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L’epoca del «pathos»


Laocoonte e i suoi due figli lottano coi serpenti. Museo Pio-Clementino, Musei Vaticani.

Il contributo dell’antropologia


Uno degli scopi dell’antropologia è favorire l’autocomprensione dell’essere umano, cioè attivare un processo di consapevolezza delle dinamiche esistenziali e culturali nelle quali egli si trova a vivere. Si tratta di un processo liberante, perché permette di scegliere chi vogliamo essere piuttosto che subire passivamente i cambiamenti che avvengono dentro di noi e attorno a noi.

Un limite dell’antropologia è dato però dal fatto che essa può fornire solo chiavi di lettura, in virtù della complessità dell’essere umano e per la varietà delle condizioni sociali in cui vive, nonché per quella dimensione di mistero che è ineliminabile in ogni persona. Possiamo quindi descrivere quelle dinamiche che più o meno sono presenti in ognuno di noi, senza la pretesa che siano esaustive o che vengano vissute sempre nelle stesse modalità.

Una delle possibili chiavi di lettura è la comprensione del nostro tempo come un passaggio dall’epoca del logos, inteso come centralità della ragione analitica ed esaltazione di una logica stringente quale struttura fondamentale della comunicazione, all’epoca del pathos, cioè del riemergere in modo strabordante dell’espressione emotiva.

Questa distinzione appare analoga a quella che Friedrich Nietzsche individuava, in senso inverso, a proposito della nascita della tragedia, tra il dionisiaco e l’apollineo. Vorremmo dunque ripartire da questa intuizione di Nietzsche per comprendere in che modo la nostra epoca possa essere considerata come il trionfo del dionisiaco, che effettivamente egli aveva previsto. Ripercorrendo le osservazioni del filosofo tedesco, emergerà anche la via possibile per una ricomposizione vitale di quella frattura tra ragione ed emozione che abita oggi il cuore dell’uomo.

Dionisiaco e apollineo


Sebbene Nietzsche sia ritornato più volte sulla relazione tra questi due termini, di fatto è ne La nascita della tragedia[1] che egli presenta lo sviluppo dell’arte, a partire proprio dalla tragedia antica, attraverso la relazione tra il dionisiaco e l’apollineo. Si tratta innanzitutto di una coppia di termini che non è semplicemente antitetica, ma fraterna. Dionisiaco e apollineo sono infatti due istinti che si manifestano in ogni arte, benché si fondino e si concilino solo nella tragedia attica, e in modo specifico, secondo Nietzsche, solo nell’opera di Eschilo.

Dal punto di vista dei generi artistici, una prima distinzione, presente già in una conferenza del filosofo del 1870[2], è quella tra le arti visive, che sono maggiormente espressione dell’istinto apollineo, e l’arte musicale, che manifesta invece pienamente lo spirito dionisiaco. I cortei dionisiaci sarebbero infatti la culla del dramma antico, che era costituito fondamentalmente solo dal coro. In tali rappresentazioni, l’unico eroe presente sulla scena era proprio Dioniso. Quelle rappresentazioni non implicavano la presenza di un vero e proprio pubblico, come siamo abituati a pensare anche nelle forme successive della tragedia: il pubblico era coinvolto all’interno del coro stesso e vi si poteva rispecchiare.

Per spiegare meglio tale distinzione, Nietzsche utilizza due immagini. L’apollineo è sì la visione, ma più propriamente la visione onirica, il sogno. Esso anima la scultura, la pittura e la poesia epica. Ma ciò che è importante mettere in evidenza in questa concezione dell’apollineo è il suo rapporto con il principium individuationis: essendo legato alla visione, esso tende a definire, a dare confini, sottraendosi alla possibilità dell’immersione nel tutto[3].

Il dionisiaco è rappresentato invece dall’ebbrezza; va quindi al di là della lucidità delle regole. È l’arte priva di immagini. Per questo si esprime nella musica, che ci mette in relazione con gli universalia ante rem, a differenza dei concetti, che sono gli universalia post rem, e della realtà, che è costituita dagli universalia in re[4]. Il dionisiaco è propriamente la perdita del principium individuationis, proprio perché abita prima delle cose. Potremmo anche dire che è la vera metafisica, mentre l’apollineo è il regno dell’ontologia, perché si concentra sulla visione del singolo ente.

Riprendendo un esempio di Arthur Schopenhauer, Nietzsche paragona l’uomo che si lascia guidare dal principio di ragione a un navigante che solca i mari con una fragile imbarcazione, ma proprio per questo rischia di venire sommerso dalle montagne d’acqua che lo circondano[5]. Il principio apollineo accompagna l’uomo in questo viaggio fra la tranquilla sicurezza di poter comprendere la realtà e l’orrore smisurato quando si accorge che questo principio non funziona. Apollo, in effetti, è il dio della bella parvenza: il termine tedesco Schein indica infatti anche l’apparenza, il fenomeno, l’individuazione.

Proprio questo principium individuationis è, per Nietzsche, la causa di ogni male, perché impedisce la mistica fusione con il tutto. La ricerca della chiarezza ci porta a rimanere alla superficie delle cose, perché possiamo vedere solo un ente alla volta, per cui ogni sguardo su un fenomeno ci distoglie dalla possibilità di sperimentare il tutto. Al contrario, il dionisiaco è l’ebbrezza che comporta la perdita di sé, per cui il soggetto si identifica con il tutto, così come lo spettatore della tragedia attica si confondeva con il coro.

Il dionisiaco diventerà progressivamente, per Nietzsche, anche sinonimo della visione anticristiana, tant’è vero che, seppur raramente e solo verso la fine della sua vita, troviamo in lui l’espressione «Dioniso contro il crocifisso», utilizzata talvolta anche come una sorta di firma dell’autore. Dioniso Zagreo[6] e Cristo sono accomunati dal martirio, ma, se il Dio della croce invita a redimersi dalla vita, in quanto in sé stessa immorale, Dioniso rappresenta l’eterna felicità e la rigenerazione attraverso il dolore.

Uno degli aspetti originali dell’interpretazione data da Nietzsche allo sviluppo della tragedia è il sodalizio tra Socrate ed Euripide. Se infatti quest’ultimo rappresenta colui che ha ucciso la tragedia, Socrate è colui che ha ispirato tale suicidio (nel senso che con Euripide la tragedia si uccide da sola). I due sono tra l’altro accomunati nella profezia dell’oracolo di Delfi, che li considera come il primo e il secondo uomo più saggio.

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Colui che ha costretto alla fuga lo spirito dionisiaco è dunque proprio Socrate, in quanto portatore di una visione del sapere caratterizzata dalla scienza, dall’ottimismo, dalla dialettica, dalla riflessione e dalla logica, aspetti che sono incompatibili e inconciliabili con il mito. Il socratismo, che parla attraverso Euripide, non lascia spazio al mito e distrugge la tragedia antica. Nella tragedia di Euripide è in atto un processo di razionalizzazione per cui lo spettatore non si perde nella scena, ma prova continuamente a comprenderla. Questo processo troverà compimento nella Poetica di Aristotele, che non a caso parlerà della narrazione, e prima di tutto della tragedia, come di un intrigo costruito attraverso il nesso logico tra le azioni: il mythos diventa, per Aristotele, un’imitazione della natura degli eventi, mimesis praxeos[7].

Con Socrate assistiamo, secondo Nietzsche, all’ascesa dell’uomo teoretico, simbolo della cultura alessandrina. Si tratta di un uomo animato dall’ottimismo logico e dal piacere della conoscenza, convinto dei risultati a cui può condurre il principio di causalità, cioè la possibilità di risalire ai princìpi dei fenomeni. Tutto quindi sembra chiaro, e il sapere viene considerato come una medicina universale che può risolvere i problemi dell’esistenza. In realtà, l’uomo alessandrino, nella rilettura fornita dal filosofo tedesco, non è altro che un bibliotecario, un correttore di bozze, che diventa cieco nella polvere dei libri e tra i refusi[8]. In altre parole, potremmo dire che è un uomo che ripercorre il già dato analizzandone i nessi, ma senza alcuna creatività e senza scoprire quello che c’è al di là dell’apparenza.

Il motivo per cui la riflessione di Nietzsche può aiutarci a comprendere il nostro tempo risiede anche nella convinzione del filosofo tedesco secondo cui lo spirito non dionisiaco – per certi versi, potremmo dire, anche il cristianesimo, nella sua interpretazione – non ha distrutto interamente la concezione tragica del mondo. Questa visione drammatica è stata solo costretta a rifugiarsi negli inferi e a dare luogo a un culto segreto. Ciò che spaventa, scrive il filosofo, è pensare che l’uomo di cultura sia stato concepito solo nella forma dell’uomo erudito, cioè con una mentalità ottimistica che si illude di essere senza limiti[9]. Nietzsche era invece convinto che la sua epoca stesse vivendo la rinascita della tragedia, e nulla avrebbe potuto mettere in dubbio la sua fede in un imminente rifiorire dell’antichità ellenica.

A nostro avviso, effettivamente lo spirito dionisiaco è riemerso prepotentemente oggi, in contrapposizione a un approccio apollineo che ha tentato di cancellare la dimensione più creativa e intuitiva della vita. In questo modo si è però ribadita una frattura nell’essere umano, che non gli permette di integrare positivamente le diverse dimensioni del suo animo.

Un ultimo aspetto, che non solo è problematico ma purtroppo anche indicativo della conflittualità della nostra epoca, consiste nella connessione individuata da Nietzsche tra il riapparire dell’istinto dionisiaco e l’affermazione dello spirito tedesco. Il filosofo riteneva infatti che lo spirito tedesco, nonostante l’apparenza, vivesse un tempo di riposo e di sogno, da cui sarebbe riemerso indenne nella sua prodigiosa salute, come un cavaliere sprofondato nel sopore[10]. Un giorno, scrive Nietzsche, lo spirito tedesco si scoprirà desto, ucciderà i draghi, annienterà i nani maligni, ridesterà Brunilde[11], e neppure la lancia di Wotan[12] potrà sbarrargli la strada[13]. Il filosofo è infatti convinto che il genio tedesco abbia subìto una lunga umiliazione e sia «divenuto straniero nella sua casa e nel suo paese natale, al servizio di nani maligni»[14].

