo documentale del suo volume, Antonazzi, fondandosi principalmente sulle note di Volpini, presenta poi dettagliatamente il complesso sviluppo della redazione, con la successione di tre schemi italiani e di tre fasi della traduzione latina. Tutto questo laborioso processo di revisioni e integrazioni, certamente seguito personalmente dal Papa, meticoloso, esigente e pienamente consapevole dell’importanza del suo pronunciamento su argomenti così fondamentali per la vita sociale, si svolge fra il 5 luglio 1890, data del primo schema italiano, e il 15 maggio 1891, data della pubblicazione del testo definitivo. «Tanti schemi, tanti minuziosi rifacimenti, tanta ricerca di chiarezza di idee come di classica perfezione nello stile e, diciamo pure, tanta sovrana libertà di azione nel rivedere o mettere da parte il lavoro di uomini di studio e di alto prestigio personale indicano chiaramente che il papa aveva una sua idea, comunicata ai suoi collaboratori, ma parimenti ricercata e studiata in lunga meditazione, riflettendo su quanto gli veniva proposto»[4].

La redazione del testo dell’enciclica fu affidata dal Papa a studiosi «particolarmente versati negli studi di filosofia e di sociologia e altamente apprezzati da Leone XIII, quali il P. Matteo Liberatore S.I. e il card. Tommaso Zigliara O.P.», autori rispettivamente del primo e del secondo schema in italiano. Ad essi si aggiunse più marginalmente il card. Camillo Mazzella (anche lui gesuita, a cui vennero chieste, come pure a Liberatore, osservazioni sullo schema dello Zigliara) e il già ricordato mons. Boccali.

Antonazzi attribuisce con certezza il primo schema italiano, intitolato «La questione operaia» (di cui possedeva solo un fascicolo in bozze di stampa), a Liberatore. Con acuti e attenti raffronti con gli articoli pubblicati da Liberatore su La Civiltà Cattolica, egli tende ad attribuirgli anche un contributo di rilievo preponderante nel passaggio alla redazione del terzo schema italiano, assai più ampio e articolato del primo, mentre ipotizza come molto importante il contributo di mons. Boccali in una stesura riveduta e conclusiva della redazione italiana, su cui verrà condotta la traduzione latina.

Podcast | IL PREZZO DELLA DISUGUAGLIANZA


Papa Leone XIV ha lanciato un monito sulla crescente disuguaglianza economica globale. Ma quali sono le ragioni di questo fenomeno e quali i rischi? Lo abbiamo chiesto a due economisti che hanno curato la voce “disuguaglianza” nel Dizionario della Dottrina sociale della Chiesa: Andrea Boitani e Lorenzo Cappellari.

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L’attenta e ben argomentata ricostruzione di Antonazzi non può tuttavia ovviamente rispondere a tutti gli interrogativi sull’attribuzione delle diverse correzioni e modifiche del testo in preparazione. Rimangono aperte varie questioni. Inaspettatamente, nel 1982, nel corso di un parziale riordino dell’archivio de La Civiltà Cattolica dopo la morte del precedente archivista – il già citato p. Martini –, fra le mani di chi scrive capitò una busta voluminosa con la dicitura: «Carte del P. Liberatore. Bozze dell’Enciclica Rerum novarum». Mi affrettai a cercare mons. Antonazzi per mostrargli il contenuto e avere il suo parere. Egli commentò con gentilezza – e forse con un po’ di rimpianto – che era proprio quello che a suo tempo aveva cercato per comprendere meglio il ruolo di p. Liberatore, ma che non era stato trovato[5]. Fra queste carte, vi era l’intero testo autografo di p. Liberatore del «primo schema italiano», ma anche un esemplare di bozze e uno di un manoscritto del «terzo schema italiano», con moltissime e ampie correzioni di mano dello stesso Liberatore, che dimostrano il suo ruolo molto importante anche nelle fasi ulteriori della redazione del testo, come – e forse più di come – era stato giustamente supposto da Antonazzi. Insomma, si deve considerare ben documentato il fatto che, nel lavoro di preparazione del testo della sua più grande enciclica, Leone XIII si avvalse della collaborazione di p. Liberatore, probabilmente più che di ogni altro studioso della materia.

Chi era p. Liberatore?


P. Matteo Liberatore è uno dei quattro gesuiti che hanno fondato La Civiltà Cattolica nel 1850. Il primo ispiratore dell’iniziativa fu, com’è noto, p. Carlo Maria Curci, che però lasciò la rivista nel 1866. Oltre a lui, vi erano p. Luigi Taparelli d’Azeglio, filosofo e giurista di larga fama, morto nel 1862; p. Antonio Bresciani, letterato, autore di romanzi a puntate di grande successo, morto anch’egli nel 1862; e appunto p. Liberatore[6]. Quest’ultimo, nato a Salerno nel 1810, studioso di filosofia, di indirizzo neotomista e molto attento alle questioni della vita sociale e politica del tempo, diede un contributo di primaria importanza alla vita della rivista, che si rispecchia nei circa 390 articoli che egli vi pubblicò nel corso di oltre quarant’anni. Le caratteristiche dei suoi scritti ben rappresentano lo stile e lo spirito de La Civiltà Cattolica dell’Ottocento: intelligenza, solidità di argomentazione, vivacità polemica, stile chiaro, forte e denso. Per decenni, nella seconda metà di quel secolo, egli è stato il «notista politico» della rivista riguardo a tutto ciò che succedeva in Italia e nel mondo del tempo. Può essere definito «il principale estensore degli articoli e delle note che esprimevano l’indirizzo della rivista, in conformità con le posizioni della Santa Sede»[7].

P. Liberatore gode dell’amicizia e della stima di Pio IX e poi di Leone XIII. La familiarità e la sintonia con papa Leone XIII si estendono all’approfondimento di molte questioni fondamentali della filosofia e della filosofia sociale già ben prima della Rerum novarum. Egli è certamente uno dei principali interlocutori del Papa nel suo impegno per il sostegno alla rinnovata filosofia scolastica (di cui tratta l’enciclica Aeterni Patris, del 1879). Insegna infatti anche filosofia all’Università Gregoriana, dove, fra gli altri, ha come discepoli il futuro papa Ratti e il giovane don Luigi Sturzo. Scrive molto sui rapporti fra Chiesa e Stato, argomento a cui Leone XIII dedicò l’enciclica Immortale Dei, del 1885. Riflette con lungimiranza sulla situazione della Chiesa dopo la fine del potere temporale dei papi; è favorevole all’impegno dei cattolici in politica… Si potrebbe continuare a parlare a lungo di questi argomenti[8]. Non vi è dunque nulla di strano nel fatto che p. Liberatore fu certamente fra i principali studiosi – come si è detto, ma forse proprio il principale – scelti da Leone XIII per collaborare al progetto di una nuova enciclica dedicata alla «questione operaia», sollecitata da molte autorevoli voci del mondo cattolico.

P. Liberatore muore nell’ottobre del 1892, cioè poco più di un anno dopo la pubblicazione della Rerum novarum. Fra i suoi ultimi articoli su La Civiltà Cattolica vi sono i quattro da lui dedicati alla presentazione dell’enciclica, che sembrano esserne più una parafrasi che un commento, «molto utili per l’evidenza data all’ordine ideologico del documento, con opportune divisioni in parti, paragrafi e inserimento di sottotitoli»[9]. In un certo senso, essi dimostrano quanto Liberatore senta il testo dell’enciclica papale come anche «suo».

Alla sua morte, i confratelli pubblicano un ampio «Necrologio»[10], che non solo ricorda l’importanza delle sue opere, ma anche commuove per l’apprezzamento delle sue virtù religiose e per la gratitudine espressa per la sua dedizione nel servizio della missione comune: «L’illustre veterano delle battaglie della penna, lo strenuo propugnatore delle dottrine dell’Angelico, uno dei precipui sostegni della Civiltà Cattolica, a cui diè vita, incremento e decoro. […] Egli non voleva che gli si usassero riguardi, neppure nella sua decrepita età, ed acconciavasi in tutto alla vita comune. Era pertanto una tenerezza il vedere il buon vecchio trascinarsi a gran fatica appo i più giovani, ovunque ad ora posta tutti in comune si raccoglievano». La sua disponibilità e carità gli fecero voler molto bene: «Tanta amorevolezza guadagnogli il cuore e le simpatie di tutti, massime de’ suoi confratelli, i quali al solo vederlo sorridevangli di compiacenza in viso, facevangli festa dintorno e invitavanlo a dire certe sue novellette, ch’egli soleva contare con grazia inarrivabile; dacché quant’era nel suo conversare parco ed assennato, altrettanto porgevasi piacevole e grazioso». Anche questo dunque erano p. Liberatore e La Civiltà Cattolica dei suoi tempi…

Un’ultima osservazione. Leo-
ne XIII e Liberatore erano coetanei, nati nel 1810. Quando si dedicano alla storica impresa della grande enciclica – con responsabilità diverse, ma in profonda unione di spirito e di pensiero – hanno 80 anni, e Liberatore sta giungendo al traguardo della sua vita. La sapienza della mente e del cuore (cfr Sal 90,10-12) ha permesso a entrambi di illuminare il cammino al servizio della Chiesa nel loro tempo assetato di «cose nuove». Una missione che continua anche oggi, guidata dal Papa, e che non è meno urgente di allora.

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[1] Cfr Pio XII, «Radiomessaggio “Il cinquantesimo della ‘Rerum novarum’”», in Discorsi e radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, Città del Vaticano, Tipografia Poliglotta Vaticana, 1955, III, 111.

[2] Cfr L’Enciclica «Rerum novarum». Testo autentico e redazioni preparatorie dai documenti originali, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1957, X-232.

[3] Cfr A. Martini, «Una monumentale edizione dell’enciclica “Rerum novarum”», in Civ. Catt. 1958 I 277-286. P. Martini, scrittore e archivista de La Civiltà Cattolica, era uno dei quattro storici gesuiti incaricati da Paolo VI della pubblicazione della grande raccolta Actes et Documents du Saint Siège relatifs à la Seconde Guerre mondiale, in 11 volumi. Sull’origine dell’opera, ricordiamo pure un articolo dello stesso curatore, in memoria del card. Tardini: G. Antonazzi, «In margine alla pubblicazione dei testi della” Rerum novarum”», in Osservatore Romano, 29 luglio 1962, 3.

[4] A. Martini, «Una monumentale edizione dell’enciclica “Rerum novarum”», cit., 281.

[5] Di questo ritrovamento si diede allora notizia: cfr F. Lombardi, «La “Civiltà Cattolica” e la stesura della “Rerum novarum”. Nuovi documenti sul contributo del padre Matteo Liberatore», in Civ. Catt. 1982 I 471-476.

[6] Per una breve e densa biografia di p. Liberatore, cfr l’articolo a lui dedicato nel Dizionario biografico degli Italiani, vol. LXV, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2005, 38-40. L’articolo è redatto da p. Salvatore Discepolo.

