Microsoft BASIC For 6502 Is Now Open Source
An overriding memory for those who used 8-bit machines back in the day was of using BASIC to program them. Without a disk-based operating system as we would know it today, these systems invariably booted into a BASIC interpreter. In the 1970s the foremost supplier of BASIC interpreters was Microsoft, whose BASIC could be found in Commodore and Apple products among many others. Now we can all legally join in the fun, because the software giant has made version 1.1 of Microsoft BASIC for the 6502 open source under an MIT licence.
This version comes from mid-1978, and supports the Commodore PET as well as the KIM-1 and early Apple models. It won’t be the same as the extended versions found in later home computers such as the Commodore 64, but it still provides plenty of opportunities for retrocomputer enthusiasts to experiment. It’s also not entirely new to the community, because it’s a version that has been doing the rounds unofficially for a long time, but now with any licensing worries cleared up. A neat touch can be found in the GitHub repository, with the dates on the files being 48 years ago.
We look forward to seeing what the community does with this new opportunity, and given that the 50-year-old 6502 is very much still with us we expect some real-hardware projects. Meanwhile this isn’t the first time Microsoft has surprised us with an old product.
Header image: Michael Holley, Public domain.
ISRAELE. Smotrich vuole annettere la Cisgiordania senza i palestinesi
@Notizie dall'Italia e dal mondo
Il ministro ultranazionalista ha affermato di volere "il massimo territorio e il minimo della popolazione"
L'articolo ISRAELE. Smotrich vuole annettere pagineesteri.it/2025/09/04/med…
possibile.com/druetti-su-gaza-…
Ceferin - continua Druetti - sostiene che la Russia sia stata esclusa dalle competizioni internazionali per una forte pressione politica, mentre con
Attentato sventato a Viterbo alla Macchina di Santa Rosa, in manette due cittadini turchi
[quote]VITERBO – Due cittadini di origine turca sarebbero gli autori di un presunto attentato alla Macchina di Santa Rosa a Viterbo. Trovati in possesso di un mitra, diverse pistole, caricatori…
L'articolo Attentato sventato a Viterbo alla Macchina di Santa Rosa,
Verona, scoperta banca clandestina al servizio della comunità cinese. Fermati due uomini
[quote]VERONA – Una banca clandestina gestita da cittadini cinesi. È quanto scoperto in provincia di Verona a seguito di un blitz della Guardia di Finanza. A essere fermati due uomini…
L'articolo Verona, scoperta banca clandestina al servizio della comunità cinese.
Lo schiaffo di Pechino
@Giornalismo e disordine informativo
articolo21.org/2025/09/lo-schi…
“Presidente Trump e’ preoccupato dell’avvicinamento di questi giorni fra Russia e Cina?”” No , io ho buoni rapporti sia con il Presidente cinese che con quello russo”. Poche volte nella storia l’inadeguatezza di un leader e’ stata cosi’ palese. L’idea, o meglio l’illusione , che la superpersonalita’ di
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Carceri Sardegna: a Badu ‘e Carros di Nuoro censurate le lettere dei detenuti che denunciano situazioni illegali
Sosteniamo il digiuno di dialogo portato avanti da Rita Bernardini e la proposta di legge di iniziativa popolare Zuncheddu
L’Assciazione Luca Coscioni ha nuovamente ricevuto segnalazioni da parte di detenuti nel carcere Badu ‘e Carros di Nuoro. Se le precedenti missive avevano messo in luce con chiarezza le carenze strutturali, sanitarie e logistiche della casa circondariale di Nuoro, quanto segnalato a distanza di un mese documenterebbe che nulla di significativo è stato fatto per porre rimedio a tali condizioni di degrado e illegalità.
Alle già note criticità, in questa seconda comunicazione si aggiungono lamentele relative in particolare alle operazioni di spedizione della corrispondenza condotte secondo una prassi che appare non del tutto trasparente. Uno dei firmatari scrive che “tutte le lettere indirizzate alla vostra associazione (Luca Coscioni ndr), vengono bloccate per impedirci di comunicare con voi […] un abuso” per cui si è reso necessario l’intervento dell’Ufficio Comando – così come si viene informati da un altro recluso.
Un ulteriore aspetto allarmante è rappresentato dalle difficoltà nell’usufruire di colloqui familiari senza controllo a vista. Se confermato si tratterebbe della violazione di una libertà su cui la Corte Costituzionale si è espressa con la sentenza 10/24 che ha rimarcato il dovere di garantire alle persone recluse l’adeguato diritto all’affettività.
“Molti detenuti hanno fatto richiesta ma, come al solito, non c’è alcuna risposta” si legge nella lettera che conferma le difficoltà nelle relazioni tra operatori e popolazione detenuta che, insieme alle criticità evidenziate in passato acuiscono un clima di malessere che grava anche sull’operato degli agenti di sorveglianza, in alcuni casi vittime di episodi di violenza.
“Ci dicono sempre che la situazione migliorerà, ma anziché migliorare peggiora ogni giorno di più“, conclude una delle ultime lettere giunte all’attenzione dell’associazione.
L’Associazione Luca Coscioni torna a sollecitare le autorità sanitarie locali a effettuare nuovi sopralluoghi a Badu ‘e Carros, dedicando particolare attenzione a quanto denunciato nelle lettere ricevute, annunciando ulteriori azioni affinché negli istituti di pena non si ripetano violazioni dei diritti fondamentali, a partire da quello alla salute e all’affettività delle persone ristrette.
Nel sostenere il digiuno di dialogo con le forze politiche in Senato che Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, sta portando avanti da tre settimane, l’Assocazione sostiene anche la raccolta firme, anche online, per la proposta di legge d’iniziativa popolare Proposta di legge Zuncheddu, lanciata dal Partito Radicale, che prevede un risarcimento rapido e proporzionato per tutte le persone vittime di detenzione senza giusta causa.
L'articolo Carceri Sardegna: a Badu ‘e Carros di Nuoro censurate le lettere dei detenuti che denunciano situazioni illegali proviene da Associazione Luca Coscioni.
Ecco perché il 9 leggeremo i nomi dei giornalisti uccisi a Gaza. Prima che sia troppo tardi
@Giornalismo e disordine informativo
articolo21.org/2025/09/ecco-pe…
il giornalisticidio é stato ed é la premessa per il genocidio
L'articolo Ecco perché il 9 leggeremo
Nei voli si può anche fare a meno del Gps. Braghini spiega come
@Notizie dall'Italia e dal mondo
Il caso delle interferenze di jamming al Gps del business jet Dassault Falcon 900LX che trasportava Ursula von der Leyen in Bulgaria ha avuto immediato e ampio risalto nelle prime pagine dei quotidiani. Senza dubbio si tratta di un episodio grave per il quale si sospetta la Russia, e sarebbe dunque
CPU Utilization Not as Easy as It Sounds
If you ever develop an embedded system in a corporate environment, someone will probably tell you that you can only use 80% of the CPU or some other made-up number. The theory is that you will need some overhead for expansion. While that might have been a reasonable thing to do when CPUs and operating systems were very simple, those days are long gone. [Brendan Long] explains at least one problem with the idea in some recent tests he did related to server utilization.
[Brendan] recognizes that a modern CPU doesn’t actually scale like you would think. When lightly loaded, a modern CPU might run faster because it can keep other CPUs in the package slower and cooler. Increase the load, and more CPUs may get involved, but they will probably run slower. Beyond that, a newfangled processor often has fewer full CPUs than you expect. The test machine was a 24-core AMD processor. However, there are really 12 complete CPUs that can fast switch between two contexts. You have 24 threads that you can use, but only 12 at a time. So that skews the results, too.
Of course, our favorite problem is even more subtle. A modern OS will use whatever resources would otherwise go to waste. Even at 100% load, your program may work, but very slowly. So assume the boss wants you to do something every five seconds. You run the program. Suppose it is using 80% of the CPU and 90% of the memory. The program can execute its task every 4.6 seconds. So what? It may be that the OS is giving you that much because it would otherwise be idle. If you had 50% of the CPU and 70% of the memory, you might still be able to work in 4.7 seconds.
A better method is to have a low-priority task consume the resources you are not allowed to use, run the program, and verify that it still meets the required time. That solves a lot of [Brendan’s] observations, too. What you can’t do is scale the measurement linearly for all these reasons and probably others.
Not every project needs to worry about performance. But if you do, measuring and predicting it isn’t as straightforward as you might think. If you are interested in displaying your current stats, may we suggest analog? You have choices.
Netshacker: Retrogaming e Hacking Reale su Commodore 64
Nel panorama dei giochi per Commodore 64, Netshacker emerge come un progetto che sfida le convenzioni del gaming moderno, riportando i giocatori alle radici dell’informatica domestica degli anni ’80. Non si tratta di un semplice omaggio nostalgico, ma di una piccola grande esperienza di hacking autentica e credibile, sviluppata con la precisione tecnica di un ingegnere e al contempo la passione di un retro gamer.
Un concetto rivoluzionario per il C64 Netshacker non è un gioco che “finge” di essere retrò: è un prodotto nato dalla mentalità old-school, ma costruito con la cura e la precisione di un progetto moderno.
L’obiettivo è chiaro: ricreare l’esperienza autentica di un hacker degli anni ’90, quando le reti erano ancora un territorio inesplorato e ogni comando poteva rivelare nuovi orizzonti digitali.
Il gioco si presenta come un sistema operativo completo per C64, con due ambienti distinti: uno in stile Linux e uno in stile DOS, ognuno con le proprie peculiarità e comandi specifici.
La Shell che respira
Il cuore di Netshacker è la sua shell interattiva, un’interfaccia a riga di comando che non si limita a simulare i comandi, ma li implementa realmente: ogni input dell’utente ha conseguenze logiche e coerenti: i file esistono fisicamente nella memoria del C64, i permessi sono gestiti secondo regole realistiche, e gli errori forniscono dei feedback sensati che guidano il giocatore verso la soluzione. Non ci sono scorciatoie o bug da sfruttare: la progressione si basa esclusivamente sull’ingegno e sulla comprensione dei sistemi.
Missioni che premiano la creatività
Il sistema di missioni di Netshacker è progettato per premiare la creatività e la deduzione logica. Ogni obiettivo richiede una comprensione profonda degli strumenti disponibili e della logica sottostante. Le missioni spaziano dal port scanning al social engineering, dalla gestione di file protetti all’analisi forense. Il gioco non fornisce soluzioni dirette, ma lascia che il giocatore scopra i percorsi attraverso l’esplorazione e l’esperimentazione.
Strumenti di Comunicazione d’epoca
Una delle caratteristiche più affascinanti di Netshacker è il suo sistema di comunicazione, ispirato ai BBS e alle reti clandestine degli anni ’90.
Atmosfera e Immersione
L’atmosfera di Netshacker è meticolosamente curata per ricreare l’esperienza autentica di un hacker degli anni ’90. I colori del C64 sono utilizzati strategicamente per differenziare i diversi tipi di output, i suoni SID creano un’ambientazione sonora appropriata, e l’interfaccia mantiene la fedeltà visiva ai sistemi dell’epoca. Ogni dettaglio, dai messaggi di errore ai prompt dei comandi, è stato pensato per mantenere l’immersione senza compromettere la giocabilità.
Compatibilità e Accessibilità
Netshacker è progettato per funzionare sia su hardware reale che su emulatori, garantendo un’esperienza autentica indipendentemente dalla piattaforma di esecuzione. Il gioco è localizzato in italiano, eliminando barriere linguistiche e rendendo l’esperienza più accessibile ai giocatori italiani.
La distribuzione del gioco avviene attraverso due modalità: una versione digitale in formato .d64 al prezzo di 8 euro, e un’edizione fisica con floppy e manuale stampato a 69 euro.
Un Progetto che rispetta la storia
Netshacker non è solo un gioco: è un piccolo grande tributo alla cultura hacker degli anni ’90, un’opportunità per i giocatori di oggi di sperimentare le sfide e le soddisfazioni di un’epoca in cui l’informatica era ancora un territorio inesplorato.
Il progetto dimostra che la complessità e la profondità non sono incompatibili con le limitazioni hardware del C64, e che la creatività può superare i vincoli tecnici apparenti.
Conclusioni
Netshacker dimostrando che è possibile creare un’esperienza di hacking autentica e coinvolgente senza compromessi sulla qualità o sulla fedeltà storica.
Il progetto sfida i giocatori a pensare come veri hacker, utilizzando strumenti reali e logica deduttiva per superare le sfide.
Non è un gioco per tutti, ma per coloro che apprezzano la profondità tecnica e l’autenticità storica, Netshacker offre un’esperienza insolita ed avvincente, poiché non è solo un gioco: è un viaggio nel tempo, un’opportunità per riscoprire le radici dell’hacking e della sicurezza informatica, attraverso la lente di una piattaforma che ha fatto la storia dell’informatica domestica.
Per i retrogamer esigenti e gli appassionati di sicurezza informatica, rappresenta un must-have che combina nostalgia, sfida intellettuale e autenticità tecnica in un pacchetto unico e irripetibile.
Dovete assolutamente andare a scaricare la demo da netshacker.com/ e poi comprare la versione completa. Per quanti hanno giocato su C64 a System 15000 o amano le sfide è un’occasione da non perdere.
Un plauso all’autore Stefano Basile
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Arriva NotDoor : La Backdoor per Microsoft Outlook di APT28
Un avanzato sistema di backdoor associato al noto gruppo di cyber spionaggio russo APT28 permette ai malintenzionati di scaricare dati, caricare file e impartire comandi su pc infettati. Questo sistema backdoor, recentemente scoperto e di ultima generazione, si concentra su Microsoft Outlook, dando la possibilità agli artefici dell’attacco di impossessarsi di informazioni e gestire il computer della persona colpita.
La backdoor è progettata per monitorare le email in arrivo della vittima alla ricerca di specifiche parole chiave, come “Report giornaliero”. Quando viene rilevata un’email contenente la parola chiave, il malware si attiva, consentendo agli aggressori di eseguire comandi dannosi. Il nome “NotDoor” è stato coniato dai ricercatori a causa dell’utilizzo della parola “Nothing” nel codice del malware.
Abilmente, il malware sfrutta le funzionalità legittime di Outlook per mantenersi nascosto e garantire la propria persistenza. Secondo S2 Grupo, vengono utilizzati trigger VBA basati su eventi specifici, ad esempio Application_MAPILogonComplete, che si attiva all’avvio dell’applicazione Outlook, e Application_NewMailEx, che risulta attivato in concomitanza con l’arrivo di nuove email. Le principali funzionalità del malware possono essere elencati in:
- Offuscamento del codice : il codice del malware è intenzionalmente codificato con nomi di variabili casuali e un metodo di codifica personalizzato per rendere difficile l’analisi.
- Caricamento laterale delle DLL : utilizza un file binario Microsoft legittimo e firmato OneDrive.exeper caricare un file DLL dannoso. Questa tecnica aiuta il malware a comparire come un processo attendibile.
- Modifica del Registro di sistema : per garantire la persistenza, NotDoor modifica le impostazioni del Registro di sistema di Outlook. Disattiva gli avvisi di sicurezza relativi alle macro e sopprime altri prompt, consentendo l’esecuzione silenziosa senza avvisare l’utente.
Il malware, è stato attribuito al gruppo di cyberminacce sponsorizzato dallo Stato russo APT28, noto anche come Fancy Bear. I risultati sono stati pubblicati da LAB52, l’unità di intelligence sulle minacce dell’azienda spagnola di sicurezza informatica S2 Grupo.
NotDoor è un malware stealth scritto in Visual Basic for Applications (VBA), il linguaggio di scripting utilizzato per automatizzare le attività nelle applicazioni di Microsoft Office. Per eludere il rilevamento da parte del software di sicurezza, NotDoor impiega diverse tecniche sofisticate:
Una volta attiva, la backdoor crea una directory nascosta per archiviare i file temporanei, che vengono poi esfiltrati in un indirizzo email controllato dall’aggressore prima di essere eliminati. Il malware conferma la sua esecuzione corretta inviando callback a un sito webhook.
APT28 è un noto gruppo criminale legato alla Direzione Centrale di Intelligence (GRU) dello Stato Maggiore russo. Attivo da oltre un decennio, il gruppo è responsabile di numerosi attacchi informatici di alto profilo, tra cui la violazione del Comitato Nazionale Democratico (DNC) nel 2016 durante le elezioni presidenziali statunitensi e le intrusioni nell’Agenzia Mondiale Antidoping (WADA).
La recente introduzione di questo strumento testimonia l’evoluzione costante del gruppo e la sua abilità nell’elaborare strategie innovative per eludere i sistemi di difesa contemporanei. Il malware NotDoor, come riferito da S2 Grupo, ha già avuto un utilizzo esteso per mettere a rischio la sicurezza di molteplici aziende appartenenti a diversi settori economici all’interno degli stati membri NATO.
Per difendersi da questa minaccia, gli esperti di sicurezza raccomandano alle organizzazioni di disattivare le macro per impostazione predefinita sui propri sistemi, di monitorare attentamente qualsiasi attività insolita in Outlook e di esaminare i trigger basati sulla posta elettronica che potrebbero essere sfruttati da tale malware.
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Come è stata scritta la dichiarazione «Nostra Aetate»
Nel 2025 la Chiesa celebra i sessant’anni dal Concilio Vaticano II e dalla dichiarazione sulle sue relazioni con le religioni non cristiane Nostra aetate. Se fino a quel momento i non cristiani erano stati considerati smarriti nella superstizione e nell’ignoranza, Nostra aetate segnò l’inizio di un approccio che promuoveva il dialogo permanente come parte integrante della testimonianza cattolica alla verità della fede cristiana. L’elaborazione del documento porta l’impronta dell’incontro tra il gesuita tedesco Augustin Bea, nominato dal Papa presidente del Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani, e Massimo IV Saigh, patriarca di Antiochia dei Melchiti. Il dialogo contemporaneo tra la Chiesa cattolica e il popolo ebraico conserva il segno delle prospettive da loro elaborate nel momento in cui la Chiesa cominciava a formulare una posizione che affermasse sia il dialogo con gli ebrei sia la consapevolezza della tragica sorte dei palestinesi.
Origini
La dichiarazione Nostra aetate nacque nel contesto successivo alla Shoah, cioè al tentativo, da parte della Germania nazista, di annientare gli ebrei in Europa durante la Seconda guerra mondiale. Dopo la guerra, la Chiesa dovette cominciare a confrontarsi con la dolorosa questione di quanto il tradizionale discorso cristiano sul popolo ebraico potesse aver contribuito al prendere piede dell’antisemitismo contemporaneo. Il 28 ottobre 1958 Angelo Roncalli divenne papa Giovanni XXIII. Roncalli aveva trascorso gli anni precedenti e quelli della Seconda guerra mondiale in Bulgaria, Grecia, Turchia e Francia come rappresentante diplomatico della Santa Sede. Era pienamente consapevole di quanto stava accadendo agli ebrei, e gli si attribuisce il merito di averne salvati migliaia.
Inizialmente, egli non intendeva portare la questione del popolo ebraico all’attenzione del Concilio che stava progettando e che avrebbe cambiato il volto della Chiesa nel mondo moderno. L’idea di un documento sugli ebrei entrò nella mente del Papa durante un’udienza privata del 13 giugno 1960. Quel giorno, poco dopo aver nominato Augustin Bea presidente del Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani, egli incontrò lo storico ed educatore ebreo francese Jules Isaac, il quale gli consegnò quanto aveva scritto sull’insegnamento cristiano del disprezzo nei confronti del popolo ebraico. Più tardi, Isaac commentò: «Più volte durante il mio breve discorso egli mostrò comprensione e simpatia. […] Chiedo se posso portare via con me un po’ di speranza. Egli esclama: “Hai diritto a più che una speranza!”»[1].
Il Papa inviò Isaac da Bea, biblista anticotestamentario e suo consigliere di fiducia, e nel settembre del 1960 quest’ultimo ricevette l’incarico di preparare un documento sul popolo ebraico. Più tardi Bea scrisse, in sintonia con i sentimenti del Papa: «Il bimillenario problema, vecchio quanto il cristianesimo stesso, delle relazioni della Chiesa col popolo ebraico è stato reso più acuto, e si è quindi imposto all’attenzione del Concilio Ecumenico Vaticano II, soprattutto per lo spaventoso sterminio di milioni di Ebrei da parte del regime nazista in Germania»[2]. Egli prevedeva che il documento non solo avrebbe condannato l’antisemitismo, ma avrebbe anche richiamato l’attenzione sulle radici ebraiche della Chiesa e promosso un dialogo tra ebrei e cattolici.
Sebbene le discussioni sugli ebrei, successive all’incontro con Isaac, dovessero rimanere riservate, Bea si confidò con un giornalista, che pubblicò la notizia del cambiamento di atteggiamento della Chiesa nei confronti degli ebrei, suscitando già allora una prima reazione negativa in Medio Oriente[3].
Reazioni in Medio Oriente
La resistenza a un documento sugli ebrei si manifestò in tre forme diverse. Anzitutto, quella degli antisemiti classici, contrari a qualsiasi mitigazione dell’insegnamento della Chiesa, perché consideravano il popolo ebraico nemico dell’umanità e della fede cristiana. Ad essa si aggiungeva l’opposizione dei tradizionalisti, che per principio rifiutavano ogni cambiamento nella dottrina ecclesiale. Infine, vi erano quanti respingevano un riavvicinamento agli ebrei a causa del conflitto ancora in corso in Medio Oriente. Costoro facevano notare che al centro di quel conflitto vi era uno Stato, Israele, che si definiva ebraico, e un popolo, quello palestinese, che era diventato senza patria in seguito alla fondazione dello Stato di Israele nel 1948, una tragedia che aveva gettato l’intero Medio Oriente nel caos. In alcuni casi antisemitismo, resistenza al cambiamento e preoccupazione per la giustizia e la pace in Medio Oriente andavano a braccetto.
In effetti, nella storiografia successiva al Concilio, alcuni hanno accusato Massimo IV e i vescovi del Medio Oriente di antisemitismo o tradizionalismo a causa della loro opposizione alla formulazione del documento sugli ebrei[4]. Altri hanno spiegato tale opposizione come radicata nel timore delle reazioni, da parte dei musulmani, a un atteggiamento positivo verso gli ebrei: reazioni che avrebbero potuto provocare persecuzioni contro i cristiani nei Paesi arabi in guerra con Israele[5]. Da parte loro, i Paesi arabi e Israele esercitarono pressioni per assicurarsi un esito favorevole alle rispettive cause, mantenendo contatti con i partecipanti al Concilio che sostenevano opzioni politiche convenienti ai loro interessi.
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Tutti questi fattori influenzarono in parte le posizioni espresse dai prelati mediorientali durante il Concilio; tuttavia, le opinioni di Massimo IV e la loro evoluzione nel corso dei lavori mostravano il tentativo di affrontare la formulazione di una posizione ecclesiale che tenesse conto della complessità dell’insieme. All’interno della Chiesa, Massimo IV (insieme ai suoi colleghi mediorientali) e Bea (con i suoi collaboratori europei e nordamericani) condussero un dialogo costruttivo che trasformò il documento sugli ebrei nella Nostra aetate. L’incontro tra Bea, alfiere dell’impegno verso un nuovo rapporto con il popolo ebraico, e Massimo IV, che rappresentava la preoccupazione per il Medio Oriente e per i palestinesi, ha segnato la relazione ebraico-cattolica degli ultimi sessant’anni.
Massimo IV, nominato membro della Commissione centrale preparatoria incaricata da papa Giovanni XXIII di gettare le basi per il Concilio nel giugno 1960, è stato senza dubbio la figura più rappresentativa tra i Padri conciliari del mondo arabo[6]. Il suo atteggiamento verso la questione ebraica non era dettato solo dalla sua prospettiva di arabo siriano e di guida spirituale della comunità greco-cattolica, che comprendeva anche greco-cattolici palestinesi sfollati nel 1948; egli era anche portavoce dei cattolici non europei e non latini, che rivendicavano il diritto di essere ascoltati dai vertici ecclesiali ancora prevalentemente europei e latini. Rifiutando di parlare in latino, Massimo IV intervenne con forza, in francese, per difendere i diritti e gli interessi non solo dei greco-cattolici, ma anche dei non europei in generale. Al tempo stesso, fu sostenitore delle richieste di riforma volte a condurre la Chiesa nel mondo moderno.
Riguardo al documento sugli ebrei, egli dichiarò nel 1962, in una nota alla commissione centrale che organizzava il Concilio: «Comprendiamo molto bene le ragioni che hanno motivato la proposta di questo “decreto” [sugli ebrei]. La Chiesa ha il dovere verso sé stessa di riconoscere le glorie, le promesse e la missione del popolo ebraico. Ha anche il dovere verso sé stessa di eliminare dalla sua liturgia, dai pensieri e dalle azioni dei suoi fedeli ogni traccia di disprezzo, vendetta o discriminazione razziale contro il popolo ebraico»[7]. Ciò nonostante, Massimo IV insisteva sul fatto che si dovesse operare una netta distinzione tra gli ebrei e lo Stato d’Israele; quest’ultimo «deve essere trattato secondo gli stessi criteri che regolano le relazioni tra la Chiesa e le società civili, senza alcun privilegio o considerazione speciale da parte della Chiesa»[8]. Inoltre, egli proponeva che «un decreto analogo venisse preparato riguardo all’Islam e alle altre religioni monoteiste. I cristiani che intrattengono frequenti rapporti con i seguaci di queste religioni sarebbero lieti di conoscere qualche insegnamento positivo della Chiesa su di esse, che vada oltre la pura e semplice condanna come “errori”»[9]. Nell’agosto 1962, il Sinodo greco-cattolico pubblicò un manifesto in cui si affermava che la fede in Cristo imponeva ai cristiani di non «nutrire alcun odio né rancore contro chicchessia»; tuttavia, «la giustizia, l’umanità e il patriottismo impongono loro il dovere di stare al fianco dei loro fratelli, gli arabi di Palestina, riconoscendo il loro diritto a ritornare nella loro terra e nella terra dei loro antenati»[10].
L’incontro tra la convinzione, prevalente in Europa e in Nord America, secondo cui la Chiesa dovesse promuovere un insegnamento di rispetto per il popolo ebraico e la resistenza prevalente in Medio Oriente, dove gli ebrei venivano identificati con la potenza militare dello Stato d’Israele e con la tragedia dei palestinesi, costituisce un esempio rilevante della globalizzazione della Chiesa. Il teologo cattolico Karl Rahner ha sostenuto che il Concilio Vaticano II fu «il primo grande evento ufficiale in cui la Chiesa ha attuato sé stessa precisamente come Chiesa universale […]; una Chiesa universale in quanto tale inizia ad agire grazie all’influsso reciproco esercitato da tutte le sue componenti»[11].
Un dialogo difficile
Il documento sugli ebrei fu presentato soltanto nella seconda sessione del Concilio, nel 1963[12]. Alla morte di Giovanni XXIII, il 3 giugno 1963, il suo successore, Paolo VI, ne confermò il progetto. Divenne tuttavia evidente che il nuovo Pontefice aveva una visione più ampia di ciò che il dialogo poteva significare nel mondo moderno. Nel settembre 1963, aprendo la seconda sessione del Concilio, Paolo VI affermò che la Chiesa «punta i suoi occhi al di là delle comunità cristiane e vede le altre religioni che conservano il concetto e la nozione di un Dio unico, creatore, provvido, sommo e trascendente la natura delle cose; che praticano il culto di Dio con atti di sincera pietà e che derivano da queste usanze e credenze i princìpi della vita morale e sociale»[13]. Il suo impegno per il dialogo era in parte guidato dall’intuizione del grande islamologo francese Louis Massignon, la cui influenza sul Concilio, per quanto riguarda l’atteggiamento della Chiesa verso i musulmani, può essere paragonata a quella esercitata da Isaac riguardo alla posizione della Chiesa verso il popolo ebraico.
Nel novembre 1963, Bea presentò il documento sugli ebrei come parte dello schema sull’ecumenismo. Essendo ormai consapevole della sensibilità dei mediorientali, assicurò al Concilio che il testo sul popolo ebraico non faceva alcun riferimento alla questione nazionale o politica: «Non si tratta – egli disse – di una questione nazionale o politica, e in special modo non si tratta di un riconoscimento dello Stato di Israele da parte della Santa Sede. Nessuna di tali questioni né è trattata né toccata in alcun modo nello schema, ma si affronta una questione di ordine puramente religioso»[14]. Nonostante ciò, i prelati del Medio Oriente espressero la loro opposizione e presero la parola, uno dopo l’altro, nella sessione. Tra loro vi era anche Massimo IV, il quale ribadì: «Se si parla degli ebrei, si deve parlare anche delle altre religioni non cristiane, e soprattutto dei musulmani, che sono 400 milioni e tra i quali noi viviamo come minoranza»[15]. Più tardi Bea avrebbe ammesso: «Furono soprattutto i Padri Conciliari del Vicino Oriente a chiedere che si parlasse anche dell’Islam. Altri però, andando più oltre, chiesero un’impostazione del tutto generale, in modo da comprendere tutte le religioni non cristiane»[16].
Una nuova prospettiva
La seconda sessione del Concilio si concluse con un annuncio clamoroso: Paolo VI si sarebbe recato in Terra Santa nel gennaio 1964. Era la prima volta che un Papa lasciava l’Italia da oltre 150 anni. La terza sessione del Concilio – da settembre a novembre 1964 – sarebbe stata fortemente influenzata dalla visione di Paolo VI sul dialogo con il mondo intero. Nella sua prima enciclica, Ecclesiam suam, pubblicata nell’agosto 1964, il Papa tratteggiava i cerchi concentrici dell’umanità con i quali la Chiesa è chiamata a entrare in dialogo interreligioso. Egli scriveva: «Poi intorno a noi vediamo delinearsi un altro cerchio, immenso anche questo, ma da noi meno lontano: è quello degli uomini innanzi tutto che adorano il Dio unico e sommo, quale anche noi adoriamo; alludiamo ai figli, degni del nostro affettuoso rispetto, del popolo ebraico, fedeli alla religione che noi diciamo dell’Antico Testamento; e poi agli adoratori di Dio secondo la concezione della religione monoteistica, di quella musulmana specialmente, meritevoli di ammirazione per quanto nel loro culto di Dio vi è di vero e di buono; e poi ancora ai seguaci delle grandi religioni afroasiatiche»[17].
Poco prima della convocazione della terza sessione del Concilio Vaticano II, il Sinodo greco-cattolico inviò una nota alla commissione organizzatrice del Concilio riguardo al documento sugli ebrei, in cui si diceva: «Non abbiamo alcuna obiezione fondamentale, sul piano teologico, contro questa bozza di dichiarazione. Ma, da un punto di vista pratico, riteniamo che si debba aggiungere […] un ultimo paragrafo con la seguente formulazione: “Questo santo Concilio tiene a sottolineare che la presente dichiarazione – che è un atto puramente religioso, ispirato unicamente da considerazioni teologiche – non ha alcuna motivazione né alcuno scopo politico. Questo santo Concilio condanna in anticipo qualsiasi interpretazione tendenziosa che cerchi di attribuire alla presente dichiarazione un qualsiasi significato politico, a favore o contro chicchessia”»[18]. Durante la sessione, l’arcivescovo greco-cattolico di Damasco Joseph Tawil, collaboratore stretto di Massimo IV, osservò che era inopportuno, quando «precisamente un milione di arabi furono ingiustamente e violentemente cacciati dalle loro terre», che la Chiesa si concentrasse sulla questione ebraica[19]. Sottolineò che «la Chiesa deve […] trattare l’ebraismo in un contesto spirituale e religioso. Il Concilio non deve intervenire in questioni civili e politiche»[20].
Il 25 settembre 1964 Bea tornò a prendere la parola davanti al Concilio. Sostenne che il documento sugli ebrei era «richiesto primariamente dalla fedeltà della Chiesa nel seguire l’esempio dell’amore di Cristo e degli Apostoli verso questo popolo. Tuttavia […] queste ragioni piuttosto esterne non si devono trascurare»[21]. Sebbene gran parte del suo intervento fosse dedicato a questioni teologiche, in particolare all’uso del termine «deicidio» per descrivere il popolo ebraico, spiegò anche le aggiunte al testo relative ai musulmani. Il documento, che andava ormai prendendo forma, sarebbe stato pubblicato come dichiarazione separata, non più come parte della dichiarazione conciliare sull’ecumenismo. Inoltre, Bea precisò che la posizione dei prelati mediorientali veniva tenuta in considerazione. Spiegò che la questione del popolo ebraico era religiosa e non politica: «Qui non parliamo del Sionismo né dello Stato politico d’Israele, ma dei seguaci della religione mosaica, dovunque si trovino nel mondo. Né si tratta di caricare di lodi e di onori il popolo ebraico, di esaltarlo sopra le altre genti, e di attribuirgli certi privilegi»[22]. Tuttavia insistette sul fatto che la questione era talmente importante «che val la pena di esporci anche al pericolo che alcuni forse abusino per fini politici di questa Dichiarazione. Si tratta infatti dei nostri doveri verso la verità e la giustizia»[23].