Queste affermazioni, conoscendo il corso della storia, suonano oggi particolarmente nefaste e ci fanno comprendere l’urgenza di considerare con attenzione e rispetto i movimenti che sono in atto nelle diverse culture. Dal momento che la componente dionisiaca pervade effettivamente la storia, occorre riconoscerla e provare a ricondurla nell’alveo di una riconciliazione con la dimensione apollinea, in modo che nessun istinto sia sacrificato.

Proprio per aiutare questo lavoro, vorremmo proporre di rileggere, in analogia con quanto affermato da Nietzsche, la nostra epoca come quella di una frattura in atto, altrettanto pericolosa, tra la dimensione del pathos e quella del logos.

«Logos» e «pathos»


Come Nietzsche guarda alla tragedia antica e alla sua evoluzione per mostrare la storia della relazione tra dionisiaco e apollineo, così noi possiamo osservare il modo in cui ci raccontiamo per comprendere il passaggio dall’epoca del logos a quella del pathos, cioè da un lungo periodo in cui la razionalità è stata posta al centro come unica e più alta forma di espressione dell’essere umano al momento che stiamo vivendo, in cui la dimensione emotiva rivendica un’attenzione e uno spazio a cui nei secoli precedenti non ha avuto diritto. Questo passaggio reca in sé dei rischi, ma allo stesso tempo apre prospettive che vanno ascoltate per una realizzazione sempre più piena dell’umano.

Il modo in cui ci raccontiamo costituisce una rappresentazione di noi stessi. Dal momento che l’epoca dei social offre molteplici occasioni per narrare il proprio vissuto, possiamo provare a capire quale immagine dell’umano emerge da tali racconti. L’epoca postmoderna, studiata in un testo celebre da Jean-François Lyotard[15], era caratterizzata dall’incredulità verso le metanarrazioni: le grandi visioni del mondo, che si proponevano come sguardi complessivi e interpretativi della realtà, erano giunte alla fine, incapaci di svolgere il compito per cui erano nate. Lyotard si riferisce al marxismo, alla psicanalisi e alla religione.

La fine delle metanarrazioni ha però lasciato sul terreno qualcosa che Lyotard non aveva previsto, ossia il fatto che i grandi racconti sono stati sostituiti efficacemente da micronarrazioni, che caratterizzano il modo di comunicare della nostra epoca. Si tratta di convinzioni senza complessità che guidano e influenzano l’opinione pubblica non mediante ragionamenti stringenti e articolati, ma attraverso affermazioni che toccano la sfera emotiva e inducono ad agire senza pensare troppo. Dal punto di vista comunicativo, le micronarrazioni assumono la forma degli slogan: asserti brevi e funzionali che non sono destinati a essere messi in discussione, ma solo a essere accolti e condivisi. A ben guardare, le micronarrazioni o slogan rievocano per certi versi la natura del mito, che prima del V secolo a.C. serviva per organizzare la conoscenza senza una logica stringente: si trattava di un modo per darsi delle spiegazioni laddove il problema rimaneva misterioso.

L’epoca degli slogan è chiaramente segnata dalla centralità della parola. Non si tratta più di una parola curata, complessa o nobile, bensì di una parola gettata, rapida, emotiva. Uno degli slogan che si trova dietro la rappresentazione social è che tutti vogliamo stare sulla scena. Proprio come Nietzsche aveva osservato che all’origine della tragedia c’era solo il coro e non c’era una distinzione tra lo spettatore e la rappresentazione scenica, così i social hanno eliminato la distanza tra autore e lettore, tra attore e pubblico. Tutta la realtà è diventata una sorta di teatro immersivo. In uno dei bestseller degli anni Settanta in cui troviamo i prodromi della cultura attuale, parlando delle avventure che si possono sperimentare viaggiando in moto, Robert Maynard Pirsig ha scritto: «In moto la cornice non c’è più. Hai un contatto completo con ogni cosa. Non sei più uno spettatore, sei nella scena, e la sensazione di presenza è travolgente»[16].

La tradizione occidentale, generata alla conoscenza da Aristotele, ha posto al centro la razionalità logica. Le opere logiche di Aristotele erano conosciute e commentate nel Medioevo. Agostino aveva sicuramente una conoscenza delle Categorie. La morale cristiana ha posto il suo fondamento nella ragione, dal momento che la legge naturale si riferisce alla legge che è secondo la natura razionale della persona. Solo nel XIX secolo assistiamo al tentativo di Gottlob Frege di proporre un nuovo modello logico, diverso da quello aristotelico. Questa centralità della ragione, che spesso si è trasformata in un «ottimismo ingenuo», per usare i termini di Nietzsche, è stata accompagnata parallelamente dal pregiudizio e dalla paura riguardo alla componente emotiva.

Una lunga e antica tradizione ha guardato con sospetto le passioni: già gli Stoici, per esempio, le consideravano un’aberrazione della ragione, una diastrophē. A differenza dei nemici esterni riconoscibili, le passioni vengono ritenute come un parassita che si attacca e si nutre della ragione stessa[17]. Per questo Cicerone ha affermato che «bisogna estirpare a fondo gli errori che sono alla radice della passione, non potarli»[18].

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La tradizione cristiana ha accentuato ulteriormente la dimensione della lotta interiore, che si è andata configurando nei termini di una lotta spirituale – certamente a partire dalla predicazione di Paolo – tra i desideri della carne e quelli dello spirito (cfr Gal 5,17). Ma accade qualcosa di nuovo proprio grazie all’apporto della spiritualità cristiana dei primi secoli: si comincia a pensare che gli affetti siano mossi in realtà proprio dai pensieri. Quindi il vero nemico da affrontare, dicono i Padri del deserto, sono i pensieri stessi, che hanno il potere di muovere e condizionare gli affetti: «La guerra tramite i pensieri è più ardua di quella che ha luogo per mezzo degli oggetti». Occorre stare come sentinelle, sulla porta del cuore, per vigilare e discernere i pensieri[19].

Dobbiamo dunque rassegnarci, concluderà più tardi Blaise Pascal, a convivere con questa guerra intestina tra passioni e ragione[20]. Non troveremo mai pace. Al più, possiamo sperare in brevi e precarie tregue[21]. Siamo condannati a un continuo fluttuare in un mare in tempesta, senza poter mai trovare un equilibrio definitivo[22].

René Descartes, invece, non si rassegnerà davanti al conflitto tra passioni e ragione, ma cercherà una mediazione. Ci sono infatti delle regole da utilizzare per gestire il disordine delle passioni: occorre conoscere il territorio, ovvero lo spirito, il proprio mondo interiore, dentro cui le passioni si muovono; bisogna ascoltare e obbedire alla ragione, senza lasciarsi distrarre; è opportuno uno sguardo realistico sui beni che si possiedono piuttosto che cercare di utilizzare risorse che non si possiedono[23]. Le passioni, dice Descartes, sono come una lente di ingrandimento; per questo occorre sempre ridimensionare quello che vediamo attraverso di esse[24].

Solo con Baruch Spinoza è possibile cogliere una visione più conciliante e integrata dell’essere umano: non ci sono nemici, ma solo elementi diversi che fanno parte della natura delle cose. Non si deve avere paura delle tempeste o del freddo, perché fanno parte della natura, anzi ci aiutano a conoscerla. Così le passioni non sono nemici da combattere, ma elementi della natura umana che possono addirittura aiutarci a conoscere noi stessi[25].

Se gli affetti vengono interpretati come un problema o una distorsione, è inevitabile che se ne cerchi una cura, come nel caso di un paziente malato. Forse per questo, quando – nella seconda metà del XIX secolo – nasce la psicologia sperimentale, la filosofia si libera dalla questione degli affetti, appaltandola alla nuova disciplina. Solo di recente la filosofia ha ritrovato interesse per le dinamiche affettive, comprendendo che non è possibile un’antropologia o una riflessione culturale senza tener conto di questa dimensione dell’essere umano. La filosofia si pone anzi in una posizione privilegiata per operare una mediazione e una sintesi tra i diversi approcci alla questione degli affetti.

Un punto comune nella riflessione sugli affetti è il loro rapporto con la dimensione cognitiva. Indichiamo come esempio tre prospettive in ambito psicologico, filosofico e neuroscientifico, in modo da proporre una sintesi che scaturisca da questo dialogo interdisciplinare.

La Rational Emotive Therapy (RET) di Albert Ellis propone, già dal nome, una interazione tra aspetto emotivo e dimensione cognitiva[26]. La RET intende aiutare le persone a modificare le emozioni che impediscono il benessere del paziente, mediante una riformulazione della propria visione del mondo. Le emozioni quindi non sono più considerate come un soggetto nemico dei pensieri, ma come conseguenze dei pensieri. Si tratta dunque dello spostamento della radice del problema, che non risiede più nella sfera affettiva, ma in quella cognitiva.

Uno degli slogan della psicologia cognitiva, che riprende un aforisma attribuito a Epitteto, filosofo stoico, afferma infatti che «non sono le cose in sé a darci fastidio, ma l’opinione che ci facciamo di esse»[27]. Quello che sentiamo davanti a un evento o a una situazione non è causato dall’evento, ma dalla credenza che precede l’emozione. Ciò che sentiamo è il risultato della nostra interpretazione della realtà. La maggior parte dei disturbi emotivi non dipende, secondo Ellis, da conflitti pulsionali, ma dal trasformare desideri e preferenze in esigenze e doveri[28].

In maniera analoga, dal punto di vista filosofico, Martha C. Nussbaum mette insieme, nel titolo di uno dei suoi testi più noti, dimensione cognitiva ed emotiva: L’intelligenza delle emozioni[29]. Riprendendo la teoria stoica delle emozioni come giudizi valutativi, la studiosa individua nell’intelligenza la risorsa che ci permette di affrontare la fatica del mondo emotivo, così come il bambino si rifugia nel sonno per affrontare la fatica del mondo in cui improvvisamente è venuto a trovarsi[30]. Come per Ellis, anche per Nussbaum le emozioni sono interpretazioni eudemonistiche della realtà, nel senso che proviamo emozioni davanti a oggetti che abbiamo interpretato alla luce del nostro benessere[31].