[7] Ivi, 39.

[8] Cfr F. Dante, «Cattolicesimo intransigente e cattolicesimo sociale nella seconda metà del XIX secolo. Il contributo di Matteo Liberatore alla “Rerum novarum”», in Studi e materiali di storia delle religioni 53 (1987) 219-258.

[9] A. Martini, «Una monumentale edizione dell’enciclica “Rerum novarum”», cit., 281. I quattro articoli di Liberatore sono stati pubblicati in Civ. Catt. 1891 III 5-16; 271-287; 417-430; IV 22-33.

[10] Cfr «Il P. Matteo Liberatore della Compagnia di Gesù», in Civ. Catt. 1892 IV 352-360.

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L’epoca del «pathos»


Laocoonte e i suoi due figli lottano coi serpenti. Museo Pio-Clementino, Musei Vaticani.

Il contributo dell’antropologia


Uno degli scopi dell’antropologia è favorire l’autocomprensione dell’essere umano, cioè attivare un processo di consapevolezza delle dinamiche esistenziali e culturali nelle quali egli si trova a vivere. Si tratta di un processo liberante, perché permette di scegliere chi vogliamo essere piuttosto che subire passivamente i cambiamenti che avvengono dentro di noi e attorno a noi.

Un limite dell’antropologia è dato però dal fatto che essa può fornire solo chiavi di lettura, in virtù della complessità dell’essere umano e per la varietà delle condizioni sociali in cui vive, nonché per quella dimensione di mistero che è ineliminabile in ogni persona. Possiamo quindi descrivere quelle dinamiche che più o meno sono presenti in ognuno di noi, senza la pretesa che siano esaustive o che vengano vissute sempre nelle stesse modalità.

Una delle possibili chiavi di lettura è la comprensione del nostro tempo come un passaggio dall’epoca del logos, inteso come centralità della ragione analitica ed esaltazione di una logica stringente quale struttura fondamentale della comunicazione, all’epoca del pathos, cioè del riemergere in modo strabordante dell’espressione emotiva.

Questa distinzione appare analoga a quella che Friedrich Nietzsche individuava, in senso inverso, a proposito della nascita della tragedia, tra il dionisiaco e l’apollineo. Vorremmo dunque ripartire da questa intuizione di Nietzsche per comprendere in che modo la nostra epoca possa essere considerata come il trionfo del dionisiaco, che effettivamente egli aveva previsto. Ripercorrendo le osservazioni del filosofo tedesco, emergerà anche la via possibile per una ricomposizione vitale di quella frattura tra ragione ed emozione che abita oggi il cuore dell’uomo.

Dionisiaco e apollineo


Sebbene Nietzsche sia ritornato più volte sulla relazione tra questi due termini, di fatto è ne La nascita della tragedia[1] che egli presenta lo sviluppo dell’arte, a partire proprio dalla tragedia antica, attraverso la relazione tra il dionisiaco e l’apollineo. Si tratta innanzitutto di una coppia di termini che non è semplicemente antitetica, ma fraterna. Dionisiaco e apollineo sono infatti due istinti che si manifestano in ogni arte, benché si fondino e si concilino solo nella tragedia attica, e in modo specifico, secondo Nietzsche, solo nell’opera di Eschilo.

Dal punto di vista dei generi artistici, una prima distinzione, presente già in una conferenza del filosofo del 1870[2], è quella tra le arti visive, che sono maggiormente espressione dell’istinto apollineo, e l’arte musicale, che manifesta invece pienamente lo spirito dionisiaco. I cortei dionisiaci sarebbero infatti la culla del dramma antico, che era costituito fondamentalmente solo dal coro. In tali rappresentazioni, l’unico eroe presente sulla scena era proprio Dioniso. Quelle rappresentazioni non implicavano la presenza di un vero e proprio pubblico, come siamo abituati a pensare anche nelle forme successive della tragedia: il pubblico era coinvolto all’interno del coro stesso e vi si poteva rispecchiare.

Per spiegare meglio tale distinzione, Nietzsche utilizza due immagini. L’apollineo è sì la visione, ma più propriamente la visione onirica, il sogno. Esso anima la scultura, la pittura e la poesia epica. Ma ciò che è importante mettere in evidenza in questa concezione dell’apollineo è il suo rapporto con il principium individuationis: essendo legato alla visione, esso tende a definire, a dare confini, sottraendosi alla possibilità dell’immersione nel tutto[3].

Il dionisiaco è rappresentato invece dall’ebbrezza; va quindi al di là della lucidità delle regole. È l’arte priva di immagini. Per questo si esprime nella musica, che ci mette in relazione con gli universalia ante rem, a differenza dei concetti, che sono gli universalia post rem, e della realtà, che è costituita dagli universalia in re[4]. Il dionisiaco è propriamente la perdita del principium individuationis, proprio perché abita prima delle cose. Potremmo anche dire che è la vera metafisica, mentre l’apollineo è il regno dell’ontologia, perché si concentra sulla visione del singolo ente.

Riprendendo un esempio di Arthur Schopenhauer, Nietzsche paragona l’uomo che si lascia guidare dal principio di ragione a un navigante che solca i mari con una fragile imbarcazione, ma proprio per questo rischia di venire sommerso dalle montagne d’acqua che lo circondano[5]. Il principio apollineo accompagna l’uomo in questo viaggio fra la tranquilla sicurezza di poter comprendere la realtà e l’orrore smisurato quando si accorge che questo principio non funziona. Apollo, in effetti, è il dio della bella parvenza: il termine tedesco Schein indica infatti anche l’apparenza, il fenomeno, l’individuazione.

Proprio questo principium individuationis è, per Nietzsche, la causa di ogni male, perché impedisce la mistica fusione con il tutto. La ricerca della chiarezza ci porta a rimanere alla superficie delle cose, perché possiamo vedere solo un ente alla volta, per cui ogni sguardo su un fenomeno ci distoglie dalla possibilità di sperimentare il tutto. Al contrario, il dionisiaco è l’ebbrezza che comporta la perdita di sé, per cui il soggetto si identifica con il tutto, così come lo spettatore della tragedia attica si confondeva con il coro.

Il dionisiaco diventerà progressivamente, per Nietzsche, anche sinonimo della visione anticristiana, tant’è vero che, seppur raramente e solo verso la fine della sua vita, troviamo in lui l’espressione «Dioniso contro il crocifisso», utilizzata talvolta anche come una sorta di firma dell’autore. Dioniso Zagreo[6] e Cristo sono accomunati dal martirio, ma, se il Dio della croce invita a redimersi dalla vita, in quanto in sé stessa immorale, Dioniso rappresenta l’eterna felicità e la rigenerazione attraverso il dolore.

Uno degli aspetti originali dell’interpretazione data da Nietzsche allo sviluppo della tragedia è il sodalizio tra Socrate ed Euripide. Se infatti quest’ultimo rappresenta colui che ha ucciso la tragedia, Socrate è colui che ha ispirato tale suicidio (nel senso che con Euripide la tragedia si uccide da sola). I due sono tra l’altro accomunati nella profezia dell’oracolo di Delfi, che li considera come il primo e il secondo uomo più saggio.

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Colui che ha costretto alla fuga lo spirito dionisiaco è dunque proprio Socrate, in quanto portatore di una visione del sapere caratterizzata dalla scienza, dall’ottimismo, dalla dialettica, dalla riflessione e dalla logica, aspetti che sono incompatibili e inconciliabili con il mito. Il socratismo, che parla attraverso Euripide, non lascia spazio al mito e distrugge la tragedia antica. Nella tragedia di Euripide è in atto un processo di razionalizzazione per cui lo spettatore non si perde nella scena, ma prova continuamente a comprenderla. Questo processo troverà compimento nella Poetica di Aristotele, che non a caso parlerà della narrazione, e prima di tutto della tragedia, come di un intrigo costruito attraverso il nesso logico tra le azioni: il mythos diventa, per Aristotele, un’imitazione della natura degli eventi, mimesis praxeos[7].

Con Socrate assistiamo, secondo Nietzsche, all’ascesa dell’uomo teoretico, simbolo della cultura alessandrina. Si tratta di un uomo animato dall’ottimismo logico e dal piacere della conoscenza, convinto dei risultati a cui può condurre il principio di causalità, cioè la possibilità di risalire ai princìpi dei fenomeni. Tutto quindi sembra chiaro, e il sapere viene considerato come una medicina universale che può risolvere i problemi dell’esistenza. In realtà, l’uomo alessandrino, nella rilettura fornita dal filosofo tedesco, non è altro che un bibliotecario, un correttore di bozze, che diventa cieco nella polvere dei libri e tra i refusi[8]. In altre parole, potremmo dire che è un uomo che ripercorre il già dato analizzandone i nessi, ma senza alcuna creatività e senza scoprire quello che c’è al di là dell’apparenza.

Il motivo per cui la riflessione di Nietzsche può aiutarci a comprendere il nostro tempo risiede anche nella convinzione del filosofo tedesco secondo cui lo spirito non dionisiaco – per certi versi, potremmo dire, anche il cristianesimo, nella sua interpretazione – non ha distrutto interamente la concezione tragica del mondo. Questa visione drammatica è stata solo costretta a rifugiarsi negli inferi e a dare luogo a un culto segreto. Ciò che spaventa, scrive il filosofo, è pensare che l’uomo di cultura sia stato concepito solo nella forma dell’uomo erudito, cioè con una mentalità ottimistica che si illude di essere senza limiti[9]. Nietzsche era invece convinto che la sua epoca stesse vivendo la rinascita della tragedia, e nulla avrebbe potuto mettere in dubbio la sua fede in un imminente rifiorire dell’antichità ellenica.

A nostro avviso, effettivamente lo spirito dionisiaco è riemerso prepotentemente oggi, in contrapposizione a un approccio apollineo che ha tentato di cancellare la dimensione più creativa e intuitiva della vita. In questo modo si è però ribadita una frattura nell’essere umano, che non gli permette di integrare positivamente le diverse dimensioni del suo animo.

Un ultimo aspetto, che non solo è problematico ma purtroppo anche indicativo della conflittualità della nostra epoca, consiste nella connessione individuata da Nietzsche tra il riapparire dell’istinto dionisiaco e l’affermazione dello spirito tedesco. Il filosofo riteneva infatti che lo spirito tedesco, nonostante l’apparenza, vivesse un tempo di riposo e di sogno, da cui sarebbe riemerso indenne nella sua prodigiosa salute, come un cavaliere sprofondato nel sopore[10]. Un giorno, scrive Nietzsche, lo spirito tedesco si scoprirà desto, ucciderà i draghi, annienterà i nani maligni, ridesterà Brunilde[11], e neppure la lancia di Wotan[12] potrà sbarrargli la strada[13]. Il filosofo è infatti convinto che il genio tedesco abbia subìto una lunga umiliazione e sia «divenuto straniero nella sua casa e nel suo paese natale, al servizio di nani maligni»[14].