Al termine della terza sessione, Massimo IV pubblicò una reazione dettagliata riguardo ai lavori conciliari: «La Chiesa cattolica – scrisse – oggi è in posizione di dialogo: dialogo con sé stessa, dialogo con le altre Chiese, dialogo con il mondo che ha i suoi molteplici problemi umani e sociali, dialogo con chiunque cerchi Dio a suo modo. E questo dialogo mira a rafforzare la solidarietà umana e l’unità della famiglia di Dio, nel cammino verso il fine della sua esistenza». Poi aggiunse: «I Paesi arabi, da quando il sionismo si è costituito come Stato in Palestina, hanno saputo distinguere l’ebraismo come religione dall’ebraismo sionista come movimento politico. Hanno rispettato il primo e combattuto il secondo»[24]. In un comunicato del 31 dicembre 1964, Massimo IV ribadì: «Il Segretariato [per la promozione dell’unità dei cristiani] e l’episcopato mondiale non possono ignorare che esiste uno Stato che si definisce Israele; che questo Stato pretende di incarnare l’ebraismo; che quanto si dice sull’ebraismo come religione è inevitabilmente interpretato da Israele come detto di sé stesso in quanto Stato e movimento sionista mondiale; che ogni dichiarazione a favore dell’ebraismo come religione è sfruttata da Israele come un appoggio indiretto alla politica imperialista ed espansionista del sionismo mondiale contro i Paesi arabi». Inoltre il Patriarca affermò: «Nessuno dubita che il Concilio non desideri questa interpretazione, ma Israele la desidera, e i Padri del Concilio, in quanto responsabili e realisti, non devono prestarsi a tale manovra, soprattutto nelle circostanze in cui la tensione tra gli Stati arabi e Israele è al massimo livello»[25].
Podcast | SUD SUDAN. «UN CONFLITTO CHE NON È MAI FINITO»
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Il frutto del dialogo
Nel periodo tra la terza e la quarta sessione del Concilio Vaticano II rimaneva ancora molto da fare, sia per affermare la necessità di pubblicare il documento che avrebbe segnato un nuovo inizio nei rapporti con il popolo ebraico, sia per rassicurare gli arabi sul fatto che esso non costituiva un’approvazione delle aspirazioni politiche israeliane in Medio Oriente.
Subito dopo la chiusura della terza sessione, Paolo VI si recò in India. Ufficialmente il viaggio era motivato dalla partecipazione a un Congresso Eucaristico, ma esso segnalava anche il nuovo spirito di dialogo con induisti, buddhisti e musulmani. Durante il viaggio, il Papa si fermò un’ora a Beirut, per incontrare leader politici e religiosi, alcuni dei quali seguivano con profonda preoccupazione la discussione sul documento sugli ebrei e le sue implicazioni per il Medio Oriente. Poco dopo, il Pontefice inviò una lettera ai patriarchi cattolici e ortodossi d’Oriente, lodando le loro Chiese ed esprimendo rispetto per la civiltà araba e per il ruolo del dialogo cristiano-musulmano[26].
Nella primavera e nell’estate del 1965, Paolo VI inviò una delegazione guidata dal vescovo Johannes Willebrands, segretario del Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani, in Medio Oriente per incontrare i leader cristiani a Beirut, Damasco, Gerusalemme e Il Cairo e cogliere il clima generale. Al suo ritorno, il presule olandese redasse un ampio rapporto, che successivamente fu comunicato ai Padri conciliari. Willebrands non solo riferì il rifiuto del documento sugli ebrei da parte di tutti i leader ecclesiali, cattolici e non cattolici, ma indicò anche il contesto mediorientale di tale rifiuto. Parlando di coloro che in Europa e nel Nord America sostenevano il documento, scrisse: «Non si ha conoscenza delle tensioni politiche e religiose in Medio Oriente, né consapevolezza della gravità della situazione in quei Paesi. È troppo facile ridurre il problema all’opposizione politica di qualche leader arabo. Siamo convinti che, vent’anni dopo Auschwitz, la Chiesa – e in particolare il Concilio – non possa rimanere in silenzio sull’antisemitismo. Riconosciamo le motivazioni religiose dell’antisemitismo e auspichiamo un nuovo sviluppo teologico riguardante il mistero d’Israele, un dialogo con la teologia ebraica e una collaborazione con gli ebrei. Poiché la grande maggioranza degli ebrei si trova in Occidente, questo riavvicinamento tra cristiani ed ebrei è facilmente distinguibile dalla questione politica posta dallo Stato di Israele e dal movimento sionista»[27]. Willebrands disse ai suoi colleghi europei e nordamericani che forse occorreva rivalutare l’intero progetto.
Le preoccupazioni dei vertici ecclesiali del Medio Oriente furono dunque recepite. Durante la quarta sessione dei lavori conciliari, il vescovo svizzero François Charrière dichiarò che il Concilio stava realmente prestando ascolto a tali preoccupazioni: «Non dobbiamo dare l’impressione di imporre decisioni alle altre Chiese solo perché siamo la maggioranza numerica. L’unanimità dei patriarchi orientali e il rapporto di monsignor Willebrands sono impressionanti. L’esistenza delle Chiese orientali ci obbliga a non basarci solo sui numeri. Conta una sola realtà: le Chiese orientali sono contrarie alla dichiarazione. Non possiamo costringerle ad accettare le nostre idee… Il nostro Concilio non è un Concilio latino: è un Concilio ecumenico»[28]. Massimo IV, gratificato dal fatto che la voce dei prelati mediorientali veniva ascoltata, cominciò a moderare la propria posizione e sostenne l’approvazione di un testo riformulato, facendo opera di persuasione in tal senso anche presso i suoi colleghi mediorientali[29].
Il frutto del dialogo tra Bea (e i suoi collaboratori) e Massimo IV (e i suoi colleghi) fu considerevole. In particolare, il documento sugli ebrei fu inserito in un contesto più ampio, relativo all’atteggiamento della Chiesa verso la pluralità delle religioni non cristiane. Il lungo paragrafo 4 sugli ebrei fu preceduto da un paragrafo 3, più breve ma non meno rivoluzionario, sull’atteggiamento della Chiesa verso i musulmani, definito di «stima». Uno dei principali redattori del paragrafo sui musulmani fu Georges Anawati, un domenicano egiziano che Bea aveva voluto nel Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani come consulente per le Chiese orientali. Egli svolse un ruolo essenziale nello sviluppo del dialogo con i musulmani[30]. Inoltre, il paragrafo 4 della Nostra aetate, sull’atteggiamento verso il popolo ebraico, affermava che «la Chiesa […], memore del patrimonio che essa ha in comune con gli ebrei, e spinta non da motivi politici, ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli ebrei in ogni tempo e da chiunque». L’atteggiamento della Chiesa verso il popolo ebraico è radicato nel Vangelo e non può essere ricondotto a motivazioni politiche. Espressa in poche parole – «non per motivi politici» –, questa prospettiva fondamentale ha orientato il successivo dialogo della Chiesa con il popolo ebraico.
Quando, il 14 ottobre 1965, presentò il testo riformulato, Bea riconobbe il processo di apprendimento che si era svolto nel dialogo interno tra i vescovi europei-nordamericani e quelli mediorientali: «Tutti questi sforzi miravano a due cose: 1) ovviare, per quanto possibile, a qualsiasi interpretazione meno esatta riguardo alla dottrina teologica proposta nello schema; 2) assicurare che la natura esclusivamente religiosa dello schema fosse chiaramente espressa, in modo che con ogni mezzo fosse preclusa la strada a qualsiasi interpretazione politica»[31]. Il lungo processo, nel corso del quale i vescovi arabi giunsero ad accettare un documento che trattava dell’ebraismo tra le religioni e i vescovi europei si disposero ad ascoltare le preoccupazioni della Chiesa in Medio Oriente, culminò con la promulgazione della dichiarazione nota come Nostra aetate, il 28 ottobre 1965.
Conclusione
Bea affermò: «A questa Dichiarazione si può applicare a buon diritto l’immagine biblica del granello di senape. Dapprima infatti si trattava di una semplice dichiarazione breve che concerneva l’atteggiamento dei cristiani verso il popolo ebraico. Col trascorrere del tempo poi, e soprattutto a motivo della discussione tenuta in quest’aula, quel granello, per vostro merito, è riuscito quasi un albero, su cui molti uccelli già trovano il loro nido, cioè in essi, almeno in qualche modo, tutte le religioni non cristiane occupano il loro posto quasi nello stesso modo in cui il Sommo Pontefice felicemente regnante nell’Enciclica Ecclesiam Suam abbraccia tutti i non cristiani»[32].
Non meno importante della formulazione della Nostra aetate per la vita della Chiesa fu il processo attraverso il quale la Chiesa latina si aprì a un fecondo dialogo con le varie Chiese orientali, ampliando la comprensione che la Chiesa ha di sé stessa come veramente cattolica. Nel novembre 1964 il Concilio pubblicò un decreto sulla comunione tra la Chiesa latina d’Occidente e le Chiese cattoliche d’Oriente, Orientalium Ecclesiarum, affermando che «il santo Concilio molto si rallegra della fruttuosa e attiva collaborazione delle Chiese cattoliche d’Oriente e d’Occidente»[33]. Massimo IV e Bea furono tra i pionieri di questo continuo processo di ascolto e apprendimento reciproco.
Nel 1985, vent’anni dopo la pubblicazione della Nostra aetate, la Chiesa chiarì ulteriormente come l’impegno in un dialogo costruttivo con il popolo ebraico dovesse essere distinto dalle questioni diplomatiche e politiche relative allo Stato d’Israele e al popolo palestinese. I cattolici possono certamente comprendere l’attaccamento religioso degli ebrei alla terra d’Israele, ma Israele in quanto Stato deve essere soggetto al diritto internazionale. «I cristiani sono invitati a comprendere questo vincolo religioso che affonda le sue radici nella tradizione biblica, pur non dovendo far propria un’interpretazione religiosa particolare di tale relazione. […] Per quanto si riferisce all’esistenza dello Stato di Israele e alle sue scelte politiche, esse vanno viste in un’ottica che non è di per sé religiosa, ma che si richiama ai principi comuni del diritto internazionale»[34].
Questa tensione tra il dialogo religioso, spirituale e teologico con il popolo ebraico e il conflitto tra Israele e Palestina è tuttora al centro dei rapporti tra ebrei e Chiesa cattolica. Nel suo discorso ai cristiani non cattolici e ai rappresentanti delle altre religioni, il giorno dopo l’inaugurazione del suo pontificato, papa Leone XIV ha affermato: «A motivo delle radici ebraiche del cristianesimo, tutti i cristiani hanno una relazione particolare con l’ebraismo. La Dichiarazione conciliare Nostra aetate (n. 4) sottolinea la grandezza del patrimonio spirituale comune a cristiani ed ebrei, incoraggiando alla mutua conoscenza e stima. Il dialogo teologico tra cristiani ed ebrei rimane sempre importante e mi sta molto a cuore. Anche in questi tempi difficili, segnati da conflitti e malintesi, è necessario continuare con slancio questo nostro dialogo così prezioso»[35].
La soluzione dei «conflitti e malintesi» nel rapporto tra la Chiesa cattolica e il popolo ebraico sarà notevolmente facilitata quando gli ebrei israeliani e gli arabi palestinesi sapranno trovare un modo di convivere in condizioni di uguaglianza, giustizia e pace. Paolo VI, nel suo messaggio natalizio del 1975, lanciò un appello in tal senso: «Benché consapevoli delle tragedie non lontane che hanno spinto il Popolo Ebraico a ricercare un sicuro e protetto presidio in un proprio Stato sovrano e indipendente, […] vorremmo invitare i figli di questo Popolo a riconoscere i diritti e le legittime aspirazioni di un altro Popolo, che ha anch’esso lungamente sofferto, la gente palestinese»[36]. Tutti i Pontefici successivi hanno ripreso più volte questo appello.
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[1] J. Isaac, «Notes about a crucial meeting with John XXIII», in Council of Centers on Jewish-Christian Relations (ccjr.us/dialogika-resources/documents-and-statements/jewish/isaac1960), 13 giugno 1960.
[2] A. Bea, La Chiesa e il popolo ebraico, Brescia, Morcelliana, 2015, 7.
[3] Cfr J. Borelli, «Correcting the Nostra Aetate Legend: The Contested, Minimal, and Almost Failed Effort to Embrace a Tragedy and Amend Christian Attitudes Toward Jews, Muslims, and the Followers of Other Religions», in K. Ellis (ed.), Nostra Aetate, Non-Christian Religions and Interfaith Relations, Cham, Palgrave Macmillan, 2021, 31.
[4] Esempi di questa categorizzazione si trovano nell’importante storia del Concilio di G. Caprile (ed.), Il Concilio Vaticano II: Cronache del Concilio Vaticano II. Quarto Periodo, Roma, La Civiltà Cattolica, 1965, 277 s.
[5] Un esempio di questa posizione è il libro di A. Melloni, L’altra Roma. Politica e S. Sede durante il Concilio Vaticano II (1959-1965), Bologna, il Mulino, 2000, 310-318.
[6] Cfr P. Doria, Il contributo del patriarca Maximos IV Saigh e della Chiesa greco-melchita al Concilio Vaticano II, Todi (Pg), Tau, 2023.
[7] Cfr Maximos IV, «Chapter 14: The Church and Other Religions», in L’Église Grecque Melkite au Concile, Rabweh, Dar al-Kalima, 1967; traduzione inglese e presentazione di R. Taft (melkite.org/faith/faith-worship/chapter-14).
[8] Ivi.
[9] Ivi.
[10] Citato in S. Shofani, The Melkites at the Vatican Council II: Contribution of the Melkite Prelates to Vatican Council II, Bloomington, AuthorHouse, 2005, 106 s.
[11] K. Rahner, «Towards a Fundamental Theological Interpretation of Vatican II», in Theological Studies 40 (1979/4) 717.
[12] I contatti ebraici di Bea annunciarono che avrebbero nominato un funzionario civile israeliano, Chaim Wardi, come referente presso la Chiesa a Roma, con l’approvazione del governo israeliano. Il passo suscitò indignazione sia in Vaticano sia in Medio Oriente. La conseguenza fu il ritiro del documento sugli ebrei dall’agenda della prima sessione del Concilio.
[13] Paolo VI, s., Allocuzione nel solenne inizio della seconda sessione del Concilio Ecumenico Vaticano II, 29 settembre 1963.
[14] A. Bea, La Chiesa e il popolo ebraico, cit., 141.
[15] Maximos IV, «Chapter 14: The Church and Other Religions», cit.
[16] A. Bea, La Chiesa e il popolo ebraico, cit., 22.
[17] Paolo VI, s., Enciclica Ecclesiam Suam, 6 agosto 1964, n. 111.
[18] Maximos IV, «Chapter 14: The Church and Other Religions», cit.
[19] Cfr «Liban – Chronique», in Proche-Orient Chrétien, 14 (1964) 368.
[20] S. Shofani, The Melkites at the Vatican Council II, cit., 107.
[21] A. Bea, La Chiesa e il popolo ebraico, cit., 147.
[22] Ivi, 152.
[23] Ivi, 153 s.
[24] Il comunicato venne riprodotto in Proche-Orient Chrétien, 14 (1964) 393-396.
[25] Maximos IV, «Chapter 14: The Church and Other Religions», cit.
[26] Cfr «Una Lettera del Santo Padre ai Patriarchi con sede nei Paesi Arabi», in L’Osservatore Romano, 6 gennaio 1965.
[27] Acta synodalia Sacrosancti Concilii Oecumenici Vaticani II, V/3, 319 (archive.org/details/ASV.3/page/318/mode/2up?view=theater).
[28] C. Stackaruk, «Retrieving MENA Catholics’ Contributions to Nostra Aetate», tesi di dottorato, University of St. Michael’s College, 2022, 193.
[29] Un resoconto affascinante e puntuale del ruolo di Maximos IV si trova in P. Doria, Il contributo del patriarca Maximos IV Sajgh…, cit., 75-103.
[30] Cfr J.-J. Pérennès, Georges Anawati (1905-1994): Un chrétien égyptien devant le mystère de l’Islam, Paris, Cerf, 2008.
[31] A. Bea, La Chiesa e il popolo ebraico, cit., 160.
[32] Ivi, 155.
[33] Paolo VI, s., Decreto sulle Chiese cattoliche orientali Orientalium Ecclesiarum, 21 novembre 1964, n. 30.
[34] Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani, Sussidi per una corretta presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica, 1985 (tinyurl.com/bdshvbcb).
[35] Leone XIV, Discorso ai rappresentanti di altre Chiese e comunità ecclesiali e di altre religioni, 19 maggio 2025.
[36] Paolo VI, s., Discorso al Sacro Collegio e alla Prelatura romana, 22 dicembre 1975, in vatican.va/feed/rss
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«La guerra dei 12 giorni» tra Israele e Iran
Sono passati diversi mesi dalla cosiddetta «guerra dei 12 giorni» tra Israele e Iran, alla quale hanno partecipato alla fine anche gli Usa. Essa si è conclusa con un inaspettato cessate il fuoco, richiesto dal presidente Donald Trump. Si è trattato di una guerra molto pericolosa, che poteva andare avanti per anni e che rischiava di infiammare ulteriormente l’intero Medio Oriente. Ad ogni modo, essa potrebbe riattivarsi nel caso gli iraniani riprendessero il programma nucleare, che gli statunitensi e gli israeliani ritengono in buona parte distrutto, nonostante non siano state fatte ancora puntuali verifiche sulle perdite dell’Iran in ambito nucleare[1].
L’operazione «Rising Lion»
Secondo il governo israeliano, l’Iran è la più grande minaccia esterna per Israele, ma la minaccia più grave di tutte è certamente il suo progetto di dotarsi di una bomba nucleare. Israele è un piccolo Paese densamente popolato, situato nel raggio di azione missilistico della Repubblica islamica, per cui un Iran dotato di armi nucleari metterebbe a rischio la sua stessa esistenza[2]. Ciò spiega l’attacco all’Iran del 13 giugno scorso, preparato e studiato da lungo tempo, in ogni sua parte.
L’operazione, denominata Rising Lion, è stata attuata con l’intento specifico di impedire che gli ayatollah arrivino a costruire una bomba nucleare. Il premier Netanyahu a tale riguardo ha parlato «di azione preventiva per rimuovere una minaccia esistenziale»[3]. I ripetuti raid aerei non si sono limitati a colpire i laboratori del programma atomico, ma hanno preso di mira le più importanti risorse strategiche iraniane, uccidendo le persone al vertice delle forze armate e dei Guardiani della rivoluzione[4], nonché gli scienziati impegnati nel progetto. Hanno colpito, inoltre, le difese contraeree, gli arsenali missilistici e bombardato aeroporti e caserme in tutto il Paese. Insomma, il vero obiettivo era colpire il sistema di potere degli ayatollah e spingere a un change regime, come aveva espressamente detto Benjamin Netanyahu in un messaggio rivolto agli iraniani.
Il giorno precedente, i governatori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), un’agenzia collegata alle Nazioni Unite, avevano dichiarato l’Iran inadempiente in ordine al nucleare. Era la prima volta in 20 anni che l’Agenzia censurava la Repubblica islamica perché non rispettava i suoi obblighi sul programma nucleare, non collaborava pienamente con le ispezioni e continuava a non spiegare la presenza di tracce di uranio trovate in tre siti non dichiarati. Teheran possedeva quantità di uranio arricchito al 60%, che, se fosse portato al 90%, potrebbe bastare per costruire diverse testate nucleari. L’Iran ha sempre rivendicato la natura pacifica del suo programma, ma è l’unico Paese al mondo senza atomica ad arricchire l’uranio al 60%[5]. È significativo che l’attacco israeliano sia avvenuto un giorno dopo la censura del sistema nucleare iraniano da parte di un organismo internazionale.
Secondo Guido Olimpio, Israele «ha usato un tridente per attaccare l’Iran»[6]. La prima arma è stata rappresentata dall’aviazione e dai missili lanciati da lontano. La seconda era costituita dai droni-kamikaze portati in Iran precedentemente. La terza era costituita dalle azioni attuate in loco dai servizi segreti, il Mossad. «Lo Stato Maggiore ha scatenato alle tre di notte la prima ondata e ne ha promesse molte altre. Sono stati impiegati 200 aerei […] che hanno lanciato non meno di 300 “proiettili” contro 150 bersagli divisi per “categorie”»[7]. Sono stati colpiti alcuni siti nucleari, numerose basi, postazioni missilistiche e radar, e i massimi esponenti militari dell’Iran, a cominciare dai vertici dei pasdaran fino ad alcuni scienziati impiegati nel programma nucleare, sono stati raggiunti da missili o droni nelle loro abitazioni.
Gli israeliani hanno fatto sapere aimediacome sono riusciti a eliminare contemporaneamente un numero così alto di ufficiali. Pare che questi, dal comandante dei pasdaran Hossein Salami al responsabile della divisione aerospaziale Amir Ali Hajizadeh, siano stati indotti a riunirsi in un luogo preciso, che poi è stato centrato da missili[8]. Per quanto riguarda i droni, agenti dei servizi segreti sono stati in grado di trasportarli in Iran, li hanno nascosti in luoghi sicuri e li hanno tirati fuori per metterli in azione contro gli obiettivi stabiliti. Queste azioni del Mossad confermano «una realtà in cui gli israeliani dimostrano di avere sponde all’interno della Repubblica islamica»[9], forse individui senza ideologia che lavorano per soldi o membri dell’opposizione. Non dimentichiamo che molti di questi in passato sono stati arrestati, processati e giustiziati dal regime.
Il momento scelto per l’intervento non è stato casuale. Israele, nonostante sia impegnato nella guerra di Gaza non ancora portata a termine, aveva a disposizione una breve finestra temporale per poter agire. Infatti, l’Iran ora è più debole di quanto non lo sia stato nei decenni precedenti. Non solo il suo regime è impopolare, ma anche la sua influenza in Libano e in Siria è notevolmente diminuita. Hezbollah, la milizia libanese che un tempo era considerata la punta di diamante di qualsiasi rappresaglia iraniana, ha ridotto le capacità militari per i bombardamenti israeliani. Altri gruppi filo-iraniani come Hamas, sono stati decimati a Gaza. Soltanto gli Houthi rimangono per il momento pericolosamente attivi.
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Ma la vera motivazione che ha spinto Israele ad agire è che l’Iran non è stato mai così vicino come in questo tempo a ottenere l’arma nucleare e, avendo accelerato la produzione di uranio arricchito, avrebbe materiale fissile sufficiente per creare diverse bombe[10]. I suoi funzionari ritenevano che, nei colloqui con l’America su un accordo per bloccare il programma nucleare, l’Iran abbia creato una sorta di cortina di fumo, dietro la quale i suoi scienziati stavano in realtà procedendo rapidamente nel progetto. Trump stesso aveva accusato l’Iran di non essere disposto a raggiungere un accordo secondo le condizioni statunitensi. Israele ha colto così l’occasione per passare all’azione.
La reazione del regime degli ayatollah è partita poco dopo il primo attacco, quando centinaia di missili e droni sono stati lanciati verso Israele. Soltanto pochi, però, sono riusciti a oltrepassare lo scudo di difesa israeliano. Gli Stati Uniti hanno contribuito ad abbattere non pochi di questi missili, dimostrando di essere a fianco di Israele nella difesa del suo territorio. Successivamente Israele ha ripetuto i bombardamenti sui siti colpiti in precedenza, come quelli nucleari di Natanz e Isfahan, e altri ancora in tutto l’Iran. Teheran ha dichiarato che avrebbe abbattuto obiettivi di Paesi occidentali, qualora questi avessero aiutato Israele.
Nei giorni successivi, i bombardamenti sono continuati su entrambi i fronti, provocando vittime anche tra i civili. In Israele è stata colpita una raffineria di petrolio ad Haifa, e successivamente la cittadina di Bat Yam, dove sono stati danneggiati più di 60 edifici, uccidendo diverse persone. Questo vuol dire che, nonostante il sofisticato sistema israeliano di difesa aerea multilivello, alcuni missili balistici iraniani sono riusciti a superarlo[11]. Ancora più devastanti sono stati i bombardamenti israeliani sull’Iran: più di 300 raid al giorno. I missili hanno colpito anche i quartieri residenziali, soprattutto a Teheran nord, dove vivono funzionari e militari, ma anche semplici civili. Sono stati presi di mira giacimenti di gas e depositi di carburante che riforniscono la capitale, ma anche infrastrutture come aeroporti e autostrade e perfino la Tv di Stato. Israele con i suoi missili e aerei ha avuto, per tutto il periodo della guerra, il dominio dei cieli, in particolare ha tenuto sotto tiro Teheran.
In generale l’Iran, nonostante la sua propaganda, non è stato in grado di reagire efficacemente all’attacco israeliano; non ha abbattuto un solo jet del nemico. Dei 532 missili balistici lanciati contro Israele, solo 31 hanno colpito aree popolose; i restanti sono stati intercettati, hanno fallito il lancio o hanno colpito zone deserte del Paese. I missili non sono riusciti a colpire obiettivi strategici, come le basi aeree, che avrebbero potuto ostacolare l’azione bellica di Israele[12].
Gli Usa e la guerra tra Israele e Iran
All’inizio, gli Stati Uniti non hanno preso parte all’attacco, anche se sono stati informati dell’operazione, alla quale, secondo gli studiosi, hanno dato «semaforo giallo», autorizzando Israele ad agire, senza però esporsi in prima persona. Le motivazioni della strategia statunitense sono state esplicitate in un comunicato diffuso nella notte del 13 giugno dal Segretario di Stato, Marco Rubio: «Stasera Israele ha compiuto un’azione unilaterale, noi non siamo coinvolti negli attacchi contro l’Iran e la nostra principale priorità è di proteggere le forze americane nella regione. Israele ci ha informati che ritiene questa azione necessaria per la propria autodifesa»[13].
Il giorno dopo l’attacco, Trump non ha nascosto di essere impressionato da quanto avvenuto. Ha parlato di «un grande successo», notando che è stato usato qualche equipaggiamento americano e ha presentato l’attacco israeliano come qualcosa che può aumentare le chances di un accordo e contribuire a convincere l’Iran a rinunciare completamente all’arricchimento dell’uranio. Ha detto anche che i mercati avrebbero risposto positivamente, perché l’Iran non avrebbe avuto un’arma nucleare[14]. Il 15 giugno, Trump è intervenuto più volte: «Iran e Israele – ha detto – dovrebbero raggiungere un accordo, e lo faranno, proprio come hanno fatto India e Pakistan»[15], e ha indicato Putin come possibile mediatore. Poi ha dichiarato: «Al momento gli Usa non sono coinvolti. È possibile che lo siano». Quindi ha specificato il senso di tale affermazione: gli Usa non hanno partecipato agli attacchi israeliani, «ma se verremo colpiti, risponderemo con una forza mai vista prima»[16].
Dopo il G7, svoltosi in Canada a metà giugno, dal quale Trump è ripartito in anticipo, la sua posizione sulla guerra israeliana in Iran è cambiata. Da quel momento egli ha chiesto agli ayatollah non la semplice ripresa dei negoziati, ma la resa totale. Accreditandosi parte della vittoria israeliana, ha scritto nel suo sito: «Ora abbiamo il controllo completo e totale dei cieli sopra l’Iran». Poi ha lanciato l’ultimatum: «Sappiamo esattamente dove si nasconde il cosiddetto “Leader Supremo”. È un bersaglio facile, ma è al sicuro lì. Non abbiamo intenzione di eliminarlo (ucciderlo!), almeno non per ora»[17]. In un successivo post, ha aggiunto, a lettere cubitali: «Resa incondizionata»[18].
Anche se gli Usa in quel momento non erano in guerra con l’Iran, è significativo che il Presidente abbia utilizzato il «noi» per indicare alcuni importanti passaggi. Per Israele l’appoggio e, ancor più, l’entrata in guerra degli Usa a suo fianco avrebbero fatto la differenza. Trump ha deciso di intervenire in questa guerra, in parte per aiutare l’alleato israeliano, in parte per attribuirsi i meriti della vittoria, che vedeva a portata di mano. «Per lui non c’è niente di più frustante di una guerra combattuta con armi statunitensi, ma di cui non può prendersi il merito in caso di vittoria»[19].
Sotto il profilo della politica interna, va però sottolineato che Trump era stato eletto presidente dopo aver presentato un programma di disimpegno dai conflitti del mondo, criticando le guerre senza fine condotte in passato dai democratici in Medio Oriente. E questa poteva essere una di quelle. Tanto più che molti attivisti del movimento Maga, come pure molti repubblicani, erano contrari all’intervento[20]. Inoltre, secondo alcuni sondaggi, sembra che la maggior parte dell’opinione pubblica americana fosse ostile all’intervento, e che solo il 16% fosse a favore[21]. In un primo momento Trump ha affermato di voler attendere due settimane prima di decidere se intervenire a fianco di Israele e dare all’Iran la possibilità di abbandonare il programma nucleare, ma subito dopo ha deciso di intervenire.
Israele aveva bisogno dell’intervento americano per sferrare un colpo decisivo ai siti nucleari iraniani interrati nel sottosuolo[22]. A pochi giorni dall’inizio dell’attacco israeliano, solo due siti nucleari erano stati colpiti – quello di Natanz e quello di Isfahan –, e non si sapeva con quali risultati concreti. Gli analisti stimavano che le forze israeliane avessero al massimo colpito un terzo del programma nucleare iraniano, il che lo avrebbe fatto regredire di mesi e non di anni. Alcuni impianti sotterranei, come quello di Fordow, dove viene arricchito l’uranio, non erano stati per nulla toccati[23].
Podcast | SUD SUDAN. «UN CONFLITTO CHE NON È MAI FINITO»
Quattro milioni di sfollati, oltre 350mila morti, fame e povertà. Il Sud Sudan è il paese più giovane del mondo, con una storia già segnata dalle violenze. Oggi lo spettro della guerra torna a far paura, come racconta mons. Christian Carlassare, vescovo della diocesi di Bentiu. Ascolta il podcast
Il 20 giugno, un incontro a Ginevra dei ministri degli esteri di Germania, Regno Unito, Francia e dell’Alta rappresentante Ue con il ministro iraniano Abbas Araghchi non ha sortito risultati concreti. L’obiettivo dell’incontro era convincere l’Iran ad «accettare un controllo più invasivo»[24] da parte dell’Aiea sul programma nucleare e sulle attività balistiche, in modo da scongiurare l’intervento armato degli Usa. Gli ayatollah hanno detto di essere pronti a discutere, ma non a bloccare il programma nucleare.
L’intervento americano
Nonostante le iniziali esitazioni e le due settimane di ripensamento, gli Usa, probabilmente spinti da Netanyahu, hanno deciso di intervenire bombardando tre siti nucleari. Ciò è avvenuto la mattina del 22 giugno. Un gruppo di sette bombardieri B-2 ha sganciato 14 bombe anti-bunker (GBU – 57) su Fordow e su Natanz. Il primo è il più importante impianto nucleare iraniano, che si trova interrato sotto il fianco di una montagna, a una profondità di circa 100 metri. Secondo molti analisti, le bombe utilizzate dagli Usa, anche se molto potenti, non sarebbero in grado di distruggere l’impianto in profondità. Tuttavia, anche se non riuscissero ad arrivare alla sala di arricchimento dell’uranio, potrebbero causare un’onda d’urto capace di distruggere in modo sensibile le apparecchiature contenute al suo interno. Gli Usa hanno anche colpito Isfahan, già bombardata da Israele, con 30 missili da crociera lanciati dai sottomarini. Subito dopo i bombardamenti, Trump ha dichiarato: «Posso annunciare al mondo che gli attacchi sono stati uno spettacolare successo militare. I principali impianti di arricchimento nucleare dell’Iran sono stati completamente e totalmente distrutti»[25]. Il capo di Stato Maggiore Razin Caine ha specificato: «I danni finali saranno quantificati nel tempo, ma le prime valutazioni indicano che tutti e tre i siti hanno subìto distruzioni estremamente gravi»[26].