Le soluzioni proposte da Ellis e da Nussbaum rischiano, paradossalmente, di risolvere il problema del conflitto attraverso un’intellettualizzazione. Così il pensiero, con grande soddisfazione della filosofia, torna a essere il protagonista persino della vita affettiva. Sembra quasi la rivincita degli Stoici e di Descartes: la rettitudine della ragione e la vigilanza dell’intelletto risolvono la questione degli affetti sgraditi. Si tratta di un’intellettualizzazione che dimentica però la componente biologica. Le neuroscienze ci permettono a questo punto di recuperare tale dimensione, apportando una distinzione preziosa tra emozioni e sentimenti.

Ci riferiamo soprattutto al lavoro di un neuroscienziato come António Rosa Damásio, da sempre in dialogo con figure significative della filosofia[32]. Per lui, le emozioni rappresentano la componente neurobiologica e si esibiscono nel teatro del corpo. Per questo esse sono pubbliche, perché visibili a chi guarda il mio corpo. E anche qualora esse non avessero una manifestazione somatica, sarebbero comunque visibili a chiunque utilizzasse uno strumento di indagine diagnostica in grado di registrare quanto sta avvenendo nel cervello. I sentimenti invece hanno luogo nel teatro della mente, sono immagini mentali, e pertanto private, conoscibili solo da parte del loro legittimo proprietario[33]. Ma nella descrizione di Damásio, il sentimento non si contrappone all’emozione pubblica, in quanto l’emozione costituisce il sostrato necessario del sentimento e il sentimento costituisce a sua volta un’interpretazione dell’emozione. Il sentimento viene dunque a essere percezione di uno stato del corpo e insieme di un pensiero su quello stato corporeo[34].

Il sentimento si candida dunque a essere il luogo di unità della persona: unità che il soggetto sperimenta specificamente nell’esercizio della decisione. Le risposte emotive, infatti, sono insufficienti quando la persona si trova di fronte a situazioni complesse che richiedono creatività, giudizio e processi decisionali. Non c’è però sentimento senza emozione. Come ha osservato lo stesso Damásio, i suoi pazienti che, pur non presentando deficit cognitivi, erano incapaci di prendere decisioni, risultavano affetti da un danno neurologico che li rendeva incapaci di provare emozioni sociali, come imbarazzo, senso di colpa o compassione[35]. Damásio ha in pratica dimostrato che nelle decisioni complesse la facoltà intellettiva deve interagire con la componente emotiva, che a sua volta si basa sul corretto funzionamento di una parte del cervello. In altre parole, il corretto funzionamento della persona richiede l’interazione integrata della componente fisica con la capacità di provare emozioni e con l’abilità di interpretarle.

Cosa possiamo imparare


Quanto emerge da questa analisi ci fa guardare con preoccupazione alla scissione tra pathos e logos nella cultura attuale. L’età della secolarizzazione, delineata in modo puntuale da un celebre testo di Charles Taylor[36], sembra ormai conclusa, e con essa sembra terminata l’epoca del logos, per lasciare spazio proprio a quella del pathos. Siamo, per certi versi, nel trionfo del dionisiaco, come Nietzsche aveva profetizzato. Se Aristotele iniziava la Metafisica con la convinzione che «tutti gli esseri umani per natura desiderano sapere»[37], la nuova metafisica inizia con la constatazione che «tutti desiderano esprimere ciò che sentono». Anche per questo ormai da diverso tempo il mercato monitora le nostre reazioni emotive come dati da utilizzare per orientare le scelte e gli acquisti delle persone[38].

Proprio per questo può sembrare paradossale la protesta di alcuni studenti che, nella sessione degli esami di Stato del 2025 in Italia, si sono rifiutati di sostenere il colloquio orale, essendo già sicuri della promozione per il punteggio ottenuto nelle prove scritte[39]. Tale protesta sembra contraddire quanto stiamo affermando, dal momento che si tratta di giovani che non hanno voluto parlare, non hanno comunicato, sebbene appartengano all’epoca dei social, nella quale tutti vogliono raccontarsi. D’altra parte, la motivazione della protesta è significativa: questi studenti hanno criticato un modello di scuola che, a loro dire, sarebbe basato solo sulla valutazione dell’apprendimento, generando un sistema competitivo, senza prestare alcuna attenzione alla loro storia. Il motivo della protesta, dunque, sembra confermare ciò che stiamo sostenendo: questi giovani sentono il bisogno di essere visti e di raccontare sé stessi e, poiché la scuola sembra rifiutare questa loro esigenza, la contestano.

L’epoca del pathos rappresenta la frattura tra apollineo e dionisiaco. Lo si vede, per esempio, nel modo di percepire la dimensione del limite. L’ebbrezza del dionisiaco, che permette di andare oltre il principium individuationis, è anche la condizione della creatività, che è possibile quando si accetta di abbandonare una sterile ripetitività analitica. Il limite va superato, ma non ignorato. Ignorare il limite, colto invece dall’istinto apollineo, è a sua volta la condizione dell’identità. Il limite è il confine che mi permette di sapere dove sono e chi sono. Provare a trascendere il limite non significa convincersi che esso non ci sia o che rappresenti il negativo. Il rifiuto dionisiaco del limite si esprime nella cultura contemporanea come orrore davanti alla sofferenza e all’invecchiamento o come scandalo davanti alla disabilità. La promessa del transumanesimo consiste proprio nell’illusione del superamento del limite.

Se, a partire dagli anni Settanta, è esplosa l’esigenza della destrutturazione di generazioni cresciute nella ferrea affermazione del primato della ragione apollinea, oggi si sente il bisogno di una ristrutturazione per affrontare il trionfo incondizionato del dionisiaco: si tratta di recuperare la capacità di interpretare il senso delle cose e di ritrovare la propensione a desiderare come scontro generativo con il limite[40]. Un esempio di questo trionfo del dionisiaco è rappresentato dal film di Paolo Sorrentino La grande bellezza (2013), in cui troviamo esattamente la destrutturazione di quello che Aristotele aveva suggerito nella Poetica come modo di costruire la narrazione, ossia la necessità, per rendere verosimile un racconto, di mostrare il nesso causale tra gli episodi[41]. Ne La grande bellezza, assistiamo a un succedersi di scene senza alcun collegamento tra loro. Già Zygmunt Bauman aveva considerato questa suddivisione della vita in episodi senza nesso come tipica dell’età postmoderna, nella quale l’essere umano sembra collezionare perle senza la capacità di legarle con un filo: «L’epoca postmoderna – scrive Bauman – è suddivisa in episodi, che non seguono alcun ordine logico coerente, ma sembrano soggetti a ogni tipo di rimescolamento. La loro successione non è preordinata in alcun modo, come sarebbe invece nella disposizione delle perline su un pezzo di filo»[42].

Da queste osservazioni ricaviamo l’idea che il compito educativo che ci attende è quello di promuovere una ricomposizione della fratellanza tra apollineo e dionisiaco. Apollo dovrebbe tornare in cerca delle membra di Zagreo, Dioniso a sua volta dovrebbe riconoscere il contributo di Apollo nella sua rinascita. La nuova epoca sarà allora «pato-logica», non perché malata, ma perché capace finalmente di costruire un dialogo tra ragione e sentimento. Come Damásio ha mostrato, questa integrazione è necessaria per la capacità decisionale della persona, ma è altresì vero che educando a saper fare delle scelte si attiva tale processo di integrazione che dà pienezza alla nostra umanità.

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[1] Le nostre citazioni di questa opera sono tratte da F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Torino, Einaudi, 2009.

[2] Cfr ivi, XXVI.

[3] Cfr ivi, 29.

[4] Cfr ivi, 153.

[5] Cfr ivi, 29.

[6] Nei riti orfici, Dioniso sarebbe nato dalle parti smembrate del dio Zagreo. Quest’ultimo è destinato a succedere a Zeus, ma per invidia di Era viene smembrato e divorato dai Titani. Le sue parti saranno ritrovate e messe insieme da Apollo. Il suo cuore sarebbe stato trovato invece da Atena.

[7] Cfr Aristotele, Poetica, 1450b 3.

[8] Cfr F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., 172.

[9] Cfr ivi, 167.

[10] Cfr ivi, 225.

[11] Addormentata per un incantesimo di Odino con una spina soporifera, Brunilde viene risvegliata da Sigfrido, che la ridesta spogliandola dell’armatura.

[12] La lancia Notung fu piantata da Wotan in un frassino ed è espressione di potere e destino. Solo Siegmund, figlio di Wotan, riuscirà a estrarla, segnando il suo destino di eroe.

[13] Cfr F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., 225.

[14] Ivi, 226.

[15] Cfr J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Milano, Feltrinelli, 1987, 6. L’edizione originale è del 1979.

[16] R. M. Pirsig, Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, Milano, Adelphi, 1981, 14. La prima edizione è del 1974.

[17] Cfr R. Bodei, Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità: filosofia e uso politico, Milano, Feltrinelli, 2010, 206-209.

[18] Cicerone, Tusculanae disputationes, IV, xxi, 47.

[19] «Contro coloro che sono nel mondo i demoni lottano prevalentemente facendo uso degli oggetti, ma con i monaci perlopiù per mezzo dei pensieri. A causa della solitudine, infatti, essi sono privi degli oggetti. E quanto è più facile peccare in pensieri che in atti, tanto la guerra tramite i pensieri è più ardua di quella che ha luogo per mezzo degli oggetti. L’intelletto, infatti, è una cosa facile da muovere e difficile da trattenere dalle fantasie illecite» (Evagrio Pontico [IV sec.], Trattato pratico, §48).

[20] «Guerra intestina nell’uomo tra la ragione e le passioni. Se egli avesse soltanto la ragione senza le passioni… Se egli avesse soltanto le passioni senza la ragione… Ma, poiché ha l’una e le altre, non può stare senza guerra, non potendo aver pace con l’una se non è in guerra con le altre: così è sempre diviso e in conflitto con se medesimo» (B. Pascal, Pensieri, 316/388).

[21] «La ragione sussiste pur sempre, e denuncia la bassezza e l’ingiustizia delle passioni, turbando il sonno di coloro che vi si abbandonano; e le passioni sono sempre vive in coloro che vogliono rinunciarvi» (ivi, 317/389).

[22] «Noi bruciamo dal desiderio di trovare un assetto stabile e un’ultima base sicura per edificarvi una torre che s’innalzi all’infinito; ma ogni nostro fondamento scricchiola e la terra si apre sino agli abissi» (ivi, 84/223).