Queste affermazioni, conoscendo il corso della storia, suonano oggi particolarmente nefaste e ci fanno comprendere l’urgenza di considerare con attenzione e rispetto i movimenti che sono in atto nelle diverse culture. Dal momento che la componente dionisiaca pervade effettivamente la storia, occorre riconoscerla e provare a ricondurla nell’alveo di una riconciliazione con la dimensione apollinea, in modo che nessun istinto sia sacrificato.

Proprio per aiutare questo lavoro, vorremmo proporre di rileggere, in analogia con quanto affermato da Nietzsche, la nostra epoca come quella di una frattura in atto, altrettanto pericolosa, tra la dimensione del pathos e quella del logos.

«Logos» e «pathos»


Come Nietzsche guarda alla tragedia antica e alla sua evoluzione per mostrare la storia della relazione tra dionisiaco e apollineo, così noi possiamo osservare il modo in cui ci raccontiamo per comprendere il passaggio dall’epoca del logos a quella del pathos, cioè da un lungo periodo in cui la razionalità è stata posta al centro come unica e più alta forma di espressione dell’essere umano al momento che stiamo vivendo, in cui la dimensione emotiva rivendica un’attenzione e uno spazio a cui nei secoli precedenti non ha avuto diritto. Questo passaggio reca in sé dei rischi, ma allo stesso tempo apre prospettive che vanno ascoltate per una realizzazione sempre più piena dell’umano.

Il modo in cui ci raccontiamo costituisce una rappresentazione di noi stessi. Dal momento che l’epoca dei social offre molteplici occasioni per narrare il proprio vissuto, possiamo provare a capire quale immagine dell’umano emerge da tali racconti. L’epoca postmoderna, studiata in un testo celebre da Jean-François Lyotard[15], era caratterizzata dall’incredulità verso le metanarrazioni: le grandi visioni del mondo, che si proponevano come sguardi complessivi e interpretativi della realtà, erano giunte alla fine, incapaci di svolgere il compito per cui erano nate. Lyotard si riferisce al marxismo, alla psicanalisi e alla religione.

La fine delle metanarrazioni ha però lasciato sul terreno qualcosa che Lyotard non aveva previsto, ossia il fatto che i grandi racconti sono stati sostituiti efficacemente da micronarrazioni, che caratterizzano il modo di comunicare della nostra epoca. Si tratta di convinzioni senza complessità che guidano e influenzano l’opinione pubblica non mediante ragionamenti stringenti e articolati, ma attraverso affermazioni che toccano la sfera emotiva e inducono ad agire senza pensare troppo. Dal punto di vista comunicativo, le micronarrazioni assumono la forma degli slogan: asserti brevi e funzionali che non sono destinati a essere messi in discussione, ma solo a essere accolti e condivisi. A ben guardare, le micronarrazioni o slogan rievocano per certi versi la natura del mito, che prima del V secolo a.C. serviva per organizzare la conoscenza senza una logica stringente: si trattava di un modo per darsi delle spiegazioni laddove il problema rimaneva misterioso.

L’epoca degli slogan è chiaramente segnata dalla centralità della parola. Non si tratta più di una parola curata, complessa o nobile, bensì di una parola gettata, rapida, emotiva. Uno degli slogan che si trova dietro la rappresentazione social è che tutti vogliamo stare sulla scena. Proprio come Nietzsche aveva osservato che all’origine della tragedia c’era solo il coro e non c’era una distinzione tra lo spettatore e la rappresentazione scenica, così i social hanno eliminato la distanza tra autore e lettore, tra attore e pubblico. Tutta la realtà è diventata una sorta di teatro immersivo. In uno dei bestseller degli anni Settanta in cui troviamo i prodromi della cultura attuale, parlando delle avventure che si possono sperimentare viaggiando in moto, Robert Maynard Pirsig ha scritto: «In moto la cornice non c’è più. Hai un contatto completo con ogni cosa. Non sei più uno spettatore, sei nella scena, e la sensazione di presenza è travolgente»[16].

La tradizione occidentale, generata alla conoscenza da Aristotele, ha posto al centro la razionalità logica. Le opere logiche di Aristotele erano conosciute e commentate nel Medioevo. Agostino aveva sicuramente una conoscenza delle Categorie. La morale cristiana ha posto il suo fondamento nella ragione, dal momento che la legge naturale si riferisce alla legge che è secondo la natura razionale della persona. Solo nel XIX secolo assistiamo al tentativo di Gottlob Frege di proporre un nuovo modello logico, diverso da quello aristotelico. Questa centralità della ragione, che spesso si è trasformata in un «ottimismo ingenuo», per usare i termini di Nietzsche, è stata accompagnata parallelamente dal pregiudizio e dalla paura riguardo alla componente emotiva.

Una lunga e antica tradizione ha guardato con sospetto le passioni: già gli Stoici, per esempio, le consideravano un’aberrazione della ragione, una diastrophē. A differenza dei nemici esterni riconoscibili, le passioni vengono ritenute come un parassita che si attacca e si nutre della ragione stessa[17]. Per questo Cicerone ha affermato che «bisogna estirpare a fondo gli errori che sono alla radice della passione, non potarli»[18].

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La tradizione cristiana ha accentuato ulteriormente la dimensione della lotta interiore, che si è andata configurando nei termini di una lotta spirituale – certamente a partire dalla predicazione di Paolo – tra i desideri della carne e quelli dello spirito (cfr Gal 5,17). Ma accade qualcosa di nuovo proprio grazie all’apporto della spiritualità cristiana dei primi secoli: si comincia a pensare che gli affetti siano mossi in realtà proprio dai pensieri. Quindi il vero nemico da affrontare, dicono i Padri del deserto, sono i pensieri stessi, che hanno il potere di muovere e condizionare gli affetti: «La guerra tramite i pensieri è più ardua di quella che ha luogo per mezzo degli oggetti». Occorre stare come sentinelle, sulla porta del cuore, per vigilare e discernere i pensieri[19].

Dobbiamo dunque rassegnarci, concluderà più tardi Blaise Pascal, a convivere con questa guerra intestina tra passioni e ragione[20]. Non troveremo mai pace. Al più, possiamo sperare in brevi e precarie tregue[21]. Siamo condannati a un continuo fluttuare in un mare in tempesta, senza poter mai trovare un equilibrio definitivo[22].

René Descartes, invece, non si rassegnerà davanti al conflitto tra passioni e ragione, ma cercherà una mediazione. Ci sono infatti delle regole da utilizzare per gestire il disordine delle passioni: occorre conoscere il territorio, ovvero lo spirito, il proprio mondo interiore, dentro cui le passioni si muovono; bisogna ascoltare e obbedire alla ragione, senza lasciarsi distrarre; è opportuno uno sguardo realistico sui beni che si possiedono piuttosto che cercare di utilizzare risorse che non si possiedono[23]. Le passioni, dice Descartes, sono come una lente di ingrandimento; per questo occorre sempre ridimensionare quello che vediamo attraverso di esse[24].

Solo con Baruch Spinoza è possibile cogliere una visione più conciliante e integrata dell’essere umano: non ci sono nemici, ma solo elementi diversi che fanno parte della natura delle cose. Non si deve avere paura delle tempeste o del freddo, perché fanno parte della natura, anzi ci aiutano a conoscerla. Così le passioni non sono nemici da combattere, ma elementi della natura umana che possono addirittura aiutarci a conoscere noi stessi[25].

Se gli affetti vengono interpretati come un problema o una distorsione, è inevitabile che se ne cerchi una cura, come nel caso di un paziente malato. Forse per questo, quando – nella seconda metà del XIX secolo – nasce la psicologia sperimentale, la filosofia si libera dalla questione degli affetti, appaltandola alla nuova disciplina. Solo di recente la filosofia ha ritrovato interesse per le dinamiche affettive, comprendendo che non è possibile un’antropologia o una riflessione culturale senza tener conto di questa dimensione dell’essere umano. La filosofia si pone anzi in una posizione privilegiata per operare una mediazione e una sintesi tra i diversi approcci alla questione degli affetti.

Un punto comune nella riflessione sugli affetti è il loro rapporto con la dimensione cognitiva. Indichiamo come esempio tre prospettive in ambito psicologico, filosofico e neuroscientifico, in modo da proporre una sintesi che scaturisca da questo dialogo interdisciplinare.

La Rational Emotive Therapy (RET) di Albert Ellis propone, già dal nome, una interazione tra aspetto emotivo e dimensione cognitiva[26]. La RET intende aiutare le persone a modificare le emozioni che impediscono il benessere del paziente, mediante una riformulazione della propria visione del mondo. Le emozioni quindi non sono più considerate come un soggetto nemico dei pensieri, ma come conseguenze dei pensieri. Si tratta dunque dello spostamento della radice del problema, che non risiede più nella sfera affettiva, ma in quella cognitiva.

Uno degli slogan della psicologia cognitiva, che riprende un aforisma attribuito a Epitteto, filosofo stoico, afferma infatti che «non sono le cose in sé a darci fastidio, ma l’opinione che ci facciamo di esse»[27]. Quello che sentiamo davanti a un evento o a una situazione non è causato dall’evento, ma dalla credenza che precede l’emozione. Ciò che sentiamo è il risultato della nostra interpretazione della realtà. La maggior parte dei disturbi emotivi non dipende, secondo Ellis, da conflitti pulsionali, ma dal trasformare desideri e preferenze in esigenze e doveri[28].

In maniera analoga, dal punto di vista filosofico, Martha C. Nussbaum mette insieme, nel titolo di uno dei suoi testi più noti, dimensione cognitiva ed emotiva: L’intelligenza delle emozioni[29]. Riprendendo la teoria stoica delle emozioni come giudizi valutativi, la studiosa individua nell’intelligenza la risorsa che ci permette di affrontare la fatica del mondo emotivo, così come il bambino si rifugia nel sonno per affrontare la fatica del mondo in cui improvvisamente è venuto a trovarsi[30]. Come per Ellis, anche per Nussbaum le emozioni sono interpretazioni eudemonistiche della realtà, nel senso che proviamo emozioni davanti a oggetti che abbiamo interpretato alla luce del nostro benessere[31].

Le soluzioni proposte da Ellis e da Nussbaum rischiano, paradossalmente, di risolvere il problema del conflitto attraverso un’intellettualizzazione. Così il pensiero, con grande soddisfazione della filosofia, torna a essere il protagonista persino della vita affettiva. Sembra quasi la rivincita degli Stoici e di Descartes: la rettitudine della ragione e la vigilanza dell’intelletto risolvono la questione degli affetti sgraditi. Si tratta di un’intellettualizzazione che dimentica però la componente biologica. Le neuroscienze ci permettono a questo punto di recuperare tale dimensione, apportando una distinzione preziosa tra emozioni e sentimenti.