Decisa è stata la reazione di Teheran. Il ministro degli Esteri Araghchi ha annunciato la fine di ogni trattativa e ha dichiarato: «Quanto accaduto è oltraggioso e avrà conseguenze eterne per questi attacchi illegali e criminali. […] l’Iran si riserva tutte le opzioni per difendere la propria sovranità, i propri interessi e il proprio popolo»[27]. La Cina e la Russia hanno condannato l’azione militare statunitense: è stato violato, hanno detto, il diritto internazionale. Il Segretario generale dell’Onu, António Guterres, ha dichiarato che il bombardamento degli impianti nucleari iraniani «segna una svolta pericolosa in una regione già in preda al caos»[28].
Gli analisti si sono chiesti come avrebbe reagito il regime iraniano dopo il bombardamento statunitense. Oltre a continuare a bersagliare Israele, esso aveva una serie di possibilità, tutte pericolose per gli interessi americani[29]. Avrebbe potuto lanciare droni o missili contro le basi statunitensi in Medio Oriente o attaccare gli alleati americani, prendendo di mira i giacimenti petroliferi dell’Arabia Saudita o i grattacieli di Dubai. Oppure avrebbe potuto bloccare lo Stretto di Hormuz, il braccio di mare in cui passa un terzo del greggio trasportato via mare. Solo che ciò avrebbe danneggiato anche le esportazioni del petrolio iraniano diretto in Cina. Tutte queste soluzioni avrebbero provocato una reazione molto forte da parte degli Stati Uniti, spingendoli a un vero e proprio conflitto armato, come in passato era avvenuto in Afghanistan e in Iraq, cosa che gli Usa non volevano. Trump aveva più volte sottolineato che i soldati statunitensi non avrebbero calcato il suolo mediorientale. Inoltre, i proxy dell’Iran, gli Houthi o l’Hezbollah avrebbero potuto attaccare obiettivi statunitensi o israeliani. Ma tutto questo non è avvenuto.
Per gli Usa, la scelta migliore era che l’Iran optasse per una rappresaglia simbolica, come era avvenuto nel 2020, quando Trump aveva ordinato l’uccisione del generale Qassem Soleimani. Il Presidente statunitense in questo caso avrebbe potuto spingere Israele a porre fine alla sua guerra e sollecitare l’Iran a riprendere i negoziati per un nuovo accordo sul nucleare. «Il bullo del Medio Oriente – aveva detto Trump – ora deve fare la pace. Se non lo farà, i futuri attacchi saranno molto più gravi e molto più facili»[30]. Dal canto loro, i funzionari di Teheran hanno cercato di minimizzare i danni subiti dai siti nucleari[31].
La rappresaglia iraniana ai bombardamenti statunitensi non si è fatta attendere. L’indomani, una raffica di missili è stata lanciata contro la base americana di Al Udeid, in Qatar, provocando pochi danni materiali. In ogni caso, «per una decina di minuti tra i grattacieli di Doha la notte si è riempita di esplosioni, con il drammatico duello tra contraerea e incursori, mentre negli shopping center del lusso la folla fuggiva in preda al panico»[32]. Dal punto di vista strategico, l’azione non era di poco conto: questo fatto rischiava di incrinare la fiducia tra nazioni che erano state storicamente amiche. Quella iraniana è stata una rappresaglia-show, una sorta di ritorsione simbolica sul modello di quella del 2020, un modo per cercare di chiudere i conti con Washington e aprire canali di negoziato. Di fatto, prima di lanciare l’attacco, le autorità di Teheran avevano preavvisato gli emiri di Doha, permettendo così agli statunitensi di attivare in anticipo la contraerea Patriot, così da ridurre in modo sensibile i danni[33]. Secondo gli Usa, soltanto un missile sarebbe giunto a destinazione; per gli iraniani, invece, diversi.
Successivamente, il presidente Trump ha ringraziato Teheran per l’informazione, e la Casa Bianca ha negoziato, grazie alla mediazione del Qatar, un cessate il fuoco tra Iran e Israele, al fine di avviare una trattativa. L’iniziativa è stata ben accolta sia da Israele sia da Teheran. «Vorrei congratularmi – ha scritto il Presidente Usa nel suo sito – con entrambi i Paesi, Israele e Iran, per aver avuto la resistenza, il coraggio e l’intelligenza necessari per porre fine a quella che dovrebbe essere chiamata “la guerra dei 12 giorni”»[34].
La cosiddetta «guerra dei 12 giorni», ha provocato 387 vittime civili (su un totale di 974) tra gli iraniani, mentre quelle israeliane sono state 29[35].
Tutti coloro che sono stati coinvolti nel conflitto possono affermare di aver raggiunto il loro obiettivo principale: Israele ha arrecato danni concreti ai programmi nucleari e missilistici dell’Iran; il regime iraniano è sopravvissuto, indebolito, ma intatto[36]; Trump ha sganciato le sue superbombe senza farsi risucchiare in un conflitto lungo e impopolare; gli Stati del Golfo hanno evitato l’incubo di un attacco iraniano distruttivo sul loro territorio. In ogni caso, è nell’interesse di tutti aver posto fine a un conflitto che poteva far saltare in aria tutta la regione e che rischia di riaccendersi nel caso in cui l’Iran, per ritorsione, riprenda il suo programma nucleare.
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[1] Cfr P. Smolar, «La guerra dei dodici giorni», in Internazionale, 27 giugno 2025.
[2] Cfr «Israel has taken an audacious but terrifying gamble», in The Economist,13 giugno 2025.
[3] G. Di Feo, «L’Iran risponde a Israele: Medio Oriente in guerra», in la Repubblica, 14 giugno 2025.
[4] Uomini come Hossein Salami, comandante in capo delle Guardie della rivoluzione, il più alto ufficiale iraniano; Ali Bagheri, capo di Stato maggiore delle forze armate; Esmail Qaani, comandante della Forza Quds delle Guardie rivoluzionarie; e altri.
[5] Cfr G. Colarusso, «Teheran non passa l’esame Aiea sul nucleare. Israele prepara l’attacco», in la Repubblica, 13 giugno 2025.
[6] G. Olimpio, «I droni nascosti, le talpe e la trappola del Mossad. Il piano studiato per anni», in Corriere della Sera, 14 giugno 2025.
[7] Ivi.
[8] Cfr ivi.
[9] Ivi.
[10] Cfr «Israel’s war with Iran is over», in The Economist, 26 giugno 2025.
[11] Cfr A. Lombardi, «Israele. Le città martellate dal super-missile “Soleimani”. Netanyahu giura vendetta», in la Repubblica, 16 giugno 2025.
[12] Cfr «Israel’s war with Iran is over», in The Economist, 26 giugno 2025.
[13] V. Mazza, «Qui Trump. Il doppio gioco del tycoon. “Sapevamo, ma gli Usa non sono coinvolti”», in Corriere della Sera, 14 giugno 2025.
[14] Cfr ivi.
[15] P. Mastrolilli, «Gli Usa, Trump apre a Putin: “Può essere lui il mediatore. Se ci attaccano, reagiremo”», in la Repubblica, 16 giugno 2025.
[16] Ivi.
[17] P. Mastrolilli, «Trump all’Iran: “Resa totale o guerra”. Mosca: rischio atomico», in la Repubblica, 18 giugno 2025.
[18] Ivi.
[19] P. Haski, «Cosa può spingere Washington a entrare in guerra contro Teheran», in Internazionale, 19 giugno 2025.
[20] Cfr ivi.
[21] Cfr «Trump v Iran: a negotiation made in hell», in The Economist, 20 giugno 2025.
[22] Cfr «The Israel Iran war is now a brutal test of staying power», in The Economist, 15 giugno 2025.
[23] Cfr ivi.
[24] Cfr F. Basso, «L’Europa tratta con l’Iran. Tre ore, zero progressi», in Corriere della Sera, 21 giugno 2025.
[25] M. Persivale, «Trump lancia l’attacco Usa. L’Iran: conseguenze eterne», in Corriere della Sera, 23 giugno 2025.
[26] Ivi.
[27] Ivi.
[28] Ivi.
[29] Cfr «Trump smashes Iran – and gambles the regime will now capitulate», in The Economist, 22 giugno 2025.
[30] Ivi.
[31] Israele intanto aveva lanciato un attacco su Teheran, prendendo di mira i simboli del regime, cioè la prigione di Evin, dove sono detenuti i dissidenti e i prigionieri politici. È stato colpito anche il quartier generale dei Guardiani della rivoluzione, dove sarebbero rimasti uccisi numerosi pasdaran, e quello dei Basij, la milizia paramilitare creata da Khomeini nel 1979.
[32] G. Di Feo, «L’Iran avvisa gli Usa del lancio di missili sul Qatar, poi l’annuncio di una tregua», in la Repubblica, 24 giugno 2025.
[33] Cfr ivi.
[34] «Trump says the war is over. Haw 14 bombs may change the Middle East», in The Economist, 24 giugno 2025.
[35] Cfr Corriere della Sera, 25 giugno 2025, 3.
[36] Il regime iraniano ha affermato di aver costretto i nemici a rifugiarsi in un cessate il fuoco e di aver messo in salvo le scorte di uranio arricchito. Il che non è accertato, anche perché il regime non accetta più nessun intervento dell’Aiea nel Paese.
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Gli angeli, messaggeri dello spirito
In diversi Paesi europei secolarizzati, come la Germania, Dio è diventato del tutto estraneo per molti. Sembra lontano, astratto, impersonale, impossibile da comprendere o da toccare, ma anche difficile da sentire o da sperimentare; una vaga fantasia, semplice di per sé eppure complessa, in qualche modo inconsistente; o una pura idea, che appare per di più paradossale, peraltro impossibile da fondare o dimostrare, non più adatta a un mondo funzionale e proprio per questo tormentato dalle crisi. E non si danno nemmeno risposte a domande profonde: se Dio ha fatto buone tutte le cose, da dove viene tutto il male attuale? Perché egli non se ne cura, se è buono e onnipotente? Dove va a finire il mondo se non nel nulla?
Se poi si cerca di accedere al sacro o alla religione passando per gli esseri umani, la cosa non appare più facile: gli esseri umani – per esempio, i santi della storia o le figure luminose della vita religiosa attuale – sono persone concrete, e per questo culturalmente limitate, deboli e peccatrici, a volte malate. Oggi difficilmente si crede che alcuni esseri umani siano plasmati dal divino e che rimandino a Dio. L’uomo contemporaneo, cresciuto nella modernità, è troppo informato, troppo realistico, troppo critico.
Una religione personale?
A questo punto, sarebbe più facile adottare una «spiritualità» impersonale. Nella religione, crea difficoltà soprattutto l’elemento personale, che tuttavia nel cristianesimo è irrinunciabile. Ma in che modo allora rappresentare questo elemento personale di Dio in una società ipercritica? Dio come un pastore? Alcuni diranno che così appare autoritario, rende infantili le pecore o le minimizza. Dio come padre? Ad altri sembrerà che sia patriarcale, con un potere eccessivo, e per questo propenso ad abusarne come tanti padri: un’immagine che risulterebbe provocatoria per le vittime di violenza, e che tra l’altro risulta impossibile per una prospettiva di genere così diffusa. Dio come padre e madre? Questa immagine forse va già un po’ meglio, ma potrà apparire troppo parentale per persone normali, e troppo tradizionale dal punto di vista sociale. Dio come re, dominatore del mondo, come Kyrios (questo era il titolo dell’imperatore romano)? Anche qui non mancheranno coloro ai quali tali qualifiche sembreranno roba da museo, oppure da monarchia, da destra conservatrice.
E che dire poi di Gesù Cristo come uomo venuto da Dio, o come Figlio di Dio, o addirittura come una persona divina? Un Dio sotto forma di una persona umana storica appare ormai poco credibile. Un dialogo interreligioso sembra oggi possibile quasi solo senza Gesù: l’impedimento è rappresentato soprattutto dalla sua incarnazione e poi dalla sua morte in croce, apportatrice di salvezza, e dalla sua risurrezione, che sconfigge la morte. Per noi cristiani è difficile spiegare queste realtà teologiche, e anche comprenderle.
Gli angeli ci possono permettere un accesso più facile alla religione? In qualche modo essi sono concreti, comprensibili, li si può immaginare; ma allo stesso tempo appaiono piacevolmente anonimi – i loro nomi non vengono quasi mai menzionati –, anche androgini, non binari, compatibili con il queer, oppure del tutto incorporei, come un soffio fugace. Compaiono nelle immagini, e allo stesso tempo si sottraggono a tutto ciò che è immagine. Sono puri, divini e buoni, ma allo stesso tempo trova posto in essi anche il male demoniaco. Gli angeli non sono troppo divini, e allo stesso tempo non sono troppo umani. Essi esistono in tutte le principali religioni e spiritualità, anche nella religione secolare. Da anni stanno vivendo un boom, forte nella letteratura popolare, ma anche nell’esoterismo, nella musica pop, nella pubblicità. È stato grazie al benedettino Anselm Grün che il culto degli angeli non si è fatto completamente assorbire dalla scena dell’esoterismo, ma è rimasto anche nel cristianesimo. Se il cristianesimo non è tanto ciò che si continua a intendere per «spiritualità» – ossia l’elevazione a una sfera spirituale presentata in modo impersonale –, ma è soprattutto fede, cioè fiducia e dono di sé a una divinità anche personale, gli angeli possono aiutarci a raggiungere una tale fede[1]?
Gli angeli nella Bibbia
Alcuni riferimenti biblici possono introdurre al significato degli angeli nel contesto cristiano. Essi non compaiono nella creazione del mondo, ma, dopo la cacciata dei primi esseri umani dal paradiso, i cherubini[2] ne sorvegliano la porta e, soprattutto, la via di accesso all’albero della vita (cfr Gen 3,24): su incarico di Dio, proteggono l’ordine del mondo dall’essere umano, spesso disordinato.
Abramo riceve la visita di tre uomini (cfr Gen 18), che in seguito si rivelano più volte come «il Signore» e nella storia sono stati interpretati come angeli; la loro figura oscilla tra il divino e l’umano, e resta a lungo ambigua, sfuggente, incomprensibile. Questi tre uomini sono stati interpretati anche come le persone della Trinità (la famosa icona della Trinità di Andrej Rublëv conserva questa interpretazione nella memoria collettiva). In seguito Abramo viene messo alla prova: Dio lo incarica di offrire suo figlio Isacco in sacrificio (cfr Gen 22). È una storia enigmatica, di difficile interpretazione. Ma poco prima che il figlio venga ucciso, «l’angelo del Signore» trattiene Abramo, gli procura un ariete da offrire al posto del figlio e gli promette la benedizione di Dio. Qui l’angelo appare come un messaggero che, su incarico di Dio, interrompe l’assurda «prova» a cui il Signore aveva sottoposto Abramo, trasformandola in benedizione.
Giacobbe sogna una scala che va dalla terra al cielo; gli angeli vi salgono e vi scendono; Dio benedice Giacobbe, promettendogli grandi cose (cfr Gen 18,10-22). La domanda che da sempre fanno i bambini agli adulti sul perché gli angeli abbiano bisogno di una scala, dal momento che hanno le ali e quindi possono volare, porta al paradosso degli angeli che mediano tra il cielo e la terra e vanno immaginati come esseri spirituali che volano e allo stesso tempo come esseri corporei che salgono su una scala.
Anche l’episodio della lotta di Giacobbe allo Iabbok (cfr Gen 32,23-22) è giocato sull’ambiguità: Giacobbe si è macchiato della colpa di aver sottratto la primogenitura al fratello, ma ora vuole tornare nella terra promessa. Per fare questo, deve attraversare il fiume che segna il confine, simbolo di purificazione. Un uomo lotta con lui di notte, per ore, in modo oscuro, violento, spaventoso. Anche in tale circostanza questo «uomo» è un angelo, o Dio stesso? Giacobbe resiste. Chiede il nome dello sconosciuto, ma non gli viene rivelato. Invece, è lui a ricevere un nome nuovo – «Israele», colui che ha combattuto con Dio – e riceve da quello sconosciuto la benedizione che gli aveva chiesto. Dalla lotta Giacobbe esce ferito, e zoppicherà per il resto della sua vita. Questo angelo è di nuovo un essere ibrido, misterioso, anche corporeo, ma viene dal nulla e con l’alba scompare di nuovo nel nulla. È un angelo vendicatore? Nella punizione c’è la benedizione di Dio? L’angelo ferisce Giacobbe su incarico dell’Altissimo? Giacobbe è segnato, ma allo stesso tempo viene guarito e benedetto.
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Nel libro di Tobia, l’angelo Raffaele è molto diverso. È un compagno di viaggio di Tobia, figlio di Tobi, che si trova in difficoltà, e gli dà una medicina per guarire la cecità del padre. Così l’angelo – il cui nome significa «Dio ha guarito» – è al tempo stesso messaggero e messaggio di guarigione e di guida di Dio.
Avendo ucciso, per incarico di Dio, 450 sacerdoti di Baal, il profeta Elia viene perseguitato. Fugge nel deserto. Stanco della vita e degli ordini di Dio, si sdraia sotto una ginestra, desideroso di morire, e si addormenta. Un angelo lo sveglia e gli dà da mangiare e da bere. Elia si addormenta di nuovo, e di nuovo l’angelo lo sveglia, gli dà da mangiare e lo indirizza a un cammino di 40 giorni attraverso il deserto, per incontrare Dio sull’Oreb (cfr 1 Re 19,1-13). L’angelo agisce contro la stanchezza, sveglia e nutre, ammonisce e invia. Davanti a Elia, egli si rivela un essere del tutto terreno, eppure è indubbiamente un messaggero di Dio, di cui annuncia la sollecitudine e la volontà.
Anche l’angelo Gabriele appare come un messaggero di Dio: annuncia a Maria la nascita miracolosa di un figlio, concepito dallo Spirito Santo (cfr Lc 1,26-38). In quel momento, per Maria le spiegazioni dell’angelo devono essere state difficilmente comprensibili, e tuttavia chiariscono il significato salvifico di quella nascita ai lettori futuri. La generosa disponibilità di Maria ad accogliere l’annuncio ha sempre impressionato in tutte le epoche della storia del cristianesimo. L’angelo qui annuncia in modo, per così dire, performativo, perché allo stesso tempo opera quello che dice: è Dio stesso che opera in lui.
Nove mesi dopo, Gesù nasce a Betlemme, e un angelo annuncia una grande gioia (cfr Lc 2,1-20). La gloria del Signore avvolge di luce i pastori, che allo stesso tempo vengono colti da un grande timore. Gli angeli sono ambivalenti: gloriosi e spaventosi, luminosi e violenti, risplendono di luce divina e spaventano con la loro potenza. A Betlemme, subito una moltitudine dell’esercito celeste loda Dio: questo esercito è una forza militare, ma nello stesso tempo un coro possente.
Nella Bibbia, Giuseppe, il promesso sposo di Maria, è il grande silenzioso – non dice una parola –, ma è anche il grande sognatore: in sogno, un angelo gli ordina di accogliere Maria e il bambino, che non è suo; in sogno, l’angelo lo fa fuggire in Egitto insieme con la sua famiglia, perché il bambino è perseguitato; in sogno, l’angelo li fa tornare tutti (cfr Mt 1,20-24; 2,13-14.19-29). Il fatto che gli angeli appaiano nei sogni mostra quanto siano fugaci, irreali, puramente spirituali, ma anche quanto siano radicati nella psiche umana: è così che Dio parla all’uomo, per proteggerlo e salvarlo.
Quando Gesù prega al monte degli Ulivi, colto da una terribile paura della morte, abbandonato da tutti, gli appare un angelo per dargli forza (cfr Lc 22,43). «Dare forza» indica certo la consolazione divina, ma anche energia, coraggio, fiducia che vengono da Dio. Poco dopo, Gesù viene arrestato. Allora vieta ai discepoli una resistenza violenta, facendo loro notare che, se avesse voluto difendersi, avrebbe pregato il Padre suo, che gli avrebbe messo a disposizione «più di dodici legioni di angeli», cioè diverse decine di migliaia di angeli (cfr Mt 26,47-56). Gli angeli qui sono una forza armata, completamente fisica, che è sempre a disposizione di Dio e del Figlio suo che lo prega. Ma Gesù vi rinuncia, non vuole che Dio intervenga violentemente, prende la via non violenta del dono della propria vita. Nelle mani di Dio, gli angeli potrebbero compiere azioni di potenza, ma Dio non si serve di loro per questo, agisce diversamente.
Il mattino di Pasqua, ad attendere le donne al sepolcro vuoto è, secondo il Vangelo di Marco, un giovane vestito con una veste bianca (cfr Mc 16,5); per Luca, sono due uomini in abito sfolgorante (cfr Lc 24,4), mentre per Matteo è un angelo, il cui aspetto è come folgore, con un vestito bianco come neve, il quale fa rotolare via la pietra che chiudeva la tomba, spaventa le guardie e parla alle donne (cfr Mt 28,1-7); secondo Giovanni, sono due angeli in bianche vesti, seduti dove era stato posto il corpo di Gesù (cfr Gv 20,12-13). Che siano chiamati «uomini» o «angeli», splendenti e vestiti di bianco, questi personaggi incutono timore alle guardie, ma appaiono belli e premurosi – «Non abbiate paura!», dicono – verso le donne, che sono le prime a ricevere la buona notizia. Anche in questo caso gli angeli appaiono a volte umani, a volte spirituali, e trasmettono messaggi che interpretano gli eventi salvifici.
Attraverso un angelo viene comunicato al veggente Giovanni tutto quello che egli descrive nell’«Apocalisse» (cfr Ap 1,1). Il libro pullula di angeli e di esseri celesti simili, che sono messaggeri e sentinelle, araldi e cortigiani celesti, cori di lode e suonatori di tromba, ma anche mietitori con le falci affilate del giudizio. Michele e i suoi angeli combattono contro il drago e i suoi angeli (cfr Ap 12,7-12); e qui compaiono gli angeli decaduti, e quindi cattivi, che nella battaglia cosmica finale vengono sconfitti dagli angeli buoni di Dio. Ovviamente gli angeli diventeranno ancora più importanti alla fine dei tempi, ma anche nella visione di Giovanni rimangono al tempo stesso multiformi ed enigmatici, miti e potenti, terreni e celesti.
La testimonianza biblica sugli angeli – che spesso compaiono nei momenti decisivi della storia della salvezza – contiene tutti i temi essenziali della loro successiva immagine nella cultura e nella spiritualità del cristianesimo: essi sono innanzitutto misteriosi, anche paradossali, concettualmente inafferrabili – pertanto, senza interesse per il pensiero filosofico? –, «esseri di luce e di fuoco, dolcezza e terrore […], doppie icone di Dio e dell’uomo […], icone di mediazione tra il Totalmente Altro e noi»[3]. Annunciano e danno indicazioni; vegliano e consolano; dirigono e dispongono; puniscono e combattono; irradiano e risplendono; guizzano e volano; suonano la tromba e cantano le lodi. Alcuni precipitano nel male, ma alla fine sono gli angeli buoni a prevalere.
Gli angeli nella storia
Già le prime speculazioni ebraiche e gnostiche sviluppano gerarchie di angeli, spesso con venature neoplatoniche. Dionigi l’Areopagita (intorno al 500) classifica i tipi di angeli a tre livelli, ciascuno composto da tre cori. San Tommaso d’Aquino inquadra sistematicamente questa dottrina, dandole una forma che dominerà per molto tempo. I nove cori sono, a partire dai più elevati: serafini, cherubini e troni; poi, scendendo: dominazioni, virtù e potenze; e infine: principati, arcangeli e angeli[4]. La dottrina deriva da testimonianze bibliche e da speculazioni successive. Il termine «gerarchia» (= «ordine sacro») è stato coniato per questo.
Nel Medioevo, le gerarchie terrene della Chiesa e del mondo sono immagine della gerarchia celeste degli angeli e da essa traggono legittimazione: la corte nobiliare del sovrano è come la corte angelica di Dio, il suo organo regolativo e amministrativo, che serve contemporaneamente alla sua glorificazione. I grandiosi affreschi delle chiese medievali e le miniature dei manoscritti raffigurano questo mondo estremamente differenziato degli angeli[5].
Riprendendo l’antichità, a partire dal XV secolo si sviluppa la fede nell’«angelo custode»: ogni persona, in particolare ogni bambino, ha un angelo custode, che lo accompagna e lo protegge, sempre in modo invisibile. Questi angeli «sono i nostri aiutanti e garanti che la nostra speranza e nostaglia del cielo non vada a vuoto, ma che il cielo stia aperto per noi»[6]. Agli angeli custodi è dedicata, a partire dal XIX secolo, una ricca iconografia, anche in forma non religiosa. Si discute se ogni persona abbia anche un angelo cattivo che induce a peccare, e la teologia protestante si è interessata a tale questione[7].
Podcast | SUD SUDAN. «UN CONFLITTO CHE NON È MAI FINITO»
Quattro milioni di sfollati, oltre 350mila morti, fame e povertà. Il Sud Sudan è il paese più giovane del mondo, con una storia già segnata dalle violenze. Oggi lo spettro della guerra torna a far paura, come racconta mons. Christian Carlassare, vescovo della diocesi di Bentiu. Ascolta il podcast
«L’angelo è quella luce che brilla e non brucia mai. Ma una volta questo fuoco si è infuocato, consumandosi. E nell’angelo decaduto il fuoco ha iniziato a bruciare senza brillare: un fuoco nero, gelido. In questo fuoco, la parola di Dio si è trasformata in pietra ed è morta. […] È il fuoco nero di una libertà che si rivolta contro Dio»[8]. Gli angeli sono creature spirituali di Dio, e quindi liberi. La loro libertà è il loro dono più grande e allo stesso tempo il presupposto per volgersi al male. Si spiega così l’ingresso del male nel mondo? Gli angeli decaduti inducono gli esseri umani – anch’essi creature libere – a ribellarsi contro Dio. Questo giustifica l’uomo cattivo? Niente affatto, perché, essendo persona libera, egli è responsabile delle sue azioni. Insieme agli angeli decaduti, l’uomo verrà giudicato per le sue azioni cattive, e i giudici saranno gli angeli buoni.
Nel XVI secolo sant’Ignazio di Loyola, rifacendosi alle antiche tradizioni, fece un’applicazione psicologica della dottrina degli angeli: nelle «mozioni» dell’anima – pensieri e sentimenti, immaginazioni e inclinazioni interiori – operano gli «spiriti», che sono molteplici e spesso contraddittori e confusi. Occorre discernere quali mozioni vengono da uno spirito buono, o angelo, e quali, invece, da uno spirito cattivo, o demonio, diavolo. Si seguiranno le mozioni dello spirito buono, e «non ci si lascerà determinare» da quelle dello spirito cattivo. L’angelo del male può anche camuffarsi da «angelo della luce» (Lucifero) e, sotto l’apparenza del bene, indurre al male l’anima ingenua. Questo ulteriore sviluppo della dottrina degli angeli trova accoglienza nell’etica come «discernimento degli spiriti», ma anche nell’accompagnamento spirituale di singoli o di gruppi; papa Francesco l’ha resa fruttuosa per i processi sinodali[9].
Nel Rinascimento e nel Barocco, gli angeli si trasformano in putti, ossia bambini piccoli e paffuti che si aggirano nei dipinti, o come statue nelle chiese, sbirciando da ogni angolo e meandro, dispettosi, eppure simpatici, mentre suonano da soli o in concerto. Sono soltanto banalizzati e degradati: «carne nuda, rigogliosa, addomesticati come porcellini»[10]? Certo, i putti incarnano una religione sensuale, formosa, umoristica, forse molto cattolica, ma nel bambino si manifesta il divino, e i putti alludono sempre a Gesù bambino. Essi sono i compagni di viaggio della Sapienza, che giocano davanti a Dio e sono la sua delizia (cfr Pr 8,27-31)[11]. I putti sono estranei alla spiritualità di oggi, ma simboleggiano temi centrali e attuali del cristianesimo. È sorprendente vedere come essi ispirino l’entusiasmo anche secolare, soprattutto nei famosi angioletti ai piedi della «Madonna Sistina» di Raffaello.
A partire dall’Illuminismo, la ragione ha scacciato gli angeli: essi non sono più adatti a un mondo funzionale e organizzato, ma agiscono come oppio per le persone immature, irrazionali e autoritarie. Inoltre, scompaiono in gran parte anche dalla teologia, e l’esegesi scientifica lotta con le storie di angeli che si trovano nella Bibbia. Tuttavia le religioni mantengono sempre un angolo antirazionale, mitico e persino antilluminista, in cui gli angeli faranno sentire la loro natura di bene o di male. Gli angeli dovranno dunque restare ancora negli antichi templi, che si ammirano solo come musei? O dovranno essere confinati nelle correnti antimoderniste della Chiesa, in quell’angolo sporco che viene ridicolizzato come reazionario e meramente emotivo? C’è una separazione tra un mondo ecclesiastico ufficiale e un mondo devozionale? Ossia, tra un mondo frutto di una riflessione razionale e organizzato in maniera efficiente, capace – almeno così si spera – di adattarsi alla modernità, e per questo privo di angeli, e un mondo devozionale, frutto di una speculazione emotiva, popolato in modo selvaggio da angeli e certamente molto «interessante» dal punto di vista storico-artistico e benedetto da Dio?
Su angeli e uomini
A proposito degli angeli, il Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC) cita sant’Agostino: «La parola “angelo” designa l’ufficio, non la natura. Se si chiede il nome di questa natura, si risponde che è spirito; se si chiede l’ufficio, si risponde che è angelo: è spirito per quello che è, mentre per quello che compie è angelo»[12]. Gli angeli – prosegue il Catechismo –, in quanto creature puramente spirituali, sono servitori e messaggeri di Dio. Sono completamente legati a Cristo: presenti quando Dio ha creato il mondo in Cristo, presenti nella vita del Dio incarnato e al servizio di Cristo nel suo ritorno e nel suo Giudizio[13].
Giorgio Agamben definisce gli angeli «funzionari del cielo»[14]. Essi hanno due compiti. Da un lato, nella loro funzione di governo, dotati del vocabolario tipico del potere, come «troni», «virtù», «potestà» ecc., essi formano un corpo di funzionari e una burocazia celeste, amministrando così il «regno» di Dio e facendo conoscere i suoi decreti storici sulla terra (servono e governano: in latino, virtus administrandi). Dall’altro lato, stanno davanti a Dio, come previsto dal cerimoniale di una corte (vedono Dio e lo lodano: in latino, virtus assistendi Deo). Agamben fa riferimento a Dante, che distingue due beatitudini nella natura degli angeli: quella contemplativa, con cui essi vedono il volto di Dio e lo glorificano; e quella del governo, che corrisponde nel mondo umano alla «vita attiva, ossia a quella civile»[15]. Sospesi, per così dire, nel mezzo, governando verso il basso e lodando verso l’alto, gli angeli collegano la terra e il cielo, l’umano e il divino, in un modo misterioso, che non potrà mai essere pienamente compreso. Ma oggi il loro posto non è forse stato preso, con le stesse funzioni e caratteristiche, dalla Chiesa, che spesso si presenta in modo piuttosto terreno?
La gerarchia angelica è stata interpretata in modi diversi nel corso della storia. Prendiamo come esempio Bernardo da Chiaravalle. Secondo lui, Dio si manifesta nelle schiere angeliche nella sua attenzione all’uomo, che si esprime in forme molteplici: «Nei serafini, Dio ama come carità, nei cherubini conosce come verità, nei troni governa come giustizia, nelle dominazioni regna come maestà, nei principati governa come legge, nelle virtù custodisce come salvezza, nelle potenze agisce come forza, negli arcangeli si manifesta come luce, negli angeli consola come bontà»[16]. Gli angeli mostrano le azioni di Dio nella loro complessità, anche nelle sue decisioni spesso paradossali e apparentemente insondabili, ma sempre nella sua benevolenza e nella sua bontà, proprio come una benedizione.
Gli angeli cantano in coro, per cui nel canto corale antico e in quello del cristianesimo primitivo parola e musica si fondevano, esprimendosi insieme nel movimento, nella danza: «Sillaba pronunciata, suono di musica e passo di danza erano manifestazioni della stessa forza»[17]. Gli angeli appaiono quindi «in una naturale unità dei sensi». Nella danza in circolo «si perdeva la capacità di articolare le parole, perché non c’era più niente da esprimere: gli stessi danzatori erano l’espressione che camminava e girava»[18].
Gli angeli cantano alter ad alterum, l’uno rivolto all’altro, a cori alterni, in dialogo. Già i Salmi in ebraico erano disposti in parallelo, e ancora oggi nei monasteri vengono cantati a cori alterni. L’alter ad alterum rimanda anche all’angelo custode che, per così dire, è un doppio dell’essere umano e lo accompagna in un dialogo amichevole.