[23] «Non vi è infatti altro che il desiderio, il rimpianto e il pentimento che possano impedirci di essere contenti; se noi invece facciamo tutto quel che ci detta la nostra ragione, non avremo mai alcun motivo di pentirci, anche se gli avvenimenti dovessero farci vedere che ci siamo sbagliati, perché ciò non sarebbe per colpa nostra» (R. Descartes, Lettera ad Elisabetta, del 4 agosto 1645).

[24] «Fanno sempre apparire molto più grandi e importanti del vero tanto i beni quanto i mali» (R. Descartes, Le passioni dell’anima, art. 138).

[25] Si tratta dell’incipit dell’incompiuto Tractatus politicus.

[26] La RET, secondo la definizione data da Ellis, è una teoria e una prassi psicoterapeutica che egli iniziò a sviluppare nel 1955, dopo aver praticato per molto tempo la psicanalisi e averla riscontrata inefficiente. Ellis comincia a usare la RET semplicemente perché vede che le sue tecniche funzionano. Solo successivamente ne sviluppa una teoria: cfr A. Ellis, «Teoria e prassi della RET (Rational-emotive therapy)», in V. F. Guidano – M. A. Reda (edd.), Cognitivismo e psicoterapia, Milano, FrancoAngeli, 1981, 219.

[27] Sebbene non proponga una propria antropologia, la RET si basa su alcune considerazioni: le persone pensano, sentono e interagiscono in modo interattivo e transazionale; emozioni, pensieri e comportamenti si influenzano reciprocamente; se cambiamo la nostra filosofia, riusciamo ad avere effetti più duraturi sul nostro comportamento; gli esseri umani possiedono in modo molto speciale e unico la capacità di pensare, simbolizzare e filosofare: cfr A. Ellis, «Teoria e prassi della RET (Rational-emotive therapy)», cit., 221.

[28] Cfr ivi, 221 s.

[29] Cfr M. C. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, Bologna, il Mulino, 2004.

[30] Cfr ivi, 34.

[31] Cfr ivi, 47.

[32] Cfr A. R. Damásio, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Milano, Adelphi, 1995; Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello, ivi, 2003.

[33] Cfr Id., Alla ricerca di Spinoza…, cit., 40.

[34] «Un sentimento [è] la percezione di un certo stato del corpo, unita alla percezione di una certa modalità di pensiero nonché di pensieri con particolari contenuti» (ivi, 108).

[35] Damásio si riferisce al famoso caso di Phineas Gage, l’operaio edile che nel 1848 fu vittima di un incidente, nel quale una sbarra di ferro gli attraversò il cranio, causandogli un danno alla corteccia frontale. Gage stava sistemando una carica esplosiva sulle linee ferroviarie del Vermont, per liberare il passaggio da una roccia che ostruiva il prosieguo della linea ferroviaria. Egli non rimase ucciso, anzi ebbe una sorprendente ripresa. Le sue capacità cognitive e percettive rimasero inalterate, ma la sua vita affettiva subì un brusco cambiamento. Egli sembrava un bambino senza alcuna consapevolezza di ciò che era importante e di ciò che non lo era. Era agitato e agiva in modo osceno, incontrollato. Era incapace di prendere delle decisioni e di mantenere relazioni con le persone che lo circondavano. Parte del sistema di valori era rimasta, ma era sconnessa dalla realtà.

[36] Cfr Ch. Taylor, A Secular Age, Cambridge, MA, Belknap Press, 2007.

[37] Aristotele, Metafisica, I, 980a 21.

[38] Si possono trovare maggiori informazioni su questo argomento in R. Booth, «Facebook reveals news feed experiment to control emotions», in The Guardian (theguardian.com/technology/201…), 30 giugno 2014.

[39] Cfr A. Carlino, «Maturità senza orale, la protesta che divide l’Italia: cosa c’è dietro il rifiuto degli studenti e perché il governo ora promette la bocciatura per chi “boicotta” l’esame di Stato», in Orizzontescuola.it, 11 luglio 2025.

[40] Cfr M. Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Milano, Raffaello Cortina, 2011.

[41] Cfr Aristotele, Poetica, 49a 25.

[42] Cfr Z. Bauman – K. Tester, Società, etica, politica. Conversazioni con Zygmunt Bauman, Milano, Raffaello Cortina, 2002, 95.

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Turoldo e Pasolini: poeti friulani, anime irrequiete di umanità e religiosità


Pier Paolo Pasolini e p. David Turoldo.
P. David Turoldo definisce così la sua amicizia con Pier Paolo Pasolini: «Io con Pasolini ho sempre avuto ottimi rapporti e ho conservato sempre l’Amicizia fino al giorno della sua morte e, anzi, devo dire che, proprio due o tre giorni prima che gli capitasse quello che gli è capitato, a degli amici svedesi ha detto: “Bisogna che vada a trovare il padre David”»[1]. Qualche giorno dopo Pasolini perdeva drammaticamente la vita nell’idroscalo di Ostia: era il 1975, e quest’anno ricorrono 50 anni. Nella memoria di p. Turoldo emerge la sua familiarità con il regista: un’amicizia singolare, discreta, ai più sconosciuta, mai ostentata, che ha avuto un impatto significativo sulla vita di entrambi. Il recente volume David Maria Turoldo e Pier Paolo Pasolini. Due anime friulane[2]vuole scandagliare tale amicizia, che sembra non essere stata in precedenza analizzata, nonostante la vastissima letteratura dedicata alle loro opere poetiche, letterarie, teatrali e cinematografiche.

Nel titolo, si definiscono Turoldo e Pasolini «due anime friulane»: un tratto indovinatissimo e quanto mai appropriato. Non solo perché essi sono friulani di due paesi vicini – Turoldo è nato a Coderno di Sedegliano, vicino Udine, e la famiglia di Pasolini proviene da un paese a breve distanza, Casarsa della Delizia, dove è nata la madre: paese di adozione dello scrittore, in cui egli ritornava volentieri nei soggiorni estivi –, ma per ragioni più profonde, che hanno origine dalla povertà di quella terra, dall’umano e dal religioso che ne traspira, dalla poesia che vi zampilla.

La povertà e l’emigrazione


La ragione per cui molti sono costretti a emigrare per sopravvivere è la povertà del Friuli.

Dopo le elementari, Turoldo vuole entrare in Seminario, ma la famiglia non ha i mezzi per mantenerlo: il rettore dei Serviti, tuttavia, lo accoglie ugualmente nell’Ordine, perché una vocazione sacerdotale dipende da Dio e non dal tenore di vita della famiglia. È da rilevare l’ultimo colloquio tra il giovane e i genitori, prima di entrare definitivamente in convento. La madre era contraria: «Noi siamo poveri e non possiamo offendere la gente», come se la loro povertà fosse una mancanza di rispetto verso gli altri. La famiglia di Turoldo era davvero una delle più povere del paese. Ma, alle insistenze del ragazzo, il padre disse: «Ebbene, allora vai. Ma ricordati: se vedrai che non è la tua strada, per via di difficoltà o altro, e cioè se non ti sentirai di continuare, ritorna pure: questa porta (e prese letteralmente la porta di casa, aprendola) è sempre aperta per te; se invece sarà per stupidaggini, sappi che questa porta (e la chiuse con un botto) non è più aperta per te»[3]. Il padre concluse: «Ti do un consiglio: preparati comunque al peggio, perché al meglio son tutti pronti, al peggio non è pronto nessuno. E ricordati del nostro proverbio: la madre del peggio è sempre incinta»[4].

Anche Pasolini deve emigrare da Casarsa, ma per una diversa ragione: la sua omosessualità conclamata, cui segue una denuncia per corruzione di minori, poi il processo e infine l’assoluzione. Ma viene subito rimosso dall’incarico di insegnante nelle scuole medie di un comune vicino. Cercherà lavoro a Roma, facendo anche il correttore di bozze, poi nuovamente insegnando, e diventerà romano, pur rimpiangendo il povero Friuli, a cui rimarrà sempre legato.

La poesia


Una raffinata sensibilità poetica accomuna le personalità di questi due soggetti. La vita di entrambi si può definire una poesia scomoda, difficile, a volte scontrosa, eppure vera e altissima poesia. Perché la poesia sgorga dall’intimo: è un’urgenza interiore di verità e di vita. Una raccolta di poesie di Turoldo appare con un titolo inquietante: Anche Dio è infelice![5].

Nel 1948 esce per Bompiani il primo volume di poesie: Io non ho mani. Turoldo scrive: Io non ho mani / che mi accarezzino il volto, / […] non so le dolcezze dei vostri abbandoni: / ho dovuto essere / custode / della vostra solitudine: / sono salvatore di ore perdute[6]. E in un altro volume scrive: Gli altri intanto / si baciavano sulla bocca, / ma io Ti mangiavo tutte le mattine. / E, allora, perché ero così triste?[7]. In questi versi sono uniti, senza contrapposizioni, amore umano e amore divino, senza tentare di attenuare il dramma di chi ama. È il gioco della propria esistenza, è la realtà della vita in cui ognuno si trova immerso. Non a caso la poesia si intitola Amore e morte. Ma, per Turoldo, tutto è problematico, perfino drammatico: Finalmente ho disturbato / la quiete di questo convento / altrove devo fuggire / a rompere altre paci[8]. Questa confessione rende ragione del perché egli sia stato definito «la coscienza inquieta della Chiesa»[9].

Ma chi può capire come va il mondo, come si possono comprendere «i segni dei tempi», per usare una formula molto cara a san Giovanni XXIII? Risponde Turoldo: «Per capire i tempi bisogna ascoltare cosa dicono i poeti. Per sapere come patisce il mondo bisogna interrogare i poeti»[10]. È sua vocazione dar voce alle aspirazioni profonde delle persone, alle fedi e alle battaglie, per cui egli cita volentieri Gregorio Magno: «Insegno quello che da voi imparo»[11]. Poi commenta: «Per me mai una predica è uguale a un’altra predica, mai un giorno è uguale a un altro giorno, mai […] una primavera a un’altra primavera. E mai Dio è uguale a Dio. Dio è sempre nuovo ed è sempre da scoprire»[12].