Ci riferiamo soprattutto al lavoro di un neuroscienziato come António Rosa Damásio, da sempre in dialogo con figure significative della filosofia[32]. Per lui, le emozioni rappresentano la componente neurobiologica e si esibiscono nel teatro del corpo. Per questo esse sono pubbliche, perché visibili a chi guarda il mio corpo. E anche qualora esse non avessero una manifestazione somatica, sarebbero comunque visibili a chiunque utilizzasse uno strumento di indagine diagnostica in grado di registrare quanto sta avvenendo nel cervello. I sentimenti invece hanno luogo nel teatro della mente, sono immagini mentali, e pertanto private, conoscibili solo da parte del loro legittimo proprietario[33]. Ma nella descrizione di Damásio, il sentimento non si contrappone all’emozione pubblica, in quanto l’emozione costituisce il sostrato necessario del sentimento e il sentimento costituisce a sua volta un’interpretazione dell’emozione. Il sentimento viene dunque a essere percezione di uno stato del corpo e insieme di un pensiero su quello stato corporeo[34].

Il sentimento si candida dunque a essere il luogo di unità della persona: unità che il soggetto sperimenta specificamente nell’esercizio della decisione. Le risposte emotive, infatti, sono insufficienti quando la persona si trova di fronte a situazioni complesse che richiedono creatività, giudizio e processi decisionali. Non c’è però sentimento senza emozione. Come ha osservato lo stesso Damásio, i suoi pazienti che, pur non presentando deficit cognitivi, erano incapaci di prendere decisioni, risultavano affetti da un danno neurologico che li rendeva incapaci di provare emozioni sociali, come imbarazzo, senso di colpa o compassione[35]. Damásio ha in pratica dimostrato che nelle decisioni complesse la facoltà intellettiva deve interagire con la componente emotiva, che a sua volta si basa sul corretto funzionamento di una parte del cervello. In altre parole, il corretto funzionamento della persona richiede l’interazione integrata della componente fisica con la capacità di provare emozioni e con l’abilità di interpretarle.

Cosa possiamo imparare


Quanto emerge da questa analisi ci fa guardare con preoccupazione alla scissione tra pathos e logos nella cultura attuale. L’età della secolarizzazione, delineata in modo puntuale da un celebre testo di Charles Taylor[36], sembra ormai conclusa, e con essa sembra terminata l’epoca del logos, per lasciare spazio proprio a quella del pathos. Siamo, per certi versi, nel trionfo del dionisiaco, come Nietzsche aveva profetizzato. Se Aristotele iniziava la Metafisica con la convinzione che «tutti gli esseri umani per natura desiderano sapere»[37], la nuova metafisica inizia con la constatazione che «tutti desiderano esprimere ciò che sentono». Anche per questo ormai da diverso tempo il mercato monitora le nostre reazioni emotive come dati da utilizzare per orientare le scelte e gli acquisti delle persone[38].

Proprio per questo può sembrare paradossale la protesta di alcuni studenti che, nella sessione degli esami di Stato del 2025 in Italia, si sono rifiutati di sostenere il colloquio orale, essendo già sicuri della promozione per il punteggio ottenuto nelle prove scritte[39]. Tale protesta sembra contraddire quanto stiamo affermando, dal momento che si tratta di giovani che non hanno voluto parlare, non hanno comunicato, sebbene appartengano all’epoca dei social, nella quale tutti vogliono raccontarsi. D’altra parte, la motivazione della protesta è significativa: questi studenti hanno criticato un modello di scuola che, a loro dire, sarebbe basato solo sulla valutazione dell’apprendimento, generando un sistema competitivo, senza prestare alcuna attenzione alla loro storia. Il motivo della protesta, dunque, sembra confermare ciò che stiamo sostenendo: questi giovani sentono il bisogno di essere visti e di raccontare sé stessi e, poiché la scuola sembra rifiutare questa loro esigenza, la contestano.

L’epoca del pathos rappresenta la frattura tra apollineo e dionisiaco. Lo si vede, per esempio, nel modo di percepire la dimensione del limite. L’ebbrezza del dionisiaco, che permette di andare oltre il principium individuationis, è anche la condizione della creatività, che è possibile quando si accetta di abbandonare una sterile ripetitività analitica. Il limite va superato, ma non ignorato. Ignorare il limite, colto invece dall’istinto apollineo, è a sua volta la condizione dell’identità. Il limite è il confine che mi permette di sapere dove sono e chi sono. Provare a trascendere il limite non significa convincersi che esso non ci sia o che rappresenti il negativo. Il rifiuto dionisiaco del limite si esprime nella cultura contemporanea come orrore davanti alla sofferenza e all’invecchiamento o come scandalo davanti alla disabilità. La promessa del transumanesimo consiste proprio nell’illusione del superamento del limite.

Se, a partire dagli anni Settanta, è esplosa l’esigenza della destrutturazione di generazioni cresciute nella ferrea affermazione del primato della ragione apollinea, oggi si sente il bisogno di una ristrutturazione per affrontare il trionfo incondizionato del dionisiaco: si tratta di recuperare la capacità di interpretare il senso delle cose e di ritrovare la propensione a desiderare come scontro generativo con il limite[40]. Un esempio di questo trionfo del dionisiaco è rappresentato dal film di Paolo Sorrentino La grande bellezza (2013), in cui troviamo esattamente la destrutturazione di quello che Aristotele aveva suggerito nella Poetica come modo di costruire la narrazione, ossia la necessità, per rendere verosimile un racconto, di mostrare il nesso causale tra gli episodi[41]. Ne La grande bellezza, assistiamo a un succedersi di scene senza alcun collegamento tra loro. Già Zygmunt Bauman aveva considerato questa suddivisione della vita in episodi senza nesso come tipica dell’età postmoderna, nella quale l’essere umano sembra collezionare perle senza la capacità di legarle con un filo: «L’epoca postmoderna – scrive Bauman – è suddivisa in episodi, che non seguono alcun ordine logico coerente, ma sembrano soggetti a ogni tipo di rimescolamento. La loro successione non è preordinata in alcun modo, come sarebbe invece nella disposizione delle perline su un pezzo di filo»[42].

Da queste osservazioni ricaviamo l’idea che il compito educativo che ci attende è quello di promuovere una ricomposizione della fratellanza tra apollineo e dionisiaco. Apollo dovrebbe tornare in cerca delle membra di Zagreo, Dioniso a sua volta dovrebbe riconoscere il contributo di Apollo nella sua rinascita. La nuova epoca sarà allora «pato-logica», non perché malata, ma perché capace finalmente di costruire un dialogo tra ragione e sentimento. Come Damásio ha mostrato, questa integrazione è necessaria per la capacità decisionale della persona, ma è altresì vero che educando a saper fare delle scelte si attiva tale processo di integrazione che dà pienezza alla nostra umanità.

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[1] Le nostre citazioni di questa opera sono tratte da F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Torino, Einaudi, 2009.

[2] Cfr ivi, XXVI.

[3] Cfr ivi, 29.

[4] Cfr ivi, 153.

[5] Cfr ivi, 29.

[6] Nei riti orfici, Dioniso sarebbe nato dalle parti smembrate del dio Zagreo. Quest’ultimo è destinato a succedere a Zeus, ma per invidia di Era viene smembrato e divorato dai Titani. Le sue parti saranno ritrovate e messe insieme da Apollo. Il suo cuore sarebbe stato trovato invece da Atena.

[7] Cfr Aristotele, Poetica, 1450b 3.

[8] Cfr F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., 172.

[9] Cfr ivi, 167.

[10] Cfr ivi, 225.

[11] Addormentata per un incantesimo di Odino con una spina soporifera, Brunilde viene risvegliata da Sigfrido, che la ridesta spogliandola dell’armatura.

[12] La lancia Notung fu piantata da Wotan in un frassino ed è espressione di potere e destino. Solo Siegmund, figlio di Wotan, riuscirà a estrarla, segnando il suo destino di eroe.

[13] Cfr F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., 225.

[14] Ivi, 226.

[15] Cfr J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Milano, Feltrinelli, 1987, 6. L’edizione originale è del 1979.

[16] R. M. Pirsig, Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, Milano, Adelphi, 1981, 14. La prima edizione è del 1974.

[17] Cfr R. Bodei, Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità: filosofia e uso politico, Milano, Feltrinelli, 2010, 206-209.

[18] Cicerone, Tusculanae disputationes, IV, xxi, 47.

[19] «Contro coloro che sono nel mondo i demoni lottano prevalentemente facendo uso degli oggetti, ma con i monaci perlopiù per mezzo dei pensieri. A causa della solitudine, infatti, essi sono privi degli oggetti. E quanto è più facile peccare in pensieri che in atti, tanto la guerra tramite i pensieri è più ardua di quella che ha luogo per mezzo degli oggetti. L’intelletto, infatti, è una cosa facile da muovere e difficile da trattenere dalle fantasie illecite» (Evagrio Pontico [IV sec.], Trattato pratico, §48).

[20] «Guerra intestina nell’uomo tra la ragione e le passioni. Se egli avesse soltanto la ragione senza le passioni… Se egli avesse soltanto le passioni senza la ragione… Ma, poiché ha l’una e le altre, non può stare senza guerra, non potendo aver pace con l’una se non è in guerra con le altre: così è sempre diviso e in conflitto con se medesimo» (B. Pascal, Pensieri, 316/388).

[21] «La ragione sussiste pur sempre, e denuncia la bassezza e l’ingiustizia delle passioni, turbando il sonno di coloro che vi si abbandonano; e le passioni sono sempre vive in coloro che vogliono rinunciarvi» (ivi, 317/389).

[22] «Noi bruciamo dal desiderio di trovare un assetto stabile e un’ultima base sicura per edificarvi una torre che s’innalzi all’infinito; ma ogni nostro fondamento scricchiola e la terra si apre sino agli abissi» (ivi, 84/223).

[23] «Non vi è infatti altro che il desiderio, il rimpianto e il pentimento che possano impedirci di essere contenti; se noi invece facciamo tutto quel che ci detta la nostra ragione, non avremo mai alcun motivo di pentirci, anche se gli avvenimenti dovessero farci vedere che ci siamo sbagliati, perché ciò non sarebbe per colpa nostra» (R. Descartes, Lettera ad Elisabetta, del 4 agosto 1645).

[24] «Fanno sempre apparire molto più grandi e importanti del vero tanto i beni quanto i mali» (R. Descartes, Le passioni dell’anima, art. 138).

[25] Si tratta dell’incipit dell’incompiuto Tractatus politicus.

[26] La RET, secondo la definizione data da Ellis, è una teoria e una prassi psicoterapeutica che egli iniziò a sviluppare nel 1955, dopo aver praticato per molto tempo la psicanalisi e averla riscontrata inefficiente. Ellis comincia a usare la RET semplicemente perché vede che le sue tecniche funzionano. Solo successivamente ne sviluppa una teoria: cfr A. Ellis, «Teoria e prassi della RET (Rational-emotive therapy)», in V. F. Guidano – M. A. Reda (edd.), Cognitivismo e psicoterapia, Milano, FrancoAngeli, 1981, 219.