Naturalmente gli angeli cantano una voce, all’unisono: un coro è un essere brulicante, in cui chi canta ascolta sé stesso e allo stesso tempo il suono prodotto dal coro; questo lo trasforma e risuona molto al di là di lui; chi canta è, per così dire, assorbito da questo suono.
Gli angeli cantano sine fine, all’infinito: poiché la musica si svolge nel tempo, avviene solo adesso, questa espressione è paradossale. «Il canto angelico sine fine è quindi qualcosa di diverso dalla musica come la sentiamo noi. È una sorta di espressione artistica illimitata […], disinteressata, spontanea, senza forma, e come uno spazio che si espande all’infinito alla velocità del suono»[19]. Gli angeli che cantano puntano verso l’alto, verso il cielo; nell’arte gotica, si librano sulle absidi delle chiese dalle volte sempre più alte. Gli angeli che cantano sono già il cielo: l’io, il tu e il noi si fondono in un’unità senza tempo e senza spazio[20].
Gli angeli dissolvono immagini e concetti rigidi di Dio: «Gli angeli […] sfuggono alla teoria degli insiemi, passano attraverso i muri della rigidità come attraverso quelli delle prigioni […]. Di fronte al Dio unico, testimoniano il politeismo; di fronte il paganesimo, annunciano il monoteismo; e diffondono ovunque il panteismo quando cantano nei campi»[21]. Dio è uno, ma multiforme; percettibile, ma fugace; non è in nessun luogo, ma ovunque; è in tutte le cose, ma non in quelle di questo mondo; gli angeli tengono a freno ogni pensiero ristretto o razionalistico, che esclude o che vuole definire in concetti.
Christian Lehner scopre negli angeli la sola fide: «Con la sola fede. Si potrebbe quasi dire: ciò che Agostino e Lutero intendevano per fede, ossia l’appropriazione interiore di una promessa, di una trasformazione e di una salvezza che sono già avvenute da molto tempo, ma che per me possono diventare reali solo con la mia accettazione personale, ossia la realizzazioneinteriore di Dio mediante la fiducia in lui, una forma di movimento che è allo stesso tempo accoglienza che dà pace, al di là della chiusura dell’uomo in sé stesso, tutto questo è un altro modo di esprimere la realtà degli angeli»[22]. Se gli angeli stessi sono, per così dire, la fede, allora credere negli angeli non è la forma peggiore di fede, perché gli angeli vengono da Dio e conducono a Dio. I cattolici, che da sempre hanno apprezzato i sensi e le forme, e per questo anche gli angeli, concorderanno volentieri con questa idea di origine evangelica.
Gli angeli non esistono, nel senso di una realtà verificabile con i sensi, accessibile alle scienze naturali, nel senso di un’ontologia che opera sui concetti, nel senso di una comprensione moderna del mondo. Ma gli angeli esistono, comprensibili solo con la poesia, come realtà spirituali fantastiche, come ombre di un’altra realtà più elevata, come immagini mentali nell’ambivalenza tra energie buone e cattive, come «cortocircuiti che si creano in un lampo tra poli inconciliabili, come miracoli, cose imprevedibili, come energie di trasformazione»[23].
Per tornare all’esempio della Germania citato prima, si presume che il 40% dei tedeschi creda negli angeli, con una tendenza al rialzo, e il 55% creda in Dio, con una tendenza al ribasso; nell’est della Germania sono già più le persone che credono negli angeli che quelle che credono in Dio[24]. Gli angeli sembrano essersene andati via dalla Chiesa, intercettati dall’industria dell’esoterico e del kitsch. Ma la Chiesa dà forse l’impressione di aver rinunciato agli angeli? Essi sono utili, almeno a Dio, che li usa come funzionari, ambasciatori e coristi. Ma essi non sono forse utili anche al cristianesimo, come accesso a una realtà religiosa sensuale-sovrasensibile che si colloca al di là del razionale e che aiuta all’incontro con la persona di Dio?
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[1] Ci sarebbero molte cose da dire sul tema degli angeli nel giudaismo, nell’islam e altrove, ma qui ci limitiamo al cristianesimo.
[2] Più volte menzionato nell’Antico Testamento, il termine «cherubino» indica innanzitutto un servitore o assistente di Dio; in seguito esso viene visto anche come angelo, e nel Medioevo è inserito nelle gerarchie angeliche. Su questo argomento, cfr Y. Cattin – Ph. Faure, Les anges et leur image au Moyen Age, Abbaye de la Pierre-qui-vire, Zodiaque, 1999.
[3] Ivi, 20.
[4] Cfr Ch. Lehnert, Ins Innere hinaus. Von Engeln und Mächten, Berlin, Suhrkamp, 2020, 114.
[5] Cfr i volumi illustrati di Y. Cattin – Ph. Faure, Les anges et leur image au Moyen Age, cit., e di M.-Ch. Boerner, Angelus et Diabolus. Engel, Teufel und Dämonen in der christlichen Kunst, Potsdam, Ullmann, 2016.
[6] Katholischer Erwachsenenkatechismus, vol. 1, 1985, 111. Cfr R. Guardini, L’Angelo. Cinque meditazioni, Brescia, Morcelliana, 2024.
[7] Cfr E. Weinberger, Engel und Heilige, Berlin, Berenberg, 2023, 32 s.
[8] Y. Cattin – Ph. Faure, Les anges et leur image au Moyen Age, cit., 25.
[9] Esistono approcci psicologici moderni agli angeli: cfr, ad esempio, R. Perrone, Le syndrome de l’ange. Considérations à propos de l’agressivité, Paris, ESF, 2013. L’autore parla di «sindrome dell’angelo», nel caso in cui le persone che subiscono le aggressioni da parte di altri si rifugiano in un atteggiamento simile a quello di un angelo, quindi non attaccabile e autosufficiente, ma che al tempo stesso consente loro di svalutare e disprezzare gli aggressori.
[10] Ch. Lehnert, Ins Innere hinaus…, cit., 63.
[11] Cfr S. Kiechle, Spielend leben, Würzburg, Echter, 2008, 31 s.
[12] Catechismo della Chiesa Cattolica, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1992, n. 329.
[13] Cfr ivi, nn. 329-333.
[14] Cfr G. Agamben, Die Beamten des Himmels. Über Engel, Frankfurt – Leipzig, Verlag der Weltreligionen, 2007.
[15] Ivi, 38.
[16] Citato da E. Weinberger, Engel und Heilige, cit., 52.
[17] Ch. Lehnert, Ins Innere hinaus…, cit., 90. Le idee che verranno presentate in seguito sono ispirate da questo libro.
[18] Ivi, 91.
[19] Ivi, 95.
[20] Cfr, sugli angeli concertanti, W. W. Müller, Musik der Engel. Eine Kultur–geschichte, Basel, Schwabe, 2024.
[21] Ch. Lehnert, Ins Innere hinaus…, cit., 230.
[22] Ivi, 36.
[23] Ivi, 14.
[24] Tuttavia i risultati dei sondaggi sono assai diversi. Nel caso di questi argomenti molto sensibili, dipendono in misura notevole dai metodi di indagine e dall’intenzione di chi fa il sondaggio.
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Chi sono gli agostiniani?
L’elezione del cardinale Robert Francis Prevost a Romano Pontefice, con il nome di Leone XIV, rappresenta una novità nella storia della Chiesa: è il primo papa dell’Ordine di sant’Agostino. Dopo Francesco, il primo pontefice gesuita, sale al soglio di Pietro per la prima volta un agostiniano. Nel discorso pronunciato la sera dell’elezione si è presentato così: «Sono un figlio di sant’Agostino, agostiniano».
Ci sono altre sorprese. Leone XIV è il primo pontefice nato negli Stati Uniti e anche il primo papa laureato in matematica; ha svolto gran parte del suo ministero apostolico in Perù, e quindi è anche un papa dell’America Latina; nel 2002 è stato eletto Priore generale dell’Ordine, un incarico che lo ha portato a visitare i numerosi agostiniani, sparsi un po’ dovunque nei cinque continenti. Papa Francesco, nel 2014, lo ha nominato Amministratore apostolico di Chiclayo, in Perù, e successivamente vescovo della stessa diocesi; nel 2023 lo ha chiamato a Roma come Prefetto del Dicastero per i vescovi.
La formazione religiosa di Leone XIV è dunque segnata da una profonda familiarità con la spiritualità agostiniana, abbracciata fin dagli anni della gioventù. La sua pastorale, ispirata alla Regola di sant’Agostino[1], pone l’accento sull’unità nella carità e sulla ricerca della verità, valori che ne hanno plasmato l’animo verso una missione universale nella Chiesa.
L’elezione ha richiamato l’attenzione sull’Ordine di sant’Agostino. Esso fa parte degli Ordini mendicanti, sorti tra il XII e il XIII secolo, che hanno adottato la Regola agostiniana. Questa comporta la «rinuncia a formarsi una famiglia per un’operosità in monastero, che fosse insieme modello e servizio di vita cristiana nella Chiesa. Con la salvezza della propria anima, attraverso una vita comune vissuta in povertà ed amicizia spirituale, ci si preoccupava anche dell’evangelizzazione in modo concreto ed organico, offrendo ai vescovi locali il servizio dell’officium praedicationis»[2]. Sono queste le caratteristiche dei domenicani (Ordo Praedicatorum), della scuola francescana di san Bonaventura, dei Servi di Maria, di altri ancora, e principalmente degli agostiniani.
L’Ordine di sant’Agostino
Gli agostiniani, giuridicamente, sono sorti dalla «Piccola unione» del 1244, quando Innocenzo IV fuse alcuni gruppi di eremiti della Tuscia che si ispiravano alla Regola agostiniana in un nuovo Ordine mendicante. L’Unione fu ratificata da Alessandro IV nel 1256 – la «Grande unione» – e i membri presero il nome di Eremitani di sant’Agostino[3]. L’Ordine, fin dall’inizio, riconosce sant’Agostino come padre e maestro, perché ne ha assunto la Regola, il nome e la spiritualità, e da quasi otto secoli è al servizio della Chiesa. Ma il modo in cui gli agostiniani si sono richiamati al loro padre, il loro «fondatore», e l’amore con cui ne hanno assimilato la spiritualità hanno creato un vincolo particolare, che li ha distinti dagli altri Ordini mendicanti: «Il richiamo a s. Agostino, divenuto sempre più vivo e profondo, fece di quest’Ordine […] l’unico e vero erede dell’ideale religioso del vescovo d’Ippona. La dottrina agostiniana sulla vita religiosa, unitamente alle caratteristiche proprie del movimento dei Mendicanti, form[ò] la spiritualità dell’Ordine su quattro punti basilari: comunità, interiorità, povertà ed ecclesialità, facendo una sintesi di nuovo e di antico. Il “nuovo” gli viene dall’essere stato fondato in un tempo così importante per la vita della Chiesa, quale fu il ricco e suggestivo secolo XIII; l’“antico” gli viene per la sua forma di vita, dall’essere chiaro riflesso di s. Agostino, uomo religioso della Chiesa, il quale, a buon diritto, può e deve essere chiamato Padre dell’Ordine agostiniano»[4]. Nel 1401 Bonifacio IX concesse agli Eremitani di fondare comunità femminili di agostiniane con la loro stessa Regola[5].
Verso la metà del XIV secolo, all’Ordine fu affidato l’incarico di Sacrista del Palazzo apostolico, con il compito di custodire e conservare i paramenti, i vasi sacri e le reliquie del Sacrario. Più tardi, alla fine del Cinquecento, Clemente VIII conferì al Sacrista la dignità episcopale. Nel secolo scorso, dal 1968 al 1991, gli fu data anche la funzione di Vicario generale del Papa per la Città del Vaticano. Ancora oggi gli agostiniani hanno la cura della Sagrestia Pontificia e della chiesa di Sant’Anna in Vaticano.
L’Ordine ha annoverato fin dalle origini diversi santi: il primo è stato san Nicola da Tolentino (1245-1305), canonizzato nel 1446; seguono santa Rita da Cascia (1381-1447), la santa del perdono e dei casi impossibili; san Giovanni Stone, martire inglese (†1539); san Tommaso da Villanova (1486-1555), consigliere dell’imperatore Carlo V e arcivescovo di Valencia; sant’Alonso de Orozco (1500-1591), scrittore e mistico; e altri ancora, fino al beato Stefano Bellesini (1774-1840), il primo parroco elevato, nel 1904, agli onori degli altari da san Pio X. Nella sua storia si contano anche numerosi martiri.
La storia degli agostiniani
Quattro sono i periodi principali in cui si può dividere la storia degli agostiniani: il primo, dalla fondazione alle Costituzioni di Ratisbona del 1290, fino al 1356; il secondo, fino alle Costituzioni di Seripando del 1551; il terzo, dal Concilio di Trento alla fine del Settecento; infine, gli ultimi secoli.
Il primo periodo si qualifica per l’ideale che le Costituzioni di Ratisbona pongono a fondamento della vita religiosa: lo studio della Sacra Scrittura e l’insegnamento spirituale di sant’Agostino. Essi sono «visti come quel bene (la cultura) che impedisce a chiunque abbia responsabilità di convertirlo in tirannia»[6]. Così Egidio Romano, alunno di san Tommaso a Parigi, presentava il valore dell’impegno culturale per chi volesse seguirne la Regola. E lo sviluppò con tanto vigore da avere una posizione di tutto rispetto all’Università, tanto che seppe trasformare la casa in cui studiavano i giovani agostiniani a Parigi in Studium generale dell’Ordine, che fu associato alla Sorbona e sopravvisse fino alla Rivoluzione francese.
Egidio Romano ebbe il grande merito di raccogliere l’eredità dell’Aquinate, che fu il protagonista del passaggio culturale dal platonismo all’aristotelismo, e in quel momento di cambiamento epocale ebbe l’onore di succedergli nella cattedra alla Sorbona. Fu anche nominato vescovo di Bruges da Bonifacio VIII e seppe testimoniare nella vita l’ideale del vescovo agostiniano voluto dal dottore di Ippona[7].
Le Costituzioni di Ratisbona prevedono, tra gli obblighi del Priore generale, una particolare attenzione agli studi: «Provveda attentamente agli studi, nei quali risiede il fondamento dell’Ordine, perché essi abbiano nell’intero Ordine la loro sollecita continuità»[8]. Occorre qui ricordare l’antico convento di Santo Spirito a Firenze, dove il teologo Luigi Marsili (1348-1394), amico di Petrarca, Salutati e Boccaccio, porta la fondazione all’avanguardia dell’Ordine e l’innesta nell’intreccio politico e culturale dell’Umanesimo fiorentino[9]. Più tardi è ospite del convento il giovane Michelangelo, il quale, per gratitudine, lascia in dono ai frati un pregevole Crocifisso ligneo che vi si può tuttora ammirare.
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Tra gli scritti degli agostiniani del tempo va ricordata un’opera pionieristica, il Milleloquium veritatis Augustini, avviato da Agostino da Ancona, completato da Bartolomeo da Urbino (†1350) e offerto al papa Clemente VI nel 1343-44: una monumentale concordanza di 15.000 passi dalle opere di Agostino, sintetizzati in circa 1.000 voci in ordine alfabetico (per esempio: abstinentia, ecclesia, fides, haeresis, lex ecc.), che illustrano il pensiero dell’Ipponese[10].
Alla fine del Quattrocento gli agostiniani contavano 27 province e 10 Congregazioni di Osservanti[11]: i conventi si estendevano dall’Ungheria e dalla Polonia fino al Portogallo, e da Cipro, Rodi, Corfù fino all’Irlanda. Nell’Ordine ebbero grande sviluppo lo Studium generale provinciae, gli Studia generalia Ordinis interprovinciali, come quelli di Bologna e Padova, e lo Studium curiae,che dipendeva dalla casa generalizia. Seguirono quelli di Firenze, Cambridge e Oxford, ma anche una serie di Studia nazionali in vari Paesi[12].
Il secondo periodo: la Riforma protestante e le «Costituzioni» di Seripando
All’inizio del Cinquecento, un Capitolo generale denuncia un certo rilassamento nell’Ordine, soprattutto a causa della peste nera che aveva falcidiato nel secolo precedente circa 5.000 frati, con conseguenze anche negli studi e nella vita monastica; perciò si insiste nell’esigere dai candidati al sacerdozio i buoni costumi, la competenza nel latino e le basi per comprendere il greco in modo da interpretare il Nuovo Testamento nel testo originale. La disposizione risale quasi certamente a Egidio da Viterbo, sensibile al nuovo tempo dell’Umanesimo e del Rinascimento.
L’eredità di Agostino ha determinato un imponente interesse per le opere del Padre e Maestro, documentato nel 1506 dalla pubblicazione a Basilea di tutte le sue opere, a cura dello stampatore Johann Amerbach[13]. Non esiste ancora il nome appropriato – Opera omnia – per quella edizione in 11 tomi in folio, segno di quanto fossero ricercati e apprezzati gli scritti del Santo. Se la prima opera a stampa di grande respiro è stata la Bibbia di Gutenberg, la seconda opera monumentale è quella che raccoglie tutti gli scritti del Dottore di Ippona in ordine cronologico e permette uno studio sistematico sul suo pensiero[14]. Nel 1516 è apparso il Novum Testamentum di Erasmo da Rotterdam, un volume di oltre un migliaio di pagine, che in quel secolo ha avuto cinque edizioni con 205 ristampe: è il manuale di base necessario per l’esegesi della parola di Dio e per la teologia[15]. L’interesse e l’attenzione per lo studio, quale fondamento dell’Ordine, era il servizio qualificato reso dagli agostiniani alla Chiesa, al passo con i tempi e con la cultura.
Dal 1517 va ricordata la Riforma protestante, che ha preso l’avvio a Wittenberg con Martin Lutero, un frate agostiniano degli Osservanti, docente di Sacra Scrittura all’Università. Egli era preoccupato per il modo ciarlatanesco con cui venivano predicate le indulgenze nei dintorni dell’elettorato di Sassonia e per la foga con cui le persone vi si recavano per acquistare le lettere indulgenziali. Perciò scrisse una lettera al responsabile delle indulgenze, Alberto di Brandeburgo, arcivescovo di Magonza. In essa denunciava una predicazione irresponsabile, ingannevole per la coscienza dei fedeli, che prometteva la liberazione delle anime dal purgatorio e una falsa sicurezza per la propria salvezza: nessuno è sicuro di potersi salvare. Con discrezione e rispetto, Lutero ricordava all’arcivescovo che al popolo si devono predicare il Vangelo, le opere di carità e la preghiera, piuttosto che le indulgenze. Gli chiedeva perciò di revocare le istruzioni date ai predicatori.
Alla lettera vengono allegate le 95 Tesi, per mostrare come sia cosa insicura la concessione delle indulgenze, e un trattato De indulgentiis,per chiarirne i problemi[16]. Inoltre si chiede un incontro con l’arcivescovo per una sincera riflessione di fede. Da qui ha origine la leggenda dell’affissione delle Tesi nella chiesa del castello di Wittenberg, presentate come se fossero una sfida alla Chiesa, quando invece esse erano una richiesta di chiarificazione[17]. Purtroppo l’arcivescovo non prestò attenzione alla lettera e non ne colse la sincerità; anzi, ne fu indignatissimo, tanto che denunciò Lutero a Roma per diffusione di nuove dottrine. Il papa Leone X non prese sul serio la situazione e seguì il consiglio di scomunicare Lutero per aver criticato le indulgenze approvate da Roma: fu l’inizio della Riforma protestante.
Ci furono conseguenze nel Concilio di Trento, nel 1546. Anche se Lutero morì due mesi dopo la convocazione dell’assemblea, furono presi di mira gli agostiniani, tra i quali Girolamo Seripando, Priore generale dal 1539. Questi conosceva i grandi scritti programmatici di Lutero e aveva redatto un progetto di giustificazione per fede, per correggere l’impostazione luterana. Per i suoi interventi, fu accusato dal vescovo greco Dionigi Zanetti di essere dalla parte dell’eretico. La denuncia non ebbe seguito, tanto che Seripando fu incaricato di scrivere il testo finale del Decreto sulla giustificazione. Tuttavia, quell’accusa puntava in alto: secondo Zanetti, non solo il Priore generale, ma tutto l’Ordine agostiniano era contagiato dalla dottrina di Lutero[18]. In ogni caso, anche a causa delle opere del riformatore del 1521 contro i voti monastici, furono numerosi i frati che abbandonarono la vita religiosa: dei 160 conventi dell’inizio del Cinquecento ne rimasero 91[19].
Si può così comprendere la decisione di Seripando di riformare l’Ordine. Nel 1551, rinnovando le Costituzioni, tracciò un moderno programma di studi, giunto fino ai nostri giorni, mettendone da parte la precedente impostazione medievale e ristrutturandola su base umanistica, filosofica e teologica. Adeguò le biblioteche delle case di formazione alle nuove esigenze e ne formulò la motivazione secondo le direttive di sant’Agostino. Perciò raccomandò anche la vita comune, la buona preparazione spirituale e scientifica dei giovani, la severità nel promuovere i candidati al sacerdozio e la distribuzione degli incarichi solo a persone degne.
Ci furono conseguenze anche nei Capitoli generali dell’Ordine. Dalla fine del Quattrocento in poi essi «si sono tenuti tutti in Italia, con pregiudizio del carattere internazionale dell’Ordine. […] Tale carattere si è manifestato molto meglio nei primi tre secoli della […] storia che negli ultimi cinque»[20].
Quando nel 1551 Seripando lasciò il generalato, gli agostiniani, grazie alla sua opera riformatrice, si trovarono in condizioni decisamente migliori, tanto che egli poteva affermare: «Per essere veramente osservanti è necessario dedicarsi con diligenza al servizio di Dio e allo studio ordinato al bene delle anime»[21]. Dopo aver faticato 13 anni per rinnovare la vita religiosa, concludeva che «la riforma è una cosa che si fa sempre e che non è mai fatta»[22].
Negli anni successivi al Tridentino sono riconoscibili i frutti dell’impegno di Seripando e dei suoi successori. L’Ordine vive un rinnovamento, e se ne vedono i risultati, non solo nell’aumento numerico dei membri, ma anche nelle molte richieste pastorali che essi ebbero dai vescovi. Diversi agostiniani furono chiamati per la predicazione e per l’insegnamento della teologia. San Carlo Borromeo li volle a Milano per partecipare ai lavori del Concilio provinciale del 1565, affidando loro la parte relativa all’amministrazione dei sacramenti e alla liturgia della Messa[23]. Nel 1602, il Priore generale Ippolito Fabriani, in visita ai conventi della Campania, ringraziò l’arcivescovo di Capua, san Roberto Bellarmino, per la stima che aveva mostrato nei confronti del suo Ordine[24].
Va segnalato anche il successo che ebbero le missioni nelle Americhe e in Oriente: tra il 1533 e il 1610, gli agostiniani spagnoli fondarono missioni in Messico, Perù, Ecuador, Colombia, Venezuela, Cile e nelle Filippine, nel 1602 in Giappone, e nel 1680 in Cina; quelli portoghesi in India e nell’Africa orientale e Madagascar[25].
Il movimento di riforma carmelitano di santa Teresa d’Ávila, nel 1612, favorì in Spagna il sorgere di un nuovo istituto, i Recolletti di sant’Agostino, fino a diventare una Congregazione autonoma all’interno dell’Ordine. A Napoli, nel 1592, sorse la Congregazione degli Agostiniani scalzi, che dall’Italia si estesero in Francia, in Boemia, in Moravia, in Austria e Germania ed ebbero anche diverse missioni. Più tardi sorse il Terz’Ordine agostiniano per i laici che si ispiravano alla spiritualità del Santo fondatore.
Il terzo periodo
I secoli XVII e XVIII segnano l’affermazione della scuola degli agostiniani in campo antropologico. L’uomo è ancorato nella storia e ne è il protagonista; è soggetto al divenire, in cui scopre l’umana fragilità e i suoi limiti. Ma è anche bisognoso di Dio e della salvezza, e senza Dio rimane privo del proprio bene e della propria vera identità. Scriveva in proposito Maurice Blondel nel 1930: «Il rapporto che Agostino ha concepito tra il pensiero e la vita, tra la speculazione e l’esperienza, tra la scienza e la fede, tra la libertà e la grazia, tra l’umiltà e la carità fa della sua dottrina un dramma spirituale che si perpetua in ogni coscienza attraverso tutta la storia sino all’eternità. Esso tende a fare di noi degli attori piuttosto che degli spettatori»[26]. E Henri-Irénée Marrou affermava nel 1960: «In questo sant’Agostino eccelle, in questo è veramente ammirevole: nessuno ha fatto progredire quanto lui la conoscenza dei problemi essenziali nella vita interiore dell’uomo»[27].
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Per questa impostazione antropologica l’Ordine ebbe diverse contestazioni da parte di cattolici e di religiosi, i quali avanzarono perfino la proposta di censurare alcune formulazioni di sant’Agostino, quando nel 1679 prese l’avvio la pubblicazione delle sue opere nella Patrologia latina dei Maurini.
Bisogna segnalare anche la grande espansione dell’Ordine fino alla metà del XVIII secolo: nel 1545 gli agostiniani erano circa 8.000, mentre, un secolo dopo, contavano più di 12.000 membri[28]. L’aumento era dovuto alla restaurazione di alcune province d’Europa – quelle di Colonia, Baviera e Austria – e alla formazione di nuove province nell’America spagnola e nelle Filippine.
Gli ultimi secoli
Le difficoltà che la Chiesa incontrò dopo l’Illuminismo e la Rivoluzione francese colpirono anche gli agostiniani. Nel XIX secolo non fu più possibile celebrare i Capitoli generali. Dal 1806, durante la dominazione napoleonica, la soppressione degli Ordini religiosi e l’incameramento dei beni ecclesiastici segnarono drammaticamente la vita dei religiosi.
Gli agostiniani subirono la perdita di molti conventi con il loro patrimonio librario, soprattutto in centro Europa e in Inghilterra, ma si dedicarono con passione alla conservazione e all’arricchimento delle biblioteche rimaste. Queste ebbero una nuova destinazione: furono aperte a tutti coloro che volevano usufruirne, religiosi e laici. Già nelle Costituzioni del 1581, aggiornate sul Concilio di Trento dal Priore generale Taddeo Guidelli, veniva detto che le biblioteche costituiscono il tesoro più prezioso dei conventi: sono necessarie per lo studio, e quindi occorre avere per esse una cura particolare.
Se non sono rari i rimproveri dei superiori per i bibliotecari poco diligenti, per chi trascura l’ordine e la pulizia delle sale, per chi vende codici antichi di grande valore per comprare libri stampati, sono frequenti anche gli elogi e il sostegno per i frati che hanno a cuore il lavoro di bibliotecario, che è, sì, utile per l’Ordine, ma anche per i cultori del sapere. C’era stato l’esempio di Seripando, il quale fece costruire nel suo convento di San Giovanni da Carbonara, al centro di Napoli, una sala spaziosa dove i confratelli, ma anche «tutti gli studiosi della città»[29], potessero consultare i preziosi manoscritti e i volumi. A Roma, il vescovo agostiniano Angelo Rocca, d’accordo con il Priore generale e con Paolo III, fondò nel 1605, accanto alla chiesa di Sant’Agostino, la prima biblioteca pubblica a servizio dei cittadini, chierici e laici. Se all’inizio del Cinquecento essa contava 1.500 volumi, nel 1626 – quando ebbe il nome di «Biblioteca Angelica» –, ne custodiva più di 22.000, grazie alla cura diligente e al lascito del vescovo[30]. Ma vi furono altri casi, quali la biblioteca del convento di Santo Spirito a Firenze e quelle dei conventi di Padova, Saragozza, Siviglia e Coimbra. Era la realizzazione concreta di un antico desiderio espresso da sant’Agostino quando era vescovo d’Ippona.
Nonostante i tempi difficili, non sono mancati agostiniani che hanno dato il loro contributo alla cultura europea: Giulio Accetta († 1752), matematico e astronomo, titolare della cattedra di matematica all’Università di Torino; Gian Michele Cavalieri († 1757), grande storico della liturgia con l’Opera omnia liturgica del 1778; Enrico Flórez (†1773), che pubblicò 27 volumi di España Sagrada; Gregor Mendel († 1884), biologo, matematico e botanico, che è stato il padre della scienza genetica moderna[31].
Anche coloro che per le persecuzioni dovettero fuggire al di là dell’Atlantico portarono frutti insperati. Gli agostiniani irlandesi giunsero a Filadelfia alla fine del XVIII secolo e fondarono nel Nord America le quattro province tuttora esistenti. Nel 1838 un altro confratello irlandese approdò in Australia, creandovi il primo convento dell’attuale provincia.
Con la soppressione degli Ordini religiosi e la conseguente secolarizzazione, in Germania vennero meno tre fiorenti province. Si salvò il convento di Münnerstadt, un piccolo paese della Baviera, con la chiesa agostiniana del XIII secolo. Con la guerra dei contadini, al tempo di Lutero, i frati dovettero fuggire a Würzburg, dove fondarono un ospizio; alla fine dell’Ottocento ritornarono a Münnerstadt, che, da allora, è il punto di riferimento per la provincia tedesca. In Portogallo scomparvero tutti i conventi, e in Spagna è sopravvissuto solo quello di Valladolid: vi si formavano i sacerdoti per il Nuovo Mondo. In Polonia, dal 1864 era rimasto solo il convento di Kraków; in Italia, molti conventi furono chiusi e incamerati dallo Stato[32].
Con l’inizio del XX secolo si ha la rinascita degli agostiniani. In Germania riprende vita la provincia di Baviera, e quasi contemporaneamente quelle olandese e belga. Anche in Spagna c’è una rinascita dei conventi. Intanto la provincia tedesca rifonda le missioni nel Nord America e in Canada che, verso la metà del secolo, divengono province indipendenti.
Gli agostiniani oggi
L’Ordine di sant’Agostino è presente in tutto il mondo con circa 2.340 membri in 47 Paesi, con 400 case tra conventi, parrocchie, studentati e sedi di formazione[33]. Gli agostiniani si dedicano non solo all’insegnamento e alla predicazione, ma anche alla vita parrocchiale, ai santuari, alle opere sociali per i poveri, i migranti e gli anziani. Il loro motto, Charitas et Scientia,indica l’armonia tra vita comunitaria, studio e dedizione ai fratelli.
Anche in Italia si segnala la ripresa degli agostiniani, e vanno ricordati alcuni eminenti studiosi. Innanzitutto, p. Agostino Trapè (1915-1987), uno straordinario cultore di scienze patristiche, docente all’Università Lateranense, che ha ideato e diretto la Nuova Biblioteca Agostiniana: ha pubblicato l’Opera Omnia di sant’Agostino in edizione bilingue latino-italiano[34]. È stato Priore generale dell’Ordine, e a lui si deve la fondazione dell’Istituto Patristico Augustinianum di Roma nel 1969, alla cui inaugurazione volle intervenire di persona papa Paolo VI[35]. Poi va ricordato p. Prosper Grech (1925-2019), creato cardinale da Benedetto XVI, studioso del Nuovo Testamento, docente all’Università Gregoriana e all’Istituto Biblico di Roma, preside dell’Augustinianum e consultore del Dicastero per la dottrina della fede.
Va rilevata infine l’attualità di sant’Agostino nel Concilio Vaticano II. Il vescovo di Ippona ha avuto un influsso sulla spiritualità conciliare, che ha dato all’antropologia del Santo un posto di rilievo. «Nella [Costituzione] Lumen Gentium, il Concilio ha sottolineato come un finalismo soprannaturale muova la Chiesa, l’umanità e il mondo, intimamente congiunto con l’uomo verso il raggiungimento di un fine comune (7,48). Nella Gaudium et Spes poi vengono approfonditi gli elementi comuni ad ogni uomo. Questi, immagine di Dio, ha in essa la spiegazione della sua grandezza, delle sue responsabilità, del suo dinamismo verso Dio e del suo bisogno di redenzione in Cristo (1-2, cc. 1-4)»[36].
Sull’origine di questi temi, un agostiniano studioso del grande Padre ha affermato: «Difficilmente si troverà un’esposizione più sintetica dell’antropologia agostiniana di quella offerta dal Concilio nella Costituzione apostolica Gaudium et spes. Basti dire soltanto delle aspirazioni universali di tutti gli uomini […] alla giustizia e all’amore, a una più matura coscienza e responsabilità, così come alla felicità, alla cultura e a tutti i valori trascendenti. […] Quando il Concilio, dopo i cambiamenti del mondo, comincia a considerare l’uomo in sé stesso, nella comunità e nella sua attività, si manifesta agostiniano»[37].