Pasolini redige il primo libro di poesie ambientandole a Casarsa: le scrive in friulano e le raccoglie nel 1942, in Poesie a Casarsa[13]. Il friulano non è di facile comprensione, per cui in calce a ogni poesia appare la versione italiana. Ne emerge un legame fortissimo con quella terra, una religiosità profonda, legata a un mondo arcaico, e insieme drammatica per i contrasti interiori tra fede e ricerca di sé stesso, tra invocazione del divino e rifiuto di Dio, tra senso del peccato e desiderio di libertà.

Di Pasolini, Alberto Moravia scrive: «[È] il maggior poeta italiano della seconda metà del secolo. Un poeta non vale più di un altro. Ma Pasolini ha scritto più cose e più importanti degli altri. Si è trovato a vivere in un periodo disastroso della storia d’Italia, cioè nel momento di una catastrofe senza pari, dopo una disfatta militare, con due eserciti che si combattevano, sul suo suolo. Nello stesso tempo, la rivoluzione industriale attirava nelle città milioni di uomini che provenivano da quella civiltà contadina che Pasolini amava e in cui affondava le radici la sua poesia. […] Sono due dei temi principali della poesia di Pasolini: il pianto sulla patria devastata, prostrata, avvilita, e la nostalgia della civiltà contadina»[14].

Il paradiso perduto


Per tutti e due i poeti il Friuli rappresenta qualcosa di misterioso e di paradisiaco. Per Turoldo, è memoria che diventa quasi mito. Nelle sue poesie, egli si riferisce alla sua terra come a un Eden perduto, che pure è stato per lui baricentro di orientamenti esistenziali. Così Coderno, il suo paese natale, diventa una pianura immensa che «da bambini percorrevamo scalzi, come su di un tappeto, verso le colline di S. Daniele e i monti della Carnia dove sta il rifugio dei più poveri, e poi giù verso il mare; pianura che ci pareva fosse il cuore del mondo, uno spazio dove gli occhi di tutti noi si fanno azzurri a forza di guardare»[15].

Nel tempo, queste memorie sarebbero divenute, come testimonia il titolo di un suo libro, la Mia infanzia d’oro. Ed egli confessa: «Io […] devo difendere la mia infanzia, che perciò sembra tutta d’oro, anche se è stata forse la più povera fra tutte le infanzie dei miei compagni»[16]. Si tratta di un testo particolare che, ristampato dopo la morte, è accompagnato da un «Addio» in versi di Alda Merini, da due poesie della nipote, Gioia Turoldo Malnis, e da cinque disegni di Pasolini[17]. Fra le altre, c’è una strofa dedicata «Allo zio David»: Grazie perché sei stato tu a insegnarmi / che in ogni uomo / c’è qualcosa di buono, / basta cercare[18].

Anche Pasolini, quando ripensa al suo Friuli, lo immagina come un «luogo paradisiaco», dove Casarsa diventa «un paese vergine», un rifugio «per salvarsi dalla grande decadenza e dalla corruzione, dallo sfascio del mondo»[19].

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Turoldo scrive: «La mia anima è la mia natura di friulano, di questa gente di frontiera; orgogliosi figli di una piccola patria, ricca soprattutto, allora, di villotte[20] struggenti e delicate […] dove sono narrate le infinite vicende dolorose e tristi di un popolo nobile, tanto povero quanto dignitoso»[21].

Anche Pasolini ama le «villotte»; per lui il friulano è la lingua che «rappresenta il“ritorno” al mondo materno. Un mondo autentico e puro, non ancora contaminato dagli ideali borghesi»[22].

Turoldo afferma qualcosa che può riferirsi anche a Pasolini: «La mia anima era mia madre, mio padre, quelle madri del Friuli vestite di nero, col fazzoletto nero in capo annodato sotto il mento, uguali all’Addolorata sotto la croce. […] I poveri sono stati la causa della mia vocazione, i poveri sono il contenuto della mia fede, fonte di ispirazione della mia poesia e della mia predicazione. Per loro mi son fatto “voce”; sempre a sognare i grandi sogni di umanità e di giustizia. Sempre irrequieto e insoddisfatto; portando con me continuamente il senso della morte»[23]. E conclude affermando che i suoi confratelli lo chiamavano «Frate Focu»[24], e lui era felicissimo di sentirsi dentro il Cantico di Frate Sole di san Francesco.

Quando Turoldo confessa di essere un lettore fanatico di Dostoevskij e di Tolstoj, sente di dover ricordare anche Don Chisciotte, «un libro che può dirla lunga sul mio conto […], per quello che sono e per le lotte che ho ingaggiato sia in ordine alla Chiesa che alla società». Poi conclude: «E non a caso, fra i contemporanei, ho coltivato una speciale amicizia per Pier Paolo Pasolini che ritengo uno dei più incidenti testimoni di questa nostra “perduta civiltà”»[25].

La religiosità di Turoldo e di Pasolini


Dopo aver indagato a fondo le Scritture e dopo aver composto migliaia di inni sacri – inni che si usano ancora nel Breviario –, Turoldo scrive: «Il [tuo] volto ho cercato con la mente e con il cuore, ma non sono mai riuscito a dargli una figura e una immagine sicura. I miei maestri son quelli che dopo aver tanto cercato (Agostino, Pascal, Kierkegaard) sanno di non aver trovato nulla»[26]. È una confessione: l’incapacità di comunicare chi è Dio, di poterlo condividere con altri. E Turoldo lo dice in poesia, senza alcuna retorica: Fratello ateo, nobilmente pensoso, / alla ricerca di un Dio che non so darti, / attraversiamo insieme il deserto. / Di deserto in deserto andiamo oltre / la foresta delle fedi, / liberi e nudi verso / il Nudo essere / e là / dove la parola muore / abbia fine il nostro cammino[27]. Il fratello ateo è l’amico Pasolini, con cui Turoldo si rispecchia in modo drammatico, e spiega: «Andrei molto adagio a parlare dell’ateismo di Pasolini, poche persone erano così religiosamente tormentate come Pasolini. Egli, nonostante la sua strafottenza, non aveva neanche mai accettato la sua condizione fisiologica che sappiamo e quindi era un uomo che viveva la sua tragedia fino in fondo; e quando uno vive la sua tragedia così, non è assolutamente da computarsi come ateo»[28]. Poi incalza: «Non vorrei con questo fare politica di annessione e dire che Pasolini era un cattolico, un cristiano. No. È un essere religioso anche lui e con una fame di assoluto come pochi io ho conosciuto nella mia vita. […] Pasolini non può non credere: egli è una proiezione ancestrale di sua madre. […] E sua madre è popolo, è umanità concepita nata impastata cristiana»[29].

In altre parole, Turoldo «caccia il suo Dio nel territorio della società, si isola per pregare e meditare certamente, ma deve cercarlo negli occhi della gente»[30]. Dio è nell’intimo dell’uomo, è presente nella vita di tutti, nel dramma di ogni persona. Insomma, per Turoldo la relazione con Dio è una lotta, un corpo a corpo da cui si esce sempre perdenti, perché Dio è il diverso, l’imprevedibile, colui che è sempre nuovo, l’inaccessibile che ti sorprende. Per usare una espressione di Giorgio Luzzi, ma anche di Luigi Santucci, si tratta di una «teomachia», una battaglia con Dio. Questo forse è il tema più imponente di tutta la poesia turoldiana[31].

Ma come si può definire il Signore per Turoldo? Questo è il tema di una sua poesia, Cristo, mia dolce rovina[32].È una contraddizione, uno scandaloso ossimoro. Eppure, Cristo è venuto a portare la spada, ad accendere il fuoco, a vincere la mediocrità, a rovesciare i tavoli dei mercanti del tempio, a rovinare la falsa pace degli uomini. Tutto ciò tocca la vita dei discepoli, i suoi profeti. Chi è allora il profeta? Colui che sa denunciare il presente, che sceglie sempre l’umano contro il disumano; è l’uomo che non si mimetizza con il potere, mai adulatore, mai succube, che avanza per santità ostinata.

Come Giobbe, come Geremia, Turoldo arriva a contestare Dio, ma non per il proprio dolore, bensì per il male che distrugge il mondo. Egli chiama Dio a intervenire dove ci sono le prepotenze e gli abusi, dove il potere uccide gli uomini, dove l’innocente paga per tutti, dove il dolore è un mistero infinito: Credere a Pasqua non è / giusta fede: / troppo bello sei a Pasqua! Ma è al venerdì santo / quando tu non c’eri lassù / quando non una eco risponde / al suo alto grido / e a stento il Nulla dà forma / alla tua assenza[33]. Il Cristo di Turoldo è il Gesù del Venerdì Santo, sulla croce, che diventa nulla per essere servitore, che muore per salvare, che dà la vita perché si possa risorgere.

«La religione del mio tempo»


Si potrebbe dire che analoga è la ricerca religiosa di Pasolini: Tu non vuoi il canto ma solo la fedeltà, / tu pretendi il digiuno e io lo temo, / tu pretendi l’oblio e io invece tremo solo di ricordi. / Ecco perché la luce tua che è in me / a te non mi conduce[34]. Singolareè la luce tua che a te non mi conduce: è l’esperienza di chi non sa se crede o non crede, perché – commenta Turoldo – «altro è credere, altro è credere di credere»[35]. Chi ha la certezza della propria fede? La fede è un dono di Dio, ma deve essere accolta. È quanto Pasolini sa cogliere: tu vuoi la fedeltà… ecco l’accoglienza; tu vuoi il digiuno, ma io lo temo; tu pretendi l’oblio, tu esigi che dimentichiamo le cose del mondo che ci separano da te, e invece siamo pieni di ricordi, di attaccamenti, di schiavitù inutili, difficili da sradicare, di pesi da cui non riusciamo a liberarci.

Si possono accostare alla religiosità di Pasolini due sue raccolte di poesie: L’usignolo della Chiesa cattolica (1958) e La religione del mio tempo (1961). La prima raccolta vienescritta quasi contemporaneamente a Le ceneri di Gramsci (del 1957), in cui Pasolini aderisce al pensiero di Gramsci e al marxismo, ma non vede nelle borgate romane quel proletariato ideale che ha una coscienza di classe, pronta alla rivoluzione.