[27] Sebbene non proponga una propria antropologia, la RET si basa su alcune considerazioni: le persone pensano, sentono e interagiscono in modo interattivo e transazionale; emozioni, pensieri e comportamenti si influenzano reciprocamente; se cambiamo la nostra filosofia, riusciamo ad avere effetti più duraturi sul nostro comportamento; gli esseri umani possiedono in modo molto speciale e unico la capacità di pensare, simbolizzare e filosofare: cfr A. Ellis, «Teoria e prassi della RET (Rational-emotive therapy)», cit., 221.

[28] Cfr ivi, 221 s.

[29] Cfr M. C. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, Bologna, il Mulino, 2004.

[30] Cfr ivi, 34.

[31] Cfr ivi, 47.

[32] Cfr A. R. Damásio, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Milano, Adelphi, 1995; Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello, ivi, 2003.

[33] Cfr Id., Alla ricerca di Spinoza…, cit., 40.

[34] «Un sentimento [è] la percezione di un certo stato del corpo, unita alla percezione di una certa modalità di pensiero nonché di pensieri con particolari contenuti» (ivi, 108).

[35] Damásio si riferisce al famoso caso di Phineas Gage, l’operaio edile che nel 1848 fu vittima di un incidente, nel quale una sbarra di ferro gli attraversò il cranio, causandogli un danno alla corteccia frontale. Gage stava sistemando una carica esplosiva sulle linee ferroviarie del Vermont, per liberare il passaggio da una roccia che ostruiva il prosieguo della linea ferroviaria. Egli non rimase ucciso, anzi ebbe una sorprendente ripresa. Le sue capacità cognitive e percettive rimasero inalterate, ma la sua vita affettiva subì un brusco cambiamento. Egli sembrava un bambino senza alcuna consapevolezza di ciò che era importante e di ciò che non lo era. Era agitato e agiva in modo osceno, incontrollato. Era incapace di prendere delle decisioni e di mantenere relazioni con le persone che lo circondavano. Parte del sistema di valori era rimasta, ma era sconnessa dalla realtà.

[36] Cfr Ch. Taylor, A Secular Age, Cambridge, MA, Belknap Press, 2007.

[37] Aristotele, Metafisica, I, 980a 21.

[38] Si possono trovare maggiori informazioni su questo argomento in R. Booth, «Facebook reveals news feed experiment to control emotions», in The Guardian (theguardian.com/technology/201…), 30 giugno 2014.

[39] Cfr A. Carlino, «Maturità senza orale, la protesta che divide l’Italia: cosa c’è dietro il rifiuto degli studenti e perché il governo ora promette la bocciatura per chi “boicotta” l’esame di Stato», in Orizzontescuola.it, 11 luglio 2025.

[40] Cfr M. Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Milano, Raffaello Cortina, 2011.

[41] Cfr Aristotele, Poetica, 49a 25.

[42] Cfr Z. Bauman – K. Tester, Società, etica, politica. Conversazioni con Zygmunt Bauman, Milano, Raffaello Cortina, 2002, 95.

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Turoldo e Pasolini: poeti friulani, anime irrequiete di umanità e religiosità


Pier Paolo Pasolini e p. David Turoldo.
P. David Turoldo definisce così la sua amicizia con Pier Paolo Pasolini: «Io con Pasolini ho sempre avuto ottimi rapporti e ho conservato sempre l’Amicizia fino al giorno della sua morte e, anzi, devo dire che, proprio due o tre giorni prima che gli capitasse quello che gli è capitato, a degli amici svedesi ha detto: “Bisogna che vada a trovare il padre David”»[1]. Qualche giorno dopo Pasolini perdeva drammaticamente la vita nell’idroscalo di Ostia: era il 1975, e quest’anno ricorrono 50 anni. Nella memoria di p. Turoldo emerge la sua familiarità con il regista: un’amicizia singolare, discreta, ai più sconosciuta, mai ostentata, che ha avuto un impatto significativo sulla vita di entrambi. Il recente volume David Maria Turoldo e Pier Paolo Pasolini. Due anime friulane[2]vuole scandagliare tale amicizia, che sembra non essere stata in precedenza analizzata, nonostante la vastissima letteratura dedicata alle loro opere poetiche, letterarie, teatrali e cinematografiche.

Nel titolo, si definiscono Turoldo e Pasolini «due anime friulane»: un tratto indovinatissimo e quanto mai appropriato. Non solo perché essi sono friulani di due paesi vicini – Turoldo è nato a Coderno di Sedegliano, vicino Udine, e la famiglia di Pasolini proviene da un paese a breve distanza, Casarsa della Delizia, dove è nata la madre: paese di adozione dello scrittore, in cui egli ritornava volentieri nei soggiorni estivi –, ma per ragioni più profonde, che hanno origine dalla povertà di quella terra, dall’umano e dal religioso che ne traspira, dalla poesia che vi zampilla.

La povertà e l’emigrazione


La ragione per cui molti sono costretti a emigrare per sopravvivere è la povertà del Friuli.

Dopo le elementari, Turoldo vuole entrare in Seminario, ma la famiglia non ha i mezzi per mantenerlo: il rettore dei Serviti, tuttavia, lo accoglie ugualmente nell’Ordine, perché una vocazione sacerdotale dipende da Dio e non dal tenore di vita della famiglia. È da rilevare l’ultimo colloquio tra il giovane e i genitori, prima di entrare definitivamente in convento. La madre era contraria: «Noi siamo poveri e non possiamo offendere la gente», come se la loro povertà fosse una mancanza di rispetto verso gli altri. La famiglia di Turoldo era davvero una delle più povere del paese. Ma, alle insistenze del ragazzo, il padre disse: «Ebbene, allora vai. Ma ricordati: se vedrai che non è la tua strada, per via di difficoltà o altro, e cioè se non ti sentirai di continuare, ritorna pure: questa porta (e prese letteralmente la porta di casa, aprendola) è sempre aperta per te; se invece sarà per stupidaggini, sappi che questa porta (e la chiuse con un botto) non è più aperta per te»[3]. Il padre concluse: «Ti do un consiglio: preparati comunque al peggio, perché al meglio son tutti pronti, al peggio non è pronto nessuno. E ricordati del nostro proverbio: la madre del peggio è sempre incinta»[4].

Anche Pasolini deve emigrare da Casarsa, ma per una diversa ragione: la sua omosessualità conclamata, cui segue una denuncia per corruzione di minori, poi il processo e infine l’assoluzione. Ma viene subito rimosso dall’incarico di insegnante nelle scuole medie di un comune vicino. Cercherà lavoro a Roma, facendo anche il correttore di bozze, poi nuovamente insegnando, e diventerà romano, pur rimpiangendo il povero Friuli, a cui rimarrà sempre legato.

La poesia


Una raffinata sensibilità poetica accomuna le personalità di questi due soggetti. La vita di entrambi si può definire una poesia scomoda, difficile, a volte scontrosa, eppure vera e altissima poesia. Perché la poesia sgorga dall’intimo: è un’urgenza interiore di verità e di vita. Una raccolta di poesie di Turoldo appare con un titolo inquietante: Anche Dio è infelice![5].

Nel 1948 esce per Bompiani il primo volume di poesie: Io non ho mani. Turoldo scrive: Io non ho mani / che mi accarezzino il volto, / […] non so le dolcezze dei vostri abbandoni: / ho dovuto essere / custode / della vostra solitudine: / sono salvatore di ore perdute[6]. E in un altro volume scrive: Gli altri intanto / si baciavano sulla bocca, / ma io Ti mangiavo tutte le mattine. / E, allora, perché ero così triste?[7]. In questi versi sono uniti, senza contrapposizioni, amore umano e amore divino, senza tentare di attenuare il dramma di chi ama. È il gioco della propria esistenza, è la realtà della vita in cui ognuno si trova immerso. Non a caso la poesia si intitola Amore e morte. Ma, per Turoldo, tutto è problematico, perfino drammatico: Finalmente ho disturbato / la quiete di questo convento / altrove devo fuggire / a rompere altre paci[8]. Questa confessione rende ragione del perché egli sia stato definito «la coscienza inquieta della Chiesa»[9].

Ma chi può capire come va il mondo, come si possono comprendere «i segni dei tempi», per usare una formula molto cara a san Giovanni XXIII? Risponde Turoldo: «Per capire i tempi bisogna ascoltare cosa dicono i poeti. Per sapere come patisce il mondo bisogna interrogare i poeti»[10]. È sua vocazione dar voce alle aspirazioni profonde delle persone, alle fedi e alle battaglie, per cui egli cita volentieri Gregorio Magno: «Insegno quello che da voi imparo»[11]. Poi commenta: «Per me mai una predica è uguale a un’altra predica, mai un giorno è uguale a un altro giorno, mai […] una primavera a un’altra primavera. E mai Dio è uguale a Dio. Dio è sempre nuovo ed è sempre da scoprire»[12].

Pasolini redige il primo libro di poesie ambientandole a Casarsa: le scrive in friulano e le raccoglie nel 1942, in Poesie a Casarsa[13]. Il friulano non è di facile comprensione, per cui in calce a ogni poesia appare la versione italiana. Ne emerge un legame fortissimo con quella terra, una religiosità profonda, legata a un mondo arcaico, e insieme drammatica per i contrasti interiori tra fede e ricerca di sé stesso, tra invocazione del divino e rifiuto di Dio, tra senso del peccato e desiderio di libertà.

Di Pasolini, Alberto Moravia scrive: «[È] il maggior poeta italiano della seconda metà del secolo. Un poeta non vale più di un altro. Ma Pasolini ha scritto più cose e più importanti degli altri. Si è trovato a vivere in un periodo disastroso della storia d’Italia, cioè nel momento di una catastrofe senza pari, dopo una disfatta militare, con due eserciti che si combattevano, sul suo suolo. Nello stesso tempo, la rivoluzione industriale attirava nelle città milioni di uomini che provenivano da quella civiltà contadina che Pasolini amava e in cui affondava le radici la sua poesia. […] Sono due dei temi principali della poesia di Pasolini: il pianto sulla patria devastata, prostrata, avvilita, e la nostalgia della civiltà contadina»[14].

Il paradiso perduto


Per tutti e due i poeti il Friuli rappresenta qualcosa di misterioso e di paradisiaco. Per Turoldo, è memoria che diventa quasi mito. Nelle sue poesie, egli si riferisce alla sua terra come a un Eden perduto, che pure è stato per lui baricentro di orientamenti esistenziali. Così Coderno, il suo paese natale, diventa una pianura immensa che «da bambini percorrevamo scalzi, come su di un tappeto, verso le colline di S. Daniele e i monti della Carnia dove sta il rifugio dei più poveri, e poi giù verso il mare; pianura che ci pareva fosse il cuore del mondo, uno spazio dove gli occhi di tutti noi si fanno azzurri a forza di guardare»[15].