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[1] Cfr Agostino d’Ippona, Regula ad servos Dei. La Regola, in Opere di sant’Agostino, VII/2,Roma, Città Nuova, 2001, 29-49. La Regola risale intorno all’anno 400.
[2] V. Grossi, «L’influsso – Il futuro – Le prospettive», in V. Grossi – L. Marín – G. Ciolini, Gli Agostiniani. Radici, storia, prospettive, Palermo, Augustinus, 1993, 192.
[3] Ordo Eremitarum Sancti Augustini. Cfr L. Marín, «La storia. Dalla morte di S. Agostino al 1244-1256», in V. Grossi – L. Marín – G. Ciolini, Gli Agostiniani…, cit., 117-140. L’unione ha riguardato gli eremiti della Tuscia, quelli di Monte Favale, di Brettino e dei Giamboniti. I Guglielmiti, invece, dopo una prima adesione, decisero di tornare alla Regola di san Benedetto.
[4] Ivi, 187 s.
[5] Cfr M. Rodriguez, «Monache Agostiniane», in Enciclopedia Cattolica, vol. I, Città del Vaticano – Firenze, Ente per l’Enciclopedia Cattolica, 1949, 501 s.
[6] Costituzioni di Ratisbona, 40. Cfr Egidio Romano, De regimine principum III, 2, 8, in Il «Livro del governamento dei re e dei principi» secondo il codice BNCF II.IV.129, vol. I, Bologna, ETS, 2016, 537.
[7] Cfr G. Pani, «“Il Vangelo mi spaventa”. Il buon vescovo secondo sant’Agostino», in Civ. Catt. 2015 II 117-130.
[8] G. Ciolini – V. Grossi, «Gli Agostiniani e le mediazioni culturali», in V. Grossi – L. Marín – G. Ciolini, Gli Agostiniani…, cit., 250.
[9] Cfr ivi, 217 s.
[10] Cfr D. Aurelii Augustini Milleloquium veritatis, à F. Bartholomaeo de Urbino digestum, Lugduni, M. Bonhomme, 1555.
[11] Le Congregazioni di Osservanti si proponevano di vivere rigorosamente le prescrizioni della Regola e delle Costituzioni, senza gli abusi che si erano introdotti nelle province. Delle 10 Congregazioni di Osservanti, una si trovava in Germania (a Erfurt), le altre in Italia. Cfr D. Gutiérrez, Storia dell’Ordine di Sant’Agostino. II. Gli Agostiniani dal protestantesimo alla riforma cattolica (1518-1648), Roma, Institutum Historicum Ordinis Fratrum S. Augustini, 1972, 87 s.
[12] Questi si trovavano a Roma, Napoli, Siena, Milano, Vienna, Magonza, Colonia, Bruges, Metz, Strasburgo, Lione, Montpellier e Tolosa. In Italia, i più antichi e migliori Studi generali rimasero quelli di Padova, Bologna, Roma e Napoli.
[13] Ogni tomo ha il suo titolo proprio. Nel frontespizio del primo tomo si legge: Prima pars librorum divi Aurelii Augustini quos edidit cathecuminus. Furono stampati 2.200 esemplari in 11 tomi, ma i primi tre costituiscono un volume, per cui si ha un insieme di 9 volumi. Cfr Chronicon Conradi Pellicani Rubeaquensis (del 1544), Bâle, B. Riggenbach, 1877, 27.
[14] Cfr G. Pani, Paolo, Agostino, Lutero: alle origini del mondo moderno, Soveria Mannelli (Cz), Rubbettino, 2005, 77-81.
[15] Ivi, 37-44. La prima edizione era intitolata Novum Instrumentum, che traduceva alla lettera il titolo greco kainē diathēkē. Ma nella seconda edizione, in seguito alle critiche che gli furono rivolte, Erasmo riportò il titolo tradizionale.
[16] Cfr G. Pani, Lutero tra eresia e profezia, Bologna, EDB, 2017, 84-97.
[17] Cfr Id., «L’affissione delle 95 Tesi di Lutero: storia o leggenda?», in Civ. Catt. 2016 IV 213-226. Dell’affissione delle 95 Tesi non si ha una documentazione storica coeva, ma se ne parla per la prima volta un secolo dopo.
[18] Cfr H. Jedin, Storia del Concilio di Trento. II. Il primo periodo 1545-1547, Brescia, Morcelliana, 1974, 209 s.; Concilium Tridentinum Diariorum, Actorum, Epistolarum Tractatuum nova collectio,X, Freiburg i. Br., Herder, 1916, 539: lettera di Zanetti al cardinale A. Farnese, 25 giugno 1546.
[19] Cfr W. Eckermann, «Augustiner-Eremiten», in Lexikon für Theologie und Kirche, vol. I, Freiburg – Basel – Roma ecc., Herder, 1993, col. 1234.
[20] D. Gutiérrez, Storia dell’Ordine di Sant’Agostino, II, cit., 81.
[21] Ivi, 59.
[22] Ivi, 90.
[23] Cfr ivi.
[24] Cfr ivi.
[25] Cfr W. Eckermann, «Augustiner-Eremiten», cit., 1234; D. Gutiérrez, Storia dell’Ordine di Sant’Agostino, II, cit., 245-282.
[26] M. Blondel, «L’unité originale et la validité permanente de sa doctrine philosophique», in Revue de Métaphysique et de Morale 37 (1930) 466; cfr V. Grossi, «L’influsso – Il futuro – Le prospettive», cit., 199.
[27] H.-I. Marrou, Sant’Agostino, Milano, Mondadori, 1960, 81.
[28] Cfr D. Gutiérrez, Storia dell’Ordine di Sant’Agostino, II, cit., 115; 120 s.; 88.
[29] Ivi, 207.
[30] Cfr ivi, 206.
[31] Cfr G. Ciolini – V. Grossi, «Gli Agostiniani e le mediazioni culturali», cit., 252 s.
[32] Cfr W. Eckermann, «Augustiner-Eremiten», cit., 1235.
[33] Cfr Annuario Pontificio per l’anno 2025, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2025, 1624.
[34] Cfr Agostino d’Ippona, s., Nuova biblioteca agostiniana. Tutte le Opere, Roma, Città Nuova, 1965-2005. L’opera si compone di 70 volumi, in carta india, rilegati in tela.
[35] Cfr G. Ciolini – V. Grossi, «Gli Agostiniani e le mediazioni culturali», cit., 256.
[36] V. Grossi, «L’influsso – Il futuro – Le prospettive», cit., 197.
[37] Ivi, 197. Cfr J. Morán, «Presenza di S. Agostino nel Concilio Vaticano II», in Augustinianum 6 (1966) 484 s. Si può anche ricordare che Joseph Ratzinger-Benedetto XVI è stato un grande studioso e cultore di sant’Agostino; i riferimenti al Santo nelle sue opere teologiche e nelle sue omelie sono nettamente più numerosi di quelli ad altri Padri della Chiesa.
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L’assistenza pastorale agli studenti internazionali
Introduzione
A partire dagli anni Novanta, l’internazionalizzazione e la globalizzazione dell’istruzione superiore hanno fatto registrare una tendenza significativa. Il numero totale degli studenti internazionali presso gli istituti di istruzione superiore degli Stati Uniti, per esempio, ha raggiunto un livello record nell’anno accademico 2023-24, superando 1,1 milioni, e ora costituisce il 6% della popolazione totale dell’istruzione superiore degli Usa[1]. Nell’anno accademico 2022-23, le università del Regno Unito hanno ospitato un totale di 758.855 studenti internazionali, di cui 663.355 provenienti da regioni extra-Ue[2]. Nel 2023 il Canada ha calcolato un totale di 1.040.985 studenti stranieri nei vari livelli di istruzione[3]. A settembre 2024, il numero di studenti esteri iscritti in Australia ha toccato quota 1.018.799, con un aumento del 16% rispetto al 2019[4]. Oltre alle nazioni menzionate, anche altre, come la Corea del Sud, la Germania, la Francia e i Paesi Bassi, hanno attratto un numero considerevole di studenti provenienti da altri Paesi[5].
Lo sviluppo continuo dell’economia globale ha profondamente influenzato i modelli di sviluppo educativo in tutto il mondo, e al tempo stesso ha presentato nuove criticità alla società e alla cultura internazionale. La civiltà e l’istruzione globalizzate costituiscono un elemento cruciale nel percorso della storia mondiale: rappresentano sia una missione storica sia l’obbligo di connettersi al mondo e comprenderlo, nonché una forza trainante per promuovere il dialogo e il progresso in diversi campi.
L’ondata di studenti che oggi studiano all’estero, così come i gruppi universitari che compiono viaggi in altre sedi per studi specialistici e visite accademiche, ha raggiunto le istituzioni cattoliche in tutto il mondo ed è arrivata alle nostre porte. Non è forse il caso che le università cattoliche ripensino e rivalutino la loro missione e vocazione in questo particolare momento e in risposta a tali sviluppi? E quali efficaci metodologie educative possono adottare le istituzioni cattoliche per fornire assistenza pastorale agli studenti internazionali?
Questo articolo esamina anzitutto le sfide affrontate da questi studenti e il crescente numero delle loro iscrizioni in istituzioni cattoliche. Quindi analizza come le università cattoliche possano sostenere e promuovere efficacemente la missione della Chiesa, fornendo una migliore assistenza pastorale e di supporto a questi studenti. Traendo ispirazione dagli insegnamenti della Chiesa, come l’enciclica Fratelli tutti, invita le università cattoliche a rafforzare sotto svariati aspetti il loro impegno nei confronti degli studenti internazionali. Infine, presenta un case study che mette in luce pratiche esemplari di assistenza pastorale per questa specifica popolazione studentesca.
Principali sfide affrontate dagli studenti internazionali
I giovani che studiano e vivono all’estero affrontano ostacoli considerevoli nel loro adattamento culturale, che spesso entra in conflitto con la preservazione della loro identità culturale. Essi si trovano a fronteggiare barriere linguistiche, sociali e culturali che non comportano solo difficoltà accademiche, ma li fanno sentire anche socialmente isolati, e questo fatto mette in crisi la loro integrazione nella società. Costretti ad adattarsi a nuove norme sociali e culturali, essi tuttavia sono riluttanti ad abbandonare completamente la loro identità culturale. Questo conflitto tra l’adattamento e il mantenimento della loro cultura tradizionale diventa un fardello psicologico notevole. Talvolta essi preferiscono associarsi con coetanei del loro Paese di origine per mantenere la prossimità e trovarsi a loro agio, ma questo comportamento crea una divisione tra loro e gli studenti locali o altri studenti di diversa nazionalità e condiziona ulteriormente la loro capacità di integrarsi nella società.
Inoltre, talvolta gli studenti internazionali si trovano ad affrontare ostacoli quali razzismo, xenofobia e stereotipi culturali, come pure trattamenti disuguali in materia di alloggio, occupazione e interazioni sociali, ai quali possono aggiungersi anche difficoltà a sostenere i propri diritti e a garantirsi un trattamento equo. L’impresa di impostare il percorso della propria carriera in una società straniera può rivelarsi ardua, accrescendo negli studenti sentimenti come l’incertezza e l’ansia. Essi devono confrontarsi non solo con potenziali pregiudizi da parte dei datori di lavoro riguardo all’assunzione di candidati stranieri, ma anche con le notevoli pressioni che avvertono da parte dei loro genitori, i quali considerano lo studio all’estero un trampolino di lancio per lo sviluppo della carriera dei propri figli.
Queste dinamiche interpersonali vengono ulteriormente complicate dalle relazioni geopolitiche: in particolare, i cambiamenti nella diplomazia internazionale spesso si ripercuotono direttamente sulle politiche riguardanti i visti e sull’ambiente di studio. In sostanza, si tratta di sfide multiformi, che illuminano la necessità, da parte delle istituzioni educative cattoliche e di altre entità accademiche, di fornire solidi sistemi di supporto, che promuovano l’inclusività, la comprensione, la solidarietà e la sicurezza per gli studenti internazionali, in un panorama politico e sociale globale sempre più complesso.
Gli studenti internazionali nelle istituzioni cattoliche
Dal punto di vista delle istituzioni cattoliche, gli studenti internazionali possono essere generalmente suddivisi in due categorie principali. La prima comprende i giovani cattolici che studiano all’estero presso università cattoliche e desiderano assistenza e supporto pastorale, o comunque ne hanno bisogno. La seconda categoria, sulla quale si concentra questo articolo, è composta da studenti che non sono cattolici. Questo gruppo rappresenta la maggioranza dei fuorisede all’estero, compresi quelli provenienti da Paesi come Cina, India, Giappone e Corea.
Questi studenti, che inizialmente per lo più non condividono la fede cattolica, costituiscono un’importante opportunità di coinvolgimento. Le loro interazioni con gli educatori cattolici, i coetanei e la comunità ecclesiale possono portarli ad apprezzare i valori, la missione e le prospettive cattoliche. Alcuni di loro possono persino desiderare di conoscere la religione più profondamente, dando luogo a potenziali conversioni. In altri l’esperienza presso istituzioni cattoliche può infondere una comprensione duratura e il rispetto per gli insegnamenti e i valori cattolici, che essi manterranno nella loro vita personale e professionale, divenendo ambasciatori informali o collaboratori della missione cattolica.
Iscrizione degli studenti internazionali nelle università cattoliche
Al momento della domanda d’iscrizione o anche in seguito, la maggior parte degli studenti internazionali e dei loro genitori non è a conoscenza della caratterizzazione cattolica di tali istituzioni. La loro scelta, infatti, si basa spesso sulla reputazione della scuola e sui risultati educativi. Ho intervistato centinaia di studenti internazionali dalla Cina, India, Sud Corea, Vietnam, Filippine e Canada e i loro familiari sulle ragioni per cui hanno scelto istituzioni cattoliche: molti genitori sono attratti dalla centralità accordata alle arti liberali e all’istruzione olistica, che dà priorità non solo all’eccellenza accademica, ma anche alla formazione del carattere e all’apprendimento basato sui valori. Essi ritengono che tali istituzioni favoriscano insieme la crescita intellettuale e lo sviluppo morale, in linea con le aspirazioni che essi nutrono per i loro figli. Inoltre, molti genitori sottolineano la cultura accogliente e inclusiva che si respira nei campus delle università cattoliche, dove gli studenti sperimentano un forte senso di valorizzazione personale e di comunità. Questo ambiente di sostegno svolge un ruolo cruciale nell’aiutare gli studenti internazionali alle prime armi ad adattarsi a un nuovo Paese e ad affrontare le problematiche incontrate da chi studia all’estero.
A questi studenti le istituzioni cattoliche offrono più che semplici opportunità accademiche: fungono da vie di accesso verso una comprensione più profonda della fede e dei valori spirituali. Attraverso la partecipazione alle attività religiose del campus e l’immergersi nella tradizione delle arti liberali delle università affiliate alla Chiesa, gli studenti incontrano a poco a poco i valori del Vangelo e lo spirito di servizio promosso dall’istruzione cattolica. Non è detto che i loro percorsi di fede personali portino a una conversione ufficiale, e tuttavia le esperienze vissute nelle istituzioni cattoliche ampliano le loro prospettive culturali e promuovono un dialogo significativo con la tradizione cattolica, alimentando comprensione e rispetto reciproci.
Per promuovere una maggiore comprensione è essenziale sviluppare strategie personalizzate di cura pastorale e di coinvolgimento, che affrontino le diverse esigenze degli studenti internazionali cattolici e non. Quando favoriscono l’inclusione, la crescita spirituale, il dialogo e l’arricchimento reciproco, le istituzioni cattoliche creano un ambiente accogliente in cui gli studenti non solo ricevono una formazione accademica, ma sperimentano anche i valori ecclesiali di servizio, compassione e ricerca intellettuale.
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Guida dagli insegnamenti della Chiesa
Due documenti fondamentali della Chiesa forniscono una guida e ispirazioni preziose a chi intende riesaminare la missione e il significato della cura pastorale per gli studenti internazionali: l’enciclica Fratelli tutti[6] e l’istruzione L’identità della scuola cattolica per una cultura del dialogo[7].
Ponendosi davanti a un contesto globale in continua evoluzione, papa Francesco ha dedicato l’enciclica Fratelli tutti, pubblicata nel 2020, ai temi della fraternità globale, della giustizia sociale, della responsabilità condivisa e del dialogo culturale, nell’intento di promuovere un mondo più unito, equo e compassionevole. L’enciclica evidenzia le problematiche sociali che il mondo deve affrontare oggi, tra cui spiccano il divario crescente tra ricchi e poveri, il degrado ambientale, il razzismo, l’esclusione e la divisione sociale. Francesco afferma esplicitamente che, sebbene in tutto il mondo siano presenti diverse culture, fedi e stili di vita, queste differenze non dovrebbero costituire delle barriere, ma piuttosto delle opportunità per promuovere la comprensione reciproca e la cooperazione. Al fine di perseguire la pace e la giustizia, egli sottolinea il ruolo essenziale del dialogo e della cooperazione, dichiarando che nazioni, popoli e culture devono superare differenze e conflitti attraverso una maggiore comprensione e rispetto. Esorta in particolare la Chiesa e i suoi fedeli a svolgere un ruolo attivo in questo sforzo, incarnando lo spirito cristiano di carità e contribuendo alla realizzazione della giustizia sociale e della pace globale. Inoltre, Francesco esorta a porre una maggiore attenzione alle questioni globali della migrazione e dei rifugiati, che considera urgenti e bisognose di una soluzione immediata. Esorta i governi e le società a mostrare maggiore empatia e accettazione verso i migranti, a evitare di escluderli e discriminarli, a offrire loro maggiore protezione e sostegno.
Le scuole cattoliche sono chiamate a favorire
il dialogo a livello religioso, culturale e sociale,
diffondendo la pace.
Nel 2022 l’allora Congregazione per l’educazione cattolica della Santa Sede ha pubblicato un documento sull’educazione cattolica intitolato L’identità della scuola cattolica per una cultura del dialogo. In esso viene ricordato che, se è vero che le scuole cattoliche devono rimanere fedeli alla loro identità religiosa, è altrettanto vero che esse sono tenute a rispettare i bagagli culturali e religiosi di tutti i loro studenti, promuovendo la comprensione della diversità e della cittadinanza globale. Le scuole cattoliche sono chiamate a favorire il dialogo a livello religioso, culturale e sociale, diffondendo la pace, la giustizia e l’inclusività attraverso la comprensione e il rispetto. Esse dovrebbero incoraggiare i loro studenti ad apprezzare e a rispettare il multiculturalismo attraverso programmi di studio, attività artistiche e servizi alla comunità. Il documento ricorda inoltre che le scuole cattoliche non sono meri luoghi di trasmissione della conoscenza, ma anche preziose piattaforme vitali da cui diffondere amore, pace, dialogo e comprensione reciproca, e dove far crescere leader sociali e cittadini globali.
La continuazione della missione della Chiesa
Fin dal XVI secolo, quando san Francesco Saverio iniziò il suo viaggio verso l’Oriente, la Chiesa cattolica è stata profondamente impegnata nella propagazione della fede e nella promozione dello scambio culturale in Asia. Quello storico viaggio ha aperto la strada a un’istruzione concepita non soltanto come un mezzo per la trasmissione della fede, ma anche come un ponte per l’integrazione delle culture orientale e occidentale. Tuttavia, negli ultimi decenni è diventato evidente come, malgrado decine di milioni di studiosi e studenti internazionali abbiano attraversato il mondo creando ponti per lo scambio educativo e culturale tra Oriente e Occidente, per la maggior parte le istituzioni ospitanti non abbiano sviluppato un’assistenza pastorale o servizi a loro dedicati.
Questa carenza costituisce un’occasione mancata per l’evangelizzazione da parte delle università cattoliche e delle diocesi locali. Esse infatti, non prestando sufficiente attenzione alle esigenze pastorali degli studenti internazionali, perdono l’opportunità di dare vita al dialogo sociale, alla collaborazione e a una cultura dell’incontro. Insomma, il messaggio e le raccomandazioni dell’enciclica Fratelli tutti non sono stati pienamente accolti al momento di affrontare tali sfide.
Sfide nella cura pastorale per gli studenti internazionali
Interviste fatte a oltre 100 operatori diocesani della gestione pastorale e a più di 400 amministratori scolastici e personale delle cappellanie universitarie mostrano che in pochi hanno risposto in modo proattivo alle peculiari esigenze pastorali degli studenti internazionali; non sono stati molti quelli che hanno riconosciuto l’importanza di costruire ponti di dialogo e incontro culturale per questi studenti.
Le ragioni di ciò sono diverse. Gli intervistati hanno spesso affermato che i loro servizi pastorali si rivolgono principalmente a studenti con un retroterra cristiano, e che si dà per scontato che la maggior parte degli studenti provenienti da altri Paesi non siano religiosi, e quindi non siano interessati a un’assistenza spirituale personalizzata. Inoltre, le limitate risorse di cui dispongono molte università e istituzioni cattoliche impediscono loro di creare apposite équipe pastorali per soddisfare le esigenze degli studenti internazionali. Le comunità protestanti, al contrario, hanno fatto passi enormi nella comprensione interculturale, nell’evangelizzazione e nell’assistenza pastorale, dimostrando un grande entusiasmo e traducendolo in azioni concrete per aiutare gli studenti internazionali, in particolare quelli provenienti dall’Asia.
All’interno delle diocesi e delle università cattoliche, in seguito a queste difficoltà, permane una seria lacuna nei servizi pastorali rivolti agli studenti internazionali. Gli sforzi pastorali della Chiesa in questo ambito non sono stati considerati abbastanza prioritari, cosicché di rado sono stati presi in considerazione i bisogni spirituali, sociali ed emotivi di tali studenti.
Ottimizzazione dei programmi per un’assistenza pastorale efficace
Poiché il numero degli studenti internazionali presenti nelle istituzioni cattoliche continua a crescere, è fondamentale che le diocesi e le università locali attuino strategie di assistenza pastorale inclusive ed efficaci. Ne elenchiamo qui di seguito alcune.
1) Istituzione di un ufficio centralizzato per il coordinamento della cura pastorale rivolta agli studenti internazionali nelle università e diocesi cattoliche. Questo ufficio, fornendo programmi appositamente progettati e facilitando l’integrazione sia nelle comunità accademiche sia in quelle religiose, rafforzerà il legame tra le università cattoliche e la Chiesa locale e assicurerà che gli studenti ricevano un sostegno completo nel loro percorso educativo e spirituale.
2) Programmi specializzati, ossia iniziative pastorali mirate svolgono un ruolo cruciale nel promuovere l’integrazione religiosa e l’inclusività. Possono riguardare, fra l’altro, visite a chiese locali e siti religiosi, così come seminari e workshop sulla giustizia sociale, la pace nel mondo e i valori che si riferiscono alla fede.
3) Supporto culturale. I ministri che operano nel campus devono adattare e innovare continuamente i propri servizi per abbracciare i diversi retroterra culturali dei loro studenti. La promozione del dialogo tra gli studenti locali e quelli internazionali può avvenire tramite iniziative come ritiri, serate culturali ed esperienze condivise, che promuovono la comprensione interculturale.
4) Accompagnamento flessibile. Le università cattoliche dovrebbero introdurre programmi di accompagnamento versatili – tra cui iniziative di servizio sociale –, per introdurre gli studenti internazionali ai valori e ai princìpi fondamentali del cattolicesimo e promuovere al contempo tolleranza e rispetto per altre tradizioni religiose. Tali programmi dovrebbero incoraggiare un dialogo aperto e lo scambio di prospettive diverse.
Podcast | SUD SUDAN. «UN CONFLITTO CHE NON È MAI FINITO»
Quattro milioni di sfollati, oltre 350mila morti, fame e povertà. Il Sud Sudan è il paese più giovane del mondo, con una storia già segnata dalle violenze. Oggi lo spettro della guerra torna a far paura, come racconta mons. Christian Carlassare, vescovo della diocesi di Bentiu. Ascolta il podcast
5) Attenzione rivolta al benessere emotivo. Il benessere psicologico ed emotivo degli studenti internazionali è un aspetto di cui è necessario tener conto. Le università dovrebbero fornire un sostegno personalizzato tramite gruppi di supporto tra pari, workshop di consapevolezza e servizi di counseling. Inoltre, la cura pastorale e la guida spirituale possono aiutare gli studenti ad affrontare le sfide personali e quelle legate alla fede.
6) Connessioni rafforzate. Le università cattoliche possono accrescere il senso di appartenenza degli studenti, istituendo programmi di tutoraggio per collegare studenti internazionali con docenti, personale o tutor locali che condividono analoghi interessi accademici o di fede. Incontri regolari, come gruppi di condivisione della fede, workshops accademici e cene di scambio culturale, possono ulteriormente rafforzare i legami e fornire un buon sostegno alla crescita spirituale e personale degli studenti.
Il ruolo della missione e della cappellania universitaria
La globalizzazione dell’istruzione superiore presenta un’opportunità unica per spargere i semi dell’amore e del Vangelo e consentire così allo Spirito Santo di coltivarli con risultati fruttuosi. Il notevole aumento degli studenti internazionali negli ultimi trent’anni ha offerto alla Chiesa un’opportunità senza precedenti per l’evangelizzazione e la cura pastorale su scala globale. Quando affronta le esigenze spirituali, culturali e sociali di questi studenti, la Chiesa non soltanto estende la sua missione in tutto il mondo, ma fornisce anche un senso di appartenenza e conforto spirituale agli studenti lontani da casa. Questa sensibilizzazione spesso influenza positivamente le famiglie e le comunità di tali studenti.
Un compito primario di una missione universitaria e di una cappellania, o dei loro equivalenti, è quello di preservare e rafforzare l’identità cattolica dell’università, promuovendo questa missione fra tutti i membri della comunità universitaria. Attraverso le proprie attività di ministero nel campus, la cappellania universitaria potrebbe diventare un punto di contatto centrale per fornire assistenza pastorale agli studenti internazionali, organizzando per loro regolari attività e collaborando con il personale universitario, le facoltà e altre componenti interessate. Tale attività può comprendere l’avvio di programmi di assistenza pastorale in collaborazione con uffici di sensibilizzazione diocesani locali, parrocchie e altri gruppi impegnati a sostenere questi studenti. Facilitando tali iniziative, la cappellania universitaria aiuta a creare un ambiente inclusivo, in cui gli studenti internazionali siano in grado di progredire sotto i profili accademico, spirituale e sociale.
Con il supporto della cappellania universitaria, gli amministratori e i docenti universitari possono collaborare nella promozione della diversità culturale tramite lezioni e programmi rivolti agli studenti internazionali e a quelli locali affinché sviluppino una comprensione più profonda delle varie provenienze culturali. La collaborazione può anche tradursi in iniziative di sostegno agli studenti per garantire adeguati servizi accademici, culturali e spirituali. Gli studenti internazionali possono essere invitati a partecipare alla Messa di inaugurazione dell’anno accademico e alle attività di gruppo, creando un’atmosfera familiare. Si possono promuovere le amicizie tra studenti locali e internazionali, permettendo così a questi ultimi di sperimentare nella loro vita quotidiana il calore interpersonale, mentre attraverso tali interazioni essi vengono gradualmente introdotti alla fede e ai valori.
Inoltre, la cappellania universitaria può assumere un ruolo guida nel coordinamento dei programmi di volontariato, incoraggiando gli studenti internazionali a impegnarsi nel servizio alla comunità o a partecipare ad attività svolte dalla Chiesa locale. Questa può fornire sostegno sociale attraverso iniziative come programmi di famiglie ospitanti e incontri nei periodi di vacanza. Inoltre, chiese e università possono mettere in comune le risorse per collaborare a iniziative di beneficenza, invitando gli studenti internazionali ad assistere i senzatetto o a partecipare ad altri impegni di sensibilizzazione della comunità. Queste partnership consentono a tutte le parti interessate di incrementare i propri punti di forza, promuovendo un ambiente più inclusivo, di supporto e arricchente per tutti.
Tali iniziative progrediranno se sapranno andare oltre i modelli tradizionali della cura pastorale, che spesso vengono intesi soltanto in termini di evangelizzazione e conversione. Infatti, la cura pastorale moderna non si pone soltanto al servizio degli studenti internazionali (cattolici), ma li spinge a divenire ponti culturali, per stabilire reti internazionali con altre comunità, società e culture. Questi studenti internazionali cattolici facilitano la condivisione delle risorse e la cooperazione durante l’organizzazione di eventi interculturali, migliorando così l’universalità e l’influenza internazionale delle chiese e delle comunità locali. I loro contributi vitali alle chiese locali si manifestano in vari modi.
Un «case study» sulla cura pastorale
Gli studenti internazionali si muovono in un ambiente culturale, sociale e linguistico non familiare, e ciò, come si è già detto, pone loro sfide che vanno oltre la pressione accademica, come i conflitti culturali e l’isolamento emotivo. Per affrontare tali difficoltà, con l’aiuto dell’Office of University Mission and Ministry del Boston College e in collaborazione con organizzazioni caritative esterne, nel 2015 i miei colleghi – sia gesuiti sia laici – e io abbiamo lanciato il progetto Meals with Priests on Weekends («Pasti con i sacerdoti nei fine settimana»). L’iniziativa mirava a promuovere la compagnia, lo scambio culturale e un dialogo fruttuoso, ritrovandosi assieme a tavola. Negli ultimi 10 anni, circa 70 studenti e studiosi internazionali provenienti da diversi Paesi, con svariati percorsi accademici e discipline, si sono riuniti quasi ogni venerdì sera per una cena in cui si proponevano piatti di diverse culture. L’iniziativa Meals with Priests on Weekends, unica nel suo genere tra le università americane, è diventata una «seconda casa» per molti studenti internazionali e le loro famiglie.
Attraverso il loro coinvolgimento con docenti, personale e relatori ospiti, gli studenti internazionali vengono introdotti a valori universali come il rispetto, l’inclusione e il servizio. Mostrano apprezzamento per culture e tradizioni diverse, e ciò favorisce una comprensione più profonda dell’interconnessione globale. Questo scambio di esperienze, alimentando il rispetto reciproco e l’empatia, rafforza la bellezza delle culture internazionali e l’importanza dell’integrazione globale. Attraverso questi pasti condivisi, alcuni studenti provenienti da regioni storicamente in conflitto hanno acquisito nuove prospettive sulla storia e sull’umanità, con il risultato di superare pregiudizi e di formare amicizie durature e collaborazioni professionali. Queste esperienze trasformative li spingono a contribuire attivamente al dialogo e alla riconciliazione nei rispettivi Paesi e comunità.
L’iniziativa di Meals with Priests on Weekends incarna valori universali in azione, come il prendersi cura degli altri attraverso l’offerta di compagnia, il condividere storie personali per ispirare la riflessione e il creare fiducia tramite l’assistenza pratica. Allo stesso tempo, gli studenti e gli studiosi internazionali, come pure le loro famiglie, acquisiscono una comprensione più approfondita dei valori dell’istruzione cattolica, dei princìpi del Vangelo e della missione della Chiesa. Molti genitori, inizialmente scettici o non familiari con la Chiesa e l’istruzione cattolica, sono giunti a riconoscere la sua attenzione al bene degli studenti. Apprezzano che questa iniziativa non sia orientata né al profitto né al proselitismo, ma costituisca piuttosto un’espressione sincera di amore e accompagnamento, che promuove il dialogo interculturale e la comprensione reciproca.
Oltre alle cene settimanali, manteniamo una comunicazione scritta regolare con gli studenti, inviando loro almeno due messaggi al mese tramite WeChat. In essi si affrontano non solo questioni accademiche, ma anche quelle del loro benessere psicologico, della loro maturazione spirituale e della loro vita quotidiana. Inoltre, inviamo una lettera pastorale trimestrale ai genitori degli alunni stranieri, offrendo spunti sulla crescita accademica, sociale e personale dei loro figli.
Oltre alle cene allargate del venerdì, organizziamo incontri settimanali più ristretti, di 12-15 studenti, che favoriscono discussioni e scambi più intensi con i relatori invitati come ospiti. Organizziamo anche attività di volontariato e di servizio caritativo mensili, ritiri nei fine settimana, visite alle chiese locali e conversazioni sui contributi della Chiesa all’istruzione, alla giustizia sociale e all’equità. Queste esperienze non solo ampliano le prospettive degli studenti, ma approfondiscono anche la loro comprensione della responsabilità sociale e del ruolo del servizio ispirato dalla fede nell’affrontare le sfide globali.