L’usignolo della Chiesa cattolica esprime il rimpianto per la vita perduta, il Friuli del mondo contadino con la sua religiosità semplice e autentica, «un profumo»: è l’Usignolo del materno Friuli, dolceodorante della Chiesa cattolica[36]. Ma qui ne sancisce la morte: E con lui è morta una terra arrisa / da religiosa luce, col suo nitore / contadino di campi e casolari; / è morta una madre ch’è mitezza e candore. […] Ed è morta un’epoca della nostra esistenza[37].

Accanto al rimpianto, c’è la delusione per la Chiesa, che – a suo parere – non trasmette più quella religiosità antica e autentica, forse troppo scomoda. Su tutto prevale la poesia, tra l’invocazione del divino e il suo rifiuto, tra il senso del peccato e il desiderio di libertà. Qui la confessione della propria omosessualità rivela una drammatica sofferenza interiore, perché, da un lato, Pasolini è legato alla fede cristiana e quindi al bisogno di comprensione, di perdono e di redenzione; dall’altro, si sente rifiutato da una Chiesa istituzionale e formale. Scrive ne «Il fresco sguardo»: Nessuno mi sentiva / impazzire, all’alba, / desto da sogni / che un MAI malediva. / Ma l’odiata purezza / e i peccati sognati / erano il fresco sguardo / dei miei occhi bruciati[38]. Il poeta non nasconde il sogno di un’altra Chiesa, meno autoritaria, quasi profezia del Concilio Vaticano II, che fa sperare in tempi nuovi.

Benché La religione del mio tempo abbia questo titolo, la raccolta tratta del rapporto tra poesia e scelte di vita. Il testo ha una prima parte dal titolo La ricchezza, una seconda incentrata sulla religiosità, e una terza che riunisce le Poesie incivili. Ma il titolo non è casuale, perché La religione del mio tempo è la denuncia del poeta contro i cristiani che si ritengono credenti ma non testimoniano la loro fede. Non c’è dubbio che l’Italia, da un punto di vista religioso, si sia progressivamente allontanata dal Vangelo e la nuova religione laica sia frutto di tale deriva. Eppure, Pasolini sa tradurla in poesia vera, con una fisionomia definita. Per dare un nome a tale religiosità, si richiama al marxismo, ma nello stesso tempo sembra allontanarsene: Per essere poeti, bisogna avere molto tempo: / ore e ore di solitudine […] / Io tempo ormai ne ho poco: per colpa della morte / che viene avanti, al tramonto della gioventù. / Ma per colpa anche di questo nostro mondo umano, / che ai poveri toglie il pane, ai poeti la pace[39]. Sono cose vere, ma la nostalgia della solitudine non si addice a chi fa professione di marxismo.

Per Pasolini, l’ispirazione emerge dalla miseria del sottoproletariato, quello di innumerevoli vite che si aggirano nei mucchi di tuguri, / nei luoghi sconfinati dove credi / che la città finisce, e dove invece / ricomincia, nemica, ricomincia / per migliaia di volte, con ponti / e labirinti, cantieri e sterri / dietro mareggiate di grattacieli, / che coprono interi orizzonti[40]. Si tratta di un’esistenza che va avanti giorno dopo giorno, senza mai arrivare a una vera coscienza di libertà. Pasolini la confronta con la sua coscienza e con la libertà che segna la poesia e la riflessione intellettuale: Ma in questo mondo che non possiede / nemmeno la coscienza della miseria, / allegro, duro, senza nessuna fede, / io ero ricco, possedevo![41].

Egli assimila al sottoproletariato anche le persone a cui la salute, il denaro, la facilità di vita hanno dato un cuore arrogante e hanno cancellato il bisogno di Dio. In definitiva, La religione del mio tempo unisce chi è povero perché non ha davvero nulla e chi è povero per il troppo benessere e per il vuoto che ne deriva. Pasolini vuole stabilire una solidarietà tra queste due zone diverse dell’animo umano. Tuttavia, la vera fede di questa umanità, se così si può dire, va ricercata tra i ripiegamenti del sesso, dove il sesso non è solo una semplice consolazione della miseria[42], ma diviene paradossalmente illusione di libertà e falsa pienezza di vita.

Pasolini e la Chiesa


La religione del mio tempo ha pagine vere e intense, segnate dal contrasto con la Chiesa. In questa raccolta l’autore si rivolge soprattutto contro il Papa, che muore senza essersi accorto del povero che vive miseramente per strada vicino al Vaticano ed è travolto da un tram. Di qui l’accusa specifica a Pio XII per il bene che lui e i cristiani dovrebbero fare e non fanno: Peccare non significa fare il male: / non fare il bene questo significa peccare[43].

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Questo atteggiamento però nasconde qualcosa: è il rovesciamento dell’amore che il poeta sente di non aver ricevuto da nessuno, con la sola eccezione della madre. Un’eccezione imbarazzante, non facilmente irrisolta, tanto che ne La religione del mio tempo l’unico posto che trova per la madre è nell’Appendice, che tuttavia egli qualifica con un nome splendido: Una luce[44].

Per capire il senso del sacro che emerge dalla poetica di Pasolini, va colta la particolare sensibilità nei confronti della figura di Cristo, quasi una forza che lo fa immedesimare in lui. Singolare è la poesia «La Crocifissione»: Noi staremo offerti sulla croce, / alla gogna, tra le pupille / limpide di gioia feroce, / scoprendo all’ironia le stille / del sangue dal petto ai ginocchi, / miti, ridicoli, tremando / d’intelletto e passione nel gioco / del cuore arso dal suo fuoco, / per testimoniare lo scandalo[45].

La poesia e il cinema


Sia Pasolini sia Turoldo dalla poesia approdano al cinema. Ricca e complessa la produzione dell’uno, una breve parentesi per l’altro: un solo film, Gli ultimi, uscito nel 1962. L’idea nasce a Turoldo da un racconto, Ma io non ero un fanciullo[46], e il film può definirsi interamente suo. Suo è il soggetto, sua la sceneggiatura, suo l’impegno estenuante accanto a Vito Pandolfi, il regista, sul set prima, e poi a Roma per il montaggio. Film interamente friulano sia nell’ambientazione sia nel cast, scelto nella gente di Coderno, con la sola eccezione di un bambino della comunità di Nomadelfia. Purtroppo questo film fu un fallimento sul piano commerciale, tanto da uscirne in passivo. Favorevole invece fu il parere della critica. Tra le tante voci, a noi interessa il giudizio positivo di Pasolini, perché costituisce un segno di attenzione, di amicizia, di solidarietà: egli parla di «assoluta severità estetica», di linguaggio di verità, di passione per il Friuli[47].

Il film Il Vangelo secondo Matteo è del 1964 e segna un primo contatto documentato tra Turoldo e Pasolini in occasione della sua proiezione al Centro culturale San Fedele, il 23 ottobre 1964. La dedica può essere una chiave di lettura: «Alla cara, lieta e familiare memoria di Giovanni XXIII».

Il Vangelo secondo Matteo ha una storia non semplice, frutto di una appassionata ricerca spirituale del regista. Leggendo il testo di Matteo, Pasolini ha l’impressione di incontrare «quel Cristo mite nel cuore, ma “mai” nella ragione, che non desiste un attimo dalla propria terribile libertà come volontà di verifica continua della propria religione, come disprezzo continuo per la contraddizione e per lo scandalo»[48]. Insomma, un Cristo che si fa verità e contraddice radicalmente la vita dell’uomo moderno, fatta di compromessi, di conformismo, di brutalità, di mancanza di responsabilità per il bene comune[49].

Prima di girare il film, Pasolini visita Israele, in particolare la Galilea, e ne torna deluso dal fatto che in quelle regioni, brulle e desolate, nulla parla di Cristo. Tuttavia è confortato in una sua convinzione di fondo: «Le cose, quanto più sono piccole e umili, tanto più sono profonde e belle»[50], in consonanza piena con san Paolo: «La potenza di Dio si rivela pienamente nella debolezza» (2 Cor 12,9). Tanto da confessare: «Mi sono accorto che questa mia idea è ancora più vera di quanto io immaginassi»[51].

L’originalità del film è dovuta all’assoluta fedeltà con cui il testo è tradotto in immagini, esempio unico nelle produzioni di soggetto biblico[52]. Il Vangelo secondo Matteo rappresenta il punto di arrivo di una ricerca poetica nel linguaggio cinematografico: letteratura, pittura e musica concorrono a creare un «cinema di poesia»[53]. Non è un caso che il giovane Pier Paolo, a Bologna, sia stato allievo di Roberto Longhi[54].

La scelta non facile del protagonista ha una storia singolare. Enrique Irazoqui, un ragazzo spagnolo di 19 anni, vuole conoscere Pasolini per coinvolgerlo nella lotta antifranchista. Quando lo incontra, il regista è alla ricerca di un volto per rappresentare Gesù e, appena lo vede, ha una folgorazione: è lui![55] Alla richiesta del regista, il giovane risponde che non ha alcun interesse per il cinema, e tanto meno desidera figurare in un film: l’unica cosa che gli sta a cuore è il rovesciamento del potere di Franco. Per di più, non ha interesse a dar voce a una Chiesa che egli detesta in quanto complice di un regime di oppressione. Ma un amico che è con lui lo convince ad accettare: devolverà i proventi del film per la causa della rivoluzione. Il problema ora è questo: come rappresentare fedelmente la figura di Cristo.

Il regista tiene conto delle motivazioni del ragazzo. Quando dovrà parlare di scribi e farisei, gli dirà di pensare alla borghesia franchista contro cui ha ingaggiato la lotta clandestina. «Il Cristo che ho imparato ad amare – dirà più tardi il protagonista – è proprio quello del Discorso della montagna, il centro del film»[56]. Ma ciò che più lo meraviglia è «l’impressione che Pasolini volesse essere al mio posto mentre interpretavo Gesù. […] Era innamorato del Vangelo, nel quale vedeva incarnarsi quella “bellezza assoluta” di cui ha parlato in una lettera a Bini», il produttore del film. In quella lettera, il regista afferma: «Per me la bellezza è sempre una “bellezza morale”; ma questa bellezza giunge sempre a noi mediata: attraverso la poesia, o la filosofia, o la pratica; il solo caso di “bellezza morale” non mediata, ma immediata, allo stato puro, io l’ho sperimentato nel Vangelo»[57]. Per Pasolini, è fondamentale questa fede nella bellezza, traccia dell’infinito, dell’assoluto, come apertura a ciò che è oltre, l’inconoscibile, il mistero.