Nel tempo, queste memorie sarebbero divenute, come testimonia il titolo di un suo libro, la Mia infanzia d’oro. Ed egli confessa: «Io […] devo difendere la mia infanzia, che perciò sembra tutta d’oro, anche se è stata forse la più povera fra tutte le infanzie dei miei compagni»[16]. Si tratta di un testo particolare che, ristampato dopo la morte, è accompagnato da un «Addio» in versi di Alda Merini, da due poesie della nipote, Gioia Turoldo Malnis, e da cinque disegni di Pasolini[17]. Fra le altre, c’è una strofa dedicata «Allo zio David»: Grazie perché sei stato tu a insegnarmi / che in ogni uomo / c’è qualcosa di buono, / basta cercare[18].

Anche Pasolini, quando ripensa al suo Friuli, lo immagina come un «luogo paradisiaco», dove Casarsa diventa «un paese vergine», un rifugio «per salvarsi dalla grande decadenza e dalla corruzione, dallo sfascio del mondo»[19].

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Turoldo scrive: «La mia anima è la mia natura di friulano, di questa gente di frontiera; orgogliosi figli di una piccola patria, ricca soprattutto, allora, di villotte[20] struggenti e delicate […] dove sono narrate le infinite vicende dolorose e tristi di un popolo nobile, tanto povero quanto dignitoso»[21].

Anche Pasolini ama le «villotte»; per lui il friulano è la lingua che «rappresenta il“ritorno” al mondo materno. Un mondo autentico e puro, non ancora contaminato dagli ideali borghesi»[22].

Turoldo afferma qualcosa che può riferirsi anche a Pasolini: «La mia anima era mia madre, mio padre, quelle madri del Friuli vestite di nero, col fazzoletto nero in capo annodato sotto il mento, uguali all’Addolorata sotto la croce. […] I poveri sono stati la causa della mia vocazione, i poveri sono il contenuto della mia fede, fonte di ispirazione della mia poesia e della mia predicazione. Per loro mi son fatto “voce”; sempre a sognare i grandi sogni di umanità e di giustizia. Sempre irrequieto e insoddisfatto; portando con me continuamente il senso della morte»[23]. E conclude affermando che i suoi confratelli lo chiamavano «Frate Focu»[24], e lui era felicissimo di sentirsi dentro il Cantico di Frate Sole di san Francesco.

Quando Turoldo confessa di essere un lettore fanatico di Dostoevskij e di Tolstoj, sente di dover ricordare anche Don Chisciotte, «un libro che può dirla lunga sul mio conto […], per quello che sono e per le lotte che ho ingaggiato sia in ordine alla Chiesa che alla società». Poi conclude: «E non a caso, fra i contemporanei, ho coltivato una speciale amicizia per Pier Paolo Pasolini che ritengo uno dei più incidenti testimoni di questa nostra “perduta civiltà”»[25].

La religiosità di Turoldo e di Pasolini


Dopo aver indagato a fondo le Scritture e dopo aver composto migliaia di inni sacri – inni che si usano ancora nel Breviario –, Turoldo scrive: «Il [tuo] volto ho cercato con la mente e con il cuore, ma non sono mai riuscito a dargli una figura e una immagine sicura. I miei maestri son quelli che dopo aver tanto cercato (Agostino, Pascal, Kierkegaard) sanno di non aver trovato nulla»[26]. È una confessione: l’incapacità di comunicare chi è Dio, di poterlo condividere con altri. E Turoldo lo dice in poesia, senza alcuna retorica: Fratello ateo, nobilmente pensoso, / alla ricerca di un Dio che non so darti, / attraversiamo insieme il deserto. / Di deserto in deserto andiamo oltre / la foresta delle fedi, / liberi e nudi verso / il Nudo essere / e là / dove la parola muore / abbia fine il nostro cammino[27]. Il fratello ateo è l’amico Pasolini, con cui Turoldo si rispecchia in modo drammatico, e spiega: «Andrei molto adagio a parlare dell’ateismo di Pasolini, poche persone erano così religiosamente tormentate come Pasolini. Egli, nonostante la sua strafottenza, non aveva neanche mai accettato la sua condizione fisiologica che sappiamo e quindi era un uomo che viveva la sua tragedia fino in fondo; e quando uno vive la sua tragedia così, non è assolutamente da computarsi come ateo»[28]. Poi incalza: «Non vorrei con questo fare politica di annessione e dire che Pasolini era un cattolico, un cristiano. No. È un essere religioso anche lui e con una fame di assoluto come pochi io ho conosciuto nella mia vita. […] Pasolini non può non credere: egli è una proiezione ancestrale di sua madre. […] E sua madre è popolo, è umanità concepita nata impastata cristiana»[29].

In altre parole, Turoldo «caccia il suo Dio nel territorio della società, si isola per pregare e meditare certamente, ma deve cercarlo negli occhi della gente»[30]. Dio è nell’intimo dell’uomo, è presente nella vita di tutti, nel dramma di ogni persona. Insomma, per Turoldo la relazione con Dio è una lotta, un corpo a corpo da cui si esce sempre perdenti, perché Dio è il diverso, l’imprevedibile, colui che è sempre nuovo, l’inaccessibile che ti sorprende. Per usare una espressione di Giorgio Luzzi, ma anche di Luigi Santucci, si tratta di una «teomachia», una battaglia con Dio. Questo forse è il tema più imponente di tutta la poesia turoldiana[31].

Ma come si può definire il Signore per Turoldo? Questo è il tema di una sua poesia, Cristo, mia dolce rovina[32].È una contraddizione, uno scandaloso ossimoro. Eppure, Cristo è venuto a portare la spada, ad accendere il fuoco, a vincere la mediocrità, a rovesciare i tavoli dei mercanti del tempio, a rovinare la falsa pace degli uomini. Tutto ciò tocca la vita dei discepoli, i suoi profeti. Chi è allora il profeta? Colui che sa denunciare il presente, che sceglie sempre l’umano contro il disumano; è l’uomo che non si mimetizza con il potere, mai adulatore, mai succube, che avanza per santità ostinata.

Come Giobbe, come Geremia, Turoldo arriva a contestare Dio, ma non per il proprio dolore, bensì per il male che distrugge il mondo. Egli chiama Dio a intervenire dove ci sono le prepotenze e gli abusi, dove il potere uccide gli uomini, dove l’innocente paga per tutti, dove il dolore è un mistero infinito: Credere a Pasqua non è / giusta fede: / troppo bello sei a Pasqua! Ma è al venerdì santo / quando tu non c’eri lassù / quando non una eco risponde / al suo alto grido / e a stento il Nulla dà forma / alla tua assenza[33]. Il Cristo di Turoldo è il Gesù del Venerdì Santo, sulla croce, che diventa nulla per essere servitore, che muore per salvare, che dà la vita perché si possa risorgere.

«La religione del mio tempo»


Si potrebbe dire che analoga è la ricerca religiosa di Pasolini: Tu non vuoi il canto ma solo la fedeltà, / tu pretendi il digiuno e io lo temo, / tu pretendi l’oblio e io invece tremo solo di ricordi. / Ecco perché la luce tua che è in me / a te non mi conduce[34]. Singolareè la luce tua che a te non mi conduce: è l’esperienza di chi non sa se crede o non crede, perché – commenta Turoldo – «altro è credere, altro è credere di credere»[35]. Chi ha la certezza della propria fede? La fede è un dono di Dio, ma deve essere accolta. È quanto Pasolini sa cogliere: tu vuoi la fedeltà… ecco l’accoglienza; tu vuoi il digiuno, ma io lo temo; tu pretendi l’oblio, tu esigi che dimentichiamo le cose del mondo che ci separano da te, e invece siamo pieni di ricordi, di attaccamenti, di schiavitù inutili, difficili da sradicare, di pesi da cui non riusciamo a liberarci.

Si possono accostare alla religiosità di Pasolini due sue raccolte di poesie: L’usignolo della Chiesa cattolica (1958) e La religione del mio tempo (1961). La prima raccolta vienescritta quasi contemporaneamente a Le ceneri di Gramsci (del 1957), in cui Pasolini aderisce al pensiero di Gramsci e al marxismo, ma non vede nelle borgate romane quel proletariato ideale che ha una coscienza di classe, pronta alla rivoluzione.

L’usignolo della Chiesa cattolica esprime il rimpianto per la vita perduta, il Friuli del mondo contadino con la sua religiosità semplice e autentica, «un profumo»: è l’Usignolo del materno Friuli, dolceodorante della Chiesa cattolica[36]. Ma qui ne sancisce la morte: E con lui è morta una terra arrisa / da religiosa luce, col suo nitore / contadino di campi e casolari; / è morta una madre ch’è mitezza e candore. […] Ed è morta un’epoca della nostra esistenza[37].

Accanto al rimpianto, c’è la delusione per la Chiesa, che – a suo parere – non trasmette più quella religiosità antica e autentica, forse troppo scomoda. Su tutto prevale la poesia, tra l’invocazione del divino e il suo rifiuto, tra il senso del peccato e il desiderio di libertà. Qui la confessione della propria omosessualità rivela una drammatica sofferenza interiore, perché, da un lato, Pasolini è legato alla fede cristiana e quindi al bisogno di comprensione, di perdono e di redenzione; dall’altro, si sente rifiutato da una Chiesa istituzionale e formale. Scrive ne «Il fresco sguardo»: Nessuno mi sentiva / impazzire, all’alba, / desto da sogni / che un MAI malediva. / Ma l’odiata purezza / e i peccati sognati / erano il fresco sguardo / dei miei occhi bruciati[38]. Il poeta non nasconde il sogno di un’altra Chiesa, meno autoritaria, quasi profezia del Concilio Vaticano II, che fa sperare in tempi nuovi.

Benché La religione del mio tempo abbia questo titolo, la raccolta tratta del rapporto tra poesia e scelte di vita. Il testo ha una prima parte dal titolo La ricchezza, una seconda incentrata sulla religiosità, e una terza che riunisce le Poesie incivili. Ma il titolo non è casuale, perché La religione del mio tempo è la denuncia del poeta contro i cristiani che si ritengono credenti ma non testimoniano la loro fede. Non c’è dubbio che l’Italia, da un punto di vista religioso, si sia progressivamente allontanata dal Vangelo e la nuova religione laica sia frutto di tale deriva. Eppure, Pasolini sa tradurla in poesia vera, con una fisionomia definita. Per dare un nome a tale religiosità, si richiama al marxismo, ma nello stesso tempo sembra allontanarsene: Per essere poeti, bisogna avere molto tempo: / ore e ore di solitudine […] / Io tempo ormai ne ho poco: per colpa della morte / che viene avanti, al tramonto della gioventù. / Ma per colpa anche di questo nostro mondo umano, / che ai poveri toglie il pane, ai poeti la pace[39]. Sono cose vere, ma la nostalgia della solitudine non si addice a chi fa professione di marxismo.