In questo contesto, la cura pastorale diventa una piattaforma vitale per lo scambio culturale e per il dialogo: va oltre la dimensione formalmente religiosa, fino a comprendere il supporto psicologico, l’accompagnamento emotivo e la direzione spirituale. Meals with Priests on Weekends è più che un semplice incontro: è un ponte che collega individui e comunità, promuovendo la comprensione reciproca e l’umanità condivisa. Non è scontato che questo programma si adatti a ogni individuo o istituzione, perché la sua efficacia dipende da specifici requisiti e condizioni, ma potrebbe costituire un modello degno di considerazione per chi desideri aiutare più studenti internazionali a ricevere un’assistenza pastorale e un supporto più ampi.
Conclusione
Quando questi studenti internazionali, dopo aver completato i loro studi, torneranno nei rispettivi Paesi, porteranno con sé la fede e la cultura cristiana che hanno incontrato all’estero, condividendola con le loro comunità. L’esempio e l’atteggiamento di benevolenza insegnati nelle istituzioni cattoliche li spingeranno a infondere un’impronta morale e spirituale nel loro futuro lavoro e servizio, indipendentemente dal contesto o dall’ambiente in cui s’impegneranno. Le loro esistenze e le loro azioni offriranno nuove prospettive sui valori necessari nel mondo contemporaneo, invitando la società a riflettere sul significato e sullo scopo ultimo della vita. La giovane generazione che ha fatto esperienza di studi all’estero diventerà una forza capace di guidare un ulteriore sviluppo sociale. Questo fenomeno non solo ha un profondo impatto sull’istruzione e sull’economia globali, ma offre alla Chiesa cattolica e alle istituzioni cattoliche un’opportunità senza precedenti per l’evangelizzazione e la cura pastorale.
La missione dell’educazione cattolica, tramandata attraverso i secoli, continua ancora oggi. Ma le istituzioni educative cattoliche sono davvero pronte a rispondervi e, in particolare, ad affrontare le esigenze di cura pastorale degli studenti internazionali? Più in generale, sono pronte ad accogliere questa sfida promuovendo il dialogo, la comunicazione e la comprensione tra culture, fedi e storie globali?
In risposta alle criticità indotte dalla globalizzazione e dalla diversificazione, le istituzioni cattoliche dell’istruzione superiore hanno il compito importante di restare fedeli alla loro missione originaria e al loro scopo essenziale. La cura pastorale che esse possono fornire agli studenti internazionali richiede, più che un investimento ingente di risorse, un cambiamento di mentalità e di atteggiamento. Se ripenseranno la missione delle università cattoliche e scarteranno approcci burocratici e utilitaristici, abbracciando invece «amore, dialogo e servizio» come nucleo della loro sostanza e del loro operato, non solo risponderanno meglio alle sfide dell’era globalizzata, ma offriranno anche un supporto e una testimonianza più validi agli studenti internazionali, in particolare a quelli provenienti da tradizioni non religiose.
Papa Francesco, nella Spes non confundit, ci ha ricordato che la missione della Chiesa è di andare avanti, di essere un segno di amore e di speranza. Ciò implica non solo una chiamata rivolta alla comunità ecclesiale, ma anche un’aspettativa che investe le università cattoliche. Gli studenti internazionali, come una nuova tipologia di popolazione migrante, affrontano sfide simili nei Paesi in cui si impegnano per l’istruzione e la ricerca. Le istituzioni cattoliche, nella loro particolare condizione, hanno la responsabilità e l’obbligo di fornire loro migliore assistenza e sostegno. In una società diversificata, esse devono fungere da ponti per il dialogo culturale, promuovendo l’integrazione sociale e contribuendo al benessere dell’intera umanità attraverso l’amore cristiano e la pace.
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[1] Cfr Open Doors Report, 2024 (iie.org/news/us-hosts-more-tha…).
[2] Cfr UK Parliament. House of Commons Library, 2024 (commonslibrary.parliament.uk/research-briefings/cbp-7976).
[3] Cfr Canadian Bureau for International Education, 2024 (cbie.ca/infographic/2024).
[4] Cfr Australian Department of Education, 2024 (education.gov.au/international…).
[5] Per quanto riguarda l’Italia, gli studenti stranieri nel settore universitario sono circa il 3%: cfr adeccogroup.it/studenti-stranieri-universita-italiane
[6] Cfr Francesco, Enciclica Fratelli tutti, 3 ottobre 2020.
[7] Cfr Congregazione per l’educazione cattolica, Istruzione L’identità della scuola cattolica per una cultura del dialogo, 25 gennaio 2022.
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Il cuore nel pensiero cinese
L’enciclica di papa Francesco Dilexit nos (DN) presenta la devozione al cuore di Gesù, inserendola in una bella meditazione preliminare sulla ricchezza del termine «cuore» in diverse lingue e culture. Predominano naturalmente i riferimenti al greco e alla Bibbia. Francesco insiste sul fatto che la parola vi designa il centro, le profondità dell’essere e anche il luogo ove pensieri e sentimenti si congiungono in modo che la persona – anima e corpo – venga a essere unificata (cfr DN 3). Oggi parlare di cuore, usare senza timore la parola «cuore» significa attirare l’attenzione di tutti e di ciascuno verso una profondità nascosta, verso il nostro intimo, al di là di quelle pretese «idee chiare e distinte», che sono, ad esempio, la volontà, la libertà, la ragione (cfr DN 9-10).
Ci proponiamo qui di arricchire le premesse fondamentali sulle quali si struttura l’enciclica di Francesco, presentando un’altra tradizione nella quale gli studiosi hanno molto riflettuto sul cuore e ne hanno molto parlato: gli scritti cinesi anteriori alla fine della dinastia degli Han occidentali, che coincide più o meno con l’inizio dell’era cristiana[1]. Dal V al I secolo a.C., il tema del cuore attraversa tutti gli ambiti del pensiero cinese: concezione della persona umana e delle sue relazioni con il Cielo, etica, politica, medicina ecc. Del resto, da un autore all’altro si registrano sottolineature differenti: il tema del cuore è così ricco da prendere colorazioni anche molto diverse a seconda dei sistemi nei quali è inserito.
Una realtà sia psichica sia fisiologica
Il carattere xin è uno di quelli sui quali i sinologi amano disquisire. Secondo alcuni, non si dovrebbe tradurre semplicemente con «cuore», perché in tal modo si proietterebbero sul termine le raffigurazioni che essi pensano di trovarvi in contesto occidentale: l’emotività, i sentimenti ecc., mentre l’organo «cuore» nella Cina antica è visto come il luogo della deliberazione, dato che si tratta del «sovrano del corpo». «Lo xin occupa nella conformazione fisica la posizione di signore supremo», dice il Primo trattato dell’arte del cuore, inserito nel Guanzi (un’opera enciclopedica la cui compilazione è del tempo degli Han occidentali, anche se le fonti che lo compongono sono anteriori a quel tempo). Dovrebbe quindi imporsi la traduzione di xin con «spirito» (mind).
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Questo potrebbe essere riconosciuto per i testi buddisti (posteriori al periodo di cui parliamo qui), che assegnano ai caratteri cinesi un senso tecnico adattato alle nozioni indiane che essi traducono. Eppure – bisogna insistervi –, nella Cina antica xin designa in primo luogo l’organo fisico del cuore. Il suo pittogramma rappresenta l’organo cardiaco in modo sommario, con il pericardio e l’aorta in evidenza. Si tratta di uno dei cinque organi principali, insieme al fegato, alla milza, ai polmoni e ai reni. Certamente esso è anche il luogo dell’attività mentale. Ma la traduzione con «spirito» ha l’inconveniente di occultare la sua base fisiologica. Si nasconde così anche il ruolo sia psicologico sia «mentale» dell’organo-cuore nella totalità del corpo: un ruolo sul quale insiste tutta la medicina cinese. La traduzione con «cuore-spirito» (heart-mind), molto frequente nelle versioni anglosassoni, è appropriata. Si possono ugualmente privilegiare le traduzioni che danno valore alle connotazioni di «coscienza». In realtà, una volta apportate le necessarie chiarificazioni, conservare il termine semplice «cuore» non presenta veri inconvenienti. Tanto più che un buon numero di testi occidentali, come mostra bene la Dilexit nos, fanno anch’essi del cuore il luogo sia del pensiero sia delle emozioni, il luogo ove l’uno e le altre vengono considerati nella loro radice, prima di ogni loro separazione.
Nel testo che segue, la traduzione con «cuore-spirito» farebbe perdere il carattere sorprendentemente diretto ricoperto dal termine xin: «Mencio ha detto: “L’empatia è il cuore [xin]dell’uomo; la rettitudine è la sua via. Abbandonare tale via senza più perseverarvi, aver perduto il proprio cuore e non sapere ove cercarlo, quale calamità! Se qualcuno ha perduto il suo cane o le sue galline, almeno sa dove cercarli. Se qualcuno ha perduto il suo cuore, non sa nemmeno dove cercare. Non rimane altro che il modo di apprenderlo: cercare il cuore che si è perduto, ecco tutto» (Mencio, 6 A 11).
Il cuore, per Mencio, è la bussola, l’organo decisivo del discernimento. È inscritto in un sé incarnato, «lo shen, cioè il corpo, l’ego»? Alcuni autori cinesi distinguono anche un’altra entità, lo spirito/gli spiriti (shen, un carattere omonimo al precedente, ma da cui differisce per la grafia)[2]. È possibile ritrovare nel termine cinese «spirito/spiriti» un’idea molto simile a quella di cui Ignazio di Loyola fa uso negli Esercizi spirituali: la maggior parte delle civiltà (forse tutte) mirano a una realtà difficile da cogliere, sia esterna sia interna all’uomo: una realtà plurale e insieme unica – un buono e un cattivo spirito, e anche dei buoni e dei cattivi spiriti –, qualcosa che ci attraversa e che noi non padroneggiamo[3]. La grafia del carattere «spirito» (shen) in cinese evoca il moto di estensione continua, che va sia verso il basso sia verso l’alto. Nell’uomo, gli spiriti devono essere a poco a poco purificati, affinati; dobbiamo farli progredire verso la loro essenzialità, come ci dice il Huainanzi nel suo settimo capitolo[4].
Il cuore, il respiro, il Cielo
A differenza del termine «spiriti», piuttosto ambiguo e non utilizzato da tutti gli autori, in tutti i testi cinesi antichi il cuore (xin) è ciò che è proprio della persona umana. Del resto, chi avvia la ricerca verso il fondo del cuore si rende conto di appartenere a una specie, di vivere in solidarietà con esseri che condividono le stesse forze e gli stessi limiti, perché l’essere umano gode di una «natura» (xing) che è comune a tutti. Ora, riconoscere tale solidarietà di natura ci permetterà di conoscere e servire il Cielo. Mencio lo ha affermato con grande forza in un testo canonico: «Chi va fino al fondo del proprio cuore, ne conosce la natura. Chi ne conosce la natura, conosce il Cielo. Custodendo il proprio cuore e nutrendone la natura si serve il Cielo» (Mencio, 7 A 1).
Si va dunque dall’individuo alla specie, dalla specie al principio da cui tutte le specie derivano. Il cuore è al principio sia della conoscenza sia dell’azione. Chi custodisce il suo cuore, chi non dissipa il suo cuore con accecamenti e impulsività, con questo agire obbedisce come naturalmente al volere del Cielo. Un cuore unificato, rivolto al Cielo, raccoglie tutto, unifica tutte le cose: «Ciò che va fino in fondo diffondendosi senza limiti, percorre le otto direzioni, raccoglie tutto in un solo vettore, questo è il cuore» (Huainanzi, 18,1).
Ma andare «fino al fondo del proprio cuore», come Mencio ci invita a fare, è anche svuotarlo… D’altra parte, in cinese, «andare fino al fondo» (jin) è un’idea espressa da un carattere che mostra il sangue dell’animale sacrificato versato fino all’ultima goccia nel recipiente predisposto per questo. Nel terzo capitolo del Daodejing – come fa notare anche Laozi – c’è una frase interessante: «I Saggi, per governarsi, svuotavano i loro cuori per colmare il ventre». Nella sua ambiguità, il testo offre in primo luogo una lettura politica, di cui svilupperemo in seguito le implicazioni: si tratta indubbiamente di riempire il ventre del popolo, ma «ammorbidendo la propria volontà e temprando le proprie ossa», continua questo capitolo. Allo stesso tempo l’espressione va applicata agli stessi Saggi – del resto, la sintassi sembra indicare il loro cuore e le loro viscere –, nel qual caso il testo designa l’atto mediante il quale il respiro riempie l’addome e, con esercizi di respirazione ripetuti, sgombra il cuore da ogni desiderio.
Podcast | SUD SUDAN. «UN CONFLITTO CHE NON È MAI FINITO»
Quattro milioni di sfollati, oltre 350mila morti, fame e povertà. Il Sud Sudan è il paese più giovane del mondo, con una storia già segnata dalle violenze. Oggi lo spettro della guerra torna a far paura, come racconta mons. Christian Carlassare, vescovo della diocesi di Bentiu. Ascolta il podcast
Zhuangzi insiste più in particolare su ciò che egli chiama «il digiuno del cuore»: «Come animato da un solo volere, non è che ascolta tramite l’orecchio, ma ascolta tramite il cuore. Non ascolta tramite il cuore, ma tramite il respiro. L’ascolto si ferma all’orecchio, il cuore fa attenzione ai segni. Ecco cosa è il respiro: il vuoto grazie al quale si producono le manifestazioni vitali. La Via ordina ogni realtà servendosi di questo vuoto. Il vuoto è il digiuno del cuore» (Zhuangzi, 4.2).
Ascoltare con il proprio respiro è svuotarsi, e poi concentrarsi, per svuotarsi nuovamente: tutti i fenomeni che concernono il corpo devono essere pienamente accolti e integrati, per essere poi, dopo questa trasformazione, totalmente ridonati. Ciò che è penetrato in me non ritorna al mondo «così com’è», ma viene trasformato come io stesso lo sono stato nel riceverlo, come sono trasformato in continuazione. Il «digiuno del cuore» consiste nel non rimanere ristretto su griglie interpretative, ossia sui segni e sulle emozioni con i quali mi approprio di ciò che intendo e vedo. Il cuore può essere ingombro per l’abbondanza di ciò che riceve, oppure può accettare di svuotarsi completamente per ricevere di nuovo tutto. Solo un cuore vuoto e limpido è capace di conoscere veramente sia il mondo sia sé stesso: «L’uomo perfetto utilizza il suo cuore come uno specchio» (Zhuangzi, 7.6).
Il cuore politico
«Bisogna che tutte le azioni siano poste sotto il “controllo politico” del cuore», afferma DN 13. Per un lettore dei testi dell’antica Cina questa frase evoca proprio l’inizio del Primo trattato dell’arte del cuore, incluso nel Guanzi già menzionato: «Nel corpo, il cuore occupa il posto del principe. Le funzioni delle nove porte del corpo somigliano alle diverse responsabilità dei funzionari. Se il cuore è a riposo e rimane nella Via, le nove porte funzioneranno correttamente. Se la cupidigia e il desiderio lo occupano completamente, gli occhi non vedranno i colori, e gli orecchi non intenderanno i suoni».
Il cuore a riposo permette il corretto funzionamento del corpo. Se è agitato, non esercita la sua funzione, e ne seguiranno disturbi sia fisici sia psichici. In Cina, il cuore non è fatto innanzitutto per commuoversi, ma per rimanere stabile: si parla dell’«immutabilità di un cuore stabile». Questa costanza è proprio la bontà. Un adagio afferma che «l’amore del padre è come la montagna», e niente è più costante, fermo e stabile della montagna. La medicina cinese ne è convinta: chi gode di un cuore stabile ha meno probabilità di essere attaccato dalla malattia, che viene sempre causata dall’eccesso di un’emozione, anche se si tratta di un’emozione positiva.
L’affermazione del Guanzi è reversibile: se il cuore è come il sovrano del corpo, allora il sovrano è come il cuore del regno. «Il sovrano è il cuore dello Stato. […] L’Imperatore Giallo[5] ha detto: “Con ampiezza, senza limiti, io accompagno la Via del Cielo e distendo il mio respiro, unito all’Origine”. Così, quando [il Sovrano] è al vertice della Virtù, le sue parole sono simili ai suoi progetti, le sue azioni alle sue intenzioni. Superiore, inferiore, tutti un solo cuore!» (Huainanzi, 10.2-3).
La riflessione sul cuore diventerà ancora più politica con Xunzi (III secolo a.C.), un autore che si mostra pessimista riguardo alla natura umana e alla stabilità delle istituzioni sociali. Secondo lui, il cuore è arbitro tra le diverse passioni (qing), che manifestano le tendenze in lotta all’interno della natura umana (xing). «Che al risveglio di un’emozione il cuore compia una scelta, questo si chiama deliberazione» (Xunzi, 22,2).
Xunzi dunque considera il cuore in primo luogo come la capacità di rendersi arbitro tra le buone e le cattive inclinazioni, e gli organi dei sensi mettono continuamente in azione le inclinazioni cattive. Il cuore è dunque il padrone della persona, quello che dà gli ordini, il punto di passaggio obbligato tra l’interno e l’esterno del nostro essere. E la pratica dello studio sotto un maestro mira innanzitutto a controllare il modo in cui il cuore conosce il mondo esterno, a imparare a reagire in modo appropriato agli impulsi che provengono da questo mondo. Lo studio, l’equilibrio del cuore, o anche il necessario controllo sociale, tutte queste dimensioni sono contrassegnate da artificiosità, ma l’artificio costituisce l’unico modo di organizzare un mondo vivibile, dal momento che la nostra natura è soggetta alle passioni.
L’artificiosità di Xunzi è un’eccezione. Nella Cina antica, il cuore è il luogo della libertà; ma per entrare nella libertà, deve disfarsi di tutto ciò che gli fa ostacolo. Nessuno lo ha espresso meglio di Confucio: «Il maestro ha detto: “A quindici anni mi sono applicato allo studio, a trenta anni ero indipendente, a quaranta avevo superato le esitazioni, a cinquanta sapevo ciò che il Cielo voleva da me, a sessanta le mie orecchie discernevano con naturalezza ogni cosa, e ora, a settanta, seguire il desiderio del mio cuore non mi fa mai eccedere nella misura”» (Analecta, 2.4).
Per il vecchio Confucio si tratta proprio di «seguire il desiderio del suo cuore». Ma questo desiderio ora lo spinge verso la vita, verso la realizzazione del proprio essere e di tutti gli esseri, e soltanto verso questo. Nessuna tensione mortale viene più a turbare il suo slancio vitale. Questa è la gioia di colui che, a poco a poco, ha imparato a immergersi nelle profondità più segrete del suo cuore.
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[1] La dinastia degli Han occidentali va dal 212 fino al 9 a.C. Dopo un intervallo, gli Han orientali governano la Cina dal 25 al 220 d.C.
[2] Cfr L. Raphais, A Tripartite Self, Mind, Body, and Spirit in Early China, Oxford, Oxford University Press, 2023. Naturalmente l’antropologia cinese è molto più ricca di quanto le distinzioni qui segnalate lascino pensare. Per esempio, bisognerebbe introdurre anche la distinzione tra anime spirituali (hun) e anime sensitive (po).
[3] Una buona presentazione dell’evoluzione di questo concetto nel corso della storia è in D. Salin, Le Discernement des esprits selon Ignace de Loyola. Les aléas d’une transmission (XVIe-XXIe siècle),Paris – Bruxelles, Lessius, 2021, 33-53.
[4] Lo Huainanzi è un’opera enciclopedica presentata alla Corte imperiale nel 139 a.C., e che quindi era stata composta un po’ prima.
[5] È il primo sovrano mitico.
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Il cinquantenario della morte di Hannah Arendt
Cade quest’anno il 50° anniversario della morte di Hannah Arendt (1906-1975), esponente di rilievo della filosofia (anche se lei non si riconobbe mai in tale veste) di area tedesca e inglese, ma anche nota per il suo impegno civile e politico e la sua profonda analisi delle terribili vicende del XX secolo, che visse in prima persona e che confluirono in scritti memorabili. Su molti di questi aspetti la sua produzione può essere senz’altro considerata pionieristica.
La vita
Hannah Arendt nasce ad Hannover il 14 ottobre 1906. La sua famiglia, di estrazione borghese, aveva preso da tempo le distanze dalle tradizioni ebraiche. Hannah perde a sette anni il padre e viene educata dalla madre, che è di tendenze socialdemocratiche, ispirandosi a Rosa Luxemburg. Durante gli anni dell’università ha modo di ascoltare le lezioni di alcuni tra i più importanti esponenti del pensiero filosofico e teologico del tempo (Romano Guardini, Rudolf Bultmann, Edmund Husserl, Karl Jaspers e Martin Heidegger, con il quale ha avuto anche una relazione sentimentale). Si laurea con una tesi sull’amore in sant’Agostino, sotto la guida di Karl Jaspers. In seguito all’avvento al potere di Hitler, è costretta a fuggire a Parigi, e poi negli Stati Uniti, insegnando filosofia politica a Princeton, Berkeley e Chicago, ma anche impegnandosi attivamente sul tema dell’ebraismo, sebbene le sue posizioni – molto critiche sulla politica nazionalista e ostile alla presenza degli arabi residenti in Palestina – non trovino consenso, condannandola all’isolamento. Una situazione che si accentuerà ulteriormente con la pubblicazione del libro sul processo ad Adolf Eichmann. Hannah muore improvvisamente a New York, per un attacco di cuore, il 4 dicembre 1975, mentre sta lavorando alle Gifford Lectures (una serie di lezioni da tenersi in una delle antiche università scozzesi, a cui ogni anno è invitato un esponente considerato di grande rilievo nel mondo culturale), poi raccolte nel libro La vita della mente.
Il suo percorso intellettuale, estremamente ricco e articolato, può essere compreso ripercorrendone le opere principali.
Il totalitarismo
Le origini del totalitarismo,pubblicato nel 1951,è l’opera che ha reso celebre Arendt e rimane una delle più importanti del XX secolo sotto il profilo storico-politico. L’ipotesi di fondo è che il totalitarismo è un fenomeno radicalmente differente dalle forme politiche della storia passata e presente, come l’assolutismo e la dittatura. Ciò che ha caratterizzato la peculiarità del nazismo e dello stalinismo (il fascismo non viene preso in considerazione) è la stretta conseguenza della visione «atomistica» degli esseri umani, privati di uno spazio pubblico di discussione sul bene comune e considerati un mero ingranaggio del sistema, senza alcun valore in sé, in quanto facilmente intercambiabili[1].
L’opera è divisa in tre parti. Viene anzitutto esaminato il fenomeno dell’antisemitismo, considerato una premessa indispensabile del totalitarismo (una sezione particolare è dedicata all’affare Dreyfus). Segue la trattazione dell’imperialismo e dell’affermazione della borghesia che hanno monopolizzato la storia europea dalla seconda metà del secolo XIX alla Prima guerra mondiale. La crisi dell’imperialismo, unita all’antisemitismo – che considera «la congiura ebraica internazionale» il motivo della disfatta – portano al totalitarismo, un esercizio del potere che giustifica con l’ideologia la necessità del terrore, attuato nelle forme più diverse (direttive del capo supremo, partito unico, propaganda, polizia segreta, negazione della vita privata, campi di concentramento e di sterminio). Il risultato finale è «l’inferno», l’annientamento psicologico e fisico di chiunque possa pensare diversamente, compiuto nell’indifferenza generale[2].
La parte finale del libro sottolinea l’influsso dell’ideologia, perché lo Stato totalitario ha uno stretto legame con questa inedita visione della storia, della vita e dell’uomo, dove nulla ha più valore, eccetto gli assunti di una dottrina capace di giustificare ogni possibile azione: «La società dei morenti, in cui la punizione viene inflitta senza alcuna relazione con un reato, lo sfruttamento praticato senza un profitto, e il lavoro compiuto senza un prodotto, è un luogo dove quotidianamente si crea l’insensatezza. Eppure, nel contesto dell’ideologia totalitaria, nulla potrebbe essere più sensato e logico: se gli internati sono dei parassiti, è logico che vengano uccisi col gas; se sono dei degenerati, non si deve permettere che contaminino la popolazione; se hanno un’“anima da schiavi” (Himmler), non è il caso di sprecare il proprio tempo per cercare di rieducarli»[3].
Le origini del totalitarismo è l’opera che ha reso celebre Arendt e rimane una delle più importanti
del XX secolo.
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Se il nazismo e lo stalinismo sembrano appartenere al passato, le cose stanno diversamente per quanto riguarda l’ideologia: essa infatti non è stata confutata sul piano culturale. Per questo il totalitarismo rimane un pericolo costante, che «ci resterà alle costole per l’avvenire» e si riaffaccia puntualmente a ogni crisi delle democrazie, presentandosi come la soluzione forte, capace di dare stabilità e sicurezza, sopprimendo la protesta e il confronto, e soprattutto la libertà, che rimane la condizione della vita umana e la garanzia di ogni nuovo inizio. Libertà che Arendt, a chiusura del libro, sintetizza con una frase di sant’Agostino: Initium ut esset, creatus est homo («Affinché ci fosse un inizio, è stato creato l’uomo»).
«Vita activa»
Se il totalitarismo ha le sue radici nella cancellazione della dimensione pubblica e politica, è in questa sede che si deve operare perché quello spettro non torni ad affacciarsi. E alla politica come attività suprema dell’uomo è dedicata l’opera Vita activa, pubblicata nel 1958. L’ipotesi di fondo del libro è che la scomparsa della polis greca ha visto la parallela scomparsa dell’agire politico, del discorso e del dibattito pubblico, rimpiazzato da attività tese alla mera sopravvivenza, come il fare e il lavorare. Il sottotitolo – La condizione umana, che è il titolo dell’edizione inglese – è emblematico e segna la presa di distanza rispetto alla tradizione classica: «La Arendt parla di “condizione” e non di “natura” umana. La differenza non è di poco conto: la sola affermazione che possiamo fare circa la cosiddetta “natura” degli uomini, osserva la Arendt, è che essi sono esseri condizionati»[4]. Si tratta tuttavia di un condizionamento che non pregiudica la libertà; esso non è mai, in ultima analisi, determinante. Lo si può notare anche dalla presentazione delle tre modalità fondamentali della condizione umana: il lavoro, il fare, l’agire.
A differenza del lavoro, volto a garantire la sopravvivenza di chi non ha mezzi di sostentamento (per questo nell’antichità era l’attività propria degli schiavi), il fare qualifica l’uomo come faber, la caratteristica preponderante dell’età moderna, che segna la differenza rispetto alle epoche precedenti: «L’opera delle nostre mani distinta dal lavoro del nostro corpo – l’homo faber, che fa e letteralmente “opera”, distinto dall’animal laborans che lavora e “si mescola con” – fabbrica l’infinita varietà delle cose la cui somma totale costituisce il mondo artificiale dell’uomo»[5].
La terza modalità – l’agire – è propria della sfera politica. È il gradino supremo, perché prescinde dalle cose e implica la relazione, il linguaggio, la pluralità, «la condizione – non solo la conditio sine qua non, ma la conditio per quam – di ogni vita politica»[6]. La politica conferisce all’uomo una seconda vita – la vita pubblica –, che si aggiunge alla dimensione privata e rende il discorso una sorta di azione. Questo è ciò che differenzia l’agire politico dall’azione violenta, che degrada la condizione umana allo stato servile, privandola della capacità di persuasione e di progresso. La vita privata rimane la condizione previa per la politica, perché provvede alle necessità basilari dell’esistenza, è l’ambito del prepolitico. Ma è solo nell’attività politica che l’uomo si riconosce libero, pienamente vivo, affrancato dalle attività volte a soddisfare le necessità naturali.
La polis greca ha conosciuto tuttavia al suo interno una progressiva decadenza, anzitutto a livello speculativo, con Platone e Aristotele, che hanno contrapposto vita attiva a vita contemplativa, privilegiando quest’ultima. Un altro motivo di crisi dell’agire politico, fino alla sua scomparsa, proviene dalla moderna rivoluzione scientifica, che vede il predominio dell’homo faber e il conseguente materialismo proprio dell’animal laborans.
Anche Vita activa si conclude con una citazione latina, questa volta di Catone: Numquam se plus agere quam nihil cum ageret, numquam minus solus esse quam solus esset («Mai un uomo è più attivo di quando non fa nulla, mai è meno solo di quando è solo con sé stesso»). Nel riportarla, la filosofa auspica la rivalutazione della facoltà di pensare, presente in ogni uomo, che non può mai spegnersi del tutto.
L’analisi di Vita activa, da una parte, coglie le radici della crisi del pensare politico ma, dall’altra, risulta per più versi parziale sul piano storico. Secondo Aristotele, proprio la politica costituisce il vertice delle facoltà umane (al punto da definire l’uomo «per natura un animale politico», Politica 1253a): è una delle espressioni più appropriate della vita contemplativa e non si pone affatto in contrapposizione a essa[7].
La banalità del male
Arendt è nota soprattutto al grande pubblico per il resoconto puntuale del processo ad Eichmann (considerato il principale ideatore ed esecutore della «soluzione finale», che portò allo sterminio di sei milioni di ebrei), svoltosi a Gerusalemme dall’11 aprile al 15 dicembre 1961. Come inviata del settimanale New Yorker, scrisse una serie di articoli che confluirono nel libro, pubblicato nel 1963, Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil. Nella traduzione italiana, del 1964, il titolo venne invertito – La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme –, rendendo maggiormente ragione della tesi del libro.
Per la filosofa ebrea, Eichmann non è affatto un mostro, uno squilibrato mentale e nemmeno un genio del male: è un uomo comune, ottuso, un esempio perfetto di cosa accade quando all’atrofia del pensiero si unisce l’ideologia massificante (i due temi non a caso indagati nelle sue opere precedenti), portando a quella struttura di male propria del totalitarismo, costituito da persone normali che compiono in tutta ordinarietà cose orribili: «Il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. Dal punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e dei nostri canoni etici, questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, perché implica, come già fu detto a Norimberga, che questo nuovo tipo di criminale, realmente hostis generis humani, commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male»[8].
Questo ottundimento della coscienza, insieme allo stravolgimento lessicale con cui l’ideologia nasconde il vero significato delle azioni (lo sterminio diventa «soluzione finale», le iniezioni mortali «vaccinazioni», le camere a gas «disinfestazione», i forni crematori «salita verso il cielo»), era stato riconosciuto con chiarezza da Arendt nella sua analisi del totalitarismo: «All’interno della struttura organizzativa, finché resta compatta, i membri fanatizzati non possono esser raggiunti né dall’esperienza né dal ragionamento; l’identificazione col movimento e il conformismo assoluto sembrano aver distrutto la stessa capacità di esperienza, anche se estrema come la tortura o la paura della morte»[9].
Nello Stato totalitario le persone, se vogliono vivere, devono sopprimere la propria coscienza: l’unico valore riconosciuto è l’obbedienza agli ordini del capo, che stabilisce ciò che si deve fare, semplicemente perché «si deve». È un’applicazione sinistra dell’imperativo categorico kantiano, al quale Eichmann si era esplicitamente ispirato: «Agisci in maniera che il Führer, se fosse a conoscenza delle tue azioni, approverebbe»[10]. In tale contesto, chiunque può compiere azioni orribili senza avvertirne la gravità, ed essere in seguito capace di integrarsi perfettamente nella società, come appunto è accaduto alla maggior parte dei gerarchi nazisti nel dopoguerra. Philip Zimbardo, autore di un accurato studio in proposito, riassume in questi termini la questione: «Se metti delle persone buone in un luogo cattivo, hanno la meglio, oppure il luogo le corrompe? La violenza che è endemica nella maggior parte delle carceri reali sarebbe stata assente in un carcere pieno di bravi ragazzi borghesi?»[11].
Podcast | SUD SUDAN. «UN CONFLITTO CHE NON È MAI FINITO»
Quattro milioni di sfollati, oltre 350mila morti, fame e povertà. Il Sud Sudan è il paese più giovane del mondo, con una storia già segnata dalle violenze. Oggi lo spettro della guerra torna a far paura, come racconta mons. Christian Carlassare, vescovo della diocesi di Bentiu. Ascolta il podcast
Questo approccio strutturale alle derive distruttive (che smentisce la classica spiegazione della «mela marcia») era stato colto con lucidità da Arendt, che rilevò, oltre alla «banalità di Eichmann», la passività e la complicità non solo di un’intera nazione, ma anche della stessa comunità ebraica. Per questi motivi il libro suscitò reazioni indignate nel mondo ebraico e negli intellettuali europei e statunitensi, e la stessa Arendt fu oggetto di gravi minacce sul piano personale.