Alla sua uscita, il film suscitò scandalo tra i benpensanti, mentre i Padri conciliari, a cui fu presentato in anteprima durante una pausa del Vaticano II, lo apprezzarono e lo applaudirono. Il film fu anche insignito del premio Ocic del Centro cattolico cinematografico. Pasolini, pur dichiarando di non essere credente, asserisce di aver voluto parlare, nel film, a nome di un ipotetico credente, di ciò che toccava l’intimo della propria coscienza[58].

Nonostante tutto questo, quando il film fu presentato alla stampa al Festival di Venezia nel 1964, fu organizzata, ad arte, una grande gazzarra contro il regista, per motivazioni facilmente intuibili. Pochi giorni dopo la presentazione del film a San Fedele, il Priore generale dei Serviti richiamò con durezza p. Turoldo: «A prescindere dal fatto che sia opportuno o meno che Ella si immischi in una polemica così pericolosa quale è quella relativa a Pasolini, mi vien riferito che Ella ne avrebbe addirittura prese le difese e le vengono attribuite le seguenti parole: “L’ateo ha coraggio ed è anch’egli un credente. L’ateismo è un aspetto nobile dell’uomo e non bisogna essere fanatici contro gli atei”»[59].

Turoldo non fa attendere la risposta: dice di aver fatto tutto in regola, secondo l’enciclica Ecclesiam Suam di Paolo VI, appunto secondo le indicazioni della Chiesa per il dialogo con i lontani. Afferma pure di essere pronto a rispondere di persona per non aver fatto nulla né contro la dottrina né contro lo spirito della Chiesa. Benché il Priore non si ritenesse soddisfatto della risposta, occorre dargli atto che difese il confratello di fronte al Sant’Uffizio e al cardinale Ottaviani, rassicurandolo sulla sua condotta sacerdotale e morale, sebbene ci fossero «intemperanze di espressione»[60]. Per Turoldo, era chiaro che si trattava di riproporre in primo piano la missione della Chiesa quale annunciatrice del Vangelo e quale segno vivo di salvezza per ogni persona.

In occasione della morte di Pasolini


Alla morte di Pasolini, nella notte tra il 1° e il 2 novembre 1975, Turoldo scrisse due lettere aperte: una alla madre del poeta e l’altra alla madre del giovane assassino. Fu l’unico sacerdote a officiare il funerale, a Casarsa, dopo quello laico svoltosi a Roma. Definiva l’amico «un “umile” figlio dell’“umile” Friuli, in “esilio” in una città “violenta” e disumana, da ricondurre ora “a casa” dalla madre che assurgeva a simbolo della sua “vera patria” e “vera fede”»[61]. Le due lettere non furono pubblicate, perché rifiutate dal direttore del Corriere della Sera. Ma Turoldo lesse, nell’omelia della Messa, come orazione funebre, la lettera alla madre di Pasolini, che – non occorre ricordarlo – aveva svolto la parte della Madre di Gesù nel film Il Vangelo secondo Matteo.

Qualche anno dopo, nel 1987, Turoldo stesso rievoca l’amicizia con Pasolini. Gli incontri personali non erano stati molti, ma i due si erano sempre stimati da lontano. Turoldo faceva un ritratto vivo di Pasolini: in lui vedeva il profeta «“che sapeva benissimo definire le categorie emergenti della nuova coscienza individuale e nazionale” attraverso immagini e formule come “gente del Palazzo”, scomparsa delle “lucciole”, “questione morale”, portate “a uno stato incandescente” negli Scritti corsari e nelle Lettere luterane; il “missionario” che avvertiva l’urgenza di “denunciare il male”, che sognava “la liberazione dal peccato” perché per primo “grande peccatore”, segnato da un senso “tragico” del negativo; “l’anima religiosa” di “credente senza fede”, inquieto “perché non trovava assolutamente il punto folgorante e totalmente persuasivo di tutte le cose che cercava”»[62]. Si tratta dunque di una chiave di lettura assolutamente religiosa. Turoldo vede in Pasolini una ricerca del senso e del valore della vita che glielo rende fratello: è la sua stessa ricerca. Il servita dichiara il valore profetico della parola dell’amico e ne apprezza la capacità di resistenza alla deriva in atto nella società.

In tale contesto, vanno ricordate le parole con cui l’arcivescovo di Milano, card. Carlo Maria Martini, concluse l’omelia al funerale di p. Turoldo: era il «poeta che aveva sentito il silenzio di Dio, l’abbandono dell’uomo, l’urlo della disperazione presente in ciascuno di noi. […] Era poeta, profeta, disturbatore delle coscienze, uomo di fede, uomo di Dio, amico di tutti gli uomini»[63]. La biografia di p. Turoldo si può riassumere così in una vita spesa per il bene dell’uomo. Proprio L’uomo è il nome emblematico di una testata clandestina da lui ideata nella Milano della Resistenza e poi nella Firenze di Giorgio La Pira, guadagnando molti consensi e suscitando altrettanti dissensi.

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[1] «Intervista» di Antonio Devetag e Romano Remigio, ottobre 1989, in AA.VV., David Maria Turoldo e Pier Paolo Pasolini. Due anime friulane, Rovato (Bs), Aldebaran Editions, 2023, 153.

[2] Cfr la nota precedente. Il volume fa seguito a un documentario del 2022, Stare al mondo: Turoldo e Pasolini, apparso nel trentesimo anniversario della morte di p. Turoldo (1916-1992) e nel centenario della nascita di Pasolini (1922-1975).

[3] D. M. Turoldo, La mia vita per gli amici. Vocazione e resistenza, Milano, Mondadori, 2001, 97.

[4] Ivi.

[5] Cfr D. M. Turoldo, Anche Dio è infelice, Casale Monferrato (Al), Piemme, 1991.

[6] Id., Io non ho mani, Milano, Bompiani, 1948, 55.

[7] Id., «Amore e morte», in Id., O sensi miei… Poesie 1948-1988, Milano, Rizzoli, 1990, 145.

[8] Id., «Vicenda», in Id., Io non ho mani, cit., 41.

[9] Cfr L. Santucci, «Turoldo David Maria», in Dizionario biografico dei friulani: cfr dizionariobiograficodeifriulan…

[10] M. Garzonio, «Il racconto di un uomo della speranza», in D. M. Turoldo, La mia vita per gli amici…, cit., 214.

[11] Ivi, 215.

[12] Ivi.

[13] P. P. Pasolini, Poesie a Casarsa, Bologna, Mario Landi, 1942.

[14] Id., Un cinema di poesia, Roma, s.i.e. e d., 6.

[15] M. Maraviglia, David Maria Turoldo. La vita, la testimonianza (1916-1992), Brescia, Morcelliana, 2016, 20; D. M. Turoldo, Lo scandalo della speranza, Napoli, G. A. Benvenuto, 1978, 16.

[16] D. M. Turoldo – A. Merini – G. Turoldo Malnis, Mia infanzia d’oro, Milano, All’insegna del Pesce d’Oro, 1992, 33.

[17] I disegni si trovano nell’edizionefuori commercio del 1991.

[18] D. M. Turoldo – A. Merini – G. Turoldo Malnis, Mia infanzia d’oro, cit., 39.

[19] Cfr R. Beano, «Due voci, una terra», in AA.VV., David Maria Turoldo e Pier Paolo Pasolini…, cit., 126.

[20] La «villotta» è un canto popolare polifonico; il nome deriva forse da «veglia», perché questi canti venivano fatti intorno al fuoco, nelle serate importanti.

[21] D. M. Turoldo, La mia vita per gli amici, cit., 35.

[22] D. Clapasson, «La seduzione del nulla», in AA.VV., David Maria Turoldo e Pier Paolo Pasolini…, cit., 92.

[23] D. M. Turoldo, La mia vita per gli amici, cit., 35.

[24] Ivi.

[25] Ivi, 47.

[26] Id., Il dramma è Dio. Il divino, la fede, la poesia, Milano, Fabbri, 1997, 150-153.

[27] E. Ronchi, «Turoldo e la lotta con Dio», in AA.VV., David Maria Turoldo e Pier Paolo Pasolini…, cit., 39.

[28] D. M. Turoldo, «La mia lettura di Pasolini», ivi, 153.

[29] R. Beano, «Due voci, una terra», ivi, 126.

[30] Ivi, 125.

[31] Cfr L. Santucci, «Prefazione», in D. M. Turoldo, Poesie, Vicenza, Neri Pozza, 1971, XVI.

[32] E. Ronchi, «Turoldo e la lotta con Dio», cit., 40 s.

[33] Ivi, 42.

[34] Ivi, 39.

[35] Ivi.

[36] P. P. Pasolini, La religione del mio tempo, Milano, Garzanti, 1961, 103 s.

[37] Ivi, 104.

[38] Id., L’usignolo della Chiesa Cattolica, Milano, Longanesi, 1958, 81.

[39] Id., La religione del mio tempo, cit., 116.

[40] Ivi, 42.

[41] Ivi, 26.

[42] Ivi, 42.

[43] Ivi, 125.

[44] Ivi, 105.

[45] Id., L’usignolo della Chiesa Cattolica, cit., 114.

[46] Cfr D. M. Turoldo, La mia vita per gli amici, cit., 35.

[47] Cfr M. Maraviglia, David Maria Turoldo…, cit., 266 e nota 69.

[48] P. P. Pasolini, «Il Vangelo di Matteo. Una carica di vitalità», in Id., Il Vangelo secondo Matteo, Milano, Corriere della Sera, 2015, 23.

[49] Cfr V. Fantuzzi, «Il Vangelo secondo Matteo», in Id., Pasolini, Roma, La Civiltà Cattolica, 2022, 43.

[50] Ivi, 37.

[51] Ivi, 49.

[52] In tal senso, va menzionata anche la sceneggiatura di un film su san Paolo, che non ha visto la luce, ma che riprende quella fedeltà al testo biblico trasferito in uno scenario moderno: cfr P. P. Pasolini, San Paolo, Torino, Einaudi, 1977.

[53] Cfr Id., Un cinema di poesia, cit., nel frontespizio.

[54] Cfr il capolavoro di R. Longhi, Caravaggio, Roma, Editori Riuniti, 1968.