Per Pasolini, l’ispirazione emerge dalla miseria del sottoproletariato, quello di innumerevoli vite che si aggirano nei mucchi di tuguri, / nei luoghi sconfinati dove credi / che la città finisce, e dove invece / ricomincia, nemica, ricomincia / per migliaia di volte, con ponti / e labirinti, cantieri e sterri / dietro mareggiate di grattacieli, / che coprono interi orizzonti[40]. Si tratta di un’esistenza che va avanti giorno dopo giorno, senza mai arrivare a una vera coscienza di libertà. Pasolini la confronta con la sua coscienza e con la libertà che segna la poesia e la riflessione intellettuale: Ma in questo mondo che non possiede / nemmeno la coscienza della miseria, / allegro, duro, senza nessuna fede, / io ero ricco, possedevo![41].

Egli assimila al sottoproletariato anche le persone a cui la salute, il denaro, la facilità di vita hanno dato un cuore arrogante e hanno cancellato il bisogno di Dio. In definitiva, La religione del mio tempo unisce chi è povero perché non ha davvero nulla e chi è povero per il troppo benessere e per il vuoto che ne deriva. Pasolini vuole stabilire una solidarietà tra queste due zone diverse dell’animo umano. Tuttavia, la vera fede di questa umanità, se così si può dire, va ricercata tra i ripiegamenti del sesso, dove il sesso non è solo una semplice consolazione della miseria[42], ma diviene paradossalmente illusione di libertà e falsa pienezza di vita.

Pasolini e la Chiesa


La religione del mio tempo ha pagine vere e intense, segnate dal contrasto con la Chiesa. In questa raccolta l’autore si rivolge soprattutto contro il Papa, che muore senza essersi accorto del povero che vive miseramente per strada vicino al Vaticano ed è travolto da un tram. Di qui l’accusa specifica a Pio XII per il bene che lui e i cristiani dovrebbero fare e non fanno: Peccare non significa fare il male: / non fare il bene questo significa peccare[43].

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Questo atteggiamento però nasconde qualcosa: è il rovesciamento dell’amore che il poeta sente di non aver ricevuto da nessuno, con la sola eccezione della madre. Un’eccezione imbarazzante, non facilmente irrisolta, tanto che ne La religione del mio tempo l’unico posto che trova per la madre è nell’Appendice, che tuttavia egli qualifica con un nome splendido: Una luce[44].

Per capire il senso del sacro che emerge dalla poetica di Pasolini, va colta la particolare sensibilità nei confronti della figura di Cristo, quasi una forza che lo fa immedesimare in lui. Singolare è la poesia «La Crocifissione»: Noi staremo offerti sulla croce, / alla gogna, tra le pupille / limpide di gioia feroce, / scoprendo all’ironia le stille / del sangue dal petto ai ginocchi, / miti, ridicoli, tremando / d’intelletto e passione nel gioco / del cuore arso dal suo fuoco, / per testimoniare lo scandalo[45].

La poesia e il cinema


Sia Pasolini sia Turoldo dalla poesia approdano al cinema. Ricca e complessa la produzione dell’uno, una breve parentesi per l’altro: un solo film, Gli ultimi, uscito nel 1962. L’idea nasce a Turoldo da un racconto, Ma io non ero un fanciullo[46], e il film può definirsi interamente suo. Suo è il soggetto, sua la sceneggiatura, suo l’impegno estenuante accanto a Vito Pandolfi, il regista, sul set prima, e poi a Roma per il montaggio. Film interamente friulano sia nell’ambientazione sia nel cast, scelto nella gente di Coderno, con la sola eccezione di un bambino della comunità di Nomadelfia. Purtroppo questo film fu un fallimento sul piano commerciale, tanto da uscirne in passivo. Favorevole invece fu il parere della critica. Tra le tante voci, a noi interessa il giudizio positivo di Pasolini, perché costituisce un segno di attenzione, di amicizia, di solidarietà: egli parla di «assoluta severità estetica», di linguaggio di verità, di passione per il Friuli[47].

Il film Il Vangelo secondo Matteo è del 1964 e segna un primo contatto documentato tra Turoldo e Pasolini in occasione della sua proiezione al Centro culturale San Fedele, il 23 ottobre 1964. La dedica può essere una chiave di lettura: «Alla cara, lieta e familiare memoria di Giovanni XXIII».

Il Vangelo secondo Matteo ha una storia non semplice, frutto di una appassionata ricerca spirituale del regista. Leggendo il testo di Matteo, Pasolini ha l’impressione di incontrare «quel Cristo mite nel cuore, ma “mai” nella ragione, che non desiste un attimo dalla propria terribile libertà come volontà di verifica continua della propria religione, come disprezzo continuo per la contraddizione e per lo scandalo»[48]. Insomma, un Cristo che si fa verità e contraddice radicalmente la vita dell’uomo moderno, fatta di compromessi, di conformismo, di brutalità, di mancanza di responsabilità per il bene comune[49].

Prima di girare il film, Pasolini visita Israele, in particolare la Galilea, e ne torna deluso dal fatto che in quelle regioni, brulle e desolate, nulla parla di Cristo. Tuttavia è confortato in una sua convinzione di fondo: «Le cose, quanto più sono piccole e umili, tanto più sono profonde e belle»[50], in consonanza piena con san Paolo: «La potenza di Dio si rivela pienamente nella debolezza» (2 Cor 12,9). Tanto da confessare: «Mi sono accorto che questa mia idea è ancora più vera di quanto io immaginassi»[51].

L’originalità del film è dovuta all’assoluta fedeltà con cui il testo è tradotto in immagini, esempio unico nelle produzioni di soggetto biblico[52]. Il Vangelo secondo Matteo rappresenta il punto di arrivo di una ricerca poetica nel linguaggio cinematografico: letteratura, pittura e musica concorrono a creare un «cinema di poesia»[53]. Non è un caso che il giovane Pier Paolo, a Bologna, sia stato allievo di Roberto Longhi[54].

La scelta non facile del protagonista ha una storia singolare. Enrique Irazoqui, un ragazzo spagnolo di 19 anni, vuole conoscere Pasolini per coinvolgerlo nella lotta antifranchista. Quando lo incontra, il regista è alla ricerca di un volto per rappresentare Gesù e, appena lo vede, ha una folgorazione: è lui![55] Alla richiesta del regista, il giovane risponde che non ha alcun interesse per il cinema, e tanto meno desidera figurare in un film: l’unica cosa che gli sta a cuore è il rovesciamento del potere di Franco. Per di più, non ha interesse a dar voce a una Chiesa che egli detesta in quanto complice di un regime di oppressione. Ma un amico che è con lui lo convince ad accettare: devolverà i proventi del film per la causa della rivoluzione. Il problema ora è questo: come rappresentare fedelmente la figura di Cristo.

Il regista tiene conto delle motivazioni del ragazzo. Quando dovrà parlare di scribi e farisei, gli dirà di pensare alla borghesia franchista contro cui ha ingaggiato la lotta clandestina. «Il Cristo che ho imparato ad amare – dirà più tardi il protagonista – è proprio quello del Discorso della montagna, il centro del film»[56]. Ma ciò che più lo meraviglia è «l’impressione che Pasolini volesse essere al mio posto mentre interpretavo Gesù. […] Era innamorato del Vangelo, nel quale vedeva incarnarsi quella “bellezza assoluta” di cui ha parlato in una lettera a Bini», il produttore del film. In quella lettera, il regista afferma: «Per me la bellezza è sempre una “bellezza morale”; ma questa bellezza giunge sempre a noi mediata: attraverso la poesia, o la filosofia, o la pratica; il solo caso di “bellezza morale” non mediata, ma immediata, allo stato puro, io l’ho sperimentato nel Vangelo»[57]. Per Pasolini, è fondamentale questa fede nella bellezza, traccia dell’infinito, dell’assoluto, come apertura a ciò che è oltre, l’inconoscibile, il mistero.

Alla sua uscita, il film suscitò scandalo tra i benpensanti, mentre i Padri conciliari, a cui fu presentato in anteprima durante una pausa del Vaticano II, lo apprezzarono e lo applaudirono. Il film fu anche insignito del premio Ocic del Centro cattolico cinematografico. Pasolini, pur dichiarando di non essere credente, asserisce di aver voluto parlare, nel film, a nome di un ipotetico credente, di ciò che toccava l’intimo della propria coscienza[58].

Nonostante tutto questo, quando il film fu presentato alla stampa al Festival di Venezia nel 1964, fu organizzata, ad arte, una grande gazzarra contro il regista, per motivazioni facilmente intuibili. Pochi giorni dopo la presentazione del film a San Fedele, il Priore generale dei Serviti richiamò con durezza p. Turoldo: «A prescindere dal fatto che sia opportuno o meno che Ella si immischi in una polemica così pericolosa quale è quella relativa a Pasolini, mi vien riferito che Ella ne avrebbe addirittura prese le difese e le vengono attribuite le seguenti parole: “L’ateo ha coraggio ed è anch’egli un credente. L’ateismo è un aspetto nobile dell’uomo e non bisogna essere fanatici contro gli atei”»[59].

Turoldo non fa attendere la risposta: dice di aver fatto tutto in regola, secondo l’enciclica Ecclesiam Suam di Paolo VI, appunto secondo le indicazioni della Chiesa per il dialogo con i lontani. Afferma pure di essere pronto a rispondere di persona per non aver fatto nulla né contro la dottrina né contro lo spirito della Chiesa. Benché il Priore non si ritenesse soddisfatto della risposta, occorre dargli atto che difese il confratello di fronte al Sant’Uffizio e al cardinale Ottaviani, rassicurandolo sulla sua condotta sacerdotale e morale, sebbene ci fossero «intemperanze di espressione»[60]. Per Turoldo, era chiaro che si trattava di riproporre in primo piano la missione della Chiesa quale annunciatrice del Vangelo e quale segno vivo di salvezza per ogni persona.

In occasione della morte di Pasolini


Alla morte di Pasolini, nella notte tra il 1° e il 2 novembre 1975, Turoldo scrisse due lettere aperte: una alla madre del poeta e l’altra alla madre del giovane assassino. Fu l’unico sacerdote a officiare il funerale, a Casarsa, dopo quello laico svoltosi a Roma. Definiva l’amico «un “umile” figlio dell’“umile” Friuli, in “esilio” in una città “violenta” e disumana, da ricondurre ora “a casa” dalla madre che assurgeva a simbolo della sua “vera patria” e “vera fede”»[61]. Le due lettere non furono pubblicate, perché rifiutate dal direttore del Corriere della Sera. Ma Turoldo lesse, nell’omelia della Messa, come orazione funebre, la lettera alla madre di Pasolini, che – non occorre ricordarlo – aveva svolto la parte della Madre di Gesù nel film Il Vangelo secondo Matteo.