Ma l’inviata del New Yorker non fu l’unica a cogliere questi aspetti inquietanti della vicenda. Simon Wiesenthal, che gestì l’operazione che portò alla cattura di Eichmann, non nascose la sua sorpresa e delusione nel momento in cui se lo trovò finalmente di fronte. Davanti a lui stava un ometto piccolo, calvo, timido, pieno di tic, senza tracce apparenti di cattiveria, o anche semplicemente di aggressività: «Non c’era nulla di diabolico in lui; sembrava piuttosto un contabile che abbia paura di chiedere un aumento di stipendio». Wiesenthal rimase invece colpito dal suo modo di parlare, freddo, metallico, che non lasciava trasparire emozioni o sentimenti di alcun tipo[12].
È possibile contrastare il totalitarismo?
L’impatto con le vicende dell’olocausto e del caso Eichmann confermarono in Arendt la necessità di promuovere il confronto pubblico e le istituzioni democratiche, considerati garanzie irrinunciabili della dignità umana. Essi furono l’argomento del suo ultimo libro La vita della mente. Il progetto dell’opera prevedeva tre parti: pensare, volere, giudicare (quest’ultima rimasta incompiuta).
La mente non è percepibile dai sensi: è il luogo dell’invisibile, del pensiero, ma può essere colta nelle sue manifestazioni esteriori, come il linguaggio, la parola e la metafora. Quest’ultima, in particolare, in forza della compresenza di parola e immagine, permette al pensiero di rendersi visibile ed entrare in relazione con il mondo della sensibilità, «proprio perché consente di “portare oltre” – metaphorein – le nostre esperienze sensibili»[13]. L’impegno politico è il frutto più rilevante dell’attività della mente, che è in grado di proteggere la società dalle derive distruttive; il pensiero sorge infatti dagli «incidenti delle esperienze di vita»[14].
Il tema dell’attività politica, pur invocato più volte nel corso dei suoi scritti (come nell’ultima parte di Vita activa), resta tuttavia il grande incompiuto nell’opera di Arendt: esso doveva rientrare nellafacoltà del giudizio, dove la voce della coscienza diventa realizzazione progettuale. Ma si tratta proprio della parte della Vita della mente che rimase interrotta.
Il silenzio su tale questione decisiva fa porre comunque delle domande sul significato complessivo della sua proposta, pur certamente ammirevole. Arendt rileva la necessità di «oasi etiche», che nel deserto delle odierne società aiutino a vivere, valorizzando la riflessione del passato, ma ne parla solo di passaggio, in alcune righe di un’opera anch’essa incompiuta. L’immagine stessa dell’oasi non viene precisata; sembra più una metafora poetica descritta in termini evanescenti: «fuggire dal deserto, dalla politica, verso… non importa dove». Oltretutto, l’immagine del deserto che avanza, in linea con il tono fortemente pessimista che caratterizza Vita activa, trasmette un messaggio nichilista: era l’immagine con la quale lo Zarathustra di Nietzsche mostrava le conseguenze della morte di Dio[15].
Considerando la profondità delle analisi compiute da Arendt in sede storica, sociologica e culturale, non si può nascondere una certa delusione di fronte a questa sorta di resa speculativa ogniqualvolta lei entra in merito alla tematica che più di tutte dovrebbe giustificare la fatica del pensare; manca completamente l’elaborazione di una proposta politica capace di dare risposta alle questioni emerse e proteggere l’uomo dalle derive distruttive che lei ha così a lungo esplorato nelle sue opere principali. Come è stato notato, «Hannah Arendt non offre modelli per l’azione, né codici a cui attenersi […]. Essa ci indica piuttosto un’apertura alla libertà sottile come una lama di coltello, una breccia nel tempo. È in questa apertura che il giudizio opera, pluralmente, illuminando ciò che altrimenti sarebbe dimenticato»[16]. Il tema della «resistenza», della ribellione rimane di fatto l’unica proposta attuabile per fronteggiare le deviazioni devastatrici che si agitano dentro e fuori di noi.
Tutto questo evidenzia la necessità di un approccio più propriamente filosofico, soprattutto in sede etica e metafisica, capace non solo di giustificare la plausibilità della protesta, ma soprattutto di rendere ragione della dignità dell’essere umano. Un approccio di cui però non si trova traccia negli scritti della filosofa e che rende problematica la trattazione di tematiche fondamentali, come, ad esempio, idirittiumani. Arendt afferma il «diritto ad avere diritti»: questi «dovrebbero rimanere validi e reali anche se un solo uomo esistesse sulla terra; sono indipendenti dalla pluralità umana e dovrebbero quindi conservare il loro valore anche se un individuo fosse espulso dalla società»[17].
Ma su quale base tale dichiarazione può risultare plausibile, dal momento che poche righe prima era stato escluso il suo legame con Dio e la natura umana? La posizione di Arendt è molto chiara nei confronti di chi viola tali diritti, come nella Germania nazista: «Colpa e innocenza dinanzi alla legge sono due entità oggettive, e quand’anche ottanta milioni di tedeschi avessero fatto come te, non per questo tu potresti essere scusato»[18]. Ma a quale «legge» si fa riferimento? E con quale criterio giudicare «iniqua» una legge e prediligerne un’altra?
In queste affermazioni si cela un problema enorme e irrisolto della modernità: il rapporto tra legge positiva e giustizia. Senza il riferimento alla legge naturale, notava san Tommaso, la legge di uno Stato diventa «corruzione della legge», anche se ratificata da un’autorità (cfr Summa Theologiae,I-II, q. 95, a. 2). Ed è proprio ciò che accadde con le leggi razziali.
Joseph Pieper, scrivendo il suo commento al trattato tomista, aveva ben presenti le derive della dittatura nazista, che aveva posto il fondamento della legge nella mera decisione della volontà: una volontà che, a differenza di san Tommaso, non è informata dalla ragione, ma si pone come irrazionale volontà di potenza, fine a sé stessa.
La predilezione di Arendt per il filosofo di Könisberg sulla questione decisiva del giudizio rischia di prestare il fianco a queste aporie, ed è significativo il recente dibattito sugli aspetti razzisti presenti nel pensiero di Kant[19]. L’appello di Eichmann a Kant, sottolineato esplicitamente da Arendt, per quanto discutibile, è inquietante: esso mostra come un approccio meramente formale, come appunto quello di Kant, quando diventa criterio di azione, possa portare ad atrocità enormi nel pieno rispetto delle regole[20]. È il motivo per cui Michel Onfray, nel libro, certamente provocatorio, Le songe d’Eichmann, associa kantismo a nazismo. Il filosofo francese nota come Eichmann abbia rispettato i canoni formali della moralità kantiana: in particolare, l’esclusione dei sentimenti in sede di decisione. Kant affermava certamente che l’uomo dev’essere considerato un fine e mai un mezzo; questo però riguarda appunto gli esseri umani; invece, per il nazismo gli ebrei non sono considerati tali; quindi per loro non vale il secondo postulato dell’imperativo categorico.
Senza un approccio spirituale, diventa difficile giustificare la dignità e l’uguaglianza degli esseri umani: questo è l’insegnamento, rimasto purtroppo inascoltato, alla luce delle terribili ideologie razziste del XX secolo. In tale prospettiva, anche la protesta rischia di rimanere un puro flatus voci, o di dare adito a derive violente e irrazionali, come il populismo, avvicinandosi pericolosamente alla maniera di argomentare totalitaria.
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[1] Cfr H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Milano, Edizioni di Comunità, 1967, 630.
[2] Cfr ivi, 609.
[3] Ivi, 626.
[4] G. Fornero – S. Tassinari, Le filosofie del Novecento, Milano, Mondadori, 2002, 1009.
[5] H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Milano, Bompiani, 2001, 97.
[6] Ivi, 7.
[7] Cfr G. Cucci, L’arte di vivere. Educare alla felicità, Milano, Àncora, 2019, 24-33.
[8] H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Milano, Feltrinelli, 2023, 282.
[9] Id., Le origini del totalitarismo, cit., 427.
[10] Id., La banalità del male…, cit., 159; cfr 143.
[11] Ph. Zimbardo, L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, Milano, Raffaello Cortina, 2008, 27. Cfr G. Cucci – A. Monda, L’arazzo rovesciato. L’enigma del male, Assisi (Pg), Cittadella, 2010.
[12] Cfr S. Wiesenthal, Gli assassini sono tra noi, Milano, Garzanti, 1967, 98. Significativa è anche l’intervista al comandante del lager di Treblinka, Franz Strangl, il quale confessa di aver potuto compiere quell’incarico «dividendo la coscienza in compartimenti stagni» (G. Sereny, In quelle tenebre, Milano, Adelphi, 1975, 214).
[13] H. Arendt, La vita della mente, Bologna, il Mulino, 1989, 197.
[14] Id., Tra passato e futuro, Milano, Garzanti, 1991, 36.
[15] Cfr Id., Che cos’è la politica?, Torino, Einaudi, 2006, 144-146; F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, Milano, Adelphi, 1984, 371.
[16] A. Del Lago, «Introduzione», in H. Arendt, La vita della mente,cit., 58 s. Cfr anche Miguel Abensour: «La pensatrice [Arendt] cercava davvero di elaborare, di edificare una nuova filosofia politica sotto il segno della verità e dell’autenticità? Si può dubitarne. Si può trovare la vera essenza di qualcosa di “fondamentalmente falso”? E, d’altra parte, come spiegare che – lei che non conosceva problemi di scrittura – non abbia mai potuto terminare l’opera che intendeva dedicare alla politica e i cui differenti manoscritti sono stati pubblicati, dopo la sua morte, con il titolo Che cos’è la politica?» (M. Abensour, Hannah Arendt contro la filosofia politica?,Milano, Jaca Book, 2010, 160 s.).
[17] H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., 412.
[18] Id., La banalità del male, cit., 84.
[19] Cfr Id., Teoria del giudizio politico. Lezioni sulla filosofia politica di Kant, Genova, Il Nuovo Melangolo, 2005; G. Basile, «Kant e il razzismo», in Civ. Catt. 2025 I 310-322.
[20] Nota in proposito Simona Forti: «Kant è colui che per primo rovescia l’immagine classica della legge, per cui non è più il bene a fondare la legge, ma la legge come tale a erigersi a bene. Se seguiamo il ragionamento fino al paradosso, possiamo allora affermare che Eichmann ha una qualche buona ragione per definirsi kantiano. Eichmann è colui che compie il male, ma come effetto collaterale di un agire che ha di mira la conformità al bene, vale a dire la conformità alla legge in quanto legge. È su tali premesse che è stato possibile stabilire la corriva equazione tra kantismo e nazismo […]: un codice di norme, di usi e di costumi che possono essere sostituiti con la stessa facilità con cui si cambiano le usanze conviviali» (istitutodegasperi-emilia-romag… [ultimo accesso 20 maggio 2019]).
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Lucia Berlin, il caleidoscopio di una vita
«Sono talmente stramba che non so neanche come si pronuncia il mio nome. Mia madre mi chiamava Lucìa, mio padre insisteva per pronunciarlo LÙSCIA, una battaglia costante nel corso della mia infanzia, che si placò solo in parte quando ci trasferimmo in Sud America e per tutti ero Lu-sì-a. Al mio secondo marito piaceva Lùscia, perciò chi mi conobbe in quel periodo (ed erano in tanti) mi chiamava così. Il mio terzo marito (rendo l’idea?) preferiva Lusìa, e dato che vivevamo in Messico ero Lusìa anche per tutti gli altri. […] Io sono tutti questi nomi»[1]. Così scriveva Lucia Berlin a un’amica poco prima di morire nel 2004.
Nata a Juneau, in Alaska, il 12 novembre del 1936, Berlin visse molteplici vite e morì relativamente giovane il giorno del suo sessantottesimo compleanno, il 12 novembre del 2004, a Marina del Rey, California. Autrice di racconti, in vita ne pubblicò 77. Pur apprezzata da alcuni scrittori come Lidya Davis, Tom Wolfe e Saul Bellow, fu sostanzialmente ignorata dal pubblico e divenne famosa solo nel 2015, 11 anni dopo la sua morte, quando Lidya Davis curò la pubblicazione di una raccolta di 43 racconti, che la fecero conoscere al grande pubblico. Da allora la sua fama è cresciuta, e oggi Berlin è considerata tra le grandi scrittrici di racconti statunitensi e nordamericane, nel canone che accoglie Grace Paley, Amy Hempel, Alice Munro, Annie Proulx, Raymond Carver e John Cheever.
In Italia, la sua notorietà è cresciuta via via con la pubblicazione delle raccolte dei suoi racconti: La donna che scriveva racconti, del 2016 e 2022; Sera in paradiso, del 2018; Una nuova vita. Racconti, saggi, diari, del novembre 2024, con cui si è completata la pubblicazione dei suoi scritti, compresi due racconti inediti del 1957, che costituiscono le sue prime realizzazioni, legate a una scuola di scrittura creativa da lei frequentata.
La vita
Nota letterariamente con il cognome del terzo marito, Berlin, la scrittrice Lucia Barbara Brown nasce nel 1936 da Wendell Theodore Brown e Mary Ellen Magruder. La vita della donna è segnata da moltissimi viaggi e cambiamenti. In un’intervista del 2003 afferma di aver cambiato nella propria vita 33 abitazioni. Al seguito del padre, ingegnere minerario, solo nei primi cinque anni di vita di Lucia la famiglia si sposta nei campi minerari di Idaho, Montana, Washington e Kentucky. Durante la Seconda guerra mondiale, il padre si arruola in marina come ufficiale e parte per il Pacifico. In questi mesi la famiglia, che nel frattempo si è allargata con la nascita della sorella più piccola di Lucia, Mollie Keith, vive a El Paso, Texas, con i nonni materni[2]. Al ritorno del padre, i Brown trascorrono due anni in Arizona e poi quattro (tra il 1949 e il 1953) in Cile, dove il padre ha accettato un lavoro che darà alla famiglia sicurezza e visibilità sociale[3]. Lucia frequenta con profitto le scuole e impara fluentemente lo spagnolo. Negli anni seguenti la padronanza della lingua ispanica costituirà una risorsa economica e lavorativa importante per la donna, che non riuscirà mai a vivere di ciò che scrive[4], ma solo dei molti lavori precari che si succederanno gli uni agli altri.
Terminato il liceo, Lucia torna negli Usa per frequentare la University of New Mexico ad Albuquerque[5]. Ribelle, ma anche vittima delle attenzioni moleste del padre, Lucia si innamora e si sposa una prima volta nel 1955, a 19 anni, con Paul Suttman, uno scultore dal quale avrà i primi due figli, Mark e Jeff. Alla notizia della sua seconda gravidanza e per il suo rifiuto di abortire, il marito la abbandona[6]. Lucia inizia a scrivere a partire dal 1957, grazie a un corso di scrittura creativa al quale si è iscritta. Nel 1958 conosce il musicista Race Newton, che sposa nel giugno di quell’anno. Grazie a Race, conosce altri due uomini importanti della sua vita: il primo è il poeta Ed Dorn, che per tutta la vita ne appoggerà e sosterrà l’impegno creativo, aiutandola anche a trovare spazi di pubblicazione. Il secondo è Buddy Berlin, imprenditore e musicista jazz, che diventerà il suo terzo marito nel 1962 e adotterà i primi due figli, dando loro il cognome[7].
In quegli anni Lucia si trasferisce a Santa Fe e a New York, scrive i primi racconti, lavora a due opere, Acacia e A Peaceable Kingdom, che non completerà mai, ma che forniranno il materiale per successivi racconti, che costituiranno sempre la misura migliore della sua espressione letteraria. Se con il tempo si scopre che il suo secondo marito ha problemi di alcolismo, il terzo marito si rivela un tossicomane. Il matrimonio con quest’ultimo durerà cinque anni. Nel 1967 Buddy e Lucia divorzieranno, ma lei continuerà a usarne il cognome per firmare le proprie opere. Gli anni con Buddy sono ricchi di viaggi e lunghe permanenze in Messico o ad Albuquerque. Le risorse economiche del marito consentono alla famiglia un buon tenore di vita; vi sono momenti felici, ma il problema della dipendenza di lui e dei successivi periodi di disintossicazione espongono Lucia ad alcuni episodi di vita drammatici[8]. In questi anni nascono altri due figli: David nel 1962 e Daniel nel 1965. Lucia riprende anche gli studi letterari.
Quando Lucia e Buddy divorziano, lei ha appena 32 anni, tre matrimoni alle spalle e quattro figli di cui prendersi cura. Tra il 1967 e il 1969 vive da sola con i figli, si laurea in spagnolo e prosegue con la specializzazione, ha una serie di relazioni e inizia a bere fino a diventare un’alcolista. Si tratta di un problema diffuso nella sua famiglia (anche sua madre e suo fratello lo furono per lunghi anni). L’alcolismo segnò la vita di Berlin almeno fino al 1987, quando, dopo un ultimo ricovero in ospedale, smise definitivamente di bere[9]. Sono anni di scrittura e di continui cambiamenti di lavoro. Donna delle pulizie, giardiniera, centralinista in varie strutture cliniche e ospedaliere, addetta all’accoglienza in ambulatori medici, insegnante in scuole private o in carceri minorili, in strutture di riabilitazione e disintossicazione: la lista dei lavori della scrittrice è lunga, e colpisce come sia un susseguirsi di luoghi di umanità dolente e ferita.
Certamente questa lunga e frammentata frequentazione dei luoghi del dolore, della malattia e dell’esclusione influì sullo sguardo empatico e umanissimo che Berlin rivela nei suoi racconti, che lentamente vengono composti e compaiono in riviste minori o pubblicati in edizioni di nicchia. Nel frattempo, i figli crescono, si susseguono le relazioni, accadono eventi drammatici nella sua vita: violenze, incendi, suicidi, distruzione dei suoi scritti. La salute malferma della scrittrice è l’altro elemento costante della sua vita. Fin dall’età di 10 anni le viene diagnosticata una forma acuta di scoliosi e, se per molti anni della sua gioventù lei dovette portare corsetti ortopedici, a partire dal 1995 (all’età di 59 anni) fu costretta a portare sempre con sé una bombola d’ossigeno, perché una costola le aveva perforato un polmone a causa della scoliosi. Per un anno, tra il 1991 e il 1992, vive con la sorella malata di cancro in Messico[10], assistendola quotidianamente fino alla sua morte.
A partire dagli anni Novanta, la vita di Berlin sembra farsi più stabile, così ne guadagna la scrittura. Grazie all’interessamento di Ed Dorn, amico di una vita, fra il 1994 e il 2000 insegna scrittura creativa presso l’University of Colorado, a Boulder. Questo è il periodo di maggiore stabilità nella vita della scrittrice. È molto amata e apprezzata come insegnante. Ritiratasi dall’insegnamento per problemi di salute, si trasferisce a Los Angeles per vivere vicino ai figli. Nel 2001 le viene diagnosticato un tumore, e scrive il suo ultimo racconto, «Io e B.F.». Muore nel 2004 a Marina del Rey, dove si è trasferita l’anno precedente[11].
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I racconti di Lucia Berlin e la relazione con altre scrittrici di racconti
Berlin ha scritto 81 racconti. Di questi, due sono andati dispersi[12] e due sono stati pubblicati postumi[13]. Gli altri 77 sono stati pubblicati distribuiti in varie raccolte. La fama della scrittrice è però legata all’antologia pubblicata postuma nel 2015, dal titolo A Manual for Cleaning Women, che gioca su un duplice e ambiguo significato. Letteralmente, infatti, il titolo può essere tradotto sia «Un manuale per donne delle pulizie», sia «Un manuale per pulire le donne». Il titolo scelto dalla traduzione italiana «tradisce» il gioco di parole e preferisce un più anodino La donna che scriveva racconti[14]. Se la pubblicazione del più recente Una nuova vita, del novembre 2024, ha riportato l’attenzione sulla scrittrice statunitense, è certamente al precedente La donna che scriveva racconti che si deve la sua vasta notorietà. Se per descrivere l’insieme dell’opera dei suoi racconti si può usare l’aggettivo «jazzistico», per quanto appare di riscrittura nelle «variazioni» di alcuni temi ricorrenti, vi sono almeno tre nuclei o cicli di narrazione più evidenti. Il più chiaro è quello legato alla malattia della sorella e all’assistenza di lei in Messico. Un altro risale alla sua esperienza in contesti ospedalieri, clinici e ambulatoriali. Infine, il terzo è la condizione di giovane madre e di donna afflitta dal problema dell’alcol.
Il nome di Berlin viene spesso affiancato a quello di Grace Paley, di Tillie Olsen, di Amy Hempel e di Alice Munro, come se esistesse un canone femminile del racconto breve. A noi sembra impropria e scivolosa la categoria di scrittura al femminile, perché nega l’unicità di ogni autore e in qualche modo attribuisce alla letteratura etichette di genere che ne impoveriscono il carattere universale. È sufficiente considerare che la maggior parte dei racconti delle scrittrici che abbiamo citato ha come protagoniste delle donne per poter parlare di «genere femminile»?
Qual è la nota propria della scrittura di Berlin? Molti racconti di Munro esplorano e rivelano le pieghe della vita: il lettore che la conosce attende l’intuizione finale che raccoglie ciò che è stato seminato invisibilmente nelle pagine precedenti. Grace Paley è vitale, mobile, politicamente impegnata, profondamente ironica; usa in modo unico la lingua per creare un mondo sonoro di accenti newyorchesi e dà voce al mondo femminile nel contesto degli anni Sessanta[15]. Tillie Olsen vibra di impegno civile e sociale; ogni pagina è strappata a una vita di attività politica, sindacale e di idealità socialista[16]. I racconti di Berlin mostrano altro: è il racconto della sua vita cristallizzata in schegge di parole, forse per capirla, forse per sopravvivervi. È l’immagine del caleidoscopio cui ci riferiamo nel titolo. La penna della scrittrice mostra passaggi e spazi di vita. Lo stile veloce e solo apparentemente semplice, la ricchezza e la precisione dei dettagli li rendono estremamente attraenti, così che il lettore ne viene facilmente coinvolto. Berlin vuole trasformare la sua esistenza in una pagina universale di umanità, e ci riesce rimanendo fedele all’unicità del suo punto di vista. La forza è nello stile: l’autrice è capace di riprendere il clima umano di un contesto, di riprodurre il ritmo della conversazione quotidiana, di porre attenzione ai dettagli concreti di un ambiente.
Tre ragioni per amare e frequentare le pagine di questa scrittrice
Il primo motivo per leggere le pagine di Berlin è la «verità» che vi si respira. I racconti non sono reali, sono «veri». Chi conosce qualche passaggio della vita di questa scrittrice può facilmente ritrovare moltissimo materiale biografico nei suoi racconti. Prima che l’autofiction diventasse una declinazione costante della narrativa contemporanea, quasi un inevitabile ancoraggio, Berlin attingeva già dalla propria straordinaria esperienza umana personaggi, panorami, ambienti, colori e profumi per immetterli nel proprio mondo narrativo. «Per me l’atto di scrivere è non verbale, il piacere del processo si colloca in quello che Charlie Parker[17] ha definito “il silenzio tra le note”. Spesso i miei racconti sono come poesie o diapositive che illustrano un sentimento, un’epifania, il ritmo di un’epoca o di una città. Un aroma o una risata può scatenare ricordi che si cristallizzano in una storia»[18].
La varietà dei contesti delle vicende riflette la personale esperienza della scrittrice: che sia il Messico di Puerto Vallarta o di Città del Messico, New York o Albuquerque, la casa di argilla con il tetto di lamiera[19] nella campagna secca e arida del New Mexico di Corrales, o la stanza delle centraliniste di un ospedale, la vicenda si svolge in un luogo che Berlin ha conosciuto e frequentato. «In qualunque opera scritta, l’elemento appassionante non è l’identificazione con una situazione, ma questo riconoscimento della verità»[20]. A fronte di questa facile trasparenza, vi è come un gesto di ritrosia della scrittrice, che usa nomi di fantasia per nascondere sé stessa, i figli, i parenti, gli amici. Le vicende sono presentate e al tempo stesso nascoste. Il figlio primogenito Mark ha scritto, a proposito dello stile della madre, autrice di racconti: «Mamma scriveva storie vere; non necessariamente autobiografiche, ma neanche troppo distanti. Le storie e i ricordi della nostra famiglia sono stati via via rimodellati, abbelliti e adattati al punto che non sono sicuro di cosa sia realmente successo in tutto quel tempo. Lucia diceva che non aveva importanza: quello che conta è la storia»[21].
Quel che opera la letteratura è ciò che avviene anche nella memoria: la memoria trasforma, e la letteratura trasforma. Scrive Berlin: «Il più delle volte la mia fonte d’ispirazione è visiva […], ma l’immagine deve necessariamente collegarsi a un’esperienza specifica e intensa. Molte volte l’emozione che affiora è dolorosa, l’evento rammentato orribile. Perché la storia “funzioni” la scrittura deve sciacquare o congelare l’impulso iniziale. In qualche modo deve verificarsi la più impercettibile alterazione della realtà. Una trasformazione, non una distorsione della verità. La storia in sé diventa la “verità” non solo per lo scrittore ma per il lettore»[22].
Lungi dai trionfalismi di chi fa di sé stesso materia di narrazione, la scrittura di Berlin è un esercizio di composta umiltà, nel senso etimologico di «vicino alla terra», alla polvere, alla terrestrità. Nel noto racconto «La lavanderia a gettoni di Angel», del 1972, pubblicato dall’Atlantic Monthly nel 1976, Berlin scrive della protagonista: «Alla fine non potei fare a meno di fissare anch’io le mie mani. […] Nel mio sguardo, il panico. Mi fissai nello specchio, poi abbassai gli occhi sulle mani. Orrende macchie di vecchiaia, due cicatrici. Mani per nulla indiane, nervose, sole. Ci vedevo bambini, uomini e giardini, nelle mie mani»[23]. Vi è un profondo rispetto per il dolore e la fatica del vivere. In «Dolore fantasma», in cui ricorda il padre in ospedale, la cui memoria viene progressivamente erosa dalla demenza senile, un malato vicino di letto urla di dolore per l’amputazione delle gambe, e Berlin scrive: «John lo ignorava, leggeva la Bibbia o si contorceva e urlava nel suo letto: “Le mie gambe! Signore Gesù, fammi passare questo dolore alle gambe!”. “Càlmati John”, diceva Florida, “solo un dolore fantasma”. “Ma è vero?”, le ho chiesto io. Lei si è stretta nelle spalle. “Il dolore è sempre vero”»[24].
In «El Tim», Berlin mostra la potenza dell’empatia come agente di trasformazione, nella relazione della protagonista, insegnante di una scuola superiore, con un ragazzo intelligente ma problematico, tolto temporaneamente dal riformatorio per avere una possibilità ulteriore di riscatto. È un momento di profondissima empatia, vissuta e mostrata. «“Perché mi hai dato uno schiaffo?”, mi chiese Tim piano. Cominciai a rispondergli, volevo dirgli: “Perché sei stato insolente e scostumato”, ma vidi il suo sorriso di disprezzo mentre si aspettava che pronunciassi proprio quelle parole. “Ti ho dato uno schiaffo perché ero arrabbiata. Per Dolores e per il sasso. Perché mi sono sentita ferita e stupida”. I suoi occhi mi scrutarono. Per un istante il velo scomparve. “Allora siamo pari”, disse. “Sì”, dissi io, “Andiamo in classe”. M’incamminai per il corridoio con Tim, evitando il ritmo della sua andatura»[25].
Il secondo motivo per dedicare tempo alla lettura dei racconti di Berlin è la «santità» che si nasconde e a tratti traluce in essi. La vita della scrittrice fu travagliata, al tempo stessa vittima e carnefice di sé stessa, delle sue scelte affettive, delle sue fragilità e delle sue dipendenze. Scrive in un racconto del 1996: «Adesso va tutto bene. Amo il mio lavoro e i miei colleghi. Ho dei buoni amici. Vivo in un bell’appartamento appena sotto il monte Sanitas. […] Sono profondamente grata per la vita che conduco oggi. Perciò perdonami, Dio, se confesso che ogni tanto ho il diabolico impulso di mandarla tutta a rotoli. Non riesco nemmeno a credere che mi vengano certi pensieri, dopo tanti anni di tribolazioni»[26]. Non sono racconti che parlano di vite sante, ma in essi emerge la santità della vita, la sua insopprimibile dignità[27]. Lo sguardo leggero, che alcuni definiscono «ironico e divertito»[28], comunica una sorta di inalienabile speranza nella vita e nel futuro, dentro grandi dolori.
In «Carpe diem», del 1984, Berlin scrive, quasi all’inizio del racconto: «E le lavanderie a gettoni. Ma quelle erano un problema anche quando ero giovane. Richiedono troppo tempo, persino quelle della catena Speed Queen. Mentre stai seduto lì, tutta la vita ti passa davanti agli occhi, come se stessi affogando. Naturalmente se avessi un’auto potrei andare dal ferramenta o all’ufficio postale per poi tornare e infilare i pantaloni nell’asciugatrice. Le lavanderie senza assistenti sono anche peggio. Mi sembra sempre di essere l’unica persona lì dentro. Ma tutte le lavatrici e le asciugatrici sono in funzione… gli altri sono andati dal ferramenta»[29]. La quotidianità che stranisce e isola viene descritta con un tocco di ironia.
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Oppure il notissimo «Manuale per donne delle pulizie», del 1975, che racconta le varie esperienze di una donna delle pulizie (è la stessa Berlin) in case e con datrici di lavoro diverse, solo apparentemente è un racconto ironico, soprattutto nei passaggi in cui la scrittrice fornisce una serie di suggerimenti ad altre donne delle pulizie, ponendo le sue gemme di esperienza tra parentesi: «(Consiglio per le donne delle pulizie: prendete tutto quello che la vostra padrona vi offre e ringraziatela. Potete sempre lasciarlo sull’autobus)»[30]. Oppure questo: «(Donne delle pulizie: Fate capire che siete coscienziose. Il primo giorno rimettete a posto i mobili nel modo sbagliato… spostati di quindici-venti centimetri, o girati dalla parte sbagliata. Quando spolverate, invertite i gatti siamesi, mettete il bricco del latte a sinistra dello zucchero. Cambiate l’ordine degli spazzolini da denti). […] Fare le cose nel modo sbagliato non solo le rassicura sul fatto che siete coscienziose, ma fornisce loro l’opportunità di farsi valere e comandare. Molte donne americane non si sentono a loro agio all’idea di avere una domestica. Non sanno che cosa fare mentre tu sei in casa»[31].
In realtà, è la chiusura del racconto a rivelarne il cuore segreto, dolorosissimo, la sofferenza nell’elaborare il lutto di un ragazzo che l’amava e si è suicidato: «“Be’… chi vivrà vedrà”, ho detto io, e ci siamo messe a ridere. Ter, io non voglio affatto morire, in realtà. […] È una giornata fredda e tersa di gennaio. All’angolo della Ventinovesima compaiono quattro ciclisti con le basette, come un filo d’aquilone. Una Harley in folle alla fermata dell’autobus; dal pianale di un pick-up Dodge del ’50 i ragazzini salutano con la mano il motociclista. E finalmente piango»[32]. In molti racconti il sentimento della dignità della vita e della persona, nella sua fragile e persino drammatica imperfezione, permane e appare tra le righe.
Il terzo motivo per amare le pagine della scrittrice statunitense è che lei riesce a mantenersi nel difficile e precario equilibrio di dar voce a situazioni drammatiche senza giudicarle. Non prende posizione etica sulla pagina (sarebbe moralismo), ma aiuta noi a farlo nell’intimo della coscienza come lettori, lascia a noi il compito e la responsabilità di compiere questo passo «mostrando» l’ingiustizia, la violenza e la drammaticità della vita. Sono molteplici i racconti che riescono a compiere questo «miracolo» di coinvolgimento. Di sé stessa Berlin afferma: «Non sono mai stata realmente presente, l’unico posto in cui vado davvero sono i libri, dentro i libri. Di rado riesco a creare un’emozione autentica sulla pagina, e solo a quel punto si potrebbe dire che esisto sul serio. In Dolore fantasma, Temps perdu, Manuale per donne delle pulizie, ruota tutto intorno a questo»[33].
Sono molteplici i racconti dedicati alla complicata condizione femminile, a volte carica di vere angosce e drammi. Ad esempio, quando, in «Silenzio», la scrittrice allude alle molestie del nonno su di lei e sulla sorella più piccola; quando, in «La vie en rose», racconta l’esperienza del primo bacio da adolescente estorto da un ragazzo più grande e per il quale viene invece accusata dal padre con il terribile termine «sgualdrina»; quando, in «Cara Conchi», ricorda di come sia stata lasciata sola su un ponte in mezzo al niente, come fosse un pacco, per aver espresso le sue opinioni, ugualmente ignorata dal padre e dal ragazzo dell’epoca: per l’uno non contano i pareri, per l’altro non contano i sentimenti. Oppure possiamo ammirare la levità con cui riesce a portare il lettore alla molestia raccontata in «Sex appeal»,che accade improvvisa e inaspettata e gela il lettore come la ragazzina protagonista.