[55] Cfr V. Fantuzzi, «Enrique Irazoqui: un ragazzo che non voleva essere Gesù», in Id., Pasolini, cit., 90.

[56] Ivi, 92.

[57] Ivi, 99.

[58] Cfr V. Fantuzzi, «Pasolini sulla via del Vangelo», ivi, 74.

[59] M. Maraviglia, David Maria Turoldo…, cit., 293.

[60] Ivi.

[61] Ivi, 359.

[62] Ivi, 359 s.

[63] Ivi, 417.

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Fondato sulla sabbia


La questione israelo-palestinese rimane, purtroppo, di strettissima attualità e di difficilissima soluzione. La situazione, estremamente complessa e ormai incancrenita da decenni di campagne belliche, attentati e ritorsioni, è stata resa ancora più tragicamente problematica dal pogrom scatenato da Hamas il 7 ottobre del 2023 e dalla successiva, terrificante reazione militare – decisa dal governo di Benjamin Netanyahu –, che ha provocato la morte non solo di un gran numero di terroristi, ma anche di migliaia e migliaia di civili.

Di fronte a una simile operazione e ai suoi altissimi costi umani ci si chiede come mai – a differenza di quanto è accaduto spesso in passato – non vi siano state proteste di massa, né per nulla numerose siano state le voci critiche levatesi nei confronti dell’operato dell’attuale esecutivo.

Ci aiuta a rispondere a questa domanda l’indagine mediante la quale Anna Momigliano – antropologa, saggista, nonché profonda conoscitrice del Medio Oriente – mette il lettore in grado di comprendere gli avvenimenti odierni. Va posto anzitutto in rilievo come la sua analisi prenda le mosse da un interrogativo: quali cambiamenti ha subìto, nel corso degli ultimi trent’anni, la società israeliana?

Attraverso una disamina che appare lucida, approfondita e ricca di riferimenti storici, l’A. giunge a questa conclusione: nel lasso di tempo considerato, la comunità nazionale – giovane, variegata, dall’elevato tasso di natalità, legata in parte al passato, ma proiettata in parte verso il futuro della ricerca e delle nuove tecnologie – ha vissuto profondi mutamenti tanto demografici quanto sociali, che ne hanno probabilmente acuito le contraddizioni, ma che sembrano orientare la rotta in una direzione ben definita.

Di quale direzione si tratti, è presto detto. La vecchia classe dirigente, legata agli ideali del sionismo laico e socialista, ai quali si erano ispirati i padri dello Stato, sembra ormai sopravanzata da una maggioranza formata da giovani religiosi e nazionalisti. Questi ultimi ritengono che gli accordi di Oslo, siglati negli anni Novanta da Yitzhak Rabin e Yasser Arafat, siano stati del tutto fallimentari: pertanto sono convinti che le colonie costruite in Cisgiordania rivestano un’importanza assai maggiore rispetto a qualsiasi trattativa con i palestinesi. E sembra ragionevole ipotizzare che, chiamati a scegliere tra democrazia e tradizione religiosa, essi optino per la seconda.

Scrive, al riguardo, l’A.: «In altre parole, lo stato ebraico è stato fondato prevalentemente da immigrati di origine europea ma poi trasformato, radicalmente e repentinamente, dall’immigrazione di massa degli ebrei mediorientali» (p. 17). Alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso il numero dei cittadini israeliani arrivò infatti a triplicarsi, provocando non pochi problemi, perché la nuova nazione si rivelò impreparata ad affrontare il massiccio arrivo di persone spesso disperate e indigenti.

È cambiata, insomma, l’identità di un mondo per il quale il più grande massacro di israeliti perpetrato in un solo giorno dai tempi della Shoah ha costituito un vero e proprio trauma: uno shock che ha alimentato un sentimento misto di rassegnazione, odio, paura e desiderio di vendetta, ha dato forza alle posizioni più radicali e assottigliato le fila di quanti esortano alla moderazione e al dialogo. Mentre è probabile che, nel prossimo futuro, la società israeliana – sempre più densamente popolata – sarà animata da un persistente fervore religioso e nazionalista.

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Data Privacy Day is an annual event organized by the Restena Foundation and the Digital Learning Hub – under the umbrella of Cybersecurity Luxembourg – in the framework of the Data Protection Day which is held every year on 28 January.

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EU Open Source Policy Summit 2026


The 2026 edition of the EU Open Source Policy Summit will bring together leaders from the public and private sectors to focus on one clear proposition: open source delivers digital sovereignty.

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39th Chaos Communication Congress (39C3)


The 39th Chaos Communication Congress (39C3) takes place in Hamburg on 27–30 Dec 2025, and is the 2025 edition of the annual four-day conference on technology, society and utopia organized by the Chaos Computer Club (CCC) and volunteers.

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International Digital Rights Days


Digital rights are human rights. In a society increasingly shaped by the digital world, it is essential to emphasize the importance of everyone’s right to access, use, and create digital technologies and content. These rights encompass the protection of privacy, freedom of expression, and the right to access information online. They ensure that individuals can engage with digital platforms, participate in online communities, and share content freely and safely, without facing undue censorship, surveillance, or discrimination.

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World Children’s Day: digital futures for children – children’s rights under pressure in the digital environment


In 2021, the UN Committee on the Rights of the Child introduced General Comment No. 25 on children’s rights in the digital environment, marking a milestone in aligning child rights with the digital age. But what real impact has it had?

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Collective Redress and Digital Fairness Conference


The Collective Redress and Digital Fairness Conference, organized by the University of Amsterdam with support from the Stichting Onderzoek Collectieve Actie, provides a forum to examine how collective redress can ensure effective judicial protection against Big Tech’s contested business practices.

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Workshops – Internet Rules: Understanding digital rights and policies in South and Southeast Asia


The Association for Progressive Communications (APC) has for a number of years organised capacity building workshops on digital rights and policies for a wide variety of stakeholders to enable better understanding of a rights-based approach to ICT policy making.

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IAPP Europe Data Protection Congress 2025 returns to Brussels for its 14th year. Join colleagues from across the data protection, AI governance and cybersecurity law professions to discuss the top issues affecting the region.

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European Young Innovators Festival


For the last last ten years, the EYI festival has fostered meaningful exchange, encouraged peer-to-peer and intergenerational learning, and celebrated cross-cultural connection.

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Finance For Society Forum 2025


Organised by Finance Watch, the Finance for Society Forum is a high-level event held biennially to bring together policymakers, academics, civil society, and financial sector professionals to shape the future of finance.

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AgCom porta gli "influencer" indietro di 20 anni.


@Privacy Pride
Il post completo di Christian Bernieri è sul suo blog: garantepiracy.it/blog/agcom-fo…
A volte diventa difficile dire ciò che voglio dire senza scomodare numi di ogni luogo e tempo e non vorrei irritare Seth, Baal e Pazuzu e Kali. Ma non è giornata, quindi qualche saracca scapperà Clicca qui per contribuire al mio lavoro

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#Israele, la giustizia dei carnefici


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Stellantis ritira 375.000 suv per rischio incendio. «Non ricaricateli»
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Europa, imprese e sovranismi: la sfida della competitività

@Politica interna, europea e internazionale

Venerdì 7 novembre 2025, ore 15:00 – Camera di Commercio di Bergamo In occasione della presentazione del libro “Il nazionalismo fa male (anche al Prosecco)” di Gianmarco Gabrieli
L'articolo Europa,fondazioneluigieinaudi.it/euro…



Si mosse immediatamente Sergio Mattarella quando Molinari venne contestato a Napoli e saltò la sua conferenza.

Per prima cosa alzò il telefono per solidarizzare e poi ci fece un comunicato ufficiale dal Quirinale.

Adesso, mentre un giornalista giovane, Gabriele Nunziati, viene licenziato solo per aver fatto bene il suo lavoro, nessuna solidarietà, nessuna telefonata e nessun comunicato ufficiale. Solo silenzio...

Sempre più in basso!

Giuseppe Salamone



Sulle case popolari in Piemonte l’assessore Marrone difende una norma discriminatoria
possibile.com/sulle-case-popol…
È una strategia politica coerente, che punta a dividere, individuare un nemico, far credere che alcuni abbiano più diritto di altri di accedere ai servizi e alle tutele


L’era dei malware AI-driven è iniziata: ecco i rischi cyber per aziende e PMI


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Per la prima volta Google ha rilevato cinque famiglie di malware che sfruttano gli LLM in esecuzione. Ecco di cosa si tratta e quali sono i rischi cyber per tutti, a partire dagli attacchi just-in-time mediante malware AI
L'articolo L’era dei malware



Horizon cambia rotta. La ricerca europea guarda alla sicurezza

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L’Unione europea prepara la prossima fase della ricerca scientifica con l’obiettivo preciso di rendere più stretto il legame tra innovazione, sicurezza e competitività tecnologica. Il dibattito sul futuro programma Horizon, successore dell’attuale Horizon europe, apre la strada a una maggiore



Intelligenza artificiale nel settore Finance: rischi e accorgimenti del “journey to AI”


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Le tecnologie di nuova generazione sono da sempre sinonimo di innovazione, ma la fretta di adottarle non dovrebbe far dimenticare un’adeguata e bilanciata strategia di adozione. Considerazioni vere soprattutto per il settore finanziario



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poi si dice che le persone di chiesa dovrebbero essere migliori... qua accanto a casa mia ho una chiesa. spesso accende per giornate un macchinario. e te stai tutto il giorno che senti tipo vibrazione / rumore sordo basso simile tipo camion acceso... avete mai provato a sentire un camion lasciato acceso al minimo? a me dà fastidio non poco. è come l'impressione di qualcosa in perenne saltellamento o vibrazione.

in reply to Antonella Ferrari

@Antonella Ferrari @Giornalismo e disordine informativo
Sì, ma solo con i giornalisti veri, quelli che mettono in piazza le varie porcate commesse da sedicenti "onorevoli". I loro squallidi cartolai tirapiedi invece sono intoccabili, con tanto di scorta pagata dai cittadini! (Vedi sallusti feltri. .. ecc ecc)
Questa voce è stata modificata (18 ore fa)


Caro ministro, l'Italia succede ultimamente sta sempre dalla parte sbagliata per colpa vostra, non per i cittadini a cui non ascoltate mai z se non in campagna elettorale permettendo bugie che mai mantenete una volta appoggiato il didietro sugli scranni.