Qualche anno dopo, nel 1987, Turoldo stesso rievoca l’amicizia con Pasolini. Gli incontri personali non erano stati molti, ma i due si erano sempre stimati da lontano. Turoldo faceva un ritratto vivo di Pasolini: in lui vedeva il profeta «“che sapeva benissimo definire le categorie emergenti della nuova coscienza individuale e nazionale” attraverso immagini e formule come “gente del Palazzo”, scomparsa delle “lucciole”, “questione morale”, portate “a uno stato incandescente” negli Scritti corsari e nelle Lettere luterane; il “missionario” che avvertiva l’urgenza di “denunciare il male”, che sognava “la liberazione dal peccato” perché per primo “grande peccatore”, segnato da un senso “tragico” del negativo; “l’anima religiosa” di “credente senza fede”, inquieto “perché non trovava assolutamente il punto folgorante e totalmente persuasivo di tutte le cose che cercava”»[62]. Si tratta dunque di una chiave di lettura assolutamente religiosa. Turoldo vede in Pasolini una ricerca del senso e del valore della vita che glielo rende fratello: è la sua stessa ricerca. Il servita dichiara il valore profetico della parola dell’amico e ne apprezza la capacità di resistenza alla deriva in atto nella società.

In tale contesto, vanno ricordate le parole con cui l’arcivescovo di Milano, card. Carlo Maria Martini, concluse l’omelia al funerale di p. Turoldo: era il «poeta che aveva sentito il silenzio di Dio, l’abbandono dell’uomo, l’urlo della disperazione presente in ciascuno di noi. […] Era poeta, profeta, disturbatore delle coscienze, uomo di fede, uomo di Dio, amico di tutti gli uomini»[63]. La biografia di p. Turoldo si può riassumere così in una vita spesa per il bene dell’uomo. Proprio L’uomo è il nome emblematico di una testata clandestina da lui ideata nella Milano della Resistenza e poi nella Firenze di Giorgio La Pira, guadagnando molti consensi e suscitando altrettanti dissensi.

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[1] «Intervista» di Antonio Devetag e Romano Remigio, ottobre 1989, in AA.VV., David Maria Turoldo e Pier Paolo Pasolini. Due anime friulane, Rovato (Bs), Aldebaran Editions, 2023, 153.

[2] Cfr la nota precedente. Il volume fa seguito a un documentario del 2022, Stare al mondo: Turoldo e Pasolini, apparso nel trentesimo anniversario della morte di p. Turoldo (1916-1992) e nel centenario della nascita di Pasolini (1922-1975).

[3] D. M. Turoldo, La mia vita per gli amici. Vocazione e resistenza, Milano, Mondadori, 2001, 97.

[4] Ivi.

[5] Cfr D. M. Turoldo, Anche Dio è infelice, Casale Monferrato (Al), Piemme, 1991.

[6] Id., Io non ho mani, Milano, Bompiani, 1948, 55.

[7] Id., «Amore e morte», in Id., O sensi miei… Poesie 1948-1988, Milano, Rizzoli, 1990, 145.

[8] Id., «Vicenda», in Id., Io non ho mani, cit., 41.

[9] Cfr L. Santucci, «Turoldo David Maria», in Dizionario biografico dei friulani: cfr dizionariobiograficodeifriulan…

[10] M. Garzonio, «Il racconto di un uomo della speranza», in D. M. Turoldo, La mia vita per gli amici…, cit., 214.

[11] Ivi, 215.

[12] Ivi.

[13] P. P. Pasolini, Poesie a Casarsa, Bologna, Mario Landi, 1942.

[14] Id., Un cinema di poesia, Roma, s.i.e. e d., 6.

[15] M. Maraviglia, David Maria Turoldo. La vita, la testimonianza (1916-1992), Brescia, Morcelliana, 2016, 20; D. M. Turoldo, Lo scandalo della speranza, Napoli, G. A. Benvenuto, 1978, 16.

[16] D. M. Turoldo – A. Merini – G. Turoldo Malnis, Mia infanzia d’oro, Milano, All’insegna del Pesce d’Oro, 1992, 33.

[17] I disegni si trovano nell’edizionefuori commercio del 1991.

[18] D. M. Turoldo – A. Merini – G. Turoldo Malnis, Mia infanzia d’oro, cit., 39.

[19] Cfr R. Beano, «Due voci, una terra», in AA.VV., David Maria Turoldo e Pier Paolo Pasolini…, cit., 126.

[20] La «villotta» è un canto popolare polifonico; il nome deriva forse da «veglia», perché questi canti venivano fatti intorno al fuoco, nelle serate importanti.

[21] D. M. Turoldo, La mia vita per gli amici, cit., 35.

[22] D. Clapasson, «La seduzione del nulla», in AA.VV., David Maria Turoldo e Pier Paolo Pasolini…, cit., 92.

[23] D. M. Turoldo, La mia vita per gli amici, cit., 35.

[24] Ivi.

[25] Ivi, 47.

[26] Id., Il dramma è Dio. Il divino, la fede, la poesia, Milano, Fabbri, 1997, 150-153.

[27] E. Ronchi, «Turoldo e la lotta con Dio», in AA.VV., David Maria Turoldo e Pier Paolo Pasolini…, cit., 39.

[28] D. M. Turoldo, «La mia lettura di Pasolini», ivi, 153.

[29] R. Beano, «Due voci, una terra», ivi, 126.

[30] Ivi, 125.

[31] Cfr L. Santucci, «Prefazione», in D. M. Turoldo, Poesie, Vicenza, Neri Pozza, 1971, XVI.

[32] E. Ronchi, «Turoldo e la lotta con Dio», cit., 40 s.

[33] Ivi, 42.

[34] Ivi, 39.

[35] Ivi.

[36] P. P. Pasolini, La religione del mio tempo, Milano, Garzanti, 1961, 103 s.

[37] Ivi, 104.

[38] Id., L’usignolo della Chiesa Cattolica, Milano, Longanesi, 1958, 81.

[39] Id., La religione del mio tempo, cit., 116.

[40] Ivi, 42.

[41] Ivi, 26.

[42] Ivi, 42.

[43] Ivi, 125.

[44] Ivi, 105.

[45] Id., L’usignolo della Chiesa Cattolica, cit., 114.

[46] Cfr D. M. Turoldo, La mia vita per gli amici, cit., 35.

[47] Cfr M. Maraviglia, David Maria Turoldo…, cit., 266 e nota 69.

[48] P. P. Pasolini, «Il Vangelo di Matteo. Una carica di vitalità», in Id., Il Vangelo secondo Matteo, Milano, Corriere della Sera, 2015, 23.

[49] Cfr V. Fantuzzi, «Il Vangelo secondo Matteo», in Id., Pasolini, Roma, La Civiltà Cattolica, 2022, 43.

[50] Ivi, 37.

[51] Ivi, 49.

[52] In tal senso, va menzionata anche la sceneggiatura di un film su san Paolo, che non ha visto la luce, ma che riprende quella fedeltà al testo biblico trasferito in uno scenario moderno: cfr P. P. Pasolini, San Paolo, Torino, Einaudi, 1977.

[53] Cfr Id., Un cinema di poesia, cit., nel frontespizio.

[54] Cfr il capolavoro di R. Longhi, Caravaggio, Roma, Editori Riuniti, 1968.

[55] Cfr V. Fantuzzi, «Enrique Irazoqui: un ragazzo che non voleva essere Gesù», in Id., Pasolini, cit., 90.

[56] Ivi, 92.

[57] Ivi, 99.

[58] Cfr V. Fantuzzi, «Pasolini sulla via del Vangelo», ivi, 74.

[59] M. Maraviglia, David Maria Turoldo…, cit., 293.

[60] Ivi.

[61] Ivi, 359.

[62] Ivi, 359 s.

[63] Ivi, 417.

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Fondato sulla sabbia


La questione israelo-palestinese rimane, purtroppo, di strettissima attualità e di difficilissima soluzione. La situazione, estremamente complessa e ormai incancrenita da decenni di campagne belliche, attentati e ritorsioni, è stata resa ancora più tragicamente problematica dal pogrom scatenato da Hamas il 7 ottobre del 2023 e dalla successiva, terrificante reazione militare – decisa dal governo di Benjamin Netanyahu –, che ha provocato la morte non solo di un gran numero di terroristi, ma anche di migliaia e migliaia di civili.

Di fronte a una simile operazione e ai suoi altissimi costi umani ci si chiede come mai – a differenza di quanto è accaduto spesso in passato – non vi siano state proteste di massa, né per nulla numerose siano state le voci critiche levatesi nei confronti dell’operato dell’attuale esecutivo.

Ci aiuta a rispondere a questa domanda l’indagine mediante la quale Anna Momigliano – antropologa, saggista, nonché profonda conoscitrice del Medio Oriente – mette il lettore in grado di comprendere gli avvenimenti odierni. Va posto anzitutto in rilievo come la sua analisi prenda le mosse da un interrogativo: quali cambiamenti ha subìto, nel corso degli ultimi trent’anni, la società israeliana?

Attraverso una disamina che appare lucida, approfondita e ricca di riferimenti storici, l’A. giunge a questa conclusione: nel lasso di tempo considerato, la comunità nazionale – giovane, variegata, dall’elevato tasso di natalità, legata in parte al passato, ma proiettata in parte verso il futuro della ricerca e delle nuove tecnologie – ha vissuto profondi mutamenti tanto demografici quanto sociali, che ne hanno probabilmente acuito le contraddizioni, ma che sembrano orientare la rotta in una direzione ben definita.

Di quale direzione si tratti, è presto detto. La vecchia classe dirigente, legata agli ideali del sionismo laico e socialista, ai quali si erano ispirati i padri dello Stato, sembra ormai sopravanzata da una maggioranza formata da giovani religiosi e nazionalisti. Questi ultimi ritengono che gli accordi di Oslo, siglati negli anni Novanta da Yitzhak Rabin e Yasser Arafat, siano stati del tutto fallimentari: pertanto sono convinti che le colonie costruite in Cisgiordania rivestano un’importanza assai maggiore rispetto a qualsiasi trattativa con i palestinesi. E sembra ragionevole ipotizzare che, chiamati a scegliere tra democrazia e tradizione religiosa, essi optino per la seconda.

Scrive, al riguardo, l’A.: «In altre parole, lo stato ebraico è stato fondato prevalentemente da immigrati di origine europea ma poi trasformato, radicalmente e repentinamente, dall’immigrazione di massa degli ebrei mediorientali» (p. 17). Alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso il numero dei cittadini israeliani arrivò infatti a triplicarsi, provocando non pochi problemi, perché la nuova nazione si rivelò impreparata ad affrontare il massiccio arrivo di persone spesso disperate e indigenti.

È cambiata, insomma, l’identità di un mondo per il quale il più grande massacro di israeliti perpetrato in un solo giorno dai tempi della Shoah ha costituito un vero e proprio trauma: uno shock che ha alimentato un sentimento misto di rassegnazione, odio, paura e desiderio di vendetta, ha dato forza alle posizioni più radicali e assottigliato le fila di quanti esortano alla moderazione e al dialogo. Mentre è probabile che, nel prossimo futuro, la società israeliana – sempre più densamente popolata – sarà animata da un persistente fervore religioso e nazionalista.

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