Il sentimento religioso e la maternità
Berlin non può essere presentata come scrittrice credente che affronta esplicitamente temi di fede e spiritualità cristiana, come Marilynne Robinson e Flannery O’Connor, o come Jon Fosse. Tuttavia, quando appare, il sentimento religioso è vero. Nel racconto «Randagi», del 1985, Berlin scrive: «La luna. Non esiste luna come quella di una notte limpida del New Mexico. […] Il mondo continua ad andare avanti. Alla fine non c’è molto altro che conti. Che conti davvero, voglio dire. Ma poi qualche volta ti capita, per un secondo, di essere toccato da questa grazia, dalla certezza che invece ci sia qualcosa che conta, che conta davvero»[34].
Il sentimento religioso è legato alla maternità e al senso di profonda vicinanza alla Vergine Maria in «Fool to Cry», del 1992. Berlin assiste al battesimo di molti bambini e scrive, a proposito dei parenti presenti: «I genitori erano seri, pregavano con solennità. Mi sarebbe piaciuto che il prete benedicesse anche tutte le madri, che facesse questo gesto, desse loro qualche protezione. Nei paesini messicani, quando i miei figli erano molto piccoli, qualche volta gli indios gli facevano il segno della croce sulla fronte. Pobrecito! Dicevano. Era un peccato che una creatura tanto graziosa fosse destinata a soffrire nella vita! […] Uscendo dalla chiesa accendo una candela davanti alla statua della Beata Vergine Maria. Pobrecita»[35].
Legati all’esperienza della maternità, non si possono non citare «Morsi di tigre»[36], del 1989, e «Mijito»[37], del 1998, intensissimi racconti di maternità travagliate. Nel primo, Berlin racconta il momento in cui la giovane protagonista del racconto, che si è recata in Messico per abortire, decide di non farlo, tenendo il secondo figlio, che attende a soli 22 anni, e per questo accettando che il marito la abbandoni, forma ulteriore di violenza che una donna può subire. Nel secondo racconto, la scrittrice inserisce nel contesto clinico ospedaliero la vicenda di una giovanissima ragazzina messicana immigrata, che si ritrova sola ad accudire il bambino appena nato in un contesto estraneo, nemico, senza conoscere l’inglese, senza riferimenti affettivi e relazionali. È un racconto crudo e pesante come una pietra.
Lo sfondo dei figli è presente anche nel racconto «Incontrollabile»[38], del 1992, racconto che mostra con luce livida la sete che consuma la protagonista, divisa tra la necessità di procurarsi degli alcolici e il buon senso di non uscire di notte lasciando i figli piccoli a casa da soli.
La maternità minacciata dalla dipendenza affettiva della donna nei confronti del marito è lo sfondo del crudo «Carmen»[39], del 1996, nel quale Berlin riprende l’episodio autobiografico in cui lei fu spinta dal marito eroinomane a prestarsi per andare a prendere della droga, pur essendo in gravidanza inoltrata.
Conclusioni
Lucia Berlin ha vissuto una vita che esce dagli schemi della normalità. Nella varietà dei luoghi e delle situazioni attraversate, il filo rosso che l’accompagna è l’amore per la letteratura e per la scrittura. Se si potesse immaginare una figura che riassuma l’opera di uno scrittore, per Berlin potremmo dire che essa coincide con il «caleidoscopio», che ben rappresenta e sintetizza la bellezza dei suoi racconti, tratti da «pezzi di vita», talvolta da finestre su «una vita a pezzi».
Nella brevità e semplicità della presentazione di questo articolo, emergono tre elementi che, a nostro parere, raccolgono i migliori tratti della scrittura di Berlin. Il primo è l’autenticità delle situazioni di vita e la prossimità alle fragilità; il secondo è la santità, o dignità della vita umana, che emerge oltre le ferite e le ombre che possono segnarla; il terzo è il coinvolgimento emotivo e la chiamata etica che i racconti suscitano, che possiamo intendere anche come una chiamata alla «compassione», interpretata in senso etimologico come un «patire insieme» a lei e ai personaggi femminili, dietro i quali lei racconta la vita, creando pagine di intensa letteratura.
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[1] L. Berlin, «Buoni e cattivi», in Id., La donna che scriveva racconti, Torino, Bollati Boringhieri, 2022, 148.
[2] Nei racconti, i nonni compaiono come Mamie e il dr. Moynihan, al cui terribile ritratto è dedicato il racconto omonimo «Il dottor H. A. Moynihan», del 1981. La datazione di questo e dei successivi racconti si riferisce all’anno di completamento, non a quello di pubblicazione. Per la cronologia dei racconti, cfr la «Bibliografia» in L. Berlin, La donna che scriveva racconti, cit., 248-250.
[3] Agli anni cileni si ispirano i racconti «La vie en rose», del 1987, e «Buoni e cattivi», del 1992. Quest’ultimo in particolare riflette le tensioni sociali e politiche di quegli anni.
[4] I primi introiti per i diritti delle sue pubblicazioni arriveranno infatti solo nel 2000 e ammonteranno alla cifra di 980 dollari, secondo la scheda cronologica del figlio Jeff.
[5] Il trasferimento dal Cile al New Mexico costituisce lo sfondo del racconto «Cara Conchi», del 1992.
[6] Questa situazione costituisce lo sfondo del racconto «Morsi di tigre», del 1989.
[7] Race Newton e Buddy Berlin compaiono con altri nomi in molti racconti. Uno per tutti, ad esempio, è «Ci vediamo», del 1992.
[8] I racconti più significativi che ritraggono l’altalenanza di questo periodo sono «La barca de la Ilusiόn», del 1990, e il cupo «Carmen», del 1996.
[9] Molti sono i racconti che descrivono questa condizione: «La fossa», del 1981; «La prima disintossicazione», del 1981; «Passo», del 1986; «Incontrollabile», del 1992; «502», del 1996.
[10] I racconti legati a questo periodo di vita e alla relazione con la sorella costituiscono il nucleo più consistente di storie all’interno della sua produzione letteraria. Ricordiamo «Polvere alla polvere», del 1986, e «Aspetta un attimo», del 1997.
[11] I riferimenti biografici sono estrapolati dalla scheda cronologico-biografica scritta dal figlio Jeff Berlin, in L. Berlin, Una nuova vita. Racconti, saggi, diari, Torino, Bollati Boringhieri, 2024, 217-242.
[12] «The Beisbol Game» e «A Token of Esteem», entrambi del 1959.
[13] Durante la sua vita, Berlin perse i suoi scritti due volte. La prima fu quando dei ladri entrarono in casa e, portando via tutto quello che vi avevano trovato, rubarono anche i suoi racconti. La seconda fu quando scoppiò un incendio in casa, e le fiamme distrussero anche i testi autografi che vi si trovavano.
[14] Cfr L. Berlin, La donna che scriveva racconti, cit.
[15] Per una presentazione di Grace Paley, cfr anche D. Mattei, «Grace Paley: un esercizio di ascolto», in Civ. Catt. 2025 II 95-107.
[16] Per una presentazione di Tillie Olsen, cfr anche Id., «Tillie Olsen e “Le vite dei più”», in Civ. Catt. 2025 I 456-465.
[17] Charlie Parker fu un noto sassofonista, musicista jazz, nato a Kansas City nel 1920 e morto a New York nel 1955. La sua figura ispirò anche un altro scrittore di racconti brevi, Julio Cortázar. Il protagonista della nota novella Il persecutore è un alias di Parker. Per approfondire, cfr D. Mattei, «Julio Cortázar e il racconto delle pieghe “velate” del reale», in Civ. Catt. 2024 IV 445-458.
[18] L. Berlin, Una nuova vita. Racconti, saggi, diari, cit., 165.
[19] Riferimento al racconto con il medesimo titolo, «Una casa d’argilla con il tetto di lamiera», del 1988. Si riferisce al periodo trascorso da Berlin a Corrales, piccolo centro alle porte di Albuquerque, dopo il divorzio da Buddy Berlin.
[20] L. Berlin, Una nuova vita. Racconti, saggi, diari, cit., 165.
[21] Id., Sera in paradiso, Torino, Bollati Boringhieri, 2018, 272.
[22] Id., Una nuova vita. Racconti, saggi, diari, cit., 165.
[23] Id., La donna che scriveva racconti, cit., 10.
[24] Id., «Dolore fantasma», ivi, 78.
[25] Id., «El Tim», ivi, 63.
[26] Id., «502», ivi, 413.
[27] «Una dignità infinita, inalienabilmente fondata nel suo stesso essere, spetta a ciascuna persona umana, al di là di ogni circostanza e in qualunque stato o situazione si trovi» (Dicastero per la dottrina della fede, Dichiarazione Dignitas infinita, n. 1).
[28] L’ironia è il tratto che, secondo alcuni, accomuna Berlin a Paley. Ci sembra che l’ironia usata da Paley sia una forma di trasfigurazione della realtà, mentre in Berlin sia la distanza minima dai fatti, che permette di «respirare». In quell’interstizio si crea letteratura e agisce la speranza.
[29] L. Berlin, «Carpe diem», in Id., La donna che scriveva racconti, cit., 127.
[30] Id., «Manuale per donne delle pulizie», ivi, 37-39.
[31] Ivi, 46.
[32] Ivi, 50.
[33] L. Berlin, Una nuova vita. Racconti, saggi, diari, cit., 192.
[34] Id., «Randagi», in Id., La donna che scriveva racconti, cit., 202-203.
[35] Id., «Fool to cry», ivi, 262 s.
[36] Id., «Morsi di tigre», ivi, 83-104.
[37] Id., «Mijito», ivi, 385-411.
[38] Id., «Incontrollabile», ivi, 177-180.
[39] Id., «Carmen», ivi, 359-368.
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Aprender a sentir en Cristo
Questo libro ha avuto origine da alcune lezioni tenute dal gesuita p. Guerrero, per presentare tutte le «Regole» degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio a un gruppo di gesuiti, cercando di collegarle con la situazione che viviamo nelle nostre società e nella nostra cultura.
Ci troviamo in un «cambiamento di epoca», che ha un impatto sui credenti. Quando si parla di «raccoglimento», non è lo stesso quello vissuto nella passata società agricola, che funzionava al suono delle campane della chiesa, e quello vissuto nella nostra, immersa nel vortice dei social, che richiedono e disperdono la nostra attenzione. I cambiamenti sono stati enormi, innanzitutto nel contesto esterno, ma anche nell’interiorità delle persone.
Il libro è diviso in cinque capitoli. Il primo analizza una lettera scritta da sant’Ignazio a Teresa Rejadell, una suora che gli confidava lo stato della sua anima. La lettera anticipa le «Regole» degli Esercizi e mette in risalto la necessità di leggere anche il nostro contesto per progredire nel cammino della spiritualità.
Il secondo capitolo studia le «Regole di discernimento» della prima settimana degli Esercizi, che affrontano il problema di sentirsi scoraggiati o tentati di rinunciare. Si considera anche la persona attuale, il suo modo di sentire, la sua concezione del tempo o la sua ricerca di un’«euforia perpetua», che la porta a non valorizzare l’alternanza di sentimenti, che invece la rafforzerebbe. Si parla anche di scrupoli, una tentazione che attanaglia con la paura.
Il terzo capitolo è dedicato alle «Regole di discernimento» più appropriate alla seconda settimana degli Esercizi. Esse corrispondono al momento della scelta. È la fase in cui l’esercitante cerca di unire la sua volontà a quella di Dio e di scegliere la sua vocazione. In questo processo, una delle tentazioni più frequenti è «la tentazione sotto l’apparenza del bene», che porta a diminuire o deviare il bene che siamo chiamati a fare. Il capitolo è completato da una breve spiegazione delle «Regole per la distribuzione dell’elemosina», da intendere come regole per distribuire i doni che abbiamo per il bene degli altri.
Il quarto capitolo esamina le «Regole per ordinarsi nel mangiare». Sant’Ignazio inserisce queste Regole nella terza settimana degli Esercizi, quando si contempla la Passione del Signore. Si tratta di regole abbastanza pratiche, che ci aiutano a ordinare le nostre attività, il nostro riposo, la nostra navigazione in internet, e tante altre cose quotidiane che, oltre a essere necessarie biologicamente, socialmente o culturalmente, hanno un qualche piacere concorrente, che può turbare l’ordine e rovinare ciò che è più sacro.
Il quinto capitolo tratta delle «Regole per sentire con la Chiesa», che devono essere vissute in una cultura individualistica come la nostra. Sono regole che, più che per gli Esercizi, sono per la persona che li ha fatti e che è chiamata a una vita di servizio per gli altri, a essere costruttrice della comunità e a mantenere la comunione con la Chiesa.
Questo libro, presentando i consigli contenuti negli Esercizi spirituali ignaziani con un linguaggio adatto alle nostre categorie, intende aiutare le persone che sono alla ricerca di Dio e vogliono prestare attenzione a ciò che accade dentro di loro e di rispondere alla chiamata che stanno vivendo. L’A. ci mostra che, per sant’Ignazio, l’esperienza spirituale interiore cerca di tradursi in un’azione a favore degli altri e per il bene del mondo in cui viviamo. In questa ottica, p. Guerrero presenta alcune analisi della società e della cultura in cui viviamo, cercando di capire in che modo essa influisca sulla nostra vita spirituale, sul nostro discernimento o sulla nostra maniera di essere. E, quasi di sfuggita, ma come filo conduttore, riesce a mostrare che l’applicazione delle Regole ignaziane, negli Esercizi o al di fuori di essi, può plasmare un soggetto spirituale coerente e attrezzarlo interiormente affinché la sua vita sia orientata agli altri e all’Altro, senza soccombere all’egoismo, che gli fa cercare la felicità fuori da Dio, o nelle creature a prescindere da lui. Così egli scoprirà che la vera vita è amare Dio in tutte le cose e tutte le cose in lui.
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noyb WIN: La DPA francese multa Google per 325 milioni di euro per le "email di spam" in Gmail La CNIL ha multato Google per 325 milioni di euro per aver creato email di spam in Gmail mickey04 September 2025
EDRi warns against GDPR ‘simplification’ at EU Commission dialogue
On 16 July 2025, EDRi participated in the European Commission’s GDPR Implementation Dialogue. We defended the GDPR as a cornerstone of the EU’s digital rulebook and opposed further attempts to weaken it under the banner of ‘simplification’. The discussion was more divided than the official summary suggests.
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Hessisches Psychisch-Kranken-Hilfegesetz: „Aus einem Genesungsschritt wird ein Sicherheitsrisiko gemacht“
Reviewing the “Convention against Corruption” in Vienna
The following is a comment from PPI’s main representative at UNOV, Kay Schroeder, who recently tried to attend the United Nations “Convention against Corruption” (UNCAC) in Vienna.
“This week, the “Conference of the States Parties to the United Nations Convention against Corruption” has begun in Vienna. Unfortunately, I cannot attend, as civil society is barred from participating. Nevertheless, I would like to share my thoughts on the topic of anti-corruption, the obvious impossibility of addressing this issue by the very suspects themselves, and the accompanying shadowboxing.
UNCAC is the highest decision-making body of the United Nations in the fight against corruption. Its tasks include implementing adopted measures, coordinating new initiatives, and deciding on future anti-corruption efforts. A commendable agenda, yet one that falters due to the nature of the states themselves—being the very subjects of corruption through their own representatives in the UN bodies tasked with oversight and enforcement.
It is evident that an institution composed exclusively of state actors can hardly contribute meaningfully to combating corruption, as its representatives are part of the problem. The exclusion of civil society from participation reinforces this impression, especially since we as Pirates have always stood for transparency and decentralization—two essential pillars of anti-corruption that rarely find their way into these forums.
There is, however, some good news from the perspective of anti-corruption. Quite unironically, Austria has today abolished official secrecy. After 100 years, the Freedom of Information Act is making its debut. That’s longer than the UN has existed.”
We thank Mr. Schroeder and all of our PPI UN representatives for their hard work attempting to represent us at the UN and reporting back to us.
If you or any other Pirates you know would like to participate in UN events, please let us know by filling out the volunteer form: lime.ppi.rocks/index.php?r=sur…
If you would like to help PPI continue to send representatives to these meetings, please consider making a small donation to our organization or becoming a member. If you would like to be involved personally in the movement, by writing about these issues or attending events, please let us know.
pp-international.net/donations…
Ah però... avevano finito i francobolli per le lettere di licenziamento e hanno avuto questa idea brillante?
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Il prezzo della sorveglianza: perché la polizia irlandese ha pagato una società israeliana di spyware?
@Informatica (Italy e non Italy 😁)
Nelle pieghe opache della sicurezza nazionale, la linea tra difesa dello Stato e abuso di potere è sottile. L’ultima vicenda che riporta questo conflitto al centro del dibattito arriva dall’Irlanda, dove i
L’aggressività di Trump spinge l’India tra le braccia di Pechino?
@Notizie dall'Italia e dal mondo
Assediata dai dazi statunitensi, l'India rafforza le relazioni con Mosca e avvia il disgelo con la Cina, potenza da sempre considerata con sospetto da New Delhi
L'articolo pagineesteri.it/2025/09/04/asi…
Restoring a Vintage Intel Prompt 80 8080 Microcomputer Trainer
Over on his blog our hacker [Scott Baker] restores a Prompt 80, which was a development system for the 8-bit Intel 8080 CPU.
[Scott] acquired this broken trainer on eBay and then set about restoring it. The trainer provides I/O for programming, probing, and debugging an attached CPU. The first problem discovered when opening the case is that the CPU board is missing. The original board was an 80/10 but [Scott] ended up installing a newer 80/10A board he scored for fifty bucks. Later he upgraded to an 80/10B which increased the RAM and added a multimodule slot.
[Scott] has some luck fixing the failed power supply by recapping some of the smaller electrolytic capacitors which were showing high ESR. Once he had the board installed and the power supply functional he was able to input his first assembly program: a Cylon LED program! Making artistic use of the LEDs attached to the parallel port. You can see the results in the video embedded below.
[Scott] then went all in and pared down a version of Forth which was “rommable” and got it down to 5KB of fig-forth plus 3KB of monitor leads to 8KB total, which fit in four 2716 chips on the 80/10B board.
To take the multimodule socket on the 80/10B for a spin [Scott] attached his SP0256A-AL2 speech multimodule and wrote two assembly language programs to say “Scott Was Here” and “This is an Intel Prompt 80 Computer”. You can hear the results in the embedded video.
youtube.com/embed/C9CFD0suW_0?…
Thanks to [BrendaEM] for writing in to let us know about [Scott]’s YouTube channel.
Trump incontra tutti i leader tecnologici delle AI alla Casa Bianca. Grande Assente Elon Musk!
Oggi, Giovedì 4 Settembre 2025, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ospiterà oltre due dozzine di leader del mondo della tecnologia e dell’imprenditoria per una cena nel Roseto della Casa Bianca, recentemente ristrutturato. A riferirlo è stato un funzionario dell’amministrazione, che ha confermato la presenza di figure di spicco come Mark Zuckerberg di Meta, Tim Cook di Apple, Bill Gates di Microsoft e Sam Altman di OpenAI.
L’incontro rappresenta un momento significativo nel rapporto tra Trump e la Silicon Valley, caratterizzato in passato da scontri su temi come la moderazione dei contenuti e le normative antitrust. Dopo la vittoria elettorale di Trump nel 2024, il settore tecnologico ha intrapreso un percorso di avvicinamento, ridefinendo le proprie posizioni nei confronti della nuova amministrazione.
Secondo fonti interne, diversi dirigenti hanno cercato di allinearsi alle priorità della Casa Bianca, in particolare sostenendo la riduzione delle iniziative legate a diversità ed equità. Allo stesso tempo, le aziende tecnologiche stanno mostrando grande interesse nel rafforzare il dialogo con Trump sulle potenzialità dell’intelligenza artificiale e sulle tecnologie emergenti.
Il portavoce della Casa Bianca, Davis Ingle, ha dichiarato che il presidente è impaziente di accogliere i principali leader del business e della tecnologia per questa occasione e per altre cene future che si svolgeranno nel nuovo patio del Rose Garden. L’evento è stato riportato in anteprima dal notiziario The Hill.
La ristrutturazione del Roseto, completata ad agosto, ha trasformato l’iconico prato in un patio in pietra con tavoli e ombrelloni, richiamando lo stile del resort Mar-a-Lago di Trump in Florida. La cena segue di pochi giorni un incontro dedicato all’intelligenza artificiale organizzato alla Casa Bianca dalla first lady Melania Trump, al quale hanno preso parte diversi CEO e leader del settore.
Tra gli invitati figurano Sundar Pichai di Google, Safra Catz di Oracle, David Limp di Blue Origin, Sanjay Mehrotra di Micron Technology e Greg Brockman di OpenAI. Saranno presenti anche Satya Nadella di Microsoft, Vivek Ranadive dei Sacramento Kings, Shyam Sankar di Palantir e Alexandr Wang, Chief AI Officer di Meta.
Nonostante l’ampia partecipazione di volti di primo piano, Elon Musk non figura nella lista. L’imprenditore, fondatore di Tesla e SpaceX, era stato in passato consigliere di Trump, ma un contrasto pubblico all’inizio dell’anno ha segnato una rottura nel loro rapporto, confermata da un funzionario della Casa Bianca.
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Red Hot Cyber Conference 2026: Aperte le Sponsorizzazioni per la Quinta Edizione a Roma
La Red Hot Cyber Conference è ormai un appuntamento fisso per la community di Red Hot Cyber e per tutti coloro che operano o nutrono interesse verso il mondo delle tecnologie digitali e della sicurezza informatica. La quinta edizione si terrà a Roma, lunedì 18 e martedì 19 maggio 2026, presso lo storico Teatro Italia, e vedrà due giornate dense di contenuti, attività pratiche e networking. Lunedì 18 sarà dedicato ai workshop “hands-on” (che verranno realizzati con il nostro storico sponsor Accenture Italia che ci ha accompagnato nelle ultime 3 edizioni) e alla competizione Capture The Flag, mentre martedì 19 andrà in scena la conferenza principale, con interventi di esperti e la premiazione ufficiale della CTF.
Con l’avvicinarsi dell’evento, Red Hot Cyber apre ufficialmente il Program Sponsor per l’edizione 2026. Si tratta di un’iniziativa fondamentale che, come ogni anno, consente alle aziende di affiancare il proprio brand a un evento di riferimento in Italia sul tema della cybersecurity.
Le sponsorizzazioni non rappresentano solo un contributo alla realizzazione dell’evento, ma anche un’opportunità di grande visibilità e posizionamento strategico all’interno di un ecosistema che raccoglie professionisti, istituzioni e giovani talenti. Inoltre consentono di rendere questo evento accessibile a tutti in forma gratuita.
Le modalità di adesione sono diversificate per permettere alle aziende di scegliere il livello di coinvolgimento più adatto. Come di consueto, sono previsti tre pacchetti principali – Platinum, Gold e Silver – che garantiscono vantaggi crescenti in termini di presenza mediatica, spazi espositivi e opportunità di interazione diretta con i partecipanti. Oltre a questi, è possibile diventare “sponsor sostenitori”, le prime realtà che credono nel progetto e che contribuiscono ad avviare concretamente i lavori organizzativi della conferenza.
All’interno della Red Hot Cyber Conference 2026, le aziende che aderiranno come Sponsor Sostenitore o Sponsor Platinum avranno un vantaggio esclusivo: la possibilità di tenere uno speech durante la conferenza, un’occasione unica per presentarsi davanti a un pubblico qualificato, composto da esperti, professionisti, istituzioni e appassionati del mondo digitale e della sicurezza informatica. Questo anno sarà possibile, da parte degli sponsor, acquisire anche degli spazi espositivi che saranno posizionati nel foyer del teatro.
Inoltre, per tutti i livelli di sponsorizzazione – dai sostenitori fino al Silver – sarà incluso nel pacchetto un programma di branding dedicato, che prevede la presenza di un banner in rotazione sul sito ufficiale di Red Hot Cyber, la pubblicazione di articoli sul portale e il conseguente rilancio sui canali social ufficiali della community. Una formula pensata per massimizzare la visibilità degli sponsor, garantendo un ritorno di immagine concreto e continuativo, non limitato ai soli giorni dell’evento ma esteso anche nei mesi precedenti e successivi alla conferenza.
Le adesioni sono già aperte per aderire come sponsor alla Red Hot Cyber Conference 2026. Per ricevere il Media Kit e tutte le informazioni relative ai vantaggi delle diverse formule di sponsorizzazione, è possibile scrivere a sponsor@redhotcyber.com
Questa è l’occasione ideale per prendere parte a un evento unico in Italia, entrare in contatto con i principali protagonisti della cybersecurity e dimostrare concretamente il proprio impegno verso l’innovazione e la consapevolezza digitale.
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Hexstrike-AI scatena il caos! Zero-day sfruttati in tempo record
Il rilascio di Hexstrike-AI segna un punto di svolta nel panorama della sicurezza informatica. Il framework, presentato come uno strumento di nuova generazione per red team e ricercatori, è in grado di orchestrare oltre 150 agenti di intelligenza artificiale specializzati, capaci di condurre in autonomia scansioni, sfruttamento e persistenza sugli obiettivi. A poche ore dalla sua diffusione, però, è stato oggetto di discussioni nel dark web, dove diversi attori hanno tentato di impiegarlo per colpire vulnerabilità zero-day, con l’obiettivo di installare webshell per l’esecuzione di codice remoto non autenticato.
Hexstrike-AI era stato presentato come un “rivoluzionario framework di sicurezza offensiva basato sull’intelligenza artificiale”, pensato per combinare strumenti professionali e agenti autonomi. Tuttavia, il suo rilascio ha rapidamente suscitato interesse tra i malintenzionati, che hanno discusso del suo impiego per sfruttare tre vulnerabilità critiche di Citrix NetScaler ADC e Gateway, rivelate il 26 agosto. In poche ore, uno strumento destinato a rafforzare la difesa è stato trasformato in un motore di sfruttamento reale.
Post sul dark web che parlano di HexStrike AI, subito dopo il suo rilascio. (Fonte CheckPoint)
L’architettura del framework si distingue per il suo livello di astrazione e orchestrazione, che permette a modelli come GPT, Claude e Copilot di gestire strumenti di sicurezza senza supervisione diretta. Il cuore del sistema è rappresentato dai cosiddetti MCP Agents, che collegano i modelli linguistici alle funzioni offensive. Ogni strumento, dalla scansione Nmap ai moduli di persistenza, viene incapsulato in funzioni richiamabili, rendendo fluida l’integrazione e l’automazione. Il framework è inoltre dotato di logiche di resilienza, capaci di garantire la continuità operativa anche in caso di errori.
Particolarmente rilevante, riporta l’articolo di Check Point, è la capacità del sistema di tradurre comandi generici in flussi di lavoro tecnici, riducendo drasticamente la complessità per gli operatori. Questo elimina la necessità di lunghe fasi manuali e permette di trasformare istruzioni come “sfrutta NetScaler” in sequenze precise e adattive di azioni. In tal modo, operazioni complesse vengono rese accessibili e ripetibili, abbattendo la barriera di ingresso per chi intende sfruttare vulnerabilità avanzate.
HexStrike AI MCP Toolkit. (Fonte CheckPoint)
Il tempismo del rilascio amplifica i rischi. Citrix ha infatti reso note tre vulnerabilità zero-day: la CVE-2025-7775, già sfruttata in natura con webshell osservate su sistemi compromessi; la CVE-2025-7776, un difetto di gestione della memoria ad alto rischio; e la CVE-2025-8424, relativa al controllo degli accessi nelle interfacce di gestione. Tradizionalmente, lo sfruttamento di queste falle avrebbe richiesto settimane di sviluppo e conoscenze avanzate. Con Hexstrike-AI, invece, i tempi si riducono a pochi minuti e le azioni possono essere parallelizzate su vasta scala.
Le conseguenze sono già visibili: nelle ore successive alla divulgazione dei CVE, diversi forum sotterranei hanno riportato discussioni su come usare il framework per individuare e sfruttare istanze vulnerabili. Alcuni attori hanno persino messo in vendita i sistemi compromessi, segnalando un salto qualitativo nella rapidità e nella commercializzazione delle intrusioni. Tra i rischi principali vi è la riduzione drastica della finestra temporale tra divulgazione e sfruttamento di massa, che rende urgente un cambio di paradigma nella difesa.
Pannello superiore: Post del dark web che afferma di aver sfruttato con successo gli ultimi Citrix CVE utilizzando l’intelligenza artificiale HexStrike, originariamente in russo; Pannello inferiore: Post del dark web tradotto in inglese utilizzando il componente aggiuntivo Google Translate. (Fonte Checkpoint)
Le mitigazioni suggerite indicano un percorso chiaro. È fondamentale applicare senza indugi le patch rilasciate da Citrix e rafforzare autenticazioni e controlli di accesso. Allo stesso tempo, le organizzazioni sono chiamate a evolvere le proprie difese adottando rilevamento adattivo, intelligenza artificiale difensiva, pipeline di patching più rapide e un monitoraggio costante delle discussioni nel dark web. In aggiunta, viene raccomandata la progettazione di sistemi resilienti, basati su segmentazione, privilegi minimi e capacità di ripristino, così da ridurre l’impatto di eventuali compromissioni.
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Microsoft presenta POML per l’orchestrazione dei prompt LLM
Microsoft ha presentato POML (Prompt Orchestration Markup Language), un nuovo linguaggio di markup pensato per l’orchestrazione dei prompt e progettato specificamente per favorire la prototipazione rapida e strutturata di modelli linguistici di grandi dimensioni (LLM).
L’obiettivo di POML è affrontare le limitazioni dello sviluppo tradizionale dei prompt – spesso caratterizzato da mancanza di struttura, integrazione complessa dei dati e sensibilità al formato – offrendo un approccio modulare, leggibile e manutenibile. Tuttavia, la sua introduzione ha suscitato un vivace dibattito: per alcuni è un passo avanti nell’ingegneria dei prompt, per altri non è che una “rivisitazione” di XML, con una complessità che potrebbe ridurne l’adozione pratica.
Dal punto di vista sintattico, POML si avvicina a HTML: utilizza tag semantici come , , , e per scomporre prompt complessi in componenti riutilizzabili e chiaramente definiti. In questo modo gli sviluppatori possono organizzare sistematicamente i prompt, incorporare dati eterogenei (testo, tabelle, immagini) e gestire la formattazione dell’output attraverso uno stile separato simile a CSS, riducendo l’instabilità tipica dei modelli sensibili al layout dei prompt.
Oltre al linguaggio, Microsoft ha introdotto un ecosistema di strumenti di supporto. L’estensione per Visual Studio Code fornisce evidenziazione della sintassi, completamento automatico contestuale, anteprima in tempo reale e diagnostica degli errori. Inoltre, gli SDK per Node.js e Python permettono di integrare POML nei flussi di lavoro esistenti e nei framework basati su LLM. Un esempio tipico consiste nell’uso combinato di , e per definire attività multimodali che includono immagini e requisiti di output.
La comunità degli sviluppatori ha accolto POML in modo contrastante. Da un lato, c’è chi ne apprezza l’approccio strutturato, il motore di template (con variabili, cicli e condizioni) e la possibilità di semplificare la gestione di prompt complessi. Dall’altro, non mancano critiche sulla somiglianza con XML e sulla sensazione che la scrittura dei prompt si trasformi in una vera e propria attività di codifica, con un conseguente aumento della curva di apprendimento. Alcuni osservatori ritengono inoltre che, con il crescente impiego di agenti AI e invocazione di strumenti, la rigidità dei prompt sia oggi meno rilevante, ridimensionando così l’effettiva necessità di un linguaggio come POML.
Tra gli scenari applicativi più promettenti figurano la generazione di contenuti dinamici, i test A/B su formati di prompt e la creazione di istruzioni multimodali. Ad esempio, POML può essere utilizzato per generare report automatici a partire da dati tabellari o per sperimentare rapidamente diversi layout di output variando semplicemente i fogli di stile. Microsoft sottolinea come la separazione tra contenuto e presentazione renda POML adattabile a diversi LLM e contribuisca a migliorarne la robustezza complessiva.
Con l’espansione della community open source e il perfezionamento della toolchain, POML potrebbe affermarsi come uno standard di riferimento nell’ingegneria dei prompt, aprendo la strada a pratiche di sviluppo più solide e scalabili nel settore dell’IA generativa.